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Sommario del 11/06/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: mercanti di armi e di schiavi risponderanno a Dio

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Il "timore di Dio" è l’ultimo dei sette doni dello Spirito Santo, a cui il Papa ha dedicato oggi la catechesi dell’udienza generale. In un’assolata piazza San Pietro, davanti a decine di migliaia di fedeli, Francesco ha spiegato che essere pervasi dal timore di Dio non è avere paura di Lui, bensì è sentirsi come "bambini nelle braccia del nostro papà", che ci conquista col suo amore e ci guida. Ma è anche un “allarme” innanzi alla pertinacia del peccato. Da qui dure parole sui fabbricanti di armi e gli sfruttatori di esseri umani. Il servizio di Gabriella Ceraso

Il caldo di questi giorni a Roma non dà tregua e il pensiero affettuoso del Papa va a chi più può soffrirne. Per questo il saluto di Francesco prima di attraversare la Piazza in festa, è ai malati raccolti nell’Aula Paolo VI. ”Da qui tranquilli potete seguire tutto senza soffrire questo sole ” dice loro, prima di recitare insieme un’Ave Maria. Poi dal sagrato la catechesi. “Dio è Padre  che ci ama, vuole la nostra salvezza e sempre perdona”, dunque non c’è motivo di avere paura di Lui. Il timore di Dio invece, spiega Francesco, è il sentirsi piccoli, “come bambini nelle braccia del nostro papà”, docili e certi che tutto viene dalla grazia:

"Aprire il cuore perché la bontà e la misericordia di Dio vengano a noi. Questo fa lo Spirito Santo con il dono del timore di Dio: apre i cuori. Cuore aperto affinché il perdono, la misericordia, la bontà, le carezze del Padre vengano a noi. Perché noi siamo figli infinitamente amati"

Il timore di Dio fa di noi quindi "cristiani convinti, entusiasti, conquistati da questo amore" non " sottomessi al Signore per paura", ma, “stiamo attenti”, prosegue il Papa mutando il tono della voce, questo dono dello Spirito è anche un “allarme di fronte alla pertinacia del peccato”:

"Quando una persona vive nel male, quando bestemmia contro Dio, quando sfrutta gli altri, quando li tiranneggia, quando vive soltanto per i soldi, per la vanità o il potere o l’orgoglio, allora il santo timore di Dio ci mette in allerta: attenzione! Con tutto questo potere, con tutti questi soldi, con tutto il tuo orgoglio, con tutta la tua vanità, non sarai felice. Nessuno può portare con sé dall’altra parte né i soldi, né il potere, né la vanità, né l’orgoglio. Niente!"

“Possiamo soltanto portare”, aggiunge,  “l’amore che Dio Padre ci dà”:

“Le carezze di Dio accettate e ricevute da noi con amore. E possiamo portare quello che abbiamo fatto per gli altri “

E qui, le insidie del peccato si vengono esemplificando sempre più nelle parole del Papa e mutano in un dialogo con la piazza:

"Voi pensate che una persona corrotta sarà felice, dall’altra parte? No! Tutto il frutto della sua corruzione ha corrotto il suo cuore e sarà difficile andare dal Signore. Penso a coloro che vivono della tratta di persone e del lavoro schiavo: voi pensate che questa gente che tratta le persone, che sfrutta le persione con il lavoro schiavo, ha nel cuore l’amore di Dio? No, non hanno timore di Dio e non sono felici. Non lo sono"

Senza timore di Dio, conclude il Pontefice, è anche chi fabbrica armi “per fomentare guerre”. Per loro e per tutti l’invocazione finale:

“Ma pensate, che mestiere è questo! Ma, io sono sicuro che se io faccio adesso la domanda: quanti di voi siete fabbricatori di armi? Nessuno, nessuno. Questi fabbricatori di armi non vengono a sentire la Parola di Dio! Questi fabbricano la morte, sono mercanti di morte e fanno mercanzia di morte. Che il timore di Dio faccia loro comprendere che un giorno tutto finisce e che dovranno rendere conto a Dio”.

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Il Papa contro il lavoro minorile: 168 milioni gli sfruttati

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Protezione sociale per le decine di milioni di bambini costretti a lavorare: la chiede il Papa lanciando il suo appello all’udienza generale, in vista della Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile che si celebra il 12 giugno. L'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) denuncia: sono 168 milioni i minori coinvolti nel mondo. Le parole di Papa Francesco nel servizio di Fausta Speranza

“Decine - ascoltate bene - decine di milioni di bambini sono costretti a lavorare in condizioni degradanti, esposti a forme di schiavitù e di sfruttamento, come anche ad abusi, ,altrattamenti e discriminazioni. Auspico vivamente che la Comunità internazionale possa estendere la protezione sociale dei minori per debellare questa piaga. Rinnoviamo tutti il nostro impegno, in particolare le famiglie, per garantire ad ogni bambino e bambina la salvaguardia della sua dignità e la possibilità di una crescita sana. Una fanciullezza serena permette ai bambini di guardare con fiducia alla vita e al futuro.”

Di responsabilità della collettività parla l'Organizzazione internazionale del lavoro. "Estendiamo la protezione sociale: combattiamo il lavoro minorile" è l’obiettivo della campagna 2014. "Sono 168 milioni i bambini – fa sapere l’Ilo  - ancora costretti a lavorare, di cui 85 milioni impiegati in lavori estremamente pericolosi”. Delle condizioni ci parla Furio Rosati, responsabile per le questioni giovanili dell’Ilo:

R. – La gran parte di questi bambini lavora perché appartiene a famiglie molto povere o che sono esposte a rischi di vario tipo: dall’impossibilità di produrre reddito, perché gli adulti sono malati, o a rischi atmosferici o di altro tipo. Quindi, un sistema di protezione sociale che garantisca un minimo di risorse alle famiglie più vulnerabili consente a questi bambini di poter andare a scuola e di non dovere essere costretti a contribuire alla produzione del reddito della famiglia.

R. – Sono esposti a rischi: pensiamo ai bambini che lavorano in agricoltura, dove sono costretti a usare strumenti pericolosi o sostanze chimiche dannose. I bambini che lavorano nell’industria sono ovviamente esposti ai rischi specifici delle diverse produzioni; i bambini che lavorano nel commercio, negli alberghi, lavorano per molte ore, sono esposti al rischio di sfruttamento anche dal punto di vista sessuale, soprattutto le bambine che lavorano a contatto con il pubblico in alberghi, ristoranti, negozi e così via.

C’è da dire che per quanto riguarda i numeri la situazione è migliorata negli ultimi anni: dal 2008 al 2012 i minori che lavorano sono diminuiti di quasi un quarto (da 215 a 178 milioni) e il numero di bambini e ragazzi impiegati in mansioni pericolose si è dimezzato (da 171 a 85 milioni). Ma non basta:

R. – C’è bisogno di rinnovare gli sforzi e incrementarli, perché la comunità internazionale si era data l’obiettivo del 2016 per l’eliminazione delle peggiori forme del lavoro minorile: è un obiettivo che appare molto difficile raggiungere. In generale, per tutti i Paesi che hanno aderito alle Convenzioni internazionali sul lavoro minorile, il lavoro minorile è illegale e dovrebbe essere eliminato. Poi, ci sono bambini e adolescenti che vengono coinvolti direttamente in attività illegali: dallo spaccio della droga allo sfruttamento commerciale-sessuale e così via.

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Nomina episcopale in Perù

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In Perù, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale del Vicariato apostolico di Jaén en Perù o San Francisco Javier, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Santiago María García de la Rasilla Domínguez, della Compagnia di Gesù e al suo posto ha nominato padre Gilberto Alfredo Vizcarra Mori, gesuita, attualmente missionario nel Vicariato apostolico di Mongo, in Ciad. Mons. Vizcarra Mori è nato l’11 febbraio 1960 a Lima (Perú). Dopo gli studi primari e secondari nella scuola La Salle di Lima, ha frequentato, prima, la Pontificia Facoltà di Teologia di Lima (1977-1979), poi, l’Università Maggiore di San Marco a Lima (1980-1981), per lo studio del Diritto Civile. È entrato nel Noviziato della Compagnia di Gesù nel 1982, proseguendo gli studi di Filosofia nella Pontificia Università Cattolica del Cile (1985-1987), e quelli di Teologia nel Teologato della Facoltà Gesuita di Belo Horizonte, in Brasile (1991-1994). Ha successivamente ottenuto una Licenza in lingua Araba al Cairo, in Egitto (1994-1996), e una Licenza presso l’Istituto di Studi Arabi e Islam a Roma (2001-2003). Ha emesso la Professione perpetua il 15 agosto 2001. È stato ordinato sacerdote il 31 luglio 1994.

Dopo l’Ordinazione sacerdotale, ha ricoperto i seguenti incarichi: 1994-1996: Studi di lingua araba; 1997-1998: Collaboratore nella pastorale vocazionale della Compagnia di Gesù a Lima; 1997-2000: Parroco di San Pedro y San Pablo a Bitkine, nel Vicariato Apostolico di Mongo, in Ciad; 2001-2003: Studi presso l’Istituto di Studi Arabi e Islam a Roma; 2003-2011: Parroco di San Ignacio nel Vicariato di Mongo, in Ciad; Superiore della Comunità (2005); 2007-2011: Fondatore e Direttore del progetto Fe y Alegria, in Ciad; 2012-2013: Vicario parrocchiale di Santa Teresa del Niño Jesús ad Abeché, nel Vicariato Apostolico di Mongo; dal 2013: destinato a ricoprire l’incarico di Direttore Spirituale nel Collegio La Inmaculada di Lima, svolge ancora le funzioni di Vicario parrocchiale ad Abeché (Ciad).

Il Vicariato Apostolico di Jaén (1971), ha una superficie di 32.572 kmq e una popolazione di 525.101 abitanti, di cui 409.000 sono cattolici. Ci sono 26 parrocchie servite da 36 sacerdoti (18 diocesani, 18 religiosi) e 1 diacono, 4 fratelli religiosi, 101 suore e 40 seminaristi maggiori.

In Brasile il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Cruz Alta, presentata da mons. Friedrich Heimler, dei Salesiani, in conformità al canone 401 – par. 2 del Codice di Diritto Canonico.

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Card. Koch: ecumenismo è sincerità non cortesia di facciata

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L’esteriorità, l’accontentarsi della facciata e non sondare invece la realtà di un rapporto – riconoscendone con sincerità i pregi ma anche i suoi limiti – non fa bene al dialogo ecumenico. È il pensiero di fondo del cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, letto in apertura, lunedì scorso, della “Receptive Ecumenism Conference”, in corso fino al 12 giugno alla Fairfield University del Connecticut, negli Stati Uniti.

Parlando del suo essere stato al fianco di Papa Francesco nel recente pellegrinaggio in Terra Santa – e in particolare nel momento del suo abbraccio al Patriarca ortodosso ecumenico Bartolomeo I, 50 dopo l’analogo gesto fra Paolo VI Atenagora – il cardinale Koch osserva che il mezzo secolo trascorso ha visto portare “molto frutto” a un dialogo basato sulla “verità” e sull’“amore”. In uno dei suoi sermoni sulla “simpatia, il cardinale John Henry Newman, ricorda il presidente del dicastero per l’Unità dei cristiani,  si disse convinto che i “cristiani fossero molto più simili l'un l'altro, anche nelle loro debolezze, di quello che spesso si era immaginato”.

In particolare, il Beato Newman descriveva la tendenza dei cristiani di diversa confessione a “non sondare completamente le ferite” della loro natura, preferendo  piuttosto mostrarsi “amabili e cordiali a vicenda in parole e le opere”, senza che il loro amore fosse “più grande”. “Le viscere del nostro affetto – affermava il Beato – sono ristrette”, “temiamo” un rapporto che “inizi alla radice” e “di conseguenza, la nostra religione, vista come un sistema sociale, è vuota”.

Una constatazione, quella del cardinale Newman, applicabile non solo ai singoli cristiani ma anche – afferma il cardinale Koch – al loro essere comunità: “Lo ‘standard della nostra santità’ è diminuito”, sostiene, e anche “la ‘nostra visione della verità’ è inibita”. Viceversa, il porporato riconosce l’efficacia del “dialogo di verità” proposto dal “Receptive Ecumenism”, nel quale l’onesta ammissione delle “debolezze” si trasformi in “un vincolo di unione”.

“Siamo di fronte oggi – conclude il cardinale Koch – a tanti problemi comuni nella nostra vita ecclesiale, eppure nei nostri dialoghi ci accontentiamo troppo ‘dell'esterno delle cose’, di essere ‘amabile e cordiali l’un l’altro in parole e opere’. Ma il dialogo che inizia alla radice delle cose, con le sfide reali e le ferite della nostra vita ecclesiale, è quello in cui le nostre relazioni crescono e si approfondiscono. È davvero un dialogo d'amore”.

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Il card. Sandri sui Santi Cirillo e Metodio: due evangelizzatori al servizio dell'unità

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Il Vangelo e la sua testimonianza sono generatori inesauribili di civiltà e di cultura, è necessario seguire l’esempio di chi ha dedicato la sua vita per  questo annuncio. Così in sintesi il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, alla presentazione degli atti del Convegno  “I Santi Cirillo e Metodio tra i popoli slavi. 1150 anni dall’inizio della missione”, ospitata dall’ambasciata slovacca presso la Santa Sede. Il servizio di Cecilia Seppia

Un percorso di studio importante, impegnativo ma affascinante, iniziato nel febbraio del 2013 e durato più di un anno, che ha evidenziato la complessità di due figure come i santi Cirillo e Metodio e anche la profonda unità di tutte le dimensioni della loro instancabile opera evangelizzatrice che si protrae ormai da 1150 anni ma che è riuscita ad adattarsi ai tempi e ai grandi mutamenti sociali.

Il cardinale Sandri muove da qui per ricordare questi due “ferventi apostoli degli slavi” che hanno avuto tra l’altro il grande merito di incarnare il Vangelo nella peculiare tradizione dei popoli che incontravano. Anzi,  spiega il porporato, molte culture slave devono il proprio inizio o il proprio sviluppo all’opera dei fratelli di Salonicco: a loro si deve pure la geniale creazione di un alfabeto per la lingua slava ma soprattutto “quell’essere riusciti ad unire le varie liturgie della Chiesa in un’unica sinfonia, un coro armonioso sostenuto dalle voci di sterminate moltitudini di uomini eppure perfetto nel suo insieme” – come si legge nell’enciclica Slavorum Apostoli di San Giovanni Paolo II. Caratteristiche, valori, capacità che devono oggi costituire un impegno preciso nella formazione accademica e nell’azione pastorale, volte a generare e suggellare civiltà e culture.

Il cardinale Sandri si sofferma poi sulla dimensione ecumenica della vita e del messaggio di questi Santi, considerati “esempi di vita e di apostolato” sia dagli ortodossi, sia dai cattolici e anche da tutte quelle comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Da qui il ricordo di recenti, storici, gesti compiuti da Papa Francesco proprio nel solco della ricerca di questa unità nella diversità: l’abbraccio in Terra Santa con il “fratello” Bartolomeo di Costantinopoli, l’invocazione per la pace nei Giardini Vaticani con i presidenti israeliano e palestinese, Peres e Abbas.

“Io sono certo – ha detto il porporato – che i fratelli di Salonicco si rallegrano per questo e continueranno a intercedere per il dialogo ecumenico”. Un’eredità immensa la loro, che oggi – ribadisce il cardinale Sandri – spetta alle Chiese Orientali Cattoliche, che hanno il compito di promuovere appunto l’unità tra tutti i cristiani, “non uniformità e omologazione, ma varietà che manifesta unità: esse infatti sono le continuatrici autentiche dell’opera di Cirillo e Metodio, portatrici di un proprio patrimonio, ma sempre in comunione col Successore di Pietro”. Infine, uno sguardo all’Europa della quale i due Santi sono venerati come Compatroni e l’auspicio che in tempi di crisi e guerre e separazioni, Il Vecchio continente, dall’Atlantico agli Urali, possa continuare a respirare a due polmoni senza paura di riscoprire le sue radici cristiane.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Quando Dio chiederà conto: nuovo appello di Papa Francesco contro lo sfruttamento e gli abusi sui minori.

Diritti umani decisivi per la pace: assemblea delle Nazioni Unite a Ginevra.

Aria nuova per la Sistina: Antonio Paolucci sull'inizio dei lavori per il nuovo impianto di climatizzazione (e il 30 e il 31 ottobre sarà celebrata in un convegno internazionale).

La filosofia di Paperino: Dario Fertilio sull'ottantennio del mito disneyano (ma Topolino è ben altro).

La persona prima di tutto: Michela Beatrice Ferri ricorda la filosofa statunitense di origine polacca Anna-Teresa Tymieniecka.

Fantasmi celesti: Damiano Tommasi, presidente dell'Assocazione italiana calciatori, sulla crescente attesa per i mondiali di calcio.

Anche le debolezze aiutano i cristiani a dialogare tra loro: il cardinale Kurt Koch sulla lezione del cardinale John Henry Newman.

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Oggi in Primo Piano



Iraq, Mosul in mano ai miliziani. L'appello del Patriarcato caldeo

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Appello del Patriarcato caldeo all’unità nazionale in Iraq, dopo i tragici eventi che hanno investito Mosul. La città, ormai nelle mani dei miliziani sunniti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, è completamente isolata, mentre continua l’esodo dei civili verso i villaggi limitrofi. Per una testimonianza dai luoghi del conflitto, Gianmichele Laino ha intervistato padre Albert Hisham, responsabile delle comunicazioni del Patriarcato caldeo a Baghdad: 

R. - Nella dichiarazione di questa mattina, il patriarca Sako parla della preoccupazione circa la situazione attuale di Mosul, perché la situazione è molto grave. I cristiani sono fuggiti da Mosul per andare verso i villaggi vicini. Non sappiamo che cosa accadrà nei prossimo giorni. Anche l’esercito, la polizia, sono andati via da Mosul perché hanno perso la controllo della città. Il Patriarcato caldeo esprime la sua preoccupazione per questa situazione e vede la soluzione nel governo nazionale - non così unito - che si preoccupa della situazione di sicurezza delle città, non solo di Mosul, ma anche di tutto l’Iraq. C’è la necessità di formare il governo al più preso possibile per trovare, almeno in questo periodo, una soluzione al problema della sicurezza.

D. - Qual è la situazione in questo momento a Mosul?

R. - La situazione è molto grave perché la città ha perso i controllo: tutti i terroristi sono entrati nella città, hanno preso il controllo, nessuno può entrare nella città per ora. Però, il governo tenta in qualche modo di entrare in città per liberarla. Ma finora non c’è stata una soluzione decisa.

D. - Si parla di circa mezzo milione di civili in fuga da Mosul e di aiuti che i cattolici locali stanno offrendo agli sfollati. Come stanno organizzando i soccorsi i cristiani della Piana di Ninive?

R. - Anche il vescovo di Mosul sta aiutando i cristiani a uscire dalla città. Tutti i villaggi limitrofi stanno accogliendo i cristiani di Mosul. Nelle case dei cristiani nei villaggi vicini tutte le famiglie cristiane stanno accogliendo questi rifugiati.

D. - Alla luce di questi ultimi dolorosi eventi, qual è il futuro dell’Iraq?

R. - C’è questa paura anche per tutti noi: quale sarà il futuro dell’Iraq e dei cristiani in Iraq? Perché, con questi eventi che si ripetono ogni tanto, i cristiani perdono la fiducia nel Paese, nel governo. Abbiamo paura dell’emigrazione. Tanti di loro vanno via.

D. - Qual è l’appello che il Patriarcato caldeo vuole lanciare?

R. - L’appello è a tutti coloro che hanno volontà di fare qualcosa, di andare avanti con il progetto dell’unità nazionale del Paese, affinché tutti possano vivere in un clima di fratellanza.

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Aleppo senza acqua potabile. Il vicario apostolico: la gente è martoriata

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In Siria, si continua a combattere e a morire mentre la città di Aleppo è di nuovo in emergenza per la mancanza di acqua potabile. Già a maggio era mancata per 11 giorni, quando la stazione di pompaggio principale era stata occupata da un gruppo di jihadisti. Intanto, decine di prigionieri sono stati rilasciati ieri in Siria, in seguito all'amnistia generale annunciata dal presidente, Bashar al-Assad. Per parlare della situazione che si vive nella città siriana, Debora Donnini ha raggiunto telefonicamente il vicario apostolico di Aleppo, mons. Georges Abou Khazen

R. – E’ la seconda volta che ci troviamo in questa situazione. La causa sembrano essere degli esplosivi messi sotto le tubature centrali, che hanno fatto saltare le tubature e purtroppo anche le fognature. Si è mischiato un po’ tutto e quindi l’acqua non arrivava più in città. Quella poca acqua che arrivava, era inquinata. Molta gente ha avuto anche infezioni e disturbi intestinali.

D. – Un mese fa le accuse di aver causato l’interruzione dell’acqua erano dirette a un gruppo di jihadisti che avevano preso possesso della stazione di pompaggio. Adesso, chi sembra abbia causato questo problema?

R. – La stessa accusa va agli stessi gruppi. Sembra che volessero avanzare un po’ e abbiano fatto saltare degli edifici con sotterranei. Facendo saltare questi, hanno fatto saltare anche le tubature dell’acqua e le fognature.

D. – Quindi, non c’entrano i bombardamenti dell’esercito?

R. – Di sicuro no.

D. – Qual è la situazione della città: chi comanda e chi tiene l’ordine pubblico?

R. – E’ divisa. Ci Sono quartieri dove c’è il governo e quartieri dove si trovano questi gruppi armati. Intorno, nella campagna, ci sono altri gruppi armati ma l’esercito è riuscito ad aprire una strada sicura almeno per la gente, per farla uscire ed entrare, far entrare anche viveri, gasolio, benzina e altro.

D. – Come fa la gente senza acqua potabile, dove beve?

R. – La gente è veramente martoriata. Ha sopportato di tutto eccetto la mancanza di acqua. Noi dobbiamo ringraziare il Signore perché molte chiese e moschee hanno il pozzo artesiano per l’acqua. Quindi, la gente si rivolge a chiese e moschee per prendere l’acqua e la trasportano a mano nelle loro case.

D. – Il quartiere dove lei si trova è sotto il controllo dell’esercito?

R. – Sì, perché noi ci troviamo vicino all’Università e tutta la città universitaria è sotto il controllo dell’esercito.

D. – Ci sono scontri in questi giorni?

R. – Sempre, ogni giorno. Gli scontri si possono sopportare ma quello che è più difficile sopportare è la pioggia di mortai sulla città, esplosioni, gente che muore in casa e per la strada. Quindi, non c’è sicurezza per niente.

D. – E’ una situazione sicuramente molto complessa, anche dopo il fallimento di "Ginevra II". Voi come pensate che si possa arrivare a una soluzione e cosa chiedete alla comunità internazionale?

R. – Ultimamente, abbiamo avuto il caso di Homs dove c’è stato un accordo, una riconciliazione. Quindi, hanno liberato la città da altre distruzioni e spargimenti di sangue. Noi speriamo che l’esempio di Homs si possa applicare anche in altre città della Siria. Quello però che noi chiediamo, e che abbiamo sempre chiesto, è che la comunità internazionale, soprattutto l’Occidente, prema per la pace, per una riconciliazione e per le trattative.

D. – Lei come vede questa amnistia decisa da Assad?

R. – Noi la vediamo molto positivamente, perché è un segno anche di perdono e riconciliazione. E' una “pietra” anche per l’avvenire, per vivere insieme una volta finita la guerra. Speriamo che abbia un effetto molto positivo.

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Brasile 2014: i mondiali di calcio visti dalle favelas

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Da domani riflettori accesi sullo spettacolo dei Mondiali di calcio e un Brasile sfarzoso e colorato apparirà sugli schermi tv di tutto il mondo. A restare nell’oscurità saranno i milioni di persone, giovani soprattutto, delle favelas, il volto povero e drammatico del Paese. Criminalità, droga, armi, omicidi, analfabetismo sono i compagni di vita degli abitanti di questi agglomerati urbani tra i più degradati del pianeta. Il complesso di Manguinhos è alla periferia nord di Rio de Janeiro, 13 favelas in cui i giovani fanno i conti con un clima di violenza perenne. E’ qui che l’ong italiana Cesvi ha aperto una "Casa del Sorriso", un approdo sicuro per molti di questi ragazzi ai quali si regala la possibilità di partecipare a corsi di inglese, informatica, danza, pittura, musica, nonché di ricevere supporto sociale ed educativo. Roberto Vignola, del Cesvi, è appena rientrato da Manguinhos e Francesca Sabatinelli lo ha intervistato: 

R. – I ragazzi della favela, gli abitanti della favela, vivono una situazione di segregazione, quasi di apartheid. Vivono questo evento mondiale con grande frustrazione perché ci sono stati enormi investimenti per la costruzione di stadi e di infrastrutture, ma i giovani lamentano l’assenza di costruzioni, di infrastrutture, l’assenza di servizi sanitari e uno scarsissimo accesso ai servizi di istruzione. Vedono il Mondiale come un’occasione soltanto per i ricchi e come un intervento da parte del governo per nascondere le favelas e non mostrare questo aspetto, anche sociale, agli stranieri che visiteranno il Paese in questi giorni.

D. – Situazione che crea evidentemente non poca rabbia sociale, come abbiamo visto…

R. – Assolutamente sì. Infatti, in questi giorni gli episodi di rabbia sociale, che esplodono spesso in manifestazioni anche violente, sono all’ordine del giorno. Noi abbiamo testimonianze. Le abbiamo raccolte durante questo viaggio quando appunto, con moltissimi ragazze, anche molto giovani di circa 15 anni, appassionati di calcio, emergeva chiaramente questa frustrazione, questo desiderio di aver un Paese migliore, che dia accesso all’istruzione, alla sanità e non un Paese che venga  rappresentato solo ed esclusivamente come il Paese del calcio, della samba e del carnevale.

D. – Voi riportate che gli omicidi che hanno interessato ragazzi tra i 15 ed i 24 anni sono aumentati del 95%...

R. – Riguarda soprattutto gli ultimi anni ed è una situazione abbastanza generalizzata, dovuta anche un po’ alle politiche del governo brasiliano che ha deciso di intervenire all’interno delle Favelas inserendo in pianta stabile la cosiddetta “polizia pacificatrice” che ha proprio un presidio permanente e che cerca di tenere sotto controllo situazione nelle Favelas. Ovviamente, questo fa sì che i più poveri, prevalentemente i neri della società brasiliana, siano bersaglio delle forze dell’ordine ed allo stesso tempo siano vittime dei trafficanti di droga e dei trafficanti di armi.

D. – Voi documentate, nel complesso di Manguinhos, la presenza di droga, le continue violenze e sparatori. Accanto a questo: acque inquinate, scarichi industriali, assenza di energia elettrica e reti fognarie. E’ dunque questa la situazione?

R. - Questa è la situazione, e ogni volta che si presenta un periodo di mal tempo, la Favela si allaga completamente. Sono ituazioni veramente molto simili a quelle che ci capita di vedere come operatori umanitari, come Cesvi, anche in Paesi dell’Africa subsahariana. E’ una situazione a limite, una realtà dove le organizzazioni non governative come il Cesvi, sono presenti da moltissimi anni e continueranno ad essere presenti, nonostante si sia parlato tantissimo in questi anni di un Paese che viaggiava ad un ritmo di crescita molto, molto sostenuto. All’interno del contesto di Manguinhos noi abbiamo avviato un progetto di sostegno a distanza, non diretto a singoli individui, singoli ragazzi o minori, ma che tende ad includere tutta la comunità dei bambini e degli adolescenti della Favela. Sono stati  ben 326 i ragazzi che hanno frequentato la casa nell’ultimo anno e che hanno avuto la possibilità di avere una reale alternativa alla strada attraverso la musica, la letteratura, la pittura, il teatro, attraverso tutto quello che è “cibo per la mente” e che serve a tenerli lontani dalla strada.

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Sì della Corte all'eterologa. Eusebi: necessaria profonda riflessione

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Una ingiustificata discriminazione delle coppie sterili in base alle loro condizioni economiche e una lesione della libertà fondamentale della coppia di formare una famiglia con dei figli: queste le motivazioni principali, depositate ieri, della sentenza con cui lo scorso aprile la Consulta dichiarava incostituzionale il divieto del ricorso alla fecondazione eterologa, contenuto nella Legge 40. Una pratica prevista invece in diversi Paesi europei. Molti i commenti pro e contro la sentenza. Da parte sua, il segretario dei vescovi italiani, mons. Nunzio Galantino, ha commentato: "Nessuno di noi è padrone di nessuno e nemmeno i genitori sono padroni dei loro figli”. Adriana Masotti ha sentito Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e membro del Centro di Ateneo di Bioetica. 

R. – Io credo sia indispensabile creare le condizioni per riportare l’attenzione su un nodo culturale fondamentale, che è questo: ma ci sono delle caratteristiche umane della generazione? Tra poco tempo, potremo avere, per esempio, una gravidanza totalmente artificiale. Sarebbe umana una generazione senza più alcun ruolo della donna? La clonazione potrà essere migliorata dal punto di vista tecnico, ma è un caso che la generazione umana sia stata posta dalla natura attraverso il contributo genetico di due individui di sesso diverso? Sulla eterologa: è un caso che la generazione umana implichi una relazione tra i soggetti generanti? E tale carattere di relazione può essere disgiunto dalla corporeità?

D. – Assolutamente legittima, la riflessione che lei chiede di fare. Ma il fatto di dire – come fa la Consulta – “non è giusto che chi può ottenga e chi non può economicamente deve rinunciare al proprio figlio”,  è altrettanto legittimo?

R. – Ma questa constatazione è purtroppo una constatazione di fatto. Rispetto a qualsiasi scelta che dovesse ampliare una facoltà operata in un Paese e non in un altro, si viene a creare oggettivamente una diversità di trattamento. Ma non possiamo per questo esimerci da quel tipo di riflessione di fondo sulla accettabilità umana, sulle caratteristiche della generazione, di cui avevamo parlato in precedenza.

D. – Certo il cammino è lungo perché, da una parte – come appunto mons. Galantino – si dice che questa apertura non garantisce i più deboli. Dall’altra c’è chi invece dice: si tratta di un atto d’amore in più, di avere bambini per uomini e donne che hanno la sfortuna di essere sterili…

R. – L’apertura che deriva dalla sentenza propone poi tutta una serie di ulteriori problemi. Ad esempio, il problema che è stato dibattuto in tutta Europa e che ha portato a una fortissima restrizione del ricorso alla fecondazione eterologa, che è il problema dell’anonimato della cosiddetta donazione. Quindi, da un lato c’è la necessità di un intervento normativo, una volta che si ammetta l’eterologa. Dall’altro lato – torno a ribadire – c’è questo profilo di fondo: è umano mettere in gioco i propri gameti al di fuori della relazione con un’altra persona? Ecco, io credo che questa domanda debba poter essere affrontata con serenità, perché se si dà rilievo soltanto alle considerazioni che sono svolte nella sentenza della Corte costituzionale, sarà facile compiere altri passi di ammissione di qualsiasi modalità tecnica di generazione: pensiamo anche alla surrogazione di maternità, all’utero in affitto…

D. – Secondo lei, dunque, ci sarà bisogno di un passaggio parlamentare per stabilire norme, chiarire procedure sulla eterologa?

R. – Ci sono certamente numerosi nodi da chiarire. Chi non essendo genitore geneticamente generante accetti l’eterologa del suo partner, si dovrà chiarire se poi può fare un disconoscimento di paternità, e poi la conoscenza delle proprie ascendenze genetiche, appunto, dovrebbe essere nota. E tutto questo credo che la legge dovrà precisarlo, precisando anche che quantomeno – voglio sperare – se si ammette la eterologa, il seme di una medesima persona, ad esempio i gameti di una medesima donna, non possano essere usati per più generazioni, e altre problematiche di questo genere che, a catena, un po’ si ricollegano.

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Rifugiati imprenditori: da un'idea un nuovo inizio

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Lavoro e integrazione sono un binomio inscindibile, ma purtroppo spesso le attività di accoglienza e di assistenza dei rifugiati non prevedono dei programmi di inserimento sociolavorativo. In questo contesto, si inserisce il Convegno finale del progetto “Re-Lab: start-up your business”, che vede coinvolte numerose realtà istituzionali e anche europee e che si è tenuto ieri presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Il progetto ha l’obiettivo di sperimentare nuovi percorsi per favorire l’integrazione socioeconomica dei rifugiati. Il servizio di Maura Pellegrini Rhao: 

Optare per una forma di integrazione attraverso lo sviluppo di auto-imprenditorialità: è questa la sfida del progetto “Re-Lab” che si è posto l’obiettivo di fornire prima di tutto delle risposte concrete a tutte quelle persone rifugiate che hanno esperienze professionali qualificate e idee da vendere, ma non sanno come concretizzarle. Ci racconta del percorso fatto, Monica Rossi Rizzi, coordinatrice del progetto per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro:

"Siamo riusciti, attraverso un percorso di selezione, ad arrivare a circa 100 rifugiati che hanno seguito un percorso di formazione in Italia. Alla fine del percorso, la commissione di valutazione ha ritenuto finanziabili 20 progetti di impresa, di cui poi 14 effettivamente hanno potuto beneficiare sia del contributo finanziario a fondo perduto, sia di tutta l’assistenza tecnica per lo start-up e per l’accompagnamento nei primi mesi dall’avvio di queste imprese. L’esperienza ha dimostrato che vi sono attitudini imprenditoriali per le quali, soprattutto nel momento in cui manca in Italia un programma nazionale di integrazione, lo sviluppo di un percorso autoimprenditoriale può essere una risposta efficace. Sicuramente, il progetto finisce lasciando in eredità le linee guida, proprio per orientare future iniziative come la nostra e raggiungere risultati positivi."

Si tratta di restituire dignità e orientare queste persone che hanno dovuto abbandonare il proprio Paese, ma la ricostruzione dell’identità passa necessariamente dall’autonomia economica. “Un’idea nuova trova sempre spazio, anche in periodi di crisi come questo”. Lo afferma Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati:

"Ormai, sappiamo, che la stragrande maggioranza di loro non viene qui per motivi di lavoro ma per disperazione, per trovare un posto dove chiedere ed avere protezione. Questo progetto si inserisce chiaramente in una strategia più vasta di favorire l’integrazione. Integrazione vuol dire innanzitutto avere un lavoro, però sappiamo molto bene che è difficile, o impossibile trovare un posto di lavoro. Quindi, dobbiamo cercare anche approcci innovativi, c’è un 'sub-mercato' di lavoro autonomo dell’imprenditoria dove anche i rifugiati possono trovare una loro strada se hanno un appoggio. Il progetto ha quindi esplorato queste modalità di appoggio. E' una questione di investimento affinché poi il rifugiato un domani diventi un cittadino che paga le tasse e che soddisfi anche esigenze nel commercio, nel turismo, nell’artigianato."

Quattordici progetti d’impresa sono stati finanziati e accompagnati allo start-up. Ascoltiamo la testimonianza di Muhammad Irfan, titolare di un’impresa d’informatica:

"Sono del Pakistan, ho 36 anni e sono ingegnere elettronico e meccanico. L’anno scorso, ho partecipato a un corso per avviare un’attività con 'Re-Lab: start-up your business' e quando ho finito il corso ho preparato un business plan e l’ho inviato. Sono stato fortunato perché hanno selezionato il mio progetto, la mia idea. Ora sono molto, molto contento. Comincio questa esperienza e speriamo che possa andare sempre avanti per aiutare anche la mia famiglia."

A questi nuovi imprenditori è stata data l’opportunità di essere formati, di avere la chiara comprensione di ciò che significa fare impresa in Italia. Ora chiedono di non essere abbandonati, di poter usufruire di una rete di supporto per avviare relazioni, contatti, scambi. Il progetto “Re-Lab” è solo l’inizio.

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Fondazioni antiusura: gioco d'azzardo, un mercato da 85 mld

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Il gioco d’azzardo, in Italia, riesce a muovere quasi 85 miliardi di euro, una cifra che si divide tra i pochi fortunati che vincono, lo Stato e le compagnie di gestione. Inoltre, si sta sviluppando un sempre più consistente mercato nero, interamente nelle mani della criminalità organizzata. Di gioco di azzardo si è parlato alla presentazione di un Rapporto sull'argomento durante l’Assemblea annuale delle Fondazioni Antiusura, presso la sede della Caritas Italiana a Roma, alla presenza del segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e del direttore della Caritas italiana, mons. Francesco Soddu. Gianmichele Laino ha intervistato il sociologo Maurizio Fiasco, che ha curato il Rapporto: 

R. – Questa cifra, almeno quella ufficialmente dichiarata, viene ripartita in tre blocchi: le restituzioni ai giocatori – che naturalmente non avvengono con criterio proporzionale: non è che se dieci giocatori partecipano, le somme vinte si ripartiscono equamente tra i dieci. Una parte viene trattenuta dallo Stato come incassi fiscali e il resto va ai concessionari, va ai gestori cioè a coloro che materialmente noleggiano la macchina del gioco.

D. – Gioco d’azzardo e crisi economica. Stato e cittadini. Che relazioni ci sono tra queste componenti?

R. – E’ un business che è stato costruito sull’andamento della crisi economica. Mi spiego più direttamente. Mentre per l’offerta di altri beni, di altri servizi, la correlazione è una correlazione positiva, cioè migliora il conto economico, migliora anche la domanda e la vendita di beni e di servizi, per il gioco d’azzardo accade esattamente l’inverso: è un investimento dove già in partenza si prefigura un risultato negativo, perché comunque le proporzioni alla fine del ciclo saranno inferiori. E poi, c’è il fatto che moltissime persone, davanti all’incertezza della crisi, non percepiscono l’incertezza dell’azzardo e quindi, anzi, riversano le loro speranze sull’azzardo.

D. – Un altro problema è quello del gioco d’azzardo illegale. Qual è il peso di questo fenomeno, in Italia?

R. – Il peso è molto rilevante: noi abbiamo provato a dargli un numero. Soltanto per il settore delle slot-machine, il "nero" quantificabile è pari a 8 miliardi. Quindi, per fare un conto completo dobbiamo aggiungere agli 85 miliardi almeno questi altri 8, che vanno però interamente all’illegalità, interamente alla criminalità. Quindi, c’è un grandissimo affare almeno pari a quello dello Stato, che viene messo a segno dalla criminalità.

D. – Chi è oggi il giocatore d’azzardo?

R. – Metà della popolazione italiana gioca, e quindi è difficile stimare un profilo. Diciamo che vi è una minore incidenza della fascia intermedia: tra i 40 e i 55 anni sono di meno, perché il numero degli occupati, di coloro che hanno un impiego, è superiore rispetto alle fasce inferiori o superiori, cioè, quelli sotto i 40 anni e sopra i 55. Ma giocano, in egual misura, uomini e donne. Giocano molto gli anziani e giocano anche molto i giovani. Quindi, è stata inquadrata un’intera popolazione a questo consumo che non è soltanto quantificabile in denaro, e abbiamo visto i numeri, e abbiamo anche quantificato in tempo di vita, perché per spendere questi soldi occorrono alcuni milioni di ore di lavoro, di giornate di lavoro… Anzi, noi abbiamo quantificato che occorrono 70 milioni di giornate lavorative per spendere questi soldi. Quindi, è una sottrazione di denaro ma anche di tempo di vita e di significati del tempo di vita.

D. – Per quante persone si può parlare di una vera e propria malattia da gioco d’azzardo?

R. – Il termine malattia va visto in due accezioni: c’è un profilo di sofferenza psichica e c’è un profilo di sofferenza relazionale. Quelli che si trovano in un regime acuto di sofferenza psichica, sono ovviamente una minoranza, ma una minoranza consistente: non meno di un milione di persone. Ma quelli che sono in uno stato di sofferenza relazionale, cioè che vedono la quotidianità della loro vita peggiorare, peggiorare anche nelle relazioni tra le persone e nella loro quotidianità, sono molti, molti di più: possiamo parlare di almeno cinque-sei milioni di persone per le quali il gioco eccessivo determina se non una sofferenza psichica, comunque un disagio esistenziale, relazionale, intrafamiliare molto acuto che, secondo me, andrebbe misurato e considerato esattamente come le sofferenze psichiche.

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Nella Chiesa e nel mondo



Iraq. Mons. Nona: cristiani e musulmani in fuga da Mosul

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La situazione "è molto difficile", per prima cosa "è urgente aiutare questa gente che è fuggita" dalla città, perché "entro due o tre giorni" le scorte di cibo e acqua saranno finite e "generi alimentari e beni di prima necessità" risulteranno introvabili. È il drammatico appello, rilanciato attraverso l'agenzia AsiaNews, di mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, nel nord dell'Iraq.

Nelle ultime ore la città di quasi tre milioni di abitanti è piombata nel caos, in seguito all'irruzione di centinaia di guerriglieri islamici che hanno assunto il controllo di ampie porzioni di territorio. I miliziani non hanno incontrato resistenze lungo il percorso, perché esercito e forze di polizia - seppur presenti in massa - hanno abbandonato armi e postazioni, gettando le divise e mescolandosi alla folla. "Drammatica" la situazione della minoranza cristiana, in una diocesi che già in passato ha pianto la morte violenta di fedeli e pastori, fra cui il precedente vescovo mons. Faraj Rahho (nel contesto di un sequestro) e di padre Ragheed Ganni.

Secondo le ultime testimonianze, sarebbero almeno 500mila le persone che hanno abbandonato la città, situata circa 360 km a nord-ovest di Baghdad e secondo centro per importanza di tutto l'Iraq, in un'area strategica per l'estrazione di petrolio e gas naturale.  

Raggiunto da AsiaNews, mons. Nona parla di una realtà "molto difficile", acuita dal vero e proprio abbandono di massa "di esercito e polizia che hanno lasciato all'improvviso la città". Il prelato si trova in una cittadina distante tre chilometri da Mosul, "che è sempre parte della mia diocesi, che non intendo abbandonare" aggiunge. "La gente ha avuto molta paura - racconta - i cristiani sono quasi tutti scappati via, anche molti musulmani hanno lasciato le loro case. Una città di quasi tre milioni è ora quasi svuotata, tantissimi sono fuggiti". 

Il vescovo racconta che i miliziani "sono entrati in città senza nemmeno il bisogno di combattere", anche se esercito e polizia erano presenti in massa prima dell'invasione; egli descrive come "molto strano" l'atteggiamento dei militari, che "hanno lasciato tutto il campo libero senza nemmeno un timido tentativo di difesa". Per questo, aggiunge, "la gente ha avuto paura e ha iniziato a fuggire". 

La situazione è "particolarmente difficile" per i cristiani: le famiglie, i sacerdoti, le suore, sono andati via tutti e le chiese sono ormai chiuse. In molti hanno cercato rifugio nel Kurdistan, altri nella piana di Ninive e "questo è il risultato di una politica di progressivo abbandono". A differenza degli anni passati, del 2008, continua mons. Nona, oggi non ci sono ong ed enti umanitari pronti a soccorrere la popolazione, i profughi. Oggi "non c'è nessuno" e gli abitanti di questi paesi "sentono la fatica di dover accogliere altra gente, presto mancheranno cibo e acqua, non è possibile accogliere tutti...".

Il prelato caldeo auspica "una soluzione vera e duratura della crisi irakena", un progetto di lungo periodo "per una nazione divisa fra gruppi religiosi, politici, etnie"; serve uno "Stato forte", conclude, che "metta fine a uccisioni e violenze... Il popolo irakeno è buono, merita una visione comune e una soluzione che sia fonte di pace". (R.P.)

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Usa: i minori centramericani costretti al rimpatrio

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Il Pentagono ha annunciato che ospiterà 1.800 bambini privi di documenti arrivati da soli negli Stati Uniti, soprattutto provenienti dall’America Centrale, perché il loro numero ha superato la capacità di accoglienza dei Centri adibiti a questo scopo e hanno creato una autentica "crisi umanitaria". Secondo una nota pervenuta all'agenzia Fides, il governo si sta muovendo con urgenza e sta spostando i minori in tre basi militari e in un Centro di detenzione federale, per evitare il sovraffollamento delle strutture dell'Ufficio Doganale e Protezione di Frontiera (Cbp), le cui strutture sono già al limite.

Il numero di bambini e ragazzi che rischiano la vita per attraversare il Centro America e arrivare agli Stati Uniti è raddoppiato ogni anno a partire dal 2011, quando non superavano i 7.000. Le autorità federali hanno rilevato un aumento drammatico dell'ingresso illegale di minori non accompagnati (molti dei quali sotto i 12 anni) e per il 2014 stimano che si arriverà al record di oltre 60.000 ragazzi privi di documenti. 

Dinanzi a questa emergenza, le autorità federali di Nogales (Arizona) hanno già spostato più di un migliaio di ragazzi dalle celle della Cbp ai locali della Polizia di frontiera. Il console onorario dell’Honduras in Arizona, Tony Banegas, ha visitato le strutture allestite per i ragazzi a Nogales e ha commentato: "E' un vero dramma. Sono in una cantina, dormono in contenitori di plastica con una coperta termica come quelle di carta-alluminio. Hanno detto che sperano di avere presto dei materassi ... usano servizi igienici portatili". Il Console, sempre secondo la nota, ha voluto incontrare ognuno dei 236 bambini honduregni presenti nel Centro temporaneo, che è "circondato da filo spinato", e a cui sono arrivati dopo essere rimasti tra i 10 e gli 11 giorni in Texas. 

Suor Valdett Willeman, delle missionarie Scalabriniane, che vive la sua missione cercando di assicurare ai migranti di ritorno in Honduras una sistemazione nel Paese, è l'attuale direttrice del Centro d'Assistenza per i Migranti Ritornati (Camr). In una nota inviata a Fides, la religiosa precisa che solo nel mese di maggio sono stati più di 100 i bambini rimpatriati per via aerea, senza contare coloro che rientrano via terra. Finora, solo in questo primo periodo del 2014, si contano oltre 3.000 bambini rimpatriati, ma negli ultimi anni il loro numero supera i 15.000. (R.P.)

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Quebec: adottata legge sul fine-vita. Delusione dei vescovi

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“Profonda delusione e viva preoccupazione”: sono i sentimenti espressi da Pierre-André Fournier, presidente dell’Assemblea dei vescovi cattolici del Québec. Il presule commenta così, in una nota, l’adozione della legge 52, denominata “Sostegno alla morte” che permette di praticare un’iniezione letale su un adulto “in fin di vita” e provato da “sofferenze insopportabili”. 

“La ripartizione dei voti dell’Assemblea nazionale – afferma il presule – ovvero 94 a favore e 22 contrari, riflette l’assenza del consenso della società su tale argomento”, perché “sono numerosi i cittadini che non possono accettare il fatto di considerare un diritto la possibilità di richiedere un’iniezione letale”. Quindi, mons. Fournier sottolinea di “comprendere l’angoscia e la pena di tutti coloro che hanno sentito un loro caro invocare la morte durante una difficile agonia”, ma ricorda che “la vera risposta della società e della medicina a questa situazione sono le cure palliative”, in quanto esse rappresentano “il modo migliore per alleviare la sofferenza di una persona in fin di vita e per aiutarla a vivere questa ultima fase con umanità e dignità”.

Il presidente dei vescovi del Québec esprime, per questo, “solidarietà e sostegno a tutti coloro che operano nell’ambito delle cure palliative”, auspicando che tali medicamenti “vengano offerti quanto prima in tutte le regioni del Québec”. Al personale medico che si dovesse trovare di fronte a richieste di eutanasia, mons. Fournier augura “forza e coraggio per appellarsi, in tali momenti, al diritto all’obiezione di coscienza”. Infine, il presule ricorda “la profonda convinzione, personale e della Chiesa, che la vita umana debba essere protetta e rispettata fino alla fine naturale” e che “l’eutanasia, anche se legalizzata, è totalmente contraria alla dignità della vita e della persona”. (A cura di Isabella Piro)

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Nigeria. I vescovi: “Garantire i diritti di ogni religione”

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“La religione è una potente forza sociale, che però può essere utilizzata sia per il bene che per il male. Il ruolo che il sistema politico assegna alla religione ha molto a che fare con l’impatto che può avere sulla nazione, nel bene o male” affermano i vescovi della Nigeria in una dichiarazione intitolata “Religione e Stato in Nigeria”.

I vescovi affermano: "il nostro problema sembra essere come riconciliare i due principi, apparentemente contrastanti, iscritti nella nostra Costituzione, e cioè: (a) che la Nigeria è una nazione sotto un solo Dio”; (b) che non ci sarà alcuna religione di Stato in Nigeria, sia a livello federale che di singolo Stato (art. 10 della nostra Costituzione)”. 

Nel messaggio ripreso dall'agenzia Fides, si sottolinea che l’adozione dell’Islam come religione di Stato in alcune aree del nord della Nigeria, sia pure in via non ufficiale, attraverso le politiche sostenute dai governi locali, crea un conflitto con l’art. 10 della Costituzione nigeriana, e si traduce nella discriminazione delle altre religioni a iniziare dal cristianesimo, in particolare in materia di diritto per l’acquisto dei terreni sui quali costruire nuove chiese e luoghi di culto, e la mancata sponsorizzazione dei pellegrinaggi sia a livello di governo federale che locale. (R.P.)

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Irlanda: plauso dei vescovi per inchiesta case di accoglienza

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Dopo la tragica scoperta di una “fossa comune” a Tuam, nella contea irlandese di Galway dove sono stati rinvenuti i corpi di 796 bimbi, il governo irlandese ha annunciato la decisione di aprire un’inchiesta sulle case gestite soprattutto da istituzioni religiose per ospitare le ragazze madri. La Commissione speciale d’indagine - riferisce l'agenzia Sir - esaminerà gli elevati tassi di mortalità che si sono registrati nelle case di accoglienza nei decenni del XX secolo, le pratiche di sepoltura che si sono utilizzate e anche le adozioni segrete e illegali e le sperimentazioni di vaccini sui bambini. Si stima che siano state circa 35.000 le ragazze madri accolte in una delle 10 case gestite da ordini religiosi in Irlanda. L’inchiesta è stata decisa dopo la macabra scoperta avvenuta appunto in una casa, gestita dalle suore del Bon Secours a Tuam.

Dal canto loro i vescovi irlandesi hanno accolto “con favore” l’annuncio dato ieri dal governo. “Il racconto straziante che continua a emergere sulla vita e sulla morte di madri e bambini nelle case, ha sconvolto il popolo d’Irlanda. È inquietante che i residenti di queste case abbiano sofferto sproporzionatamente alti livelli di mortalità e malnutrizione, malattie e miseria”.

Nel loro secondo giorno di Assemblea plenaria che si sta svolgendo in questi giorni, i vescovi hanno deciso di rivolgere una dichiarazione scritta alla popolazione in cui esprimono pubblicamente un vero e proprio “mea culpa”: “Purtroppo - scrivono i vescovi - ci viene ricordato di un tempo in cui le madri non sposate erano spesso giudicate, stigmatizzate e rifiutate dalla società, compresa la Chiesa. Questa cultura d’isolamento e ostracismo sociale era dura e spietata mentre il Vangelo ci chiama a trattare tutti, in particolare i bambini e le persone più vulnerabili, con dignità, amore, compassione e misericordia. Dobbiamo garantire che tutti i bambini e le loro madri si sentano sempre voluti, accolti e amati”. Per questo motivo, i vescovi sostengono la decisione di avviare una Commissione d’inchiesta: “Abbiamo bisogno di saperne di più su ciò che è accaduto in questo periodo della nostra storia sociale”. 

“Soprattutto - aggiungono i vescovi - dobbiamo rivolgerci a coloro che sono stati direttamente interessati perché ricevano il riconoscimento e il sostegno adeguato”. I vescovi danno pertanto tutto il loro pieno appoggio all’inchiesta che - dicono - “dovrebbe indagare come sono state finanziate queste case e, soprattutto, come sono state organizzate, trattate e seguite le adozioni”. Per facilitare l’inchiesta, i vescovi invitano “tutti coloro che hanno avuto responsabilità nella costituzione, esecuzione o vigilanza nelle case o agenzie di adozione di presentare ogni documento o informazione che possa essere di aiuto. Noi continueremo a lavorare a livello locale per garantire che i siti di sepoltura siano opportunamente contrassegnati in modo che il defunto e le loro famiglie siano riconosciute con dignità e mai essere dimenticati”. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 162

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.