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Sommario del 13/06/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco a “La Vanguardia”: sono un Papa con il cuore da parroco

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La pace in Medio Oriente, la Chiesa al servizio dei poveri, la riforma del Vaticano e ancora la rinuncia di Benedetto XVI, Pio XII e l’Olocausto e le storture dell’attuale sistema economico mondiale. Sono alcuni dei temi principali affrontati da Papa Francesco in una lunga intervista con il giornale spagnolo “La Vanguardia”, pubblicata oggi. Il Papa confida di voler essere ricordato “come una buona persona che ha fatto il possibile”. E sui Mondiali di Calcio, appena cominciati, scherza: “I brasiliani mi hanno chiesto di essere neutrale e io mantengo la parola”. Alcuni passaggi forti di questa ampia intervista nel servizio di Alessandro Gisotti:

 

La violenza in nome di Dio” è “una contraddizione” che “non corrisponde al nostro tempo”. E’ quanto afferma Papa Francesco all’inizio della sua ampia intervista a “La Vanguardia”. Il Pontefice denuncia il fondamentalismo, rischio presente in tutte le religioni e si sofferma sulla "Invocazione per la pace" con i presidenti israeliano e palestinese. Francesco confida che all’inizio in Vaticano “il 99% diceva che non si sarebbe fatto, poi l’1% è cresciuto”. Non era “per nulla un atto politico”, evidenzia, ma un “atto religioso” per “aprire una finestra sul mondo”. Il Papa mette inoltre in guardia dall’antisemitismo: “E' una pazzia negare l’Olocausto”. E afferma che “non si può essere un vero cristiano, se non si riconoscono le proprie radici ebraiche”. Il dialogo tra cristiani ed ebrei, annota, è “una sfida, una patata bollente, ma si può fare come fratelli”. Su Papa Pacelli, Francesco si dice sicuro che l’apertura degli Archivi farà “molta luce”. “Sul povero Pio XII – constata – è stato tirato fuori di tutto. Ma dobbiamo ricordare che prima lo si vedeva come il grande difensore degli ebrei”. E ricorda che ne ha nascosti molti nei conventi di Roma e di altre città italiane, e anche nella residenza estiva di Castel Gandolfo. “Non voglio dire che Pio XII non abbia commesso errori, io stesso ne commetto molti – ammette il Pontefice – però il suo ruolo va letto nel contesto della sua epoca”.

Francesco risponde dunque ad una domanda sulla Chiesa e i poveri. La “povertà e l’umiltà – rammenta – sono al centro del Vangelo”, in “senso teologico, non sociologico”. “Non si può comprendere il Vangelo – ribadisce – senza povertà, che va però distinta dal pauperismo”. I vescovi, soggiunge, devono essere “servitori” e non “principi”. Ma il Papa non manca di denunciare alcuni mali del sistema economico mondiale, al centro del quale – avverte – “abbiamo messo il denaro” e così cadiamo “nel peccato di idolatria”. Ribadisce che si trattano giovani e anziani come “scarti” e si dice molto preoccupato per la disoccupazione giovanile. In Europa, osserva, ci sono 75 milioni di giovani disoccupati e questa “è una barbarie”. Il Papa denuncia che “per mantenere un sistema economico che non sta più in piedi” si deve “fare la guerra” e visto che “non si può fare la Terza Guerra Mondiale” allora “si fanno guerre locali”. Così, ammonisce, “si fabbricano e si vendono armi” per “sanare i bilanci delle economie idolatriche”.

Il Pontefice si sofferma poi sulla riforma della Curia. “Non ho alcuna illuminazione, non ho alcun progetto personale”, confida: “Ciò che sto facendo è realizzare quello su cui i cardinali hanno riflettuto nelle Congregazioni generali prima del Conclave”. Una decisione importante, evidenzia, “era stata che il futuro Papa doveva poter contare su un consiglio esterno, un gruppo di consiglieri che non vivesse in Vaticano”. Quello che ora è chiamato il “Consiglio degli 8”. Papa Francesco risponde anche a una domanda se si senta un “rivoluzionario”. Per me, afferma, “la grande rivoluzione è andare alle radici”, “credo che il modo per fare veri cambiamenti sia partire dall'identità”.

A proposito del suo essere percepito come un parroco dalla gente, riconosce che la dimensione del parroco è quella che più risponde alla sua vocazione. “Servire la gente – sottolinea – mi viene da dentro”. “Ma – avverte – mi sento anche Papa. Mi aiuta a fare le cose con serietà”. “Non si deve giocare al Papa-parroco – soggiunge – sarebbe da immaturi. Quando arriva un capo di Stato, devo riceverlo con la dignità e il protocollo che merita. È vero che con il protocollo ho i miei problemi, però va rispettato”. Papa Francesco ammette invece che non vuole barriere quando si tratta di incontrare la gente. “So che mi può succedere qualcosa – rileva – però sta tutto nelle mani di Dio”. Il Pontefice ricorda che in Brasile gli avevano preparato la papamobile chiusa. “Io però – afferma – non posso salutare un popolo e dirgli che lo amo da dentro una scatola di sardine”, “per me questo è un muro”.

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Il Papa: Dio ci prepara bene a svolgere la nostra missione

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Quando il Signore vuole affidarci una missione, “ci prepara” per farla “bene”. E la nostra risposta deve basarsi sulla preghiera e la fedeltà. È il pensiero di sintesi dell’omelia sviluppata da Papa Francesco alla Messa del mattino celebrata in Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis

Si può essere un giorno coraggiosi avversatori dell’idolatria al servizio di Dio e quello dopo depressi al punto tale da voler morire perché qualcuno, nel corso del nostra missione, ci ha spaventati. A riequilibrare questi due estremi della forza e della fragilità umana è e sarà sempre Dio, purché si resti fedeli a Lui. È la storia del Profeta Elia, descritta nella lettura del Libro dei Re e presa da Papa Francesco nel suo insieme come modello dell’esperienza di ogni persona di fede. Il celebre brano liturgico del giorno mostra Elia sul Monte Oreb che riceve l’invito a uscire dalla caverna dove si trovava e a presentarsi al cospetto di Dio. Quando il Signore passa, un forte vento, un terremoto e un fuoco si materializzano in sequenza, ma in nessuno di essi Dio si manifesta. Poi, è la volta di un delicato soffio di brezza ed è in questo – ricorda il Papa – che Elia riconosce “il Signore che passava”:

“Il Signore non era nel vento, nel terremoto, nel fuoco, ma era in quel sussurro di una brezza leggera, nella pace o, come dice l’originale – proprio l’originale, un’espressione bellissima – dice: ‘Il Signore era in un filo di silenzio sonoro’. Sembra una contraddizione: era in quel filo di silenzio sonoro. Elia sa discernere dov’è il Signore, e il Signore lo prepara con il dono del discernimento. E poi, dà la missione”.

La missione che Dio affida a Elia è quella di ungere il nuovo re di Israele e il nuovo profeta chiamato a sostituire lo stesso Elia. Papa Francesco attira l’attenzione in particolare sulla delicatezza e il senso di paternità con cui questo compito viene affidato a un uomo che, capace di forza e zelo in un momento, ora sembra solo uno sconfitto. “Il Signore – afferma il Papa – prepara l’anima, prepara il cuore, e lo prepara nella prova, lo prepara nell’obbedienza, lo prepara nella perseveranza”:

“Il Signore, quando vuole darci una missione, vuole darci un lavoro, ci prepara. Ci prepara per farlo bene, come ha preparato Elia. E il più importante di questo non è che lui abbia incontrato il Signore: no, no, questo sta bene. L’importante è tutto il percorso per arrivare alla missione che il Signore confida. E questa è la differenza tra la missione apostolica che il Signore ci dà e un compito: ‘Ah, tu devi fare questo compito, devi fare questo…’, un compito umano, onesto, buono… Quando il Signore dà una missione, sempre fa entrare noi in un processo, un processo di purificazione, un processo di discernimento, un processo di obbedienza, un processo di preghiera”.

E “la fedeltà a questo processo”, prosegue Papa Francesco, è quella di “lasciarci condurre dal Signore”. In questo caso, con l’aiuto di Dio Elia supera il timore scatenato in lui dalla regina Gezabele, che lo aveva minacciato di ucciderlo:

“Questa regina era una regina cattiva e ammazzava i suoi nemici. E lui ha paura. Ma il Signore è più potente. Ma gli fa sentire come lui, il grande e bravo, anche ha bisogno dell’aiuto del Signore e della preparazione alla missione. Vediamo questo: lui cammina, obbedisce, soffre, discerne, prega, trova il Signore. Il Signore ci dia la grazia di lasciarci preparare tutti i giorni del cammino della nostra vita, perché possiamo testimoniare la salvezza di Gesù”.

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Il Papa apprezza accoglienza immigrati nella Repubblica Dominicana

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Le opere sociali della Chiesa nel Paese e la buona gestione dei flussi migratori. Sono gli argomenti trattati da Papa Francesco nel suo incontro con il presidente della Repubblica Dominicana, Danilo Medina Sánchez, che si è poi intrattenuto con il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, assieme al segretario per i Rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Dominique Mamberti.

“Durante i cordiali colloqui – informa un comunicato ufficiale – è stato espresso compiacimento per le buone relazioni tra la Repubblica Dominicana e la Santa Sede, evidenziando il prezioso contributo sociale che la Chiesa offre al Paese, specialmente nei settori dell’educazione, della sanità e della carità”.

Inoltre, conclude la nota, “si sono passate in rassegna alcune questioni di interesse nazionale e regionale, soffermandosi in particolare sui recenti provvedimenti che facilitano l’iter di naturalizzazione degli immigrati nel Paese”.

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Presto Beati un sacerdote francese e una religiosa italiana

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Un generosissimo e infaticabile sacerdote francese vissuto nell’Ottocento, creatore di numerose opere di carità sociale, e una missionaria italiana della Consolata dei primi del Novecento, che prima assiste i feriti della prima Guerra mondiale e poi muore in Kenya nel curare un malato di peste. Saranno le due figure presto elevate agli altari, per le quali Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione dei Decreti da parte della Congregazione per le Cause dei Santi, durante l'udienza al prefetto del dicastero, il cardinale Angelo Amato. Si tratta del Venerabile Servo di Dio Ludovico-Eduardo Cestac, fondatore dell'Istituto delle Figlie di Maria (1801-1868), e della Venerabile Serva di Dio Irene Stefani, al secolo Aurelia Giacomina Mercedes (1891-1930).

Oltre ai miracoli attribuiti alla loro intercessione, i Decreti riconoscono anche le virtù eroiche di altri sei fra Serve e Servi di Dio: Luigi Savaré, sacerdote diocesano (1878-1949), Eugenio Reffo, cofondatore e sacerdote professo della Congregazione di San Giuseppe (1843-1925), Maddalena del Sacro Cuore (al secolo Francesca Margherita Taylor), fondatrice delle Povere Ancelle della Madre di Dio (1832-1900), Maria Giuseppa Scandola, suora professa delle Suore Missionarie delle Pie Madri della Nigrizia (1849-1903), Itala Mela, oblata benedettina del Monastero di San Paolo fuori le mura (1904-1957), Uberto Mori, laico e padre di famiglia (1926-1989). Quest’ultimo, fu professionista di successo, capace di permeare la sua vita di imprenditore con i valori della sua solida fede cristiana.

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Francesco riceve la Fondazione "Populorum Progressio"

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, mons. Tommaso Valentinetti, Arcivescovo di Pescara-Penne (Italia), l’ambasciatore di Panama, in visita di congedo, la signora Delia Cárdenas Christie,  i membri del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Popolorum Progressio.

In Pakistan, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Multan presentata da mons. Andrew Francis, in conformità al canone 401 – par. 2 del Codice di Diritto Canonico e ha nominato il sacerdote Benny Travas, del clero di Karachi, amministratore apostolico sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis della medesima Diocesi di Multan.

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Mons: Tomasi: stimolare il dialogo tra migranti e chi li accoglie

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Si è svolto a Berlino il V Forum Internazionale su Migrazione e Pace, promosso dallo Scalabrini International Migration Network (Sims) e dalla Fondazione Konrad Adenauer per stimolare un dialogo di alto livello sul tema e definire azioni concrete di fronte ai variegati legami tra flussi migratori e pacifica coesistenza di chi accoglie e i migranti. L'abbattimento delle barriere fisiche e politiche tra i popoli assieme alla definizione di politiche centrate sull'integrazione dei migranti nei contesti locali, secondo prospettive democratiche ed interculturali, è stato il focus comune degli interventi. Tra i partecipanti anche mons. Silvano M. Tomasi, nunzio apostolico presso le Nazioni Unite di Ginevra che nel suo intervento e nel dibattito ha evidenziato il tema dell'integrazione unito alla tutela dei diritti umani fondamentali dell'umanità in migrazione. A Berlino lo ha intervistato Gabriele Beltrami

R. - Davanti alla contraddizione che da una parte l’Europa ha bisogno di immigrati per ragioni demografiche, economiche e politiche e dall’altra che c’è una cultura populista che tende a rigettare questa presenza, il forum mette la priorità dei diritti umani come punto di partenza per creare comunione, per creare un senso di mutua appartenenza e di solidarietà. Allora, il problema si pone in maniera molto diversa: invece di partire da una funzione economica, vista come sola funzione degli emigrati, ci mettiamo in funzione della persona, dell’emigrato che è uguale in dignità e diritti fondamentali a tutti. Di fatto, c’è la tendenza di mettere l’accento sempre di più sul valore dei diritti umani come strumento di integrazione, di efficacia della presenza degli stranieri, degli emigrati anche dal punto di vista economico e, in questa maniera, creare quel senso di famiglia umana unica che è più importante dei confini delle tradizioni culturali da cui veniamo.

D. - Nel dicembre 1990 è stata firmata la Convenzione Onu sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie. Cosa manca ancora per la sua piena attuazione?

R. - La difficoltà è che i grandi Paesi di immigrazione – Stati Uniti, Germania, Francia, Italia – non hanno ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite. È questo il punto debole. La struttura internazionale non è stata mancante, ma alcuni Stati per paura delle conseguenze umane che potrebbero risultare dall’applicazione di questa convenzione - che protegge appunto i lavoratori migranti e le loro famiglie - abbiano da pagare dei prezzi troppo alti. Questo non è vero, ma siccome la pressione populista di certi segmenti dell’elettorato spinge in quella direzione, la politica è molto più attenta a non camminare in quella direzione.

D. - In questo Forum viene ribadita la necessità di cambiare prospettiva nei confronti dei migranti: qual è il punto di vista da adottare, secondo lei?

R. - Dobbiamo metterci ad analizzare il fenomeno delle migrazioni dal punto di vista delle vittime, perché se non capiamo le motivazioni che causano e che spingono tante persone a rischiare la vita per salvaguardare la propria dignità o per sopravvivere, non riusciremo a capire la vera portata di questo fenomeno. Ci sono decine di migliaia di morti, vittime appunto dello sforzo di passare dal Mar Rosso allo Yemen o da Haiti alla Florida, dal Messico al Deserto dell’Arizona verso gli Stati Uniti, oppure dal Deserto del Sinai per scappare verso i Paesi africani. Vediamo che, piuttosto di morire di fame o cadere vittime di violenze locali, queste persone rischiano un cammino, un viaggio, molto pericoloso che per molti di essi finisce nella tragedia più assoluta, quella della morte violenta. La sensibilità internazionale si commuove davanti ad alcuni di questi avvenimenti - come il naufragio di alcuni di questi barconi che attraversano il Mediterraneo -, ma poi non segue in pratica con un progetto coordinato di leggi che rendano davvero efficace una soluzione come quella di allargare i canali legittimi, legali dell’emigrazione, di facilitare la riunione delle famiglie, di cercare di regolarizzare quei milioni di persone che lavorano, vivono e di fatto sono parte delle società europea o americana anche se non sono documentati da un punto di vista della cittadinanza e della permanenza legale nel Paese. Sono queste le misure che dobbiamo incoraggiare. Non sono misure facile da perseguire, ma è questa la strada maestra che l’esperienza mostra come valida; non è un magnete per attirare nuovi emigrati, ma è una regolarizzazione che beneficia la società in cui queste persone vivono e lavorano e soprattutto, questi individui, queste persone beneficiano del fatto che non vivono più questa paura o rischiano di cadere vittime della malavita e del traffico di persone.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La vera rivoluzione? Riscoprire le radici: il testo integrale dell'intervista di Henrique Cymerman a Papa Francesco pubblicata su «La Vanguardia» di oggi

In una brezza leggera: messa a Santa Marta.

La prossima assemblea sinodale dedicata alla famiglia in un intervento tenuto in Portogallo dal cardinale Lorenzo Baldisseri.

Ho sentito risuonare i temi che proponeva La Pira: il rabbino capo di Firenze sull'incontro di preghiera dell'8 giugno.

Iraq sotto assedio: prosegue l'avanzata dei qaedisti che puntano su Baghdad mentre Obama non esclude nessuna opzione.

Civili siriani travolti da guerra e terrorismo.

Tutto cominciò a Buenos Aires: Javier Zanetti racconta il sogno di un bambino che voleva giocare i mondiali.

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Oggi in Primo Piano



Iraq: Onu denuncia esecuzioni di civili. La Nunziatura: il Papa ci è vicino

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Continuano gli scontri in Iraq fra esercito e i militanti jihadisti nei pressi della citta' di Baquba, mentre il governo mette a punto un piano per proteggere Baghdad dall’avanzata dei ribelli. Preoccupazione e vicinanza è stata espressa dal prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il cardinale Leonardo Sandri, mentre la Nunziatura apostolica in Iraq ha fatto sapere che Papa Francesco “segue costantemente gli sviluppi della situazione ed è vicino alla sofferenza delle popolazioni. Cecilia Seppia:

 

L’avanzata dei miliziani dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante continua a ritmi sostenuti, dopo Mosul nella notte hanno preso due città nella provincia di Diyala e ora muovono verso Kirkuk, presidiata dalle truppe della Regione autonoma del Kurdistan, ma l’obiettivo finale è ovviamente la capitale. Per questo il governo ha messo a punto un piano di sicurezza denominato la griglia protettiva di Baghdad. Migliaia in queste ore sono le persone che tentano di sfuggire alle bombe, mentre la Commissione Onu per i diritti umani ha confermato le esecuzioni sommarie di civili e soldati da parte dei jihadisti: 100 i morti in 48 ore di scontri, oltre mille i feriti, ma un bilancio esatto non esiste. Le diplomazie internazionali riflettono su come agire: la Casa Bianca per ora esclude l’invio di soldati sul campo, ma l’opzione militare è ormai al vaglio e intanto i droni di Obama sono già in azione per raccogliere informazioni di intelligence. Washington in via precauzionale ha evacuato centinaia di civili dalla base di Balad. Da Teheran, tuona il presidente Rohani che assicura: non permetteremo di esportare il terrore nei nostri confini. A lanciare un appello a combattere contro i jihadisti, anche la massima autorità sciita dell’Iraq Al-Sistani.

L’avanzata dei jiihadisti su Baghdad prosegue anche grazie ad appoggi interni e allo sfaldamento dell’esercito che non è in grado di rappresentare la comunità nazionale irachena. Lo conferma Alberto Negri, esperto dell’area del Sole 24 Ore, al microfono di Cecilia Seppia: 

R. – C’è un’azione “a tenaglia”, di accerchiamento della zona di Baghdad e della capitale. Se il loro obiettivo è quello di prenderla, probabilmente avranno anche degli appoggi interni. Ricordiamo che la stessa Baghdad ha dei quartieri sunniti molto vasti. La quinta colonna è stata molto utile per l’avanzata dei jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante soprattutto nel caso di Mosul. Qui c’è stato un appoggio interno: anche a Tikrtit, per esempio, c’è stato il sostegno degli ex basisti che hanno sfilato, portando i ritratti di Saddam Hussein e accogliendo, come sunniti, con favore l’avanzata dei jihadisti.

D. – Il governo ha messo a punto un piano proprio per difendere Baghdad: un piano denominato “La griglia protettiva di Baghdad”. Però, c’è una sproporzione di forza e comunque questi miliziani agiscono in modo decisamene incontrollato…

R. – Dunque, siamo di fronte a un doppio dramma in Iraq. Il primo è il fallimento militare – quello dell’esercito iracheno – che a Mosul, a Tikrit e in tutte le altre zone dell'offensiva jihadista si è sfaldato, liquefatto per un motivo purtroppo evidente: è un esercito che non è mai stato in grado di rappresentare la comunità nazionale irachena. C’è un errore di vecchia data: all’indomani del 2003, dell’occupazione americana, gli americani decisero di sciogliere l’esercito iracheno e da quel momento è andato perso uno dei simboli dell’unità nazionale. Il secondo è un fallimento di tipo politico, completamente in mano al primo ministro, a Nouri Al Maliki, che praticamente ha sbagliato tutta la politica nei confronti dei sunniti. Quando nel gennaio scorso è iniziata l’avanzata dei jihadisti nelle province sunnite di Falluja e di Ramadi, ha reagito con bombardamenti e con la violenza e questo gli ha negato il supporto della parte più moderata dei sunniti. Quindi, ha mancato di trovare una soluzione politica, un compromesso, che in qualche modo evitasse la soluzione militare.

D. – Ecco, a proposito di questo avanza l’ipotesi di un intervento militare degli Stati Uniti. Obama per il momento ha detto "no" all’invio di truppe. Però, ha anche detto che tutte le opzioni sono aperte. Si arriverà a questo?

R. – È mai possibile che gli Stati Uniti possano vedere sgretolarsi uno Stato di 35 milioni di abitanti, dove vengono prodotti oltre tre milioni di barili al giorno, con riserve stimate forse addirittura superiori a quelle dell’Arabia Saudita? Dopo aver occupato per nove anni questo Paese, perso migliaia di uomini e sperperato migliaia di dollari, se non intervenissero in qualche modo sarebbe davvero una perdita di credibilità eclatante!

D: – Da Teheran ha parlato anche il presidente iraniano, Rohani, che ha detto: “non permetteremo di esportare il terrore nei nostri confini”. Ovviamente, questa crisi irachena sta mettendo in subbuglio nuovamente tutta l’area…

R. – Certo, anche se ormai questo Iraq è stato diviso: a nord, il Kurdistan ormai se ne è andato per i fatti suoi, i sunniti stanno cercando di crearsi questa zona, questa sorta di califfato nella zona centrale dell’Iraq, gli sciiti a sud di Baghdad controllano la situazione e due terzi del petrolio. Gli iraniani sono certamente interessati a tenere delle posizioni per loro molto importanti: erano e sono alleati del governo di Al Maliki ma, allo stesso tempo sono impegnati sostenere Bashar Al Assad in Siria. Hanno quindi un doppio fronte a cui pensare.

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Ucraina. Kiev prova a riprendersi l'est del Paese

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Ancora in primo piano la crisi in Ucraina. Kiev continua nelle sua avanzata e lentamente prova a riprendere il controllo dell’est bastione dei separatisti filorussi. Violenti combattimenti con una decina di morti si registrano a Mariupol,tornata nelle mani di Kiev, a Donestk e a Sverdlovsk, dove è stato rapito il comandante della polizia. In questo scenario la prospettiva dei negoziati sembra tutta in salita, anzi allo stallo, nonostante il colloquio telefonico tra Poroshenko e Putin. Lo spiega al microfono di Gabriella Ceraso, Matteo Tacconi, coordinatore dell’agenzia Rassegna.est: 

R. – Ci si muove a livello negoziale, perché probabilmente è nell’interesse di entrambe le parti raggiungere un compromesso. L’Ucraina non può permettersi che il Paese sia ancor più spaccato di quanto già non lo sia e, dall’altro, per i russi sarebbe disastroso se il loro coinvolgimento nella ribellione dell’est diventasse formale e se un pezzo dei ribelli iniziasse ad agire di testa propria. Quindi, ovviamente si cerca di negoziare. Poi, però, proprio in vista di questo negoziato ognuna delle parti sta cercando di conquistare sempre più punti sul campo per avere probabilmente più potere negoziale, con il rischio che tutta sfugga di mano. La mia impressione è che si sia arrivati a un punto tale che tornare indietro sta diventando davvero molto difficile.

D. – Il Consiglio di sicurezza con un intervento eventualmente avrebbe qualche peso in questo momento o no?

R. – I russi hanno depositato una nuova bozza di risoluzione in cui auspicano che le Nazioni Unite siano maggiormente coinvolte nel tentativo di rompere lo stallo. Il problema è che le Nazioni Unite deliberano sulla base delle decisioni del Consiglio di sicurezza e dove ci sono i russi c’è anche un potere di veto. La quadratura del cerchio va trovata prima, a livello bilaterale.

D. – La questione del gas, che continua a essere rimandata, in questo momento quanto sta influendo a favore della Russia?

R. – Fa parte ovviamente del gioco dei negoziati. Sotto certi aspetti, può essere anche vista come una cosa incoraggiante. I russi avevano minacciato Kiev di interrompere le forniture nel caso in cui Kiev non avesse onorato il vasto debito e non lo hanno fatto ancora. Quindi, da un lato vogliono continuare a offrire una garanzia energetica all’Occidente e, dall’altro, il fatto di tergiversare forse riflette l’ambizione, ma più che l’ambizione la necessità di arrivare anche a una tregua in Ucraina. Detto questo, la situazione in Ucraina è stata talmente grave, talmente esasperata negli ultimi mesi che sarà veramente difficile ricostruire il Paese e garantirne la tenuta, tanto più che era già abbastanza fragile: non dobbiamo aver paura di dire che l’Ucraina da certi punti di vista è anche un po’ uno Stato fallito, purtroppo.

D. – Quindi - diciamo - ce la lasceremo alle spalle, mentre già avanzano nuovi focolai in altre parti del mondo: sto pensando, per esempio, all’Iraq, che già sta lasciando un pochino attutire la questione ucraina…

R. – Questo è vero. Dall’altro lato, se si guarda un po’ al lungo periodo, l’Ucraina non è mai stato un Paese unito, un Paese funzionante: è un Paese dove dominano le oligarchie, è un Paese attraversato da faglie che, di volta in volta, in base alla situazione politica si allargano. Al di là del fronte dell’est, bisognerà capire che tipo di Paese potrà nascere. Il punto della discussione ruota un po’ intorno anche all’assetto istituzionale. I russi vogliono una federalizzazione, Kiev propone un decentramento, ma non la riforma federale della Costituzione. E’ un gioco molto duro e bisognerà capire come potrà evolvere. Non esclude che tutto rimanga mobile… Anche nella testa della gente – al di là dei grandi giochi geopolitici – non sarà facile ricomporre le fratture e sanare le ferite. Questo è evidente.

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Costa d'Avorio, chiesto il processo per l'ex presidente Gbagbo

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La Corte penale internazionale ha deciso di processare l’ex presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, per crimini contro l’umanità. Tra il dicembre 2010 e l’aprile 2011, il suo rifiuto ad ammettere i risultati delle elezioni trascinò il Paese in un clima di scontri che causò circa 3.000 vittime. Come è stata accolta la notizia nella Costa d’Avorio che si prepara alle presidenziali del prossimo anno? Gianmichele Laino lo ha chiesto a don Flavio Zanetti, parroco di San Giovanni Evangelista a Morofé, quartiere settentrionale di Yamoussoukro: 

R. – Senza entrare nel merito della decisione, ci sono alcuni che ritengono che finalmente giustizia sarà fatta. Altri invece ritengono che questa è solo la giustizia dei vincitori. In generale, le opinioni non sono condivise.

D. – Quindi, non è stata ancora superata la divisione interna al Paese?

R. – La divisione interna non è completamente risolta. Per questo è in corso un processo di riconciliazione, che non è per nulla semplice perché le divisioni non sono solo tra le due fazioni. Ci sono varie ragioni di insoddisfazioni, però tutti i problemi non sono superati anche se il desiderio di pace è molto ardente per tutti.

D. – Da un punto di vista religioso, a che punto è la convivenza tra cristiani e musulmani?

R. – In generale, qui non ci sono problemi di convivenza, abbiamo anche buone collaborazioni in diversi posti. C’è collaborazione nelle nostre comunità di base: quando c’è il Ramadan, danno lo zucchero ai musulmani per sostenerli nella loro azione. Ci sono gesti solidali. Noi non viviamo un rapporto conflittuale tra musulmani e cristiani.

D. – In che direzione sta andando la Costa D’Avorio, quali sono le sue prospettive economiche?

R. – E’ un fatto che molti grossi cantieri e grosse opere siano aperti: è diventato un Paese dove diversi cominciano a investire anche se con un certo timore perché – nonostante il governo faccia di tutto per rassicurare gli investitori – sono ancora un po’ inquieti. Comunque, consideriamo il fatto che c’è una certa ripresa economica, anche se non si sente ancora negli strati più bassi della popolazione.

D. – Proprio questa differenza tra centro e periferia può essere un problema sociale per la Costa D’Avorio?

R. – Più che centro e periferia, il problema è al momento tra ricchi e poveri. I soldi girano, ma non è detto che girino nelle tasche di tutti.

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Mons. Nichols: stupro di guerra è "crimine orribile"

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Una proposta di protocollo internazionale mirato a porre fine all’impunità per le violenze sessuali nei conflitti è stato presentato alla Conferenza in corso a Londra su questo tema. L’incontro di quattro giorni è stato ospitato dal ministro degli esteri britannico, William Hague, e dall’inviata speciale delle Nazioni Unite, Angelina Jolie. Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha partecipato al summit assieme a molti rappresentanti di diverse confessioni ecclesiali e fedi. Al microfono di Susy Hodges, il presule rilancia la necessità di una tolleranza zero verso quello che definisce un “orribile crimine”: 

R. – The effort is necessary because I think that everybody knows the extent – the horrendous extent …
Lo sforzo è necessario perché credo che tutti conoscano l’ampiezza – l’orribile ampiezza – delle violenze sessuali nelle guerre e nei conflitti. Quello che è molto evidente è che ci sono pochissime azioni giudiziarie in seguito a questi crimini. Uno degli scopi principali di questa Conferenza è il tentativo di trovare un accordo riguardo a un procedimento legale appropriato, che inizi con la raccolta delle prove finalizzata a un’azione giudiziaria contro coloro che abbiano perpetrato questi orribili crimini di violenza sessuale, sotto la copertura di una guerra o di un conflitto.

D. –  Lei ha duramente condannato quella che ha definito l’“accettazione culturale” de facto che avviene in molti luoghi di questo crimine. Questo è uno degli aspetti più difficili nella lotta a questo fenomeno e al tentativo di porgli fine…

R. – Well, I think that’s right. And the two key moral principles that I see work here…
Credo di sì. E i due principi morali chiave, che io vedo all’opera qui, riguardano – uno – la condotta stessa del conflitto, nel senso di valutare se siano legittimi o meno. Secondo, la grande importanza riguardo agli standard e ai principi relativi ai comportamenti sessuali. Credo che la cosa più importante sia cercare di comprendere ed è quello che cerchiamo di far arrivare alla gente – e questo i tribunali di guerra l’hanno sempre fatto – e cioè che nessun conflitto può mai essere una giustificazione per compiere azioni illegali. Penso che questa sia una cosa che facilmente si perde di vista, soprattutto quando un conflitto si perpetua e quando comprende sentimenti locali molto, molto profondi o sentimenti nazionalistici. E’ facile dire: “Bè, è sempre una questione di guerra…”. Però, la guerra non giustifica il crimine. E la seconda cosa è che sempre la sessualità si intreccia in un complesso equilibrio di potere fra le persone.

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Mondiali in Brasile: calcio di inizio dato da un ragazzo paraplegico

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A dare il calcio di inizio in Brasile, nella cerimonia di apetrura prima della partita inauguarale dei Mondiali di calcio, è stato un ragazzo paraplegico che ha potuto muovere gli arti grazie ad un esoscheletro. Una tecnologia sperimentata anche in Italia nell’Istituto di biorobotica di Pisa. Al microfono di Maria Gabriella Lanza, il ricercatore Nicola Vitiello, che da anni studia questa nuova frontiera della scienza:

 

R. – Le macchine per i paraplegici sono dispositivi in grado di tenere l’utente nella posizione eretta. Funzionano come sostegni rigidi per gli arti. Ovviamente, però, sono sostegni motorizzati. In genere, utilizzando il movimento del torace, quindi sbilanciandosi in avanti, la persona trasmette il comando motorio alla macchina. Le dice: “Voglio camminare, voglio fare dei passi”, e la macchina permette alla persona di fare dei piccoli passi.

D. – Possiamo dire che l’esoscheletro rappresenta una sfida che, se vinta, può mandare in soffitta la sedia a rotelle e restituire il movimento a chi non cammina?

R. – Questa è una bella domanda. E’ un po’ il sogno di molti bio-ingegneri, me compreso, quello di trovare un modo per mandare in soffitta la carrozzina. Sicuramente, gli esoscheletri di arto inferiore rappresentano una possibile alternativa alla sedia a rotelle. Però, è intellettualmente onesto dire che questo avverrà forse nei prossimi anni. Oggi, è più possibile dire quello che qualche anno fa sembrava solo un sogno, magari oggi è una sfida. Ed è una sfida che si può vincere. E parlo di sfide, non di sogni, perché probabilmente queste sfide sono affrontabili e superabili.

D. – Attualmente si sta investendo in questa direzione?

R. – In Italia, per quanto riguarda la nostra realtà, la principale fonte di investimento viene dalla Commissione europea.

D. – Il paziente che volesse sperimentare questa tecnologia, cosa deve fare? L’esoscheletro è accessibile a tutti?

R. – Per ora, la tecnologia non è accessibile a tutti perché è, sì, in alcuni casi un prodotto anche commerciale, ma alcune di queste aziende hanno come interlocutore i centri di riabilitazione, non direttamente l’utente finale. E laddove ci sia come interlocutore l’utente finale, i costi non sono facilmente affrontabili: si tratta di decine o centinaia di migliaia di euro. Questo, però, non deve scoraggiare, per un motivo molto semplice. E’ il naturale processo che interessa naturalmente la tecnologia. Si parte, in genere, con dei costi molto, molto alti… Un po’ come all’inizio dell’era dei cellulari, che erano per pochi e costavano tanto. Poi, la tecnologia diventa di largo consumo. Oggi, siamo in una fase in cui questi dispositivi sono principalmente oggetto di sperimentazione clinica e, quindi, hanno ancora molti passi da compiere per poter dare prova di essere affidabili, di essere effettivamente efficaci, di essere facilmente utilizzabili dall’utente finale.

D. – Il fatto che un ragazzo paraplegico abbia dato il calcio d’inizio alla prima partita dei Mondiali in Brasile è un segnale di speranza?

R. – Secondo me, questa cosa dei Mondiali deve essere interpretata in modo corretto. Il messaggio che si vuole dare è questo: "Guardate, esistono le disabilità. La tecnologia può essere una delle risposte. Noi ci stiamo lavorando. Non è impossibile". Allo stesso tempo, il messaggio è anche: “Non è facile. Non tutti i problemi sono stati risolti. Bisogna in qualche modo continuare a investire, come collettività. Bisogna continuare a crederci, come ricercatori, e a sforzarsi. E forse, probabilmente, nei prossimi anni si arriverà ad avere una tecnologia che sia alla portata di tutti, affidabile e – come dicevo prima – utilizzabile veramente. E per me che sono anche un grande appassionato di calcio, è un messaggio bello, perché lo sport è uno dei principali modi per annullare le disabilità.

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Nuovi sbarchi in Sicilia. Sindaco di P. Empedocle: non lasciateci soli

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Un centinaio di migranti sono stati salvati, nelle ultime ore, nel Canale di Sicilia da un mercantile autorizzato dalla Guardia costiera. L'imbarcazione è arrivata in mattinata a Porto Empedocle. Intanto, i comuni, soprattutto i siciliani, chiedono che a breve siano stanziate le risorse per assistere il flusso di chi parte dal Nord Africa. Per il sottosegretario Gozi è scandaloso l’isolamento dell’Italia nel Mediterraneo. Il servizio di Alessandro Guarasci: 

Arrestato l’ennesimo scafista. Trent’anni, ha condotto in Italia immigrati dall'Eritrea, Bangladesh e Siria. La polizia di Ragusa lo ha fermato nella nottata ed è accusato di aver pilotato l'imbarcazione dei 311 migranti, sbarcati a Pozzallo mercoledi. Ormai le informazioni su questi "viaggi della speranza" viaggiano anche sui social network. I migranti siriani hanno creato un gruppo su Facebook per avere notizie sulle traversate del Canale di Sicilia.

Intanto le istituzioni continuano a ragionare su come mettere a punto l’accoglienza. Il ministro per gli Affari Regionali Lanzetta assicura che le regioni non saranno lasciate sole. Per giovedi prossimo la Conferenza governo-regioni-comuni dovrebbe avere il quadro chiaro sulle necessità degli enti locali per fronteggiare il flusso di immigrati. Abbiamo sentito il sindaco di Porto Empedocle, Lillo Firetto, che sabato scorso aveva parlato di una situazione al collasso:

R. - Io vedo che c’è un interesse ad un’azione congiunta da parte del ministero, certamente della presidenza del Consiglio e anche di interlocuzione con l’Anci: con l’Anci nazionale, con l’Anci Sicilia, e questo è sintomo di un’attenzione che è venuta fuori anche dopo il grido d’allarme che i tanti sindaci hanno lanciato, tanti sindaci di quelli che si trovano a gestire la prima front-line del flusso migratorio. Qui però ancora il dato di fatto è che i comuni non hanno un supporto dal punto di vista finanziario, nella gestione di queste emergenze. C'è poi un problema ancora più complessivo che non si può non denunciare, e cioè: serve una politica internazionale sui flussi migratori che non può non passare da organismi sovrannazionali – Onu, Ue – e questa va svolta certamente in un rapporto dialogante con i governi di provenienza.

D. – Ma mancano comunque delle strutture di collegamento a livello regionale? Perché attualmente questa non è più un’emergenza: sapevamo quello che sarebbe successo, anche perché ormai sono diversi anni che questo avviene …

R. – Sono diversi anni … adesso i flussi hanno un’incisività, anche in termini di numeri, anche più robusta. Il punto di snodo, cioè l’ago della bilancia, non è più Lampedusa: per fortuna, devo dire, per l’isola di Lampedusa, perché era vivere una condizione disastrosissima, come noi sappiamo. Adesso è un problema che giunge fin qui, nelle coste siciliane … E però, vedo che tutto questo viene affrontato ancora con lacune sul piano della logistica: io ho una tensostruttura che sarebbe dovuta fungere da centro di identificazione; in questo momento viene utilizzata, però formalmente, ufficialmente non è aperta. Quindi, è una di quelle contraddizioni in termini …

D. – Lei che cosa si aspetta dalla riunione della prossima settimana tra Comuni, Regioni e governo?

R. – Intanto, vediamo questa di domani pomeriggio, che è stata convocata dal ministero con i prefetti siciliani e i sindaci che sono lì, a gestire il fenomeno di queste ore. Poi, quando io dico: “Non lasciateci soli”, lo dico con cognizione di causa. Continuo a dire che il Mediterraneo non è assolutamente il confine della provincia di Agrigento, né quello della Sicilia, ma è un confine europeo del quale tutti dobbiamo farci carico. Lasciare la croce sulle spalle dei siciliani o, peggio ancora, ad una comunità locale che deve prendere i denari dal suo bilancio per far fronte a misure a volte minimali, io credo che non stia né in cielo né in terra!

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Convegno alla Lumsa su annuncio del Vangelo nelle carceri

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Il lavoro come miglioramento delle condizioni umane e spirituali dei detenuti. Questo l’argomento dell’incontro, svoltosi presso l’Università Lumsa di Roma, per la presentazione del volume “Annunciare il Vangelo nelle carceri” della fondazione Ozanam-San Vincenzo De Paoli. A seguire l'evento c'era Elvira Ragosta:

 

Un detenuto su quattro, una volta uscito dal carcere, non commette più reati. La scommessa della rieducazione passa attraverso formazione, opportunità di lavoro all’interno delle carceri e sostegno dei cappellani, perché portare il Vangelo in carcere significa offrire ascolto, come ha ricordato mons. Alessandro Plotti, arcivescovo emerito di Pisa:

“Portare il Vangelo nelle carceri significa portare umanizzazione, perché noi sbandieriamo il primato della persona - cosa sacrosanta - però, le persone nel carcere sono davvero degradate e conculcate, perché molte volte manca la possibilità di esprimersi, di far emergere il meglio che c’è dentro ogni persona. Anche il delinquente più incallito ha sempre un’anima di bene che però è rimasta sopita, magari delusa, deturpata. Allora bisogna davvero, attraverso il dialogo e l’ascolto, creare un clima di fiducia per cui il carcerato non parli solo con l’avvocato, ma si apra davvero ad una prospettiva di speranza”.

E se il reinserimento sociale comincia dall’interno del carcere è la condizione stessa del recluso a migliorare. Il prof. Giuseppe Chinnici, presidente della Fondazione Ozanam-San Vincenzo De Paoli:

“Sono 62 mila i detenuti per una capacità ricettiva di 47 mila persone. Si tratta di persone che si trovano in grandissime difficoltà. Le soluzioni ad personam sono un po’ difficili, ma si può procedere per fasce di età, di esperienza, di Paesi di provenienza. Noi abbiamo previsto due progetti che partiranno a settembre: il primo è un corso di volontari per assistere in particolare i malati di Alzheimer; l’altro è un modulo per i giovani – quindi carcere minorile – per reinserirli attraverso il lavoro e le attività teatrali”.

Sono oltre undicimila i volontari nelle carceri italiane, il loro è un supporto fondamentale, ma tanto ancora può fare la politica, come ha affermato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri:

“Dobbiamo portare nelle carceri cultura, istruzione, lavoro e soprattutto umanità e tanto amore. Questa sarà la strada, la stella polare, perché noi che facciamo le leggi, dobbiamo trovare le risposte giuste, perché le carceri sono l’immagine di un Paese. Quindi nel carcere ci può essere anche la storia di un Paese: si incrociano tante vite, tante realtà, un indotto importante, e devo dire che ora che si parla tanto di spending review noto che laddove si decide di chiudere un carcere, la politica, la popolazione lo vuole. Un tempo, se dicevi apro un carcere in una realtà la gente si impauriva. Oggi non è così. Questo vuol dire che la mentalità sta cambiando, che gli enti territoriali e la società hanno iniziato a sintonizzarsi e a capire che c’è una società - diversa talvolta - che ha sbagliato, ma che può essere recuperata. Quindi c’è un gioco di squadra sempre nel rispetto della sicurezza e della certezza della pena”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: autobomba a Homs. Continua scarcerazione prigionieri

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Ha causato almeno sette morti e 55 feriti l’autobomba esplosa ieri nel quartiere di Wabi Dahab, a Homs (centro): il bilancio dell’attentato è stato diffuso dalla televisione di Stato. Per l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdh) le vittime sarebbero state otto, tra cui una donna e un bambino, e i feriti 49 nel quartiere a maggioranza alawita, la comunità religiosa del presidente Bashar al Assad. Homs, tornata il mese scorso sotto il controllo delle forze governative - riferisce l'agenzia Misna - è stata già bersagliata da attentati che hanno causato più di cento vittime.

Al nord di Homs, nel villaggio di Oum Charchuch, sono stati segnalati combattimenti tra ribelli del Fronte al Nusra e truppe regolari, conclusi con 18 morti nei ranghi degli insorti. Il villaggio, conquistato il giorno prima dai ribelli, è stato bombardato da aerei governativi.

Intanto l’agenzia di stampa ufficiale Sana ha riferito della liberazione in corso dei prigionieri sulla base dell’amnistia decretata dal presidente Assad dopo la sua rielezione. Finora, secondo la stessa fonte, 429 detenuti sono tornati liberi a Adra, nei pressi di Damasco, a Deraa (sud) e Deir Ezzor (est). (R.P.)

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Orissa: cristiani minacciati dopo l’assassinio di un fedele

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Resta tesa la situazione in Orissa dopo l’assassinio di un cristiano, in pieno giorno. Dopo l’arresto degli omicidi, dei fanatici induisti, i gruppi radicali indù hanno inscenato manifestazioni e minacciano di fare strage dei cristiani, se i killer non saranno liberati. Si chiamava Nimmaka Laxmaya e aveva circa 50 anni il cristiano assassinato in pieno giorno, dopo un incontro di preghiera nel villaggio di Dherubada in Orissa.

Come riferito all'agenzia Fides dal “Global Council of Indian Christians”, l’uomo è stato ucciso mentre tornava a casa, il 25 maggio scorso, dopo il battesimo del suo ultimo figlio. Secondo i fedeli locali, è stato un omicidio mirato e programmato. Gli autori hanno voluto terrorizzare i credenti e quanti volessero ricevere il battesimo, convertendosi alla fede cristiana.

L’uomo è stato seguito e, quando si trovava da solo, aggredito e ucciso a sangue freddo, in modo brutale. Il cadavere dell’uomo - brutalmente martoriato dagli aggressori - è stato rinvenuto proprio dal figlio neo battezzato che ha dato l’allarme. Vedendolo, gli assassini del padre hanno minacciato anche il ragazzo. Dopo la denuncia, operata anche grazie all’assistenza di un Pastore protestante locale, la polizia ha arrestato gli assassini.

A questo punto i gruppi radicali hanno avviato una campagna chiedendone il rilascio e minacciando un massacro di cristiani. Ricordando i pogrom anti-cristiani avvenuti in Orissa nel 2008, i leader cristiani e tutti i fedeli della zona sono terrorizzati e temono tragiche conseguenze per la loro comunità. (R.P.)

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Kivu: scontri alla frontiera preoccupano la società civile

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La società civile del Nord-Kivu è “molto preoccupata per il deterioramento della situazione della sicurezza nell’Est della Repubblica Democratica del Congo per i nuovi attacchi e incursioni dell’esercito rwandese” afferma un comunicato inviato all’agenzia Fides. Il comunicato denuncia l’occupazione dal parte delle truppe rwandesi della località di Murambi e l’attacco commesso il mattino dell’11 giugno alle postazioni dell’esercito congolese nella località di Kabagana, volto a conquistare una collina in posizione strategica. 

Il presidente della società civile di Nyiragongo è stato catturato dalle truppe rwandesi, aggiunge il comunicato. L’intervento dell’esercito congolese ha permesso di liberarlo ma l’uomo è stato ferito gravemente nei combattimenti. La società civile del Nord Kivu chiede un intervento degli organismi internazionali, Onu in testa, per fermare quella che qualifica come “aggressione rwandese”.

Gli scontri tra i due eserciti sono durati due giorni, l’11 e il 12 giugno. Il Rwanda accusa i militari congolesi di essere entrati sul suo territorio. Un’accusa smentita da Kinshasa che sostiene invece che sono stati i militari di Kigali ad aver provocato gli incidenti invadendo alcune località congolesi. Il Rwanda ha consegnato alla Croce Rossa congolese i corpi di quelli che Kigali afferma essere cinque presunti militari congolesi periti negli scontri all’interno della sua frontiera. (R.P.)

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Myanmar: la legge anti-conversione è un attentato alla libertà religiosa

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Oltre 80 organizzazioni della società civile di tutto il mondo chiedono al governo del Myanmar di archiviare la proposta di legge, in discussione nel Paese, che potrebbe limitare il diritto di scegliere liberamente la proprio fede. “Se adottata, questa legge violerebbe i diritti umani fondamentali e potrebbe portare a ulteriori violenze contro i musulmani e altre minoranze religiose nel Paese” afferma il forum delle Ong, che include diverse organizzazioni di ispirazione cristiana, in un comunicato inviato all’agenzia Fides.

Come appreso da Fides, il progetto di “Legge sulla conversione religiosa”, reso noto ufficialmente il 27 maggio 2014, prevede un vero e proprio “processo” per ottenere il permesso ufficiale per convertirsi da una religione ad un'altra. I funzionari dei dipartimenti governativi hanno il potere di decidere se un richiedente abbia esercitato o meno il libero arbitrio nella scelta di cambiare fede.

Quanti chiedono la conversione “con l'intento di insultare o distruggere un’altra religione” possono essere puniti con la reclusione fino a due anni. Questo “solleva la prospettiva di arresti arbitrari e detenzione per coloro che desiderano convertirsi dal Buddhismo Theravada – la fede maggioritaria in Myanmar – a una religione minoritaria” afferma la nota giunta a Fides. Anche persuadere un individuo con una “pressione indebita” comporta un anno di prigione. 

Il forum di oltre 80 organizzazioni, tra le quali Christian Solidarity Worldwide, afferma: “La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dice esplicitamente che il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione include la libertà di cambiare la propria fede o le proprie convinzioni religiose.

Il nuovo progetto legislativo – prosegue il testo – appare legittimare le opinioni di quanti promuovono odio e incitamento alla violenza contro i musulmani e altre minoranze, e se adottata, istituzionalizza la discriminazione contro le minoranze etniche e religiose. Esortiamo il governo e il Parlamento ad archiviarla e a scartarla del tutto”.

Il Ministero degli Affari Religiosi ha redatto la legge come parte di un pacchetto di misure relative a matrimonio, religione, poligamia, pianificazione familiare, sulla base di proposte giunte da un’organizzazione buddista chiamata “Associazione per la tutela della razza e della religione”. Le Ong invitano anche ad abolire il “Ministero degli Affari Religiosi” ed a sostituirlo con una commissione indipendente e imparziale, con il mandato di eliminare ogni forma di discriminazione religiosa nel Paese. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 164

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.