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Sommario del 03/06/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa: Gesù prega per noi il Padre mostrandogli le piaghe
  • Mons. Nazzareno Marconi nuovo vescovo di Macerata
  • Papa, tweet: grazie agli insegnanti: educare è missione importante, avvicina i giovani a bene, bello e vero
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Rapito direttore Jrs in Afghanistan: no a speculazioni
  • Al via le presidenziali in Siria. Oppositori: una farsa
  • Basta stupri di guerra. Una tavola rotonda alla Radio Vaticana
  • Cina: 25 anni fa le lotte per la libertà in Piazza Tienanmen
  • Unione Africana: Mai più spose bambine
  • Mons. Padovese, 4 anni dopo la morte una testimonianza viva
  • Una messa per San Giovanni XXIII a 51 anni dalla sua morte
  • Lasalliani: apriamo scuole per poveri e immigrati
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Palestina: insediato il nuovo governo di unità nazionale
  • Belgio: la Chiesa presenta codice di condotta contro gli abusi
  • Comece: analisi sul voto europeo e futuro dell'integrazione
  • Vescovi indiani: la Chiesa sosterrà il nuovo Stato di Telangana
  • Indonesia: a West Java le autorità sequestrano 7 chiese protestanti
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa: Gesù prega per noi il Padre mostrandogli le piaghe

    ◊   Gesù prega per ognuno di noi, mostrando al Padre le sue piaghe. E’ uno dei passaggi forti dell’omelia di Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha sottolineato che Gesù è il nostro avvocato che ci difende, anche se siamo colpevoli e abbiamo commesso tanti peccati. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Il congedo di Gesù, il congedo di San Paolo. Le letture del giorno hanno offerto a Papa Francesco un’occasione per soffermarsi sulla preghiera di intercessione. Quando Paolo se ne va da Mileto, ha osservato, sono tutti tristi e così era accaduto ai discepoli quando Gesù aveva pronunciato il discorso di congedo prima di “andare al Getsemani e incominciare la Passione”. Il Signore, ha proseguito, li consola, e “c’è una piccola frase del congedo di Gesù che fa pensare”. Gesù, ha rammentato il Papa, “parla con il Padre, in questo discorso, e dice: ‘Io prego per loro’. Gesù prega per noi”. Come aveva pregato per Pietro e per Lazzaro davanti alla tomba. Gesù ci dice: “Tutti voi siete del Padre. E io prego per voi davanti al Padre”. Gesù non prega per il mondo, “prega per noi”, “prega per la sua Chiesa”:

    “L’apostolo Giovanni, pensando a queste cose e parlando di noi che siamo tanto peccatori, dice: ‘Non peccate, ma se qualcuno di voi pecca, sapete che abbiamo un avvocato davanti al Padre, uno che prega per noi, ci difende davanti al Padre, ci giustifica’. Credo che dobbiamo pensare tanto a questa verità, a questa realtà: in questo momento, Gesù sta pregando per me. Io posso andare avanti nella vita perché ho un avvocato che mi difende e se io sono colpevole e ho tanti peccati… è un buon avvocato difensore, questo, e parlerà al Padre di me”.

    “Lui – ha detto – è il primo” avvocato che invia poi il Paraclito. Quando noi in parrocchia, a casa, in famiglia “abbiamo qualche necessità, qualche problema”, ha soggiunto, dobbiamo chiedere a Gesù di pregare per noi. “E oggi come prega Gesù? Io – ha affermato Francesco – credo che non parli troppo con il Padre”:

    “Non parla: ama. Ma c’è una cosa che Gesù fa, oggi, sono sicuro che la faccia. Gli fa vedere al Padre le sue piaghe e Gesù, con le sue piaghe, prega per noi come se dicesse al Padre: 'Ma, Padre, questo è il prezzo di questi! Aiutali, proteggili. Sono i tuoi figli che io ho salvato, con questo’. Al contrario, non si capisce perché Gesù dopo la Risurrezione ha avuto questo corpo glorioso, bellissimo – non c’erano i lividi, non c’erano le ferite della flagellazione, tutto bello – ma c’erano le piaghe. Le cinque piaghe. Perché Gesù ha voluto portarle in cielo? Perché? Per pregare per noi. Per fare vedere al Padre il prezzo: ‘Questo è il prezzo, adesso non lasciarli da soli. Aiutali’”.

    “Noi dobbiamo avere questa fede – ha ripreso Papa Francesco – che Gesù in questo momento intercede davanti al Padre per noi, per ognuno di noi”. E quando noi preghiamo, è stata la sua esortazione, non dobbiamo dimenticare di chiedere a Gesù di pregare per noi:

    “‘Gesù, prega per me. Fai vedere al Padre le tue piaghe che sono anche le mie, sono le piaghe del mio peccato. Sono le piaghe del mio problema in questo momento’. Gesù intercessore soltanto fa vedere al Padre le sue piaghe. E questo succede oggi, in questo momento. Prendiamo la parola che Gesù ha detto a Pietro: ‘Pietro, io pregherò per te perché la tua fede non venga meno’”.

    “Siamo sicuri – ha ribadito – che Lui sta facendo questo per ognuno di noi”. Dobbiamo avere fiducia, ha concluso, “in questa preghiera di Gesù con le sue piaghe davanti al Padre”.

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    Mons. Nazzareno Marconi nuovo vescovo di Macerata

    ◊   Nelle Filippine, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Talibon, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Christian Vicente F. Noel. Al suo posto, il Papa ha nominato il sacerdote Daniel Patrick Y. Parcon, del clero della diocesi di San Carlos, finora eettore del St. John Maria Vianney seminary di San Carlos City. Mons. Parcon è nato a Vallehermoso, Negros Oriental, nella diocesi di San Carlos, il 24 novembre 1962. Ha compiuto gli studi filosofici presso il St. Joseph College seminary di Dumaguete City e quelli teologici al St. Joseph Regional seminary di Jaro, Iloilo City. Successivamente ha conseguito un Master of Art in Educational Management al Collegio de S.ta Rita a San Carlos City e, nel 2007, il Master of Art in Religious Education alla Fordham University di Bronx, New York City negli U.S.A. È stato ordinato sacerdote, per la diocesi di San Carlos, il 29 aprile 1994 alla St. Joseph parish di Canlaon City, Negros Oriental. In seguito è stato, dal 1994 al 2000, Direttore spirituale e Decano degli studi al St. John Mary philosophy seminary a San Carlos City. Trasferitosi negli Stati Uniti per studio, ha svolto gli incarichi di: Amministratore parrocchiale all'Ascension Church, Hurricane, West Virginia (2001); Amministratore parrocchiale all'Immaculate Conception Church, Liberty, Texas (2002-2004) ed infine Vicario parrocchiale alla Blessed Sacrament Church, Valley Stream, New York (2004-2007). Tornato in patria, dal 2007 è Rettore del St John Mary Philosophy seminary di San Carlos City ed Incaricato del Marriage and Family Life Apostolate nella diocesi di San Carlos. Durante la recente sede vacante di quella chiesa locale (2011-2013) è stato Amministratore diocesano.

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    Papa, tweet: grazie agli insegnanti: educare è missione importante, avvicina i giovani a bene, bello e vero

    ◊   Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Grazie a tutti gli insegnanti: educare è una missione importante, che avvicina tanti giovani al bene, al bello, al vero”.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Un buon avvocato: Messa del Papa a Santa Marta.

    Guida del rinnovamento: Piergiordano Cabra su Paolo VI e la vita consacrata.

    Settant'anni fa, il 4 giugno 1944, la liberazione di Roma: Giulia Galeotti su donne che difendono e donne difese, l'omaggio dell'Osservatore Romano del 7 giugno a Pio XII, Defensor civitatis, e Pietro Scoppola sull'elogio della burocrazia.

    "Compassione obbligatoria": Oddone Camerana sull'alibi del vittimismo.

    Antonio Paolucci illustra la denuncia sociale tra inferno e paradiso nel "Giudizio universale" di Sant'Agata dei Goti.

    Un articolo di Gabriele Nicolò dal titolo "I talebani e il dopo Karzai".

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    Oggi in Primo Piano



    Rapito direttore Jrs in Afghanistan: no a speculazioni

    ◊   Padre Alexis Prem Kumar, in Afghanistan da 4 anni come direttore della sezione locale del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jrs -Jesuit Refugee Services), è stato rapito ieri pomeriggio a 5 km da Herat. La conferma dal portavoce del Ministero afghano degli Affari esteri, che assicura piena collaborazione nelle ricerche. Silenzio e riservatezza per garantire quanti lavorano sul territorio chiede il Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, che sgombra il campo dalle ipotesi fatte finora dalla stampa a partire dalla dinamica del rapimento. Gabriella Ceraso ha intervistato James Stapleton, direttore comunicazioni dell'organismo cattolico:

    R. – Il direttore Prem Kumar stava facendo una visita, come fa periodicamente, ai progetti di Jrs vicino a Herat, nella mattina di ieri. Aveva appena finito la visita, stava uscendo ed è stato sequestrato. Non abbiamo molte informazioni. L’unica cosa che sappiamo è che non è stata usata violenza, che queste persone sono arrivate e l’hanno preso. In questo momento siamo in contatto con tutte le autorità competenti. I progetti sono stati sospesi per ragioni di sicurezza, sia per gli sfollati sia per le persone che lavorano con il Jrs. Vedremo.

    D. – Sono circolate sulla stampa ipotesi che legano quanto accaduto a precedenti atti di violenza intorno al Consolato indiano: che ne pensate?

    R. – In realtà, non lo sappiamo e non vorremmo fare speculazioni senza informazione concrete. La speculazione non aiuta nessuno.

    D. – Il direttore era in Afghanistan, ma era stato anche già in Sri Lanka e in altre parti del mondo?

    R. – In passato, aveva incominciato a lavorare per noi dieci anni fa, nel sud dell’India, nel Tamil Nadu, con i rifugiati dallo Sri Lanka. Precedentemente, la nostra presenza voleva aiutare i rifugiati nel rafforzare la formazione.

    D. – Quanti progetti e che cosa, nello specifico, fanno i Gesuiti nella zona?

    R. – Abbiamo tre tipi di progetti in Afghanistan e sono progetti di formazione a vari livelli. C’è la formazione professionale, la formazione tecnica e la formazione primaria e secondaria. Il focus è sostanzialmente sulla formazione dei professori. Sono circa 7 mila le persone che beneficiano di questi progetti.

    D. – Il vostro auspicio e anche le vostre speranze, in questo momento quali sono?

    R. – Faremo quello che ci dicono di fare e speriamo che Padre Kumar sia liberato il più presto possibile, sano e salvo, e che possiamo continuare a fare bene quello che stiamo facendo: aiutare i rifugiati.

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    Al via le presidenziali in Siria. Oppositori: una farsa

    ◊   Urne aperte in Siria per presidenziali indette dal regime e bollate da gran parte dell’opposizione come una “farsa”. Scontata la conferma di Assad. Le consultazioni si tengono nelle sole aree sotto il controllo dei militari. Intanto, la Croce Rossa lancia un nuovo allarme. Il servizio di Massimiliano Menichetti:

    La Siria è al voto per scegliere il nuovo presidente. Il dimissionario e favorito Bashar al-Assad ha già espresso la sua preferenza nel seggio del quartiere “Malki” nel centro della capitale Damasco. Due gli sfidanti, di secondo piano politico legati all’opposizione: Hassan al-Nouri e Maher Hajjar. L’affluenza alle urne è iniziata dalle sette di questa mattina, i seggi chiuderanno dopo dodici ore. Secondo i dati ufficiali, gli elettori sono 15,8 milioni, ma in base ai numeri delle Nazioni Unite, circa il 40% della popolazione, che prima della guerra era pari a 22,4 milioni, è fuggita. Elezioni definite una “farsa” da gran parte dell’opposizione. Sul terren, intanto, non si fermano gli scontri che in tre anni di conflitto hanno mietuto oltre 160 mila morti. Per le presidenziali, si voterà nelle sole aree sotto il controllo del regime. Intanto, la Croce Rossa internazionale lancia un nuovo allarme ribadendo che i combattimenti tra esercito e oppositori continuano a impedire agli operatori umanitari di raggiungere decine di migliaia di persone che non hanno acqua o cibo. Il Paese rimane spaccato: Le forze di Assad, sostenute dagli alleati, tra cui l'Iran ed Hezbollah, controllano la parte centrale, mentre i ribelli e i jihadisti arrivati anche dall'estero hanno preso il dominio di vaste aree nel nord e nel settore orientale.

    Per un'analisi sulle consultazioni in Siria abbiamo raccolto il commento di Pietro Batacchi, direttore di Rivista italiana Difesa:

    R. – Il regime nell’ultimo anno-anno e mezzo ha ripreso il controllo di gran parte del Paese, soprattutto della parte centromeridionale del Paese, che è quella più importante da un punto di vista strategico: il regime oggi controlla saldamente Damasco, controlla Homs, un’altra grande città siriana, controlla la fascia costiera, che è la roccaforte alawita, e in generale sta riguadagnando molto terreno anche nell’altra grande città siriana, ovvero Aleppo. Per cui, se guardiamo a queste elezioni secondo la cultura delle nostre liberaldemocrazie di massa, ovvero un esercizio del voto democratico, chiaramente ho un giudizio negativo su queste elezioni, che di fatto sono un plebiscito per il presidente in carica. Però, a queste elezioni bisogna guardare in una luce diversa: quella di un Paese che, nonostante tre anni di una guerra civile di una ferocia inaudita, nonostante questo, in alcune parti può condurre le elezioni: c’è una macchina amministrativa che in alcune parti del Paese funziona ancora, c’è una struttura istituzionale che, nonostante questi tre anni di guerra civile, non è assolutamente collassata, come è accaduto invece ad altri Paesi interessati dal fenomeno della cosiddetta "primavera araba", uno per tutti la Libia.

    D. – Uno dei dati è quello che si è potuto esprimere il voto soltanto nelle aree controllate dal regime…

    R. – Sì. La Siria non è un Paese in pace, non è un Paese che deve affrontare una situazione di instabilità, di insicurezza, è un Paese in guerra. Nonostante ciò, in alcune parti del Paese, la macchina amministrativa del regime riesce a mettere insieme quella che certamente è una farsa, una parodia, però dà l’idea di uno Stato che comunque c’è e che comunque funziona da un punto di vista amministrativo. E questo è un fattore molto importante, che anche gli osservatori delle esigenti democrazie occidentali dovrebbero vedere.

    D. – Il conflitto, comunque, continua…

    R. – Io ho la sensazione che questo sia un conflitto destinato a durare per la sua portata, per le implicazioni, per il numero di attori anche esterni coinvolti. Abbiamo sotto gli occhi di tutto il ruolo che stanno giocando gli hezbollah, che sta giocando l’Iran, che stanno giocando nella parte avversa le monarchie del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, il ruolo giocato dal Qatar, che in qualche misura è antitetico a quello dell’Arabia Saudita… Per cui, ho la sensazione che si continui, purtroppo, ancora per molto tempo.

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    Basta stupri di guerra. Una tavola rotonda alla Radio Vaticana

    ◊   Basta stupri di guerra. E’ questo il grido di donne e bambine abusate, ed è il grido del mondo intero che intende mettere fine a questa barbarie. “Porre fine alle violenze sessuali nei conflitti. E’ tempo di agire” è il titolo della tavola rotonda organizzata dalla Radio Vaticana e dall’Ambasciata britannica, andata in onda questa mattina sul Canale You Tube Vaticano alla vigilia del Global Summit dedicato a questa tragedia, in programa a Londra dal 10 al 13 giugno prossimi. A prendere parte alla tavola rotonda di oggi molti ospiti: tra loro Michel Roy, segretario generale della Caritas Internationalis. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:

    R. – In molti conflitti di oggi, che sono un numero minore rispetto al passato, si utilizza questo tipo di tattica di guerra. Penso che gli strateghi delle guerre abbiano capito si tratti di un’arma molto efficace, di distruzione della resistenza delle popolazioni. Quando si stupra una donna in pubblico, di fronte al marito, ai figli e ai vicini e se ne violenta una dopo l’altra, allora il villaggio, la comunità, ne risulta completamente distrutta. Adesso, nel conflitto in Sud Sudan, per esempio, sono decine di migliaia le donne colpite. In Colombia, dove si vive un conflitto decennale, continua questa pratica. E così avviene anche nella guerra in Birmania. Sappiamo che si tratta di una cosa antica, ma adesso il fenomeno si sta amplificando. Come è possibile che gli uomini, perché sono tutti uomini, abbiano questa bestialità e aggrediscano le donne, qualunque sia la loro età, giovani o nonne, e alcune volte anche uomini, ragazzi? E’ una questione morale fondamentale. E’ un fenomeno di massa, una strategia.

    D. – E’ una "tecnica" per poter in questo modo distruggere le persone, e le comunità intere...

    R. – Sì, assolutamente. Sono sicuro si trattii di una tattica di guerra. Il risultato è la disumanizzazione, la distruzione delle famiglie, delle comunità. Ma vediamo che la gente, nonostante tutto, sopravvive e che c’è una energia interiore in tante persone a tal punto da poter recuperare e cambiare le cose. Ci sono molte dichiarazioni, risoluzioni, convenzioni... Ma concretamente, sul terreno, quando la gente armata delle milizie, non controllate da alcun governo, mette in atto questa barbarie è impossibile applicare una qualsiasi convenzione. La giustizia non funziona bene. Spero che questo Summit, questa riunione a Londra, possa portare ad una soluzione a livello più internazionale.

    D. – Londra, secondo lei, potrà essere il primo passo per tramutare in azioni concrete le dichiarazioni di intenti che ci sono state fino adesso?

    R. – Lo speriamo molto, ma tanti anni sono passati da quando si è rivelata questa tragedia. Ci sono cose concrete che si possono decidere ed applicare, ma spero che Londra appoggerà la cosa più efficace: il lavoro fatto localmente. La soluzione è ricostruire le comunità a partire dalle stesse vittime, dalle donne, perché sono loro che possono ritrovare l’energia di essere forza di vita in loco. Cominciano così per guarire dal trauma e dopo prendono le iniziative tra di loro, cambiando in meglio la loro vita. E’ questa la soluzione: questi gruppi di donne, principalmente, possono ridare una nuova vita alla comunità.

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    Cina: 25 anni fa le lotte per la libertà in Piazza Tienanmen

    ◊   Venticinque anni fa, in questi giorni, si svolgeva la protesta di Piazza Tienanmen, a Pechino, duramente repressa dalle autorità della Repubblica Popolare Cinese. Ma le istanze di libertà, di tutela dei diritti umani e di miglioramento sociale, espresse allora dai cittadini, non sono rimaste lettera morta. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Cecilia Brighi, autrice del volume “L’imperatore e l’elettricista – Tien an Men e i giorni del coraggio”, edito da Dalai Editore:

    R. – Tienanmen è stata una rivolta popolare di giovani studenti, ma anche di lavoratori scesi in piazza per chiedere democrazia, libertà, lotta alla corruzione. Quindi, un profondo cambiamento della Cina e un’apertura verso il rispetto dei diritti umani.

    D. – In questi anni la leadership della Repubblica Popolare ha avuto modo di meditare su quegli episodi e modificare il suo modo di essere?

    R. – Per quanto riguarda i diritti umani, assolutamente no. C’è stata una grande apertura sul piano economico e questo lo vediamo tutti. C’è stato anche un impegno nei confronti della lotta alla povertà, alle divaricazioni economiche, che in Cina però rimangono profonde. Ma sulla questione dei diritti umani, la vicenda di Tienanmen è rimasta nascosta: ci sono molti giovani di oggi che neanche sanno cosa sia successo a Piazza Tienanmen. Nonostante la repressione, la cancellazione di quei fatti dalla storia e il non aver mai riconosciuto gli errori che sono stati fatti a Tienanmen, oggi abbiamo una ripresa delle mobilitazioni, sia per quanto riguarda i diritti umani, sia la violazione di altri diritti sociali, come per esempio la confisca delle terre, il degrado ambientale, gli abusi di potere... Credo ci siano dalle 300 alle 500 proteste al giorno in tutta la Cina, soprattutto nei luoghi di lavoro e soprattutto nelle concentrazioni industriali del Guangdong, ma non solo.

    D. – E’ possibile oggi fare luce sulle ombre lasciate dagli episodi di Piazza Tienanmen a livello di giustizia, anche sociale?

    R. – C’è un attivismo sociale e politico che vuole che questi fatti non siano dimenticati. Ci sono migliaia di attivisti politici che sono sotto la scure della repressione. C’è una censura molto forte per quanto riguarda Internet, perché ormai – nonostante tutto – con i telefonini e con i microblog le proposte e le manifestazioni contro la discriminazione, contro la repressione, contro la confisca delle terre girano in tutto il Paese.

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    Unione Africana: Mai più spose bambine

    ◊   Mai più spose bambine. E’ la campagna lanciata dall’Unione Africana che mira a contrastare il fenomeno dei matrimoni in età precoce. Ogni anno nel mondo 14 milioni di ragazze sono costrette a sposarsi. Molte di loro vivono in Africa in particolare in Niger, Ciad e Nigeria. Maria Gabriella Lanza ha intervistato Vincent Idele, presidente dell’Unione Africana Italia:

    R. – E’ una brutta situazione, quando vedi una bambina che ha poco più di 12 anni costretta a sposare un uomo a volte più vecchio del loro papà. Per questo stiamo chiedendo, stiamo facendo un appello perché questo venga fermato. Fin da quando nascono, le bambine sono già promesse a un uomo e appena la bambina è un po’ cresciuta, l’uomo può venire a prendersela. Si mettono d’accordo… Quindi, l’uomo deve solo aspettare. Nella maggior parte dei casi, vanno via all’età di 12, 13 anni.

    D. – Ogni anno, circa 14 milioni di ragazze sono costrette a sposarsi: cosa si può fare per queste bambine?

    R. – Stiamo chiedendo una legge internazionale, stiamo provando a fare tutto quello che è possibile fare. L’appello chiede che nessun Paese del mondo possa fare quello che vuole con i loro cittadini, e che questi genitori non abbiano più il diritto di far sposare i loro figli.

    D. – Quali sono, in particolare, i Paesi dell’Africa nei quali ci sono più spose-bambine?

    R. – Succede in quasi tutti i Paesi, in particolare quelli nei quali vivono i musulmani. Anche in Nigeria, in Congo, in Zimbabwe… E quando succede, i giornalisti non ne parlano. E poi c’è la corruzione, non si informa su questo fatto... Quello che noi vogliamo è che siano tutelati i diritti delle bambine, che possano avere una vita tranquilla.Vogliamo che queste donne-bambine vengano protette in tutto il mondo.

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    Mons. Padovese, 4 anni dopo la morte una testimonianza viva

    ◊   Ricorre oggi il quarto anniversario dell’uccisione ad Iskenderun, in Turchia, di mons. Luigi Padovese, vicario Apostolico dell’Anatolia, per mano del suo autista affetto da disturbi psichici. Per una testimonianza sulla figura del presule, Antonella Palermo ha intervistato il padre cappuccino Paolo Raffaele Pugliese, che ha vissuto in Turchia per quattro anni dal 2009:

    R. – Io mi trovavo a Izmir, l’antica Smirne, ed ero lì con un confratello. Verso le 3 del pomeriggio ci telefonarono per darci questa notizia terrificante, che ci lasciò decisamente a pezzi. Noi avevamo visto Padovese da poco: ad aprile, infatti, aveva avuto questa idea di organizzare un incontro di una settimana per tutti i religiosi della Turchia. Era stata un’occasione molto bella, della quale lui era stato l’ideatore e il promotore. E poi, quattro anni fa, il 3 giugno era un giovedì e la domenica ci saremmo dovuti rivedere, noi Cappuccini e lui, proprio per una settimana di esercizi, di riflessioni guidate da lui. Questo per farvi capire la prossimità che vivevamo.

    D. – In quattro anni, secondo la sua esperienza, cosa si è mosso sul fronte del dialogo interreligioso nel Paese?

    R. – Ci sono dei segni che pian piano germogliano e credo ci siano anche delle sensibilità che stanno maturando. Credo, spero, che anche questi eventi un po’ più faticosi da digerire possano pian pianino essere dei semi, dei germogli. Da un punto di vista ecumenico, per esempio – adesso dirò una cosa semplice – al funerale di mons. Padovese c’erano un po’ tutti i cristiani della zona. Cioè tutte le confessioni – protestanti e ortodosse – erano presenti: in seguito a un evento così drammatico ci si compatta tutti. Ed erano presenti non solo le varie confessioni cristiane, ma anche i mufti della zona. Coltivare inoltre la memoria di questi eventi, aiuta a mantenere la compattezza.

    D. – Mons. Padovese auspicava uno sforzo comune per un maggior rispetto, frutto di una chiarificazione di pensiero e di approfondita conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani...

    R. – C’è un fatto che credo sia molto importante: prima di ogni parola, ci sono coloro che danno quella parola, no? Prima di un dialogo teologico c’è una convivenza di persone, che eventualmente possono fare questo dialogo e quella convivenza è in sé portatrice di un significato molto profondo. La terra turca è stata per centinaia di anni una terra che ha ospitato tante confessioni cristiane, anche antichissime. Questo, per dire come la Turchia porti ancora con sé un tesoro molto grande.

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    Una messa per San Giovanni XXIII a 51 anni dalla sua morte

    ◊   San Giovanni XXIII guida i passi della comunità di Sotto il Monte e il suo paese natale lo ricorda con una Messa di ringraziamento nel giorno del 51.mo anniversario della sua morte. Si tratta della prima ricorrenza successiva alla canonizzazione dello scorso 27 aprile. La celebrazione vedrà presenti, fra gli altri, il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, Sullo spirito che sta animando questa giornata, Gianmichele Laino ha intervistato mons. Claudio Dolcini, parroco di Sotto il Monte:

    R. – Lo spirito sarà senz’altro di riconoscenza al Signore per la Chiesa, che è rappresentata da Papa Francesco, per questo dono della canonizzazione. Sono stati invitati, oltre all’arcivescovo di Milano e al suo predecessore, mons. Dionigi Tettamanzi, anche tutti i vescovi delle diocesi della Lombardia. Ha quindi un carattere di riconoscimento di questa santità, che coinvolge anche le diocesi attorno. Sarà un momento di grande festa per la comunità di Sotto il Monte e per tutta la diocesi di Bergamo, che ha sempre visto in Papa Giovanni un grande esempio di bontà, un grande Pontefice, e che si è riconosciuta un po’ anche nei tratti della spiritualità di Papa Giovanni e ha riconosciuto le radici della propria fede bergamasca.

    D. – Da oggi in poi, la diocesi di Bergamo si appresta a vivere una serie di eventi nel segno e sotto la protezione di San Giovanni XXIII. Qual è il messaggio che si vuole diffondere attraverso questo ricco calendario?

    R. – Sotto il Monte, soprattutto in questi ultimi tre anni, ha lavorato molto affinché questa località, che è sempre stata visitata da numerosi pellegrini, sempre di più possa diventare un luogo di ristoro della fede. Ci piace molto l’espressione di Paolo VI, che parlava dei santuari come "cliniche dello Spirito": e allora il lavoro che stiamo facendo, e anche il futuro, è quello di accogliere sempre meglio i pellegrini, perché il pellegrinaggio sia sempre più un pellegrinaggio e meno turismo, pure se religioso, con la proposta di momenti di catechesi sulla figura di Papa Giovanni e, soprattutto, sul Concilio Vaticano II, con le liturgie sempre più curate, in maniera tale che uno che viene a Sotto il Monte poi porti a casa l’entusiasmo che fu appunto della fede di Papa Giovanni e il desiderio di continuare a camminare nella fede. Per chi magari, invece, ha perso la fede – perché qui vengono molte persone che non hanno più fede – siccome Papa Giovanni ha sempre quel fascino, quella simpatia, si approfitta di questa sua simpatia e si offre un messaggio che possa rinnovare il desiderio di camminare dietro a Cristo.

    D. – Cosa significa per la comunità di Sotto il Monte vivere giorni come questo?

    R. – Sono momenti straordinari e molto strani. Per noi, sono eventi così straordinari che ci sentiamo indegni di questa grande grazia. Ringrazio i pellegrini che vengono qua così numerosi e vengono a fare queste celebrazioni, perché la loro preghiera, unita alla nostra, diventi stimolo per la nostra fede e per la nostra piccola comunità parrocchiale. Sta nascendo questo: uno scambio, per cui noi accogliamo e cerchiamo di compiere opere di misericordia corporale e spirituale per i pellegrini, mentre loro ci lasciano la loro fede.

    D. – Il 27 aprile la Canonizzazione di Papa Giovanni XXIII. A oltre un mese di distanza, cosa resta di quei giorni?

    R. – Rimane un bel ricordo certamente e rimane un gran lavoro, soprattutto della nostra comunità, che ha preparato quell’evento con grande passione, con tanti sforzi, con numerose persone coinvolte. Anche il fatto che ci sia stata la Canonizzazione insieme di Papa Giovanni e di Papa Giovanni Paolo II ha obbligato anche noi ad approfondire di più la figura di Giovanni Paolo II e a mettere al centro, evidentemente, la figura del Concilio. Uno, infatti, – Giovanni XXIII – l’ha avviato e l’altro – Giovanni Paolo II – lo ha tradotto.

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    Lasalliani: apriamo scuole per poveri e immigrati

    ◊   I Fratelli delle scuole cristiane celebrano il loro 45.mo Capitolo generale, un’occasione per fare il punto sulla missione lasalliana nel mondo e rinnovare i vertici della Congregazione. Partecipano provenienti da 32 paesi del mondo sono riuniti a Roma fino all’8 giugno. L’Istituto ha tra i suoi obiettivi l’educazione dei giovani dalle scuole elementari al liceo. Maria Cristina Montagnaro ha chiesto a fratel Alberto Gomez, consigliere generale dei Fratelli lasalliani, quali siano le prossime sfide per il futuro:

    R. – Vogliamo aprire delle scuole per i più bisognosi ed essere vicini agli immigrati: questa è una sfida non soltanto di Fratelli, ma di tutti coloro che condividono la missione con noi. Credo che questa sia la missione della Chiesa.

    D. – Quante scuole avete nel mondo?

    R. – Siamo presenti in 83 Paesi del mondo. Siamo quasi 5 mila fratelli, insieme a 86 mila lavoratori laici. Andiamo verso il milione di alunni. In Francia, i Fratelli non sono più presenti come prima, ma In Europa c’è un grande numero di scuole lasalliane. In tutta Europa: in Spagna, in Francia… Ci dobbiamo spostare in America Latina, per trovare il più grande numero di scuole lasalliane. Siamo presenti anche in Asia e in Africa.

    D. – Il vostro fondatore, San Giovanni Battista de la Salle, aveva come primo obiettivo l’educazione dei giovani. E’ ancora così per voi?

    R. – Le nostre scuole vanno dalla scuola materna al liceo e abbiamo anche 74 università. Ci sono poi alcuni centri di alfabetizzazione per adulti, per immigrati, e anche scuole per i genitori. Ci sono poi in Africa anche i "centri scuole famiglia". E che cos’è una scuola famiglia? Per uno o due anni, tutta la famiglia vive in un centro che diventa come piccolo paese, dove si vive e si impara tutto. E' come se fosse una università della vita…

    D. – Quali sono i valori fondanti dei Fratelli lasalliani nell’educazione dei giovani?

    R. – Negli ultimi anni, abbiamo sviluppato un messaggio centrato su tre parole: la fede, la comunità-fraternità e il servizio. Le nostre iniziali, "Fsc", corrispondono a Fratelli delle scuole cristiane, ma vogliono anche ricordare questi tre valori. La fede religiosa è il fondamento di tutto e insistiamo affinché, qualunque essa sia, possa essere veramente compresa e vissuta in profondità. Tanto a livello di insegnanti come di alunni diamo grande valore alla fratellanza: l’altro è mio fratello e insieme a lui costruiamo un mondo più giusto e solidale e insieme scopriamo che siamo figli di Dio. Quindi, per noi, ogni ragazzo è un fratello. De la Salle ci diceva di educarli con la tenerezza di una madre e la forza di un padre.

    D. – Educate i ragazzi anche attraverso lo sport?

    R. – Come no! Lo sport oggi è veramente qualcosa di importantissimo nella nostra società. I Paesi dell’Oriente, prima dello sport, hanno un tempo per riflettere: la questione non è vincere un nemico, ma – insieme al tuo compagno – crescere.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Palestina: insediato il nuovo governo di unità nazionale

    ◊   E’ costituito da 17 ministri scelti da Fatah e Hamas il nuovo governo di consenso, insediatosi a Ramallah, in Cisgiordania, e a Gaza, dopo settimane di trattative. Alla fine le parti hanno concordato di riconfermare nel suo incarico il ministro degli Esteri Riad al Malki, inizialmente contestato da Hamas.

    “Oggi con la formazione dell’esecutivo di unità nazionale annunciamo la fine della divisione tra palestinesi che ha arrecato grande torto alla causa nazionale” ha dichiarato il presidente Mahmoud Abbas durante la cerimonia di giuramento dei ministri a Ramallah, precisando che si tratta di un esecutivo di “transizione”. Missione prioritaria del gabinetto del primo ministro Rami al Hamdallah – alla guida anche del dicastero dell’Interno – è l’organizzazione delle prossime elezioni presidenziali e legislative.

    Dalla Striscia di Gaza, il primo ministro de facto di Hamas Ismail Haniyeh e il suo gabinetto hanno rassegnato le dimissioni per lasciare il posto al governo di riconciliazione. “E’ finita l’era delle divisioni e si è aperta la porta alla partecipazione di tutti alla politica e al processo decisionale” ha detto Haniyeh, in carica dal 2007.

    Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha già annunciato che non negozierà alcun accordo di pace con il nuovo governo palestinese, esortando la comunità internazionale a “non precipitarsi” per riconoscere un esecutivo sostenuto da Hamas. Nella notte le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso un palestinese a Tapuah, nel nord della Cisgiordania, dopo che l’uomo avesse ferito una guardia di frontiera con un colpo d’arma da fuoco.

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    Belgio: la Chiesa presenta codice di condotta contro gli abusi

    ◊   “Non è sufficiente riconoscere gli errori del passato e accompagnare le vittime. È altrettanto importante fare tutto il possibile perché questi fatti non accadano più in futuro”. La politica della “tolleranza zero” contro il fenomeno della pedofilia nella Chiesa si affianca in Belgio alla politica della prevenzione. Ieri è stata presentata alla stampa una brochure dal titolo “Dal tabù alla prevenzione” redatta dalla Commissione interdiocesana per la protezione dei bambini e dei giovani: un vero e proprio “codice di condotta” diffuso in 9mila copie e rivolto in modo particolare agli operatori pastorali.

    Il testo - riferisce l'agenzia Sir - contiene due capitoli “inediti”: il primo, che si rivolge ai genitori, indica i tratti psicologici dell’abusatore nonché gli indizi che possono far supporre una violenza subita dal minore. Un capitolo si rivolge invece direttamente ai bambini: scritto da Kolet Janssen, il testo propone un corto recitato dal titolo “Hannah ha detto no”. È la storia di una bambina vittima di molestie da parte del suo allenatore di ginnastica che ha però avuto il coraggio e la prontezza di parlare alla sua mamma di quanto succedeva dopo le lezioni.

    Dopo lo choc del 2010, quando la Chiesa belga fu travolta dalle rivelazioni dei primi casi di abuso commessi al suo interno, i vescovi e i superiori delle Congregazioni religiose hanno avviato una serie di iniziative per combattere il fenomeno, accompagnare le denunce delle vittime, rompere il silenzio. Nel corso della conferenza stampa di ieri, sono stati presentati i dati relativi alle comunicazioni di abusi fatte negli anni 2012-2013 dalle vittime e depositate presso i 10 punti di contatto presenti in tutte le 8 diocesi del Paese ai quali se ne aggiungono altri due per le Congregazioni religiose francofone e fiamminghe. Nei due anni presi in considerazione sono state 323 le comunicazioni ricevute.

    Il numero va sommato alle 621 persone che si sono rivolte al Centro di arbitrato, un’altra istituzione creata congiuntamente dalla Chiesa belga e dallo Stato per trattare i casi prescritti dalla legge. L’84% dei casi comunicati hanno avuto luogo più di 30 anni fa e solo il 16% sono avvenuti negli ultimi 30 anni. Sono 125 le vittime che hanno ricevuto una compensazione finanziaria per un totale di un milione di Euro spesi dunque per il risarcimento. Se a questa cifra si aggiunge il totale versato dal centro di arbitrato, i risarcimenti versati ammontano ad oggi a 2,5 milioni di euro.

    La battaglia - assicura mons. Guy Harpigny, vescovo di Tournai e referente della Conferenza episcopale belga per gli scandali degli abusi sessuali - non finisce qui: “Ci sono sicuramente ancora persone che desiderano manifestarsi. Per questo i punti di contatto restano aperti per permettere a chi ancora esita, di parlare”. La Chiesa belga punta oggi sulla prevenzione: “Non dobbiamo permettere che questo crimine si riproduca e quindi dobbiamo essere vigilanti”. Il Belgio dunque - assicura il vescovo - si schiera con “Papa Francesco e il cardinale di Boston O’Malley che insistono sulla tolleranza zero”. (R.P.)

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    Comece: analisi sul voto europeo e futuro dell'integrazione

    ◊   “Alienazione espressa nei risultati elettorali”, “crisi di legittimità” che il Parlamento europeo deve affrontare e presenza di “partiti impegnati non a riformare l’Unione Europea, ma a bloccarla o addirittura a distruggerla”: sono i tre dati che emergono dalle elezioni europee secondo il gesuita Frank Turner. Ma “una politica definita dalla negatività non può costruire un futuro”, scrive Turner nell’editoriale di giugno di “Europeinfos”, mensile della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece). “Solo un maggiore senso di comunità politica, a livello regionale, nazionale e transnazionale, in cui si accetta la solidarietà e la responsabilità per l’altro, può dare futuro”. Al “cambio di legislatura” dopo il voto del 25 maggio è dedicato l’articolo di Johanna Touzel che descrive “la gara di Sudoku” ora aperta tra i partiti per costituire “gruppi politici nel Parlamento europeo”. La questione posta da Touzel riguarda le modalità con cui i partiti nazionalisti e anti-Ue, con programmi molto discordanti tra loro, potranno formare un gruppo all’interno dell’emiciclo. L’unica via è che “imparino a pensare europeo piuttosto che nazionale”. Stefan Lunte, invece - riferisce l'agenzia Sir - descrive le possibili strade che ora il Consiglio Europeo potrà percorrere per designare il presidente della Commissione in un “braccio di ferro che comincia” tra lo stesso Consiglio e il Parlamento di Strasburgo.

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    Vescovi indiani: la Chiesa sosterrà il nuovo Stato di Telangana

    ◊   Il Consiglio dei vescovi dell'Andhra Pradesh (Apbc) assicura "il pieno sostegno della Chiesa cattolica e della comunità cristiana per uno sviluppo giusto, inclusivo, equo e sostenibile" del Telangana, che da ieri è il 29mo Stato dell'India. Ricavato dall'Andhra Pradesh, il Telangana si è ritagliato una proprio indipendenza giuridica, politica e territoriale lo scorso febbraio, quando il Parlamento ha passato l'Andhra Pradesh Reorganisation Act.

    L'Apbc, che con la nascita del nuovo Stato diventa l'organismo direttivo della Chiesa cattolica per il Telangana e il Seemandhra, come dovrebbe chiamarsi ora l'Andhra Pradesh. In un comunicato ufficiale - riferisce l'agenzia AsiaNews - i vescovi promettono di "continuare a invocare le benedizioni di Dio per la popolazione Telugu [etnia di maggioranza, ndr] di entrambi gli Stati", nella speranza che lo sviluppo di queste nuove entità territoriali avvenga "con prosperità, pace e armonia".

    Circa 35 milioni di persone vivono nella regione del Telangana, che sorge su un altopiano ricco di risorse agricole, ma è anche una delle zone più povere dell'India. Essa comprende 10 distretti su 23 dell'Andhra Pradesh. L'area comprende anche Hyderabad, la capitale, che sarà capitale condivisa per 10 anni, dopo i quali resterà al Telangana. L'Andhra Pradesh dovrà svilupparne una nuova.

    Proprio questa dicotomia genera molte perplessità anche tra la stessa popolazione. Molti temono infatti che questa scissione porterà solo a un impoverimento dei due Stati, invece di rappresentare una spinta allo sviluppo del Telangana. (R.P.)

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    Indonesia: a West Java le autorità sequestrano 7 chiese protestanti

    ◊   Dietro pressioni di movimenti estremisti islamici - riferisce l'agenzia AsiaNews - le autorità del distretto di Cianjur, 90 km da Jakarta, hanno disposto la chiusura di sette chiese cristiane protestanti per presunte irregolarità nei permessi di costruzione (il famigerato Imb). La provincia del West Java si conferma così uno dei luoghi più "intolleranti" verso le minoranze religiose in Indonesia. I luoghi di culto sequestrati sono: la chiesa Pentecostale di Indonesia e la chiesa del Movimento pentecostale a Ciranjang, la chiesa cristiana del Nuovo Testamento, la Betlemme Pentecoste, la chiesa di Bethel di Indonesia, la chiesa Evangelista internazionale e il Sinodo delle chiese popolari nel distretto di Cianjur.

    L'iter per la costruzione di una chiesa in Indonesia - cattolica o protestante - è complicato e possono trascorrere da cinque a 10 anni prima di ottenere le autorizzazioni. Il procedimento è regolato dall'Izin Mendirikan Bangunan (Imb), delibera scritta che permette l'apertura di un cantiere ed è rilasciato dalle autorità locali. La vicenda si complica se si tratta di un luogo di culto cristiano: serve il nulla osta di un certo numero di residenti nell'area in cui viene costruito l'edificio e del gruppo per il dialogo interreligioso locale. E spesso subentrano "non meglio precisate motivazioni" che spingono i funzionari a bloccare i progetti, dietro pressioni di movimenti radicali islamici.

    Il rev. Oferlin Hai, presidente del Sinodo delle chiese protestanti a Cianjur, conferma che la presunta mancanza dei permessi di costruzione - una legge del 2006 - ha portato al sequestro degli edifici. Egli precisa però che i luoghi sono utilizzati dalle comunità "ben prima che la norma fosse promulgata" e della sua entrata in vigore. Già nel 2013, aggiunge, alcuni poliziotti di Ciranjang - dietro pressioni di estremisti islamici - avevano mostrato "atteggiamenti" ostili verso i cristiani; di recente anche il presidente del Forum per il dialogo interreligioso Tjepi Djauharuddin ha richiesto a gran voce la chiusura.

    Il leader cristiano spiega che le chiese sono attive e funzionali dal 1977 e sono nate col sostegno e l'approvazione della sezione locale del ministero per gli Affari religiosi; nel 1990 una analoga approvazione è stata rilasciata dalle autorità di Cianjur. Non abbiamo più un luogo di culto dove riunirci e pregare, conclude il pastore, e alcuni fedeli "si sono trasferiti in altri luoghi per motivi di sicurezza".

    L'Indonesia, nazione musulmana più popolosa al mondo, è sempre più spesso teatro di attacchi o episodi di intolleranza contro le minoranze, siano essi cristiani, musulmani ahmadi o di altre fedi. Nella provincia di Aceh - unica nell'Arcipelago - vige la legge islamica (sharia), in seguito a un accordo di pace fra governo centrale e Movimento per la liberazione di Aceh (Gam), e in molte altre aree (come Bekasi e Bogor nel West Java) si fa sempre più radicale ed estrema la visione dell'islam fra i cittadini. Norme come il permesso di costruzione vengono sfruttate per impedire l'edificazione o mettere i sigilli a luoghi di culto, come è avvenuto nel West Java contro la Yasmin Church. La Costituzione sancisce la libertà religiosa, tuttavia la comunità cattolica (3% della popolazione) e i cristiani in generale sono vittime di episodi di violenze e abusi. Nel dicembre scorso, almeno cinque luoghi di culto cristiani hanno dovuto chiudere i battenti per pressioni islamiste. (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 154

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.