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Sommario del 11/02/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Papa Francesco: vi invito a pregare insieme con me per Benedetto XVI, uomo di grande coraggio e umiltà
  • Benedetto XVI e la rinuncia, il mese più lungo di una grande anima
  • Mons. Forte: Benedetto XVI è un Padre della Chiesa moderna, sua rinuncia atto di profonda onestà
  • De Bortoli: la rinuncia di Benedetto XVI gesto profetico, ha aperto la via a Francesco
  • Nomine episcopali di Papa Francesco
  • Giornata malato. Il Papa: Cristo vi è vicino. Fra Fabello: malato è risorsa non fastidio
  • Salvifici doloris, compie 30 anni la Lettera di Papa Wojtyla sul senso cristiano della sofferenza
  • Il card. Sgreccia e mons. Carrasco de Paula sui 20 anni della Pontificia Accademia per la Vita
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Grandi manifestazioni in Iran per il 35mo anniversario della rivoluzione islamica
  • A Nanchino storico incontro tra Cina e Taiwan, il primo formale dal 1949
  • Cipro: riaperti a Nicosia i colloqui di pace sotto il controllo Onu
  • Bosnia: manifestazioni, l'Ue a Sarajevo. Mons. Sudar: si ripari a ingiustizia di 20 anni fa
  • Giornata europea della sicurezza in Rete: Internet più sicuro con il dialogo tra generazioni
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Algeria: precipita aereo, oltre 100 morti
  • Siria: a Ginevra colloqui diretti governo-ribelli. Ma le divergenze rimangono
  • Timor Est: firmato storico accordo con l'Indonesia
  • Centrafrica: ancora violenze. Rischio carestia
  • Sud Sudan: a rischio la ripresa dei colloqui ad Addis Abeba
  • Somalia. Attentati a Mogadiscio. Governo promette più sicurezza
  • Nigeria. Mons. Kaigama: pregiudizi ed ignoranza dietro le critiche alla Chiesa
  • Mali: nel nord jihadisti rivendicano il rapimento di operatori umanitari
  • Usa: la Chiesa chiede un'America più giusta per i migranti
  • Uruguay. Mons. Fuentes: "Siamo al centro di una tempesta ideologica. Il Paese è vicino al baratro"
  • Myanmar: cristiani, musulmani e buddisti insieme per la Vergine di Nyaunglebin
  • Australia: sussidio dei vescovi per la festa di San Valentino
  • Il Papa e la Santa Sede



    Papa Francesco: vi invito a pregare insieme con me per Benedetto XVI, uomo di grande coraggio e umiltà

    ◊   Nel giorno in cui ricorre il primo anniversario dell'annuncio di Benedetto XVI sulla sua rinuncia al ministero petrino, Papa Francesco ha lanciato questo tweet: “Oggi vi invito a pregare insieme con me per Sua Santità Benedetto XVI, un uomo di grande coraggio e umiltà”.

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    Benedetto XVI e la rinuncia, il mese più lungo di una grande anima

    ◊   L’11 febbraio di un anno fa, la Chiesa e il mondo venivano scossi dalla rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino. Quello che sulle prime fu un annuncio accolto con stupore e grande turbamento, nei giorni successivi venne lentamente compreso come un atto di lungimirante sapienza, possibile – nella sua sostanziale unicità – solo a un uomo e a un Pontefice di straordinaria intelligenza spirituale. Alessandro De Carolis rievoca in questo servizio le tappe che hanno scandito un mese ormai passato alla storia:

    “Fratres carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi…”.

    Il latino è una lingua morta per il mondo da centinaia d’anni, e ormai poco usata anche nella Chiesa. Per questo, uno dei più clamorosi annunci della storia universale fluttua per diversi minuti in una bolla di muta indecifrabilità. Quei lemmi sommessi, pronunciati con una quiete appena venata di tensione – che parlano di decisionem magni momenti pro Ecclesiae vitae communicem, di una “decisione di grande importanza di vita della Chiesa” – rimangono sospesi per lunghissimi secondi su una terra di nessuno in attesa che qualcuno li faccia propri. Sono passate da poco le 11.30 e chi in quell’11 febbraio 2013 ha la ventura di essere in ascolto – i cardinali che attorniano Benedetto XVI nella Sala del Concistoro, o i pochi giornalisti che seguono la scena dalle immagini e l’audio in bassa frequenza – vive per qualche istante l’enigma di coloro che, dalla riva dell’oceano, osservano senza capire il ritrarsi dell’acqua che lascia scoperto il fondo. Poi, lo tsunami arriva:

    “Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum…”.

    L’impatto dello tsunami lascia esterrefatti. I media si arroventano, nel web si twitta all’impazzata, si rovesciano le prime pagine dei siti. Benedetto XVI “si è dimesso” è la prima formulazione che rimbalza ovunque e che cerca di spiegare l’inspiegabile con il linguaggio di altri mondi, perché nessuno ha gli strumenti adatti per dare razionalmente conto del mai visto. Emotiva è la prima informazione, come la reazione di chiunque. L’incredulità è massima e sull’onda dello sconcerto in molti traballano anche certezze indiscusse. Finché, compressa per 48 ore, la lava erompe mercoledì 13. Il “collo” del vulcano è l’udienza generale in Aula Paolo VI:

    “Cari fratelli e sorelle, come sapete, ho deciso… (applausi)… Grazie per la vostra simpatia… (applausi)… Ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede”.

    Quel mercoledì coincide con l’inizio della Quaresima e la folla si trasferisce nel pomeriggio nella Basilica vaticana per il rito delle Ceneri. Così, nel magma dei sentimenti confusi, il pizzico di polvere che a un tratto scurisce la chioma candida del Papa diventa in chi guarda un simbolo più grande di se stesso: esprime con un’immagine la certezza che in molti inizia a farsi strada e cioè che la rinuncia di Benedetto XVI sia, al di là di ogni considerazione, un gesto di eccezionale umiltà. Lo affermerà al termine di quella cerimonia un commosso cardinale Bertone e ancor più il successivo, interminabile, emozionante applauso che l’assemblea, alzandosi in piedi, tributa al suo Pastore:

    “Grazie per averci dato il luminoso esempio di semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore, un lavoratore, però, che ha saputo in ogni momento realizzare ciò che è più importante: portare Dio agli uomini e portare gli uomini a Dio”.

    È giusto, è sbagliato. Mentre il duello delle opinioni continua a scaldare salotti televisivi e marciapiedi nell’ardua impresa di “leggere” nel cuore del Papa, è lo stesso Benedetto XVI a distillare col trascorrere dei giorni i motivi profondi che reggono la sua decisione. Ascoltarlo nei suoi appuntamenti pubblici equivale un affacciarsi su brevi scorci del lungo e solitario percorso compiuto dalla sua anima di fronte e accanto a Dio. Un viaggio in cui l’ago della bussola sta nella misura delle parole utilizzate, come quelle – rivelatrici – che il Papa pronuncia durante l’incontro con i parroci romani, giovedì 14:

    “Anche se mi ritiro adesso, in preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche tutti voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimarrò nascosto”.

    “Ritiro”, “preghiera”, nascosto”. Dallo sconquasso di uno tsunami che sembrava aver disintegrato la casa sulla roccia, e la verità sul suo primo occupante, il paesaggio gradualmente scopre un suo nuovo equilibrio. È vero che parte del circuito mediatico continua banalmente a insistere su complotti e fughe – perché tanti sanno vellicare con uno scandalo la “pancia” di un pubblico, meno stimolare la sua intelligenza. Tuttavia, nella Chiesa il gesto di Benedetto XVI appare sempre più come frutto della solidità di fede che ha sempre distinto i passi del lavoratore della Vigna. E il Papa rafforza questa certezza alla sua ultima apparizione dalla finestra del suo studio. È l’Angelus di domenica 24 febbraio:

    “Il Signore mi chiama a ‘salire sul monte’, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho fatto fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”.

    L’umile lavoratore della Vigna lascia i filari e si raccoglie in ginocchio sullo sfondo del campo, perché ha compreso – nel suo intenso ruminare la scelta tra Dio e la sua coscienza – che anche un Vicario di Cristo ha più di un modo per curare il vigneto del Vangelo:

    “Non abbandono la Croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di San Pietro”.

    Queste parole risuonano all’ultima udienza generale in Piazza San Pietro. Di fronte agli occhi del Papa si staglia la vista di 150 mila persone. Un muro umano – dilatato dalle tv internazionali – al quale ancora una volta, e per l’ultima volta, Benedetto XVI offre le rassicurazioni di un maestro di fede, in cambio dei dubbi di chi ancora fatica ad accettare:

    “Ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.

    Il congedo più lungo della Chiesa nel mese più breve del calendario comincia davanti a una platea oceanica: i giornalisti già a Roma sono 3.650 di 61 nazioni e appartengono a 968 testate di 24 lingue. Le immagini in diretta e in streaming di quel 28 febbraio si accendono a metà mattinata per quasi non spegnersi più fino a sera. Si comincia con una Sala Clementina gremita di cardinali, 144, fra i quali Papa Benedetto si pone già come quel servitore che ha scelto di essere:

    “Continuerò ad esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio dei cardinali, c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza e obbedienza”.

    La scena riprende verso le 17, quando il mondo segue metro per metro un itinerario che qualche commentatore paragona, per impatto e forza di attrazione, allo sbarco sulla Luna: Benedetto XVI che lascia l’appartamento pontificio, il cardinale Comastri che lo saluta a capo scoperto e chino, alle sue spalle le lacrime che rigano il viso di mons. Gänswein. E poi l’imbarco sull’elicottero bianco, il volto che rimpicciolisce nel riquadro del finestrino, e quel volo sul cielo di Roma, carico di suggestioni, che pare lentissimo e regala un che di angelico al commiato del suo Vescovo. Che una volta al balcone, davanti alle migliaia che lo attendono pigiati da ore sulla piccola piazza di Castel Gandolfo, esce di scena con la stessa discrezione con cui otto anni prima si affacciava alla Loggia centrale di San Pietro:

    "Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Grazie, buona notte!".

    “Buona notte”. La vibrazione delle due parole che chiudono il Pontificato si perde nel brusio della folla, che a differenza di tante altre occasioni nello stesso posto non smobilita, anzi se possibile ingrossa. Gli sguardi si abbassano di qualche metro, dal balcone al grande portone spalancato, e ha inizio un countdown mai immaginato. Due giri e mezzo di lancette e alle 20 le due ante iniziano a ruotare sui cardini fino a serrarsi, conferendo all’attimo una struggente simbolicità. Il picchetto delle Guardie Svizzere smonta, non c’è più il Papa da proteggere.

    Resta però Benedetto XVI. E resta l’eco del suo “buona notte”. Forse perché non poteva esserci altro modo di congedarsi per il Papa che ha voluto chiudersi con Dio nel chiostro del cuore, per spalancare alla Chiesa una nuova stagione e donarle la forza di un nuovo inizio. E soprattutto perché colpisce che, appena tredici giorni più tardi – quasi che a legarli sia il filo di una regia invisibile – il nuovo Pontificato esordisca col medesimo stile, quello della più assoluta, disarmante familiarità:

    (voce Papa Francesco) “Fratelli e sorelle, buonasera!”.

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    Mons. Forte: Benedetto XVI è un Padre della Chiesa moderna, sua rinuncia atto di profonda onestà

    ◊   La rinuncia, come tutto il Pontificato di Benedetto XVI, è stata ispirata dal Concilio Vaticano II. Ne è convinto il teologo mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, che in questa intervista di Fabio Colagrande si sofferma sulla decisione del Papa emerito e sui risvolti della rinuncia un anno dopo:

    R. - A mio avviso, è l’espressione coerente dello stile che Papa Benedetto ha avuto durante l’intero suo Pontificato. Uno stile ispirato all’unica intenzione di piacere a Dio. Nel suo modo di essere, Papa Benedetto non ha mai cercato il consenso facile delle folle. Egli è stato un uomo che ha voluto portare avanti la riforma spirituale della Chiesa e dunque l’unica fondamentale esigenza - per lui - era quella che il suo modo di essere Successore di Pietro, Vescovo di Roma, Pastore della Chiesa Universale, e il modo di essere della Chiesa intera fossero tali da piacere a Dio. Io credo che questa sia la grande chiave di comprensione di tutto ciò che Papa Benedetto è stato. E in questo senso, anche la sua rinuncia è stata un atto di obbedienza al fatto che egli sentiva venir meno le forze. È stato un atto di profonda onestà! Mi sembra di poter dire che egli vede nel Pontificato di Papa Francesco la conferma che Dio ha voluto dare alla validità di questa scelta: una voce fresca, nuova, che in qualche modo è anche sostenuta da una grande energia, anche fisica bisogna dire, quale Papa Benedetto non potrebbe aver avuto.

    D. - C’è chi, tenendo conto che la rinuncia di Benedetto XVI è avvenuta nell’ambito del 50.mo del Concilio, ha considerato la sua sorprendente decisione una singolare ricezione degli insegnamenti conciliari…

    R. - Bisogna partire dal fatto che Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, è stato un protagonista del Concilio. Il Concilio fa parte del suo Dna. Chi ha voluto pensare che, in qualche modo, il Pontificato di Benedetto fosse un allontanarsi dal Vaticano II, in fondo contraddice quella che è l’identità profonda del pastore, del teologo e poi del Papa Joseph Ratzinger. Quindi, il punto forte da sottolineare è che il Vaticano II ha ispirato continuamente il Pontificato di Papa Benedetto ed egli stesso lo ha detto più volte, raccogliendo le eredità anche dei suoi predecessori. Naturalmente, nella visione del Concilio Vaticano II questa che io chiamo "mistica del servizio" è ben chiara: Giovanni Paolo II è stato colui che ha spostato interi continenti con la sua energia fisica e spirituale. Poi, è venuta la stagione della malattia, fino all’estremo punto del silenzio, del mutismo, quando non riusciva più a parlare, se non con i gesti. Analogamente, con Benedetto c’è stata la stagione del suo grande magistero. Egli è stato un grande catecheta, è stato un Padre della Chiesa moderna per tanti aspetti. Poi, è venuto il tempo del silenzio, quello che egli ha scelto, sentendo venir meno le forze, come via migliore, in cui ha potuto continuare a servire la Chiesa nella preghiera.

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    De Bortoli: la rinuncia di Benedetto XVI gesto profetico, ha aperto la via a Francesco

    ◊   Un anno fa, la notizia della rinuncia di Benedetto XVI ebbe un impatto mediatico straordinario in tutto il mondo. Molte analisi e commenti furono inevitabilmente condizionate dall’emozione e dalla oggettiva difficoltà del doversi confrontare con un avvenimento al quale, come fu scritto, “non si era preparati”. A dodici mesi di distanza, Alessandro Gisotti ha chiesto al direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, di ritornare a riflettere su quel gesto epocale, anche alla luce del Pontificato di Papa Francesco:

    R. – Io in quel giorno, l’11 febbraio 2013, rimasi colpito. Avevo in mente la fatica e il dolore di Giovanni Paolo II e pensavo che in qualche modo quello dovesse essere il destino di ogni Pontefice. Forse, sono stato condizionato da questo anche nello scrivere l’editoriale del giorno dopo, che aveva come titolo “Una fragile grandezza”. Ora, un anno dopo, devo dire che quell’aggettivo “fragile” forse non era del tutto appropriato, nel senso che, anche rileggendo quello che abbiamo scritto non soltanto noi, sulla fatica, sul dolore di adottare una simile decisione, c’è un grandissimo gesto di amore nei confronti della Chiesa, di innovazione del suo corso storico e devo dire quasi un gesto di carattere rivoluzionario.

    D. – Si può dire, in qualche modo, che il Pontificato davvero straordinario di Papa Francesco sia iniziato non il 13 marzo, ma l’11 febbraio dell’anno scorso?

    R. – Credo di sì, perché è una svolta così radicale che forse è stata preparata anche dalla rinuncia di quello che era stato il suo principale "contendente” nel Conclave precedente. C’è, quindi, come una sorta di "staffetta del cambiamento", di un paradigma anche del governo della Chiesa. Noi abbiamo vissuto un anno incredibilmente ricco di novità, un anno all’insegna della tenerezza, un anno all’insegna dell’abbraccio universale. Credo che, giustamente, in quella rinuncia ci fosse anche una sorta di atto profetico: cambierà molto, cambierà tutto, arriverà un Papa "diverso”… perché le due persone nella loro grandezza sono diverse. La Chiesa, però, riesce sempre a stupirci per la sua giovinezza di pensiero.

    D. – A un anno di distanza, con le emozioni chiaramente più raffreddate, secondo lei sotto il profilo della comunicazione quale lezione si può aver ricevuto da quel giorno, dall’11 febbraio del 2013?

    R. – Credo che anche lì ci sia stata una prorompente novità nella comunicazione della Chiesa, che forse ha preparato anche le novità successive, perché non eravamo ovviamente abituati ad annunci di questo tipo, non eravamo abituati nemmeno a vivere un rapporto con il Santo Padre così diverso, così intenso e così personale, come quello che stiamo vivendo in questo anno. Sembra, infatti, che Papa Francesco parli con ciascuno di noi. E la comunicazione che si è instaurata dopo l’11 febbraio è come se ad un certo momento fosse una comunicazione personale: tutti facciamo parte del gregge del Signore e siamo un popolo grandissimo, però c’è un rapporto personale con il Santo Padre, che dà la sensazione, qualche volta dà la prova, di poter parlare con ciascuno di noi.

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    Nomine episcopali di Papa Francesco

    ◊   In Uruguay, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Montevideo, presentata da mons. Nicolás Cotugno Fanizzi, S.D.B, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Arcivescovo di Montevideo Mons. Daniel Fernando Sturla Berhouet, S.D.B., finora Vescovo titolare di Felbes e Ausiliare della medesima arcidiocesi.

    Negli Usa, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Albany, presentata da Mons. Howard James Hubbard, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Vescovo di Albany Mons. Edward Bernard Scharfenberger, del clero della diocesi di Brooklyn, finora Vicario Episcopale per il territorio di Queens.

    Nel Lesotho, il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Mohale’s Hoek, in Lesotho, presentata da Mons. Sebastian Koto Khoarai, O.M.I., per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Vescovo della Diocesi di Mohale’s Hoek, il Rev. P. John Joale Tlhomola, S.C.P., Direttore Generale dell' Istituto Secolare Servants of Christ the Priest, ad Hammanskraal, Arcidiocesi di Pretoria.

    Negli Usa, il Papa ha nominato Vescovo Ausiliare di Rockville Centre Mons. Andrzej Jerzy Zglejszewski, del clero della medesima sede, finora Co-Cancelliere e Direttore dell’"Office of Worship" diocesano, assegnandogli la sede titolare vescovile di Nicives.

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    Giornata malato. Il Papa: Cristo vi è vicino. Fra Fabello: malato è risorsa non fastidio

    ◊   “Saluto tutte le persone malate e sofferenti. Cristo crocifisso vi è vicino: stringetevi a Lui!”. È il messaggio, lanciato oggi dal suo account @Pontifex, col quale Papa Francesco ricorda la Giornata mondiale del malato. All’Angelus di domenica scorsa, il Papa aveva detto che “la dignità della persona non si riduce mai alle sue facoltà o capacità”. Lo ribadisce Fra Marco Fabello, dell’Ordine dei Fatebenefratelli, al microfono di Alessandro De Carolis:

    R. – Sono parole che ci fanno bene, soprattutto a noi che operiamo nel mondo della salute. Ci danno la riconferma che stare con i malati è bello, è da fratelli. Il messaggio che dovremmo raccontare a tutti quelli che incontriamo è quindi che il malato è una risorsa, non è un disturbo. Il malato è una presenza di Dio importante.

    D. – "La dignità della persona non si riduce mai alle sue facoltà o capacità". Questo pensiero di Papa Francesco richiama alla solidarietà, ma quanta ne riscontrate attorno a chi è infermo? E’ sempre solida la cosiddetta "rete" familiare?

    R. – Devo dire che questa rete di solidarietà sta calando rispetto ad un tempo. E questo probabilmente anche perché le famiglie si stanno abbastanza disintegrando. Quello che dobbiamo fare, però, nonostante tutto, è cercare di creare rete con chi è presente, con chi ha la forza della solidarietà da esprimere. E io credo che questo sia fondamentale, se vogliamo fare in modo che cresca un’attenzione, soprattutto verso i malati più gravi. Penso ai miei malati di Alzheimer, ad esempio, piuttosto che ai malati psichiatrici, che sono frontiere dell’emarginazione sociale.

    D. – E chi sono i soggetti di questa nuova rete di solidarietà?

    R. – Bisogna sempre insistere molto sulla famiglia, anche se è in difficoltà: insistere molto sulla parrocchia, sul territorio. Sappiamo quanto sia difficile. Ma immagino che i ministri straordinari dell’Eucaristia ad esempio potrebbero essere delle ottime risorse anche in questo senso. Poi suggerire pure ai Comuni, alle Asl, quali sono i loro doveri, i loro compiti, cui spesso non pensano perché non sono sufficientemente richiamati.

    D. – Oggi, ricorre il 30.mo anniversario della Salvifici Doloris, documento che Giovanni Paolo II dedicò al mondo della sofferenza umana, visto alla luce della sofferenza di Cristo. In che modo vi guida oggi quella pagina di magistero?

    R. – Credo che da quando sia uscita questa bellissima lettera del Papa, tutti noi siamo stati contagiati dai suoi contenuti, ma soprattutto da chi è stato il Beato Giovanni Paolo II: la sua stessa persona alla fine ha riassunto quanto ha scritto. Di conseguenza, per noi rimane un punto chiave, indelebile, nel Magistero in questo senso. E questo tiene anche un po’ la continuità con quanto dice Papa Francesco, quando parla della tenerezza, che è una cosa straordinaria. Io credo che i due Papi qui si ritrovino "a braccetto".

    D. – Un anno fa, proprio in coincidenza con la Giornata del malato, Benedetto XVI comunicò la rinuncia al suo ministero, spiegando tra l’altro che l’età avanzata, con le sue conseguenze gli impedivano di servire la Chiesa come avrebbe voluto. A voi, che ogni giorno vi misurate con la fragilità della vita umana, cosa ha lasciato come insegnamento quel suo gesto?

    R. – Intanto va apprezzata, come tutti abbiamo fatto, l’umiltà. Poi la Provvidenza di Dio, che non arriva mai in modo improprio e, in questo senso, ha creato nella Chiesa una tensione assolutamente diversa e molto edificante, oserei dire. Ma mi pare di potere rispondere alla sua domanda dicendo di aver avuto un esempio che anche per gli anziani che incontriamo tutti i giorni ha un significato. Questo, infatti, può avere rincuorato anche tutti quegli anziani che si sono trovati improvvisamente senza una parte significante nella società o nella famiglia: possono avere interpretato questo gesto quasi come un bene per loro: “Anche noi siamo un po’ come il Papa: non avendo più molte capacità, ci dobbiamo mettere in disparte e lasciare spazio ai nostri figli”. Mi pare un esempio molto bello.

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    Salvifici doloris, compie 30 anni la Lettera di Papa Wojtyla sul senso cristiano della sofferenza

    ◊   30 anni fa, l’11 febbraio del 1984, Giovanni Paolo II firmava la Lettera apostolica “Salvifici Doloris” sul senso cristiano della sofferenza umana. Una sintesi di questo intenso documento nel servizio di Sergio Centofanti:

    “Nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta”. Giovanni Paolo II medita sul mistero del dolore partendo dalla domanda che si pone ogni essere umano: perché il male? E sottolinea subito che ogni spiegazione appare insufficiente e inadeguata. “L’uomo, nella sua sofferenza – scrive – rimane un mistero intangibile”. Ma “Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il perché della sofferenza” rispondendo dalla Croce. Tuttavia – precisa Giovanni Paolo II - a volte c'è bisogno “di un lungo tempo, perché questa risposta cominci ad essere … percepibile”. La sua risposta è innanzitutto una chiamata: “Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: ‘Seguimi!’. Vieni! prendi parte con la tua sofferenza a quest'opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia Croce. Man mano che l'uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla Croce di Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza … E allora l'uomo trova nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale”.

    Giovanni Paolo II afferma che la risposta sta quindi nell’amore: Gesù “benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti” e in questo modo, traendo il bene anche dal male, vince l'artefice del male, che è Satana. “La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d'acqua viva”. Tutti vi possono attingere. Così “soffrire significa diventare … particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all'umanità in Cristo”. Fonte di gioia – sottolinea il Pontefice - diventa allora “il superamento del senso d'inutilità della sofferenza” che “non solo consuma l'uomo dentro se stesso, ma sembra renderlo un peso per gli altri ... La scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo trasforma questa sensazione deprimente”.

    Il dolore vissuto con Gesù – prosegue Papa Wojtyla - serve veramente alla salvezza dei fratelli e delle sorelle. “Non solo quindi è utile agli altri, ma per di più adempie un servizio insostituibile”. Secondo il Papa è il paradosso del Vangelo: “le sorgenti della forza divina sgorgano proprio in mezzo all'umana debolezza”. Quindi aggiunge: “Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l'uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l'interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali”.

    E’ il bene a vincere alla fine – conclude Giovanni Paolo II – ma solo nella fede nella risurrezione l’uomo trova “una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio” della sofferenza e del male.

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    Il card. Sgreccia e mons. Carrasco de Paula sui 20 anni della Pontificia Accademia per la Vita

    ◊   Sono passati vent’anni da quando Papa Giovanni Paolo II istituì con il suo Motu Proprio Vitae Mysterium la Pontificia Accademia per la Vita, con l’obiettivo di studiare, informare e formare sui principali problemi della Biomedicina e del Diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel rapporto che questi hanno con la morale e gli orientamenti del Magistero della Chiesa. E’un cammino che, come spiegano i protagonisti, nonostante le difficoltà, continua a contrastare la “cultura della morte” in nome della dignità dell’essere umano. Il servizio di Gabriella Ceraso:

    “Nel servizio alla vita, la Chiesa non può non incontrarsi con la scienza”, così si legge nel documento che fondò la Pontificia Accademia per la Vita l’11 febbraio del 1994. Per questo, Giovanni Paolo II volle allora un approccio multidisciplinare a questioni nuove e delicate, da cui scaturisse una sola voce competente e formativa per la Chiesa. Per 13 anni, questo compito è stato in mano, alla guida dell’Accademia, al cardinale Elio Sgreccia:

    “E’ stato un periodo per me significativo e ho imparato molto stando a contatto con tanti studiosi su questioni salienti: la clonazione, le cellule staminali, l’esame delle situazioni e dei malati in stato vegetativo persistente. Prima di tutto, bisognava riflettere per capire quale fosse la posizione giusta, confrontarla con i fatti nuovi per giornate intere, valutare, riflettere. Poi, informare perché su quella base le diocesi, i vescovi, creavano la formazione degli organismi diocesani”.

    Ma su che cosa basare il lavoro alla Pontificia Accademia, davanti alle sfide continue che la realtà pone? Ancora il cardinale Sgreccia:

    “Quello che va sempre tenuto fermo è la centralità della persona umana, corpo e spirito, che ha una dimensione che trascende il cosmo – è persona – e che ha la sua libertà e dignità da rispettare in se stessa e negli altri”.

    Un’Accademia che in vent’anni è sempre andata “controcorrente”, spiega l’attuale presidente, mons. Ignacio Carrasco de Paula, rispetto alla “cultura della morte” che Giovanni Paolo II citava nel '94 e che tuttora tende a pervadere, seppur con nuovi volti, la società:

    “Per esempio, la clonazione ormai è una questione che è sparita, ma non è sparita per motivi di natura morale, ma perché era una via impraticabile. Invece, disgraziatamente, sia l’aborto sia l’eutanasia continuano con una piena attività, con queste manifestazioni ad esempio dell’estensione dell’eutanasia ai bambini”.

    Ma la vera novità, continua il presidente dell’Accademia, è che non c’è solo questo:

    “Venti anni fa, non esisteva una medicina palliativa, che effettivamente agisse in modo estremamente efficace nel combattere la sofferenza, il dolore. Poi, abbiamo avuto, e continua ancora, questa prospettiva aperta delle cellule staminali, della possibilità di avere una medicina rigenerativa. Sapere cioè riconoscere che non cresce solo una cultura della morte, ma anche una civiltà della vita, a condizione che effettivamente ognuno si impegni seriamente in questo campo”.

    A oggi, a cosa sta lavorando l’Accademia?. Ancora mons Carrasco de Paula:

    “Per esempio, stiamo lavorando sui trattamenti dell’infertilità: che cosa si può fare senza la necessità di dover ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. Di questo, c’è una mancanza di conoscenza. Un altro argomento su cui abbiamo pubblicato un testo è relativo alle conseguenze dell’aborto per le donne che si trovano in questa dolorosa situazione. Adesso, invece, nella prossima Assemblea tratteremo la questione della disabilità negli anziani, ovvero che cosa si può fare sia come prevenzione che come assistenza”.

    Ad accompagnare il cammino della Pontificia Accademia per la Vita in vent’anni c’è sempre stata la presenza dei Pontefici. Oggi, l’insegnamento specifico è quello di Papa Francesco:

    “Il Papa è molto cosciente di questa realtà e cioè che purtroppo viviamo in un’epoca in cui alcuni valori sono stati quasi messi da parte, ma nello stesso tempo ritiene che la questione più importante sia non ripetere all’infinito le parole di condanna, ma incoraggiare in cosa possiamo e dobbiamo fare per ribaltare questa situazione”.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Coraggio e umiltà: Papa Francesco chiede di pregare con lui per Benedetto XVI.

    Una porta che si affaccia sulla storia: l'11 febbraio 2013 nei media internazionali, l'editoriale di Pierangelo Sequeri, apparso su "Avvenire", su quell'attimo in cui furono divise le acque, e l'introduzione e le conclusioni del libro di Gilfredo Marengo "Benedetto XVI, il Vaticano II e la rinuncia al pontificato".

    Le vie della carità: in un'intervista di Mario Ponzi, il sotto-segretario Segundo Tejado Munoz illustra gli interventi del Pontificio Consiglio Cor Unum nelle Filippine, in Guatemala e in Haiti.

    Come in un testo del 1953 Giovanni Battista Montini spiegava la lezione di Charles de Foucauld.

    Come l'antico albero: Giorgio Alessandrini sulla potente catechesi simbolica del mosaico di San Clemente.

    Sull'aumento del numero dei bambini soldato nel mondo, un articolo di Pierluigi Natalia dal titolo "Il gioco atroce della guerra".

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    Oggi in Primo Piano



    Grandi manifestazioni in Iran per il 35mo anniversario della rivoluzione islamica

    ◊   Trentacinque anni fa in Iran la rivoluzione islamica sanciva la fine del regime dei Pahlavi e vedeva il ritorno in patria dell'ayatollah Ruhollah Khomeini. Un evento di rottura che ha portato lentamente Teheran ad un isolamento internazionale, di cui ancora oggi paga le conseguenze. Celebrazioni sono in corso in tutto il Paese, in sostegno della rivoluzione e contro gli Stati Uniti e Israele, considerati ancora oggi acerrimi nemici del regime. Cosa ha significato per il Paese la rivoluzione islamica? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Roberto Tottoli, docente di Islamistica presso l’Università Orientale di Napoli:

    R. – Ha rappresentato un cambiamento epocale fondamentale in anni come lo sono stati gli anni '70, di risorgenza di tematiche islamiche. Se consideriamo che circa il 50 per cento di persiani è costituito da gente giovane, abbiamo la maggioranza di un Paese che ha conosciuto solo la Repubblica islamica, cambiando completamente l’assetto strategico, le relazioni internazionali della Regione e soprattutto di un Paese importante come l’Iran.

    D. – Di certo, da quel momento in poi, però, il Paese ha vissuto sempre su un terreno fatto di fratture profondissime …

    R. – Sicuramente, perché a 35 anni hanno visto cambiare ogni luogo del mondo, gli effetti della globalizzazione, la rivoluzione dei media che ha determinato capacità di scambio di informazioni in maniera spropositata rispetto a prima, soprattutto usate da giovani e quindi una conflittualità interna che si è sposata anche con una realtà che è andata mutando nei 35 anni: è morto Khomeini, ci sono stati anche contrasti all’interno degli ayatollah e una scena politica che è stata fatta anche di contrapposizioni molto forti.

    D. - Oggi l’Iran vive una nuova stagione con la presidenza Rohani, più aperta al dialogo con l’Occidente. Come conciliare la necessità di aprirsi al mondo con le istanze della guida religiosa del Paese?

    R. – E’ una sfida molto difficile. Da un lato, io sono molto pessimista su questa possibilità di cambiamento in una realtà e in un quadro politico in cui i guardiani della rivoluzione-ayatollah hanno l'ultima parola sulle scelte politiche; dall’altro, le tensioni dal basso e anche episodi di repressione non possono nascondere che anche la realtà sociale iraniana è fatta di grandi contrasti tra pratiche private e magari molto più libere, e una scena politica bloccata su slogan e partecipazione religiosa che non coincidono e che alla lunga creeranno problemi.

    D. – Su una cosa non ci sono dubbi: Teheran ha comunque, oggi, la necessità di imporsi nuovamente sullo scacchiere internazionale. Basti pensare al ruolo di primo piano che gioca, ad esempio, nella guerra siriana …

    R. – La presenza di una forza così importante, motivata proprio dall’appartenenza religiosa della minoranza sciita, implica che sicuramente l’Iran ha capacità di interdizione in una regione in cui le minoranze o maggioranze sciite sono molto forti: dall’Iraq stesso alla Siria, fino al Libano. E quindi partecipa pienamente, come uno degli attori principali, tra le grandi potenze attorno al Mediterraneo, insieme ai Paesi del Golfo, Arabia Saudita e anche Turchia. Questo genera tutta una serie di problemi e la realtà più evidente di ciò è anche in Siria dove, certo, la guerra civile non è per motivi religiosi ma in cui la polarizzazione su tematiche religiose vede anche l’Iran in prima fila.

    D. – Resta aperta, poi, la partita sul nucleare iraniano, elemento di grande destabilizzazione che ha causato non pochi problemi negli ultimi anni, soprattutto durante la presidenza di Ahmadinejad. Rohani, secondo lei, ce la farà a trovare un compromesso tra sicurezza internazionale e diritto al nucleare civile dell’Iran?

    R. – Su questo punto credo che i termini di un equilibrio si possano trovare, senz’altro. Superando il paradosso dell’impossibilità di raffinare le proprie risorse energetiche da parte dell’Iran e dall’altro garantire in ogni caso anche la sicurezza di tutta la Regione. Io credo che soprattutto su questo punto si possa trovare un accordo tra le esigenze legittime iraniane e le esigenze della Regione e anche degli Stati Uniti, con i suoi interessi nell'area. Non credo che costituirà un grosso problema, questo, a lungo andare.

    D. – Oggi l’Iran in una parola come si può definire?

    R. – Estremamente complesso e giovane.

    D. – Quindi, con possibilità di cambiamento?

    R. – Penso proprio di sì. Come in tutta la Regione, in Iran – per certi versi – con ostacoli più grandi, ma con una popolazione con una consapevolezza civile anche maggiore.

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    A Nanchino storico incontro tra Cina e Taiwan, il primo formale dal 1949

    ◊   Storico incontro, il primo ufficiale, oggi tra Cina e Taiwan, dopo la guerra civile e la separazione avvenuta nel 1949. I rappresentati delle due realtà hanno avviato quattro giorni di colloqui, nella città cinese di Nanchino, che mirano ad aumentare la comprensione reciproca, i rapporti economici e commerciali e l’istituzione di rappresentanze internazionali. Il servizio di Massimiliano Menichetti:

    Da una parte la Cina, dall’altra Taiwan. Seduti attorno a un tavolo, ufficialmente per la prima volta dalla separazione, dopo la guerra civile nel 1949. Di fatto, per ora, nessuna delle due realtà riconosce l’altra. Pechino considera Taiwan una propria provincia e non accetta la definizione di Repubblica di Cina. Nanchino però è diventata da oggi segno della volontà di dialogo e confronto. Zhang Zhijun, direttore dell’ufficio cinese per gli Affari su Taiwan, ha incontrato
    Wang Yu-chi,
    capo del Consiglio di Taipei per i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese. Un appuntamento storico, in un contesto sobrio, che mira a formalizzare uffici di rappresentanza, rafforzare scambi commerciali ed economici, già formalizzati nel 2010, e aumentare la comprensione reciproca.

    Sugli incontri di Nanchino, Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Fernando Mezzetti esperto dell’area:

    R. – Il fatto che la Cina popolare organizzi questo incontro tenendolo a Nanchino, è un segnale importantissimo: era la capitale della Cina nazionalista ci Chiang Kai-shek, sede centrale del Kuomintang. I colloqui sviluppano una “entente cordiale” che è in atto da quando a Taiwan è stato messo fuori gioco politico il filone democratico e indipendentista di Taiwan. Paradossalmente, c’è maggiore intesa tra i nazionalisti del Kuomintang, che sono tornati al potere a Taiwan con liberissime elezioni, che non tra i nativi di Taiwan e la Cina popolare, perché i nativi di Taiwan vogliono l’indipendenza formale: vogliono avere accesso a tutte le istituzioni internazionali, tipo l’Onu, in quanto Repubblica di Taiwan, e vogliono smetterla comunque di chiamarsi “Repubblica di Cina”.

    D. – Al centro dei colloqui, sia la questione delle rappresentanze internazionali ma soprattutto il rafforzamento degli scambi commerciali ed economici, formalizzati ufficialmente nel 2010, ma che in realtà vengono da molto prima…

    R. – Gli scambi sono molto intensi da prima ancora di questo disgelo in atto, sugellato dal fatto stesso che gli incontri si svolgano a Nanchino. Taiwan ha investito centinaia di milioni di dollari, ormai dagli inizi degli anni Novanta, a Pechino, e ci sono decine di migliaia di imprese di Taiwan che operano nella Cina continentale. Quindi, i rapporti economici sono intensissimi, hanno rivitalizzato l’economia di Taiwan e i taiwanesi hanno contribuito allo sviluppo economico cinese sia con i capitali sia con il know-how, con la conoscenza tecnologica in cui Taiwan si è avviata molto prima di Pechino. Per cui, si sviluppano i rapporti economici e a livello di popoli con i collegamenti aerei che sono stati istituiti e si sviluppano anche con l’ammissione di Taiwan, sia pure in tono minore, a certi eventi internazionali: alle Olimpiadi in corso a Sochi c’è la squadra di Taiwan che si chiama “Taiwan-Cina” e già questo è un’accettazione da parte di Pechino di un “alter ego” cinese che però riconosce un’unica Cina.

    D. – Qual è il futuro, a questo punto, vista anche la tua esperienza sul terreno?

    R. – E’ chiaro che Taiwan non si riunificherà mai con una Cina autoritaria, quale quella del Partito comunista che è al potere, e quindi confida in una evoluzione interna del sistema che è avvenuta dal 1990 in poi. Così come la Cina confida in un avvicinamento e in una crescente fiducia di Taiwan verso Pechino. La Cina conta di fare con Taiwan ciò che ha fatto con Hong Kong: per un certo numero di anni, un Paese, due sistemi.

    D. – La leva economica può servire all’unificazione, in questo senso?

    R. – La Cina ha un fortissimo ruolo nella tenuta economica di Taiwan, come base produttiva, intendo dire, non come consumi, naturalmente. Ma non basterà, l’economia. Se bastasse l’economia, l’operazione dell’unificazione sarebbe già avvenuta.

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    Cipro: riaperti a Nicosia i colloqui di pace sotto il controllo Onu

    ◊   Riprendono oggi a Nicosia, sotto l’egida dell’Onu, dopo oltre un anno e mezzo i colloqui tra il presidente della repubblica greco-cipriota, Nicos Anastasiades e il capo della comunità turco-cipriota, Devis Eroglu, per riavviare il processo di riunificazione dell’isola, divisa dal 1974 tra Sud sotto l’influenza di Atene e Nord sotto l’influenza di Ankara. Roberta Gisotti ha intervistato il collega dell’Ansa Furio Morroni, a Nicosia:

    D. – Quali speranze dopo 40 anni di separazione, scontri e incomprensioni tra le due comunità, di riconciliarsi? E qual è oggi la posta in gioco?

    R. – Come sempre, ogni volta che si riavviano i negoziati, le speranze sono al massimo. Questa volta, alle speranze greco-cipriote ed a quelle turco-cipriote, vanno ad aggiungersi anche quelle di altri Paesi. Primo, probabilmente, Israele, che in una pacificazione fra Cipro e la Turchia – che occupa militarmente da 40 anni il 33% della parte Nord dell’Isola – vede un modo per rendere più calma questa parte del Mediterraneo orientale dove, due anni fa, sono stati scoperti enormi giacimenti sottomarini di idrocarburi – sia da parte di Israele, che ha trovato i più grandi, sia da parte della Repubblica di Cipro. Naturalmente, per sfruttare queste enormi ricchezze, occorre che la regione non sia sottoposta a pressioni politiche e a stress e a continui contrasti. E’ per questo motivo che diversi analisti ritengono che nelle ultime settimane ci siano state grandi pressioni da parte di Washington, sia su Ankara sia su Nicosia, ovviamente dietro richiesta di Tel Aviv, per poter far ripartire questi negoziati.

    D. – Possiamo dire che, una volta tanto, gli interessi economici possono giocare a favore della pace?

    R. – Senz’altro. Infatti, converrebbe a Cipro, converrebbe alla Turchia e converrebbe a tutti se estraessero queste risorse e tutti ne trarrebbero ovviamente grandi benefici economici.

    D. – Non si conoscono però ancora i termini della road-map che è stata tracciata dalle Nazioni Unite, accettata solo una settimana fa dalle parti…

    R. – Non si conoscono ancora, saranno annunciati a breve. Comunque, uno dei punti fondamentali sui quali la parte greco-cipriota insisteva che venisse sottolineata in questo comunicato congiunto – che il governo greco-cipriota aveva posto come precondizione per far ripartire i negoziati – è che un eventuale accordo porti alla creazione di una Cipro unita, cioè un solo Paese, membro delle Nazioni Unite e dell’Europa, che abbia una personalità singola sia a livello legale, sia a livello di sovranità, cosa che è molto differente da quanto previsto dieci anni fa nel piano dell’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, che prevedeva invece una Federazione di Stati.

    D. – Sono infatti passati dieci anni da quel tentativo fallito. Possiamo pensare che questo rilancio all’unificazione sia stato dettato anche dalla grave crisi finanziaria affrontata da Cipro lo scorso anno, crisi che ha messo in ginocchio il sistema bancario locale?

    R. – Dunque, per l’estrazione effettiva e per l’uso di queste risorse dovranno passare almeno cinque-sei anni, nella migliore delle ipotesi, per cui non sono tanto queste risorse viste come un modo per uscire dalla crisi. Dalla crisi Cipro dovrà uscire adeguandosi alle misure di austerità concordate con la "troika", che oggi ha appena concluso la sua terza visita qui, sull’isola. Certamente, avviandosi verso un’uscita dalla crisi economica e aggiungendo, magari tra quattro-cinque anni, la possibilità di sfruttare le risorse degli idrocarburi, questo aiuterebbe molto, molto l’economia di Cipro.

    D. – Anche lo stesso fatto di presentarsi come Paese unito e quindi di acquistare maggiore prestigio e credito a livello internazionale…

    R. – Intanto, si risolverebbe un grosso problema che c’è da quando la Repubblica di Cipro è entrata in Europa, di fatto, spaccando un Paese già diviso dal 1974. L’Europa cioè ha ammesso soltanto una parte di Cipro e non la parte turco-cipriota, creando ovviamente una disfunzione nel proprio ambito. Questo, quindi, risolverebbe intanto un problema in seno all’Europa stessa.

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    Bosnia: manifestazioni, l'Ue a Sarajevo. Mons. Sudar: si ripari a ingiustizia di 20 anni fa

    ◊   Settimo giorno di proteste sociali in Bosnia. Anche oggi a Sarajevo, davanti alla sede del governo federale, un migliaio di persone ha manifestato chiedendo le dimissioni del premier e di tutto il governo della Federazione croata-musulmana (una delle due entità della Bosnia ed Erzegovina), accusato di aver portato il Paese al dissesto economico. Il partito socialdemocratico del premier, Nermin Nikšić, ha ipotizzato il voto anticipato, previe modifiche alla legge elettorale, possibilità già rigettata dalla presidenza della Repubblica Srpska, a maggioranza serba. A Sarajevo, dove resta molto alta la tensione, dovrebbero arrivare lunedì prossimo il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, e il commissario all’Allargamento, Stefan Fuele, con l’intento di porsi come mediatori tra i manifestanti e gli esponenti politici. Ed è proprio all’Unione Europea che si rivolge l’appello di mons. Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, intervistato da Francesca Sabatinelli:

    R. - Le tensioni ci sono da 20 anni. Questo Stato malato, ferito gravemente dalla guerra, ha ricevuto una medicina sbagliata a Dayton e da quel punto in poi si è sempre più indebolito. Questa debolezza si è manifestata prima di tutto sulla vita economica e sociale: molte ditte hanno chiuso, molti lavoratori sono rimasti senza lavoro e quelli che lavorano non ricevono il salario. La tensione è aumentata e tutto ha avuto inizio. Inoltre, si sono aggregati coloro che erano frustrati da altri motivi, di tipo etnico, e sono subentrati anche gruppi che certamente non avevano alcuna soluzione. L’unica cosa in comune è che sono scontenti del governo e chiedono che si faccia qualcosa. Ma non sanno cosa proporre. I politici, d’altra parte, accusano di nuovo gli uni e gli altri. E tutto questo fa sì che la situazione sia molto, molto complicata. Si intravede che questo Stato non può governare se stesso, non ha la possibilità di uscire da questo circolo vizioso e quelli che potrebbero aiutare ovviamente non si rendono conto della situazione e non hanno mai ascoltato le voci che per 20 anni hanno ripetuto di fare qualcosa per riparare all’ingiustizia fondamentale.

    D. - Ingiustizia che lei ci ha detto nasce dall’Accordo di Dayton. Chi deve riparare?

    R. - Colui che ci ha dato la medicina sbagliata e cioè la comunità internazionale, capeggiata dagli Stati Uniti, che ha imposto la soluzione di Dayton, che ha diviso questo Paese in due, creando due Stati in uno Stato, che non possono funzionare in modo democratico e anche se avessimo politici di buona volontà e capaci, purtroppo non potremmo mettere in questa cornice un’immagine normale di uno Stato che normalmente funziona.

    D. - Questa protesta sociale, già sfociata in protesta politica con la richiesta delle dimissioni dei governi locali, c’è il rischio che possa trasformarsi in protesta interetnica?

    R. - La nostra tragedia sta nel fatto che questa protesta non è condivisa da tutte le parti. Una metà del Paese quasi è indifferente, perché dice: tanto peggio in Federazione, tanto meglio per la Repubblica Serba (Republika Srpska n.d.r), perché noi così siamo ancora più indipendenti dato che lì non si può collaborare insieme. D’altra parte, neppure nelle città dove c’è una maggioranza croata si protesta, perché dicono: “Noi non abbiamo motivo per protestare”. Allora, non è una protesta comune. Anche questa protesta conferma la divisione di questo Paese e tutto si riflette sulla vita quotidiana delle persone: quello che è cominciato come protesta sociale si trasforma in protesta politica, però non c’è una soluzione.

    D. - E nuove elezioni, il voto anticipato, possono essere la soluzione?

    R. - Noi non abbiamo alcuna possibilità di votare qualcuno che non sia già al potere, che non abbia già dimostrato la propria incapacità. Le tensioni sempre più crescono e noi siamo sempre più a rischio.

    D. - Ma il rischio è un conflitto come quello di 20 anni fa?

    R. - Io non penso questo, però può succedere peggio. Noi non siamo più capaci di fare la guerra per fortuna, però questo dimostra anche che non abbiamo alcuna possibilità di rovesciare questo sistema politico, questa divisione ingiusta. E’ una situazione che non promette niente. I lavoratori non hanno lavoro, i giovani non hanno neppure la speranza di avere un lavoro. La situazione è completamente disperata e perciò confusa. Ora, temo di più l’anarchia che poi non si sa dove finisce, dove va a finire. Solo l’Unione Europea, con passi ben misurati, ci può aiutare e provare a promettere qualcosa di positivo come prospettiva per i poveri cittadini della Bosnia ed Erzegovina. Questo ci auguriamo, ma non so se possiamo anche sperarlo.

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    Giornata europea della sicurezza in Rete: Internet più sicuro con il dialogo tra generazioni

    ◊   Promuovere, soprattutto tra i più giovani, l’utilizzo sicuro di Internet e delle nuove tecnologie on line. Questo l’obiettivo della Giornata europea della sicurezza in Rete, un’occasione per sottolineare il ruolo, sempre più cruciale, della comunicazione tra generazioni. Su questa Giornata, che si celebra oggi, il servizio di Amedeo Lomonaco:

    Il tema della Giornata “Creiamo insieme una Rete migliore” ricorda che per rendere Internet un luogo più sicuro si deve anche favorire il dialogo tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. Rocco Mammoliti, responsabile sicurezza dell’informazione Poste Italiane:

    R. – La collaborazione tra generazioni diverse – e quindi mettere insieme esperienze, competenze e conoscenze delle persone adulte a fianco di ragazzi o adolescenti che si cimentano nell'affrontare per la prima volta una serie di questioni delicatissime e importantissime anche per il loro sviluppo e per il loro futuro – è fondamentale. Quindi, questo link generazionale tra adulti e minori è fondamentale per fare in modo che i secondi possano essere accompagnati, strada facendo, in tutto il loro percorso di crescita e di gestione anche assolutamente corretta delle nuove tecnologie e dei nuovi meccanismi di comunicazione.

    D. – Quali, oggi, i principali consigli da rivolgere ai ragazzi per arginare le possibili insidie di Internet?

    R. – I consigli sono effettivamente molteplici, perché dal punto di vista della gestione e soprattutto della prevenzione dei rischi on line, i minori sono in questo momento l’oggetto sostanzialmente di attacco, di rischi che minano la sicurezza dei loro dati, la sicurezza della loro immagine, la reputazione nei confronti dei loro amici, all’interno dell’ambiente sociale in cui vivono – delle scuole, del quartiere – ecc. Sostanzialmente, il consiglio principale è quello di avere un’attenzione fortissima a come loro si pongono online. Gestire in modo corretto la propria identità digitale: questo è assolutamente fondamentale. E significa, questo, anche fornire soltanto alcuni dati che sono strettamente necessari per poter comunicare, dialogare, giocare con i propri coetanei, ma evitare assolutamente di fornire dati personali quali nome, cognome, indirizzo, scuola, numero di cellulare, indirizzi mail personali, soprattutto a chicchessia all’interno del loro strumento di condivisione, dei social network, ecc.

    D. – Dunque, i più giovani sono sempre i soggetti più vulnerabili. Come possono i genitori e anche gli educatori aiutarli proprio a difendere i loro diritti?

    R. – I genitori e gli adulti devono riuscire a comunicare, a conoscere il linguaggio e gli strumenti che i minori, i nostri figli utilizzano. E, fatto questo passaggio – che non è assolutamente scontato, cioè il fatto di conoscere bene gli strumenti, le potenzialità e i rischi degli strumenti che vengono utilizzati dagli adolescenti – l’approccio deve essere assolutamente quello di responsabilizzare i minori. Il minore deve essere guidato nei diversi passaggi per fare in modo di saper gestire in completa autonomia. Ecco, questo è forse l’aspetto più importante: far capire al minore, all’adolescente, che deve essere in grado in ciascun momento della propria vita, della propria crescita, di gestire in modo corretto il dialogo e l’utilizzo di questi strumenti. Il fatto di non comunicare o parlare con sconosciuti, oppure di non dare immagini o foto o dati personali a soggetti terzi che si conoscono solo ed esclusivamente via network, via Rete, è fondamentale. E siccome i genitori, gli adulti non saranno mai sempre e comunque a fianco agli adolescenti, questi devono essere in grado da soli, e devono essere responsabilizzati a gestire in completa autonomia i singoli casi che possono capitare loro.

    D. – Quali sono oggi gli strumenti più efficaci offerti dalla tecnologia per rendere Internet un luogo più sicuro?

    R. – Ci sono due tipi di strumenti. Quelli, in particolare, che vengono messi a disposizione dai vari social network. Ogni social network – e questo ormai è una consuetudine – mette a disposizione degli strumenti per segnalare abusi, situazioni sconvenienti e anche comportamenti scorretti. E’ buona norma anche fare in modo che, nel momento in cui ci siano questo tipo di segnalazioni, anche gli adulti che sono al fianco dei minori siano assolutamente informati. Poi, dall’altro lato, per evitare i rischi di phishing o di trattamento illecito – o sostanzialmente di compromissione dei pc o degli strumenti che vengono utilizzati – è fondamentale tenere aggiornato il proprio pc e i propri strumenti informatici. Quindi, avere un buon antivirus, aggiornare costantemente i sistemi operativi, non utilizzare in alcun caso, software che non sia con regolare licenza, per fare in modo che ci sia una piena responsabilità di erogazione di quel software e del relativo aggiornamento ai minori anche nell’ambito dell’attività quotidiana che il minore svolge a casa, a scuola, nei vari contesti in cui vive.

    Genitori e adolescenti devono dunque condividere esperienze virtuali per evitare rischi reali. Tra le insidie, un orribile pericolo è quello della pedofilia on line: adulti pedofili utilizzano la Rete per rintracciare e scambiare materiale pedopornografico e per ottenere contatti o incontri con i bambini sulla Rete. In particolare, l’estrema confidenza che hanno gli adolescenti con Internet li conduce, talvolta, a valicare i confini della prudenza. Un altro fenomeno da monitorare con attenzione è quello dei "cyber bulli", che solitamente sui social network si sostituiscono ai compagni di classe. A nome di altri, diffondono immagini e informazioni riservate tramite telefonini, raccontano particolari personali e assumono anche comportanti vessatori che possono provocare, in chi li subisce, gravi forme di depressione. Rischi sempre più frequenti, anche per i più giovani, sono inoltre legati al fenomeno del phishing e, in particolare, all’invio di messaggi di posta elettronica ingannevoli. Attraverso una e-mail, solo in apparenza proveniente da istituti finanziari, si richiede di fornire i dati della propria carta di credito per disporre, in modo illecito, di somme di denaro. Un pericolo più subdolo è quello dei virus informatici, solitamente attivati dall’apertura di un allegato, per entrare in possesso di password. A questi rischi si aggiungono altre molteplici, svariate forme di insidie che la prudenza e il dialogo con i genitori e gli educatori possono prevenire ed evitare.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Algeria: precipita aereo, oltre 100 morti

    ◊   Disastro aereo in Algeria. Un velivolo militare C-130 è precipitato in una zona montuosa nei pressi di Oum El Bouaghi, nell’Est del Paese, a circa 500 km da Algeri: tutti morti i 103 passeggeri a bordo. Lo riferisce la tv Ennahar. L'aereo trasportava militari con le famiglie da Tamanrasset, nel sud dell'Algeria, a Constantine, nell'est del Paese. Secondo il giornale El Watan, l'incidente potrebbe essere stato provocato dal maltempo. Si tratta del più grave incidente aereo nella storia algerina. Nel 2003 un jet dell’Air Algerie si schiantò poco dopo il decollo da Tamanrasset, provocando la morte di 102 persone.

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    Siria: a Ginevra colloqui diretti governo-ribelli. Ma le divergenze rimangono

    ◊   I colloqui sul futuro della Siria sono ripresi questa mattina a Ginevra, dove il mediatore Lakhdar Brahimi ha ricevuto tutti i rappresentanti governativi di Damasco e dell’opposizione siriana al Palais des Nations. Per la prima volta dall’inizio degli incontri - riporta l'agenzia Misna - le due delegazioni si sono riunite insieme a Brahimi, rappresentante speciale di Onu e lega Araba, che aveva finora fatto da spola tra l’una e l’altra. Entrambe le parti hanno accettato l’applicazione del comunicato finale della conferenza di ‘Ginevra 1’ ma mentre Damasco vuole ottenere come prima cosa la cessazione delle ostilità, l’opposizione ritiene prioritaria la creazione di un governo di transizione . Nel pomeriggio, Brahimi incontrerà il vicesegretario di Stato americano per gli Affari politici Wendy Sherman e il vice ministro degli Esteri russo Gennady Gatilov. Sul terreno, intanto, non si fermano i combattimenti e gli episodi di violenza: ieri il vice ministro degli Esteri siriano Faysal Miqdad ha detto che 50 persone, tra cui donne e bambini sarebbero state uccise in un massacro compiuto da “terroristi”. Miqdad sembrava riferirsi ad un massacro a Maan, in provincia di Hama, che secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani – Organizzazione non governativa basata a Londra ma con una fitta rete di contatti in Siria – ha provocato almeno 21 morti. (R.P.)

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    Timor Est: firmato storico accordo con l'Indonesia

    ◊   Un accordo limitato nel valore economico, ma certamente di rilievo storico, quello siglato ieri a Jakarta tra i governi di Indonesia e Timor Est, ex colonia indonesiana all’estremità orientale dell’arcipelago. L’accordo, che ha anche risvolti militari, segue una bozza definita durante la visita del presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono e la controparte timorese Jose Ramos Horta (nel frattempo sostituito nella carica da Taur Matan Ruak), firmata a Dili nel 2012. Durante la visita di lunedì a Jakarta - riferisce l'agenzia Misna - il primo ministro di Timor Est Xanana Gusmao ha firmato con il ministro della difesa indonesiano Poernomo Yusgiantoro un accordo per “cooperazione, istruzione e preparazione nel campo militare” in base al quale il governo di Dili acquisterà prodotti bellici dall’industria militare locale. Una mossa della piccola repubblica asiatica per guadagnare maggiore sostegno del grande vicino sia in termini di “rapporti di buon vicinato”, sia per un sostegno determinante alla richiesta di accedere come 11° membro all’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean). Al centro degli incontri di Xanana Gusmao, uno leader della guerriglia indipendentista che portò al referendum sull’indipendenza del 2009 e alla nascita della repubblica est-timorese nel 2002, anche la definizione dei confini, per i brevi tratti ancora controversi. Finalmente risolta per l’area di Dilumi-Memo, da risolvere in ulteriori colloqui quelle di Bijael Sunan Oben e Noel Besi-Citrana. Ovviamente controversa la decisione di Dili di acquistare armamenti e know-how dall’antico nemico, che resta a tutt’oggi partner indispensabile per la debole economica timorese in attesa che si concretizzino i grandi piani di sfruttamento delle ingenti risorse al largo delle sue coste con l’attiva partecipazione di multinazionali. Un piano del 2012 che prevedeva l’acquisto di carri armati e blindati per trasporto truppe dall’azienda bellica Pt Pindad era stata duramente contestato da organizzazioni non governative timoresi per la mancanza di trasparenza e la cattiva qualità dei prodotti, prima ancora che per ragioni ideali. L’interscambio commerciale tra i due Paesi è andato crescendo negli ultimi anni e il valore ha raggiunto 258,8 milioni di dollari lo scorso anno, contro i 221,52 milioni del 2011. (R.P.)

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    Centrafrica: ancora violenze. Rischio carestia

    ◊   ”Un crollo catastrofico del mercato alimentare che si manifesterà con un calo delle quantità di cibo a disposizione e un aumento dei prezzi”: a lanciare l’allarme sulle prossime conseguenze concrete della crisi in atto da quasi un anno in Centrafrica sono le organizzazioni umanitarie Oxfam e Azione contro la fame. Già oggi, secondo l’Onu, il 90% della popolazione consuma soltanto un pasto al giorno e la situazione “è destinata a peggiorare”. Per le due Ong, a pesare negativamente sull’andamento del mercato dei cereali e dei beni alimentari è il perdurare delle violenze tra gruppi armati: a causa dell’insicurezza diffusa “ingenti quantità di cibo non riescono ad entrare nel Paese”. Da settimane - riferisce l'agenzia Misna - trasportatori del confinante Camerun si rifiutano di varcare la frontiera per consegnare i propri carichi, temendo attacchi da parte dei gruppi armati. Ad aggravare ulteriormente il quadro è “l’esodo continuo dei cittadini musulmani”, che sono ai primi posti nel commercio dei prodotti alimentari e i cui negozi sono stati pesantemente saccheggiati nelle ultime settimane dalle milizie di autodifesa Anti-Balaka. Oxfam e Azione contro la fame hanno avvertito che ad oggi meno di una decina di venditori di farina è in attività a Bangui. “Le conseguenze di un fallimento nel proteggere quanti rimangono rischia di essere disastrose per tutti” si legge nel comunicato congiunto. “Le violenze religiose potrebbero spingere tutta la popolazione musulmana a lasciare il paese. E’ lei che controlla il mercato del cibo e altre attività commerciali, pertanto ciò avrà ripercussioni dirette sull’economia nazionale” ha dichiarato Peter Bouckaert, direttore per le emergenze di Human Rights Watch (Hrw). Secondo Medici senza frontiere (Msf) “la violenza estrema e radicalizzata che ha raggiunto livelli inaccettabili e senza precedenti”- in particolare le “rappresaglie collettive contro i cittadini della minoranza musulmana” – ha già costretto alla fuga 40.000 di loro, di cui 30.000 si trovano in Ciad e altri 10.000 in Camerun. Anche i civili di confessione cristiana, la maggioranza, pagano il prezzo degli abusi commessi dall’ex coalizione ribelle Seleka (musulmana) mentre gli Anti-Balaka prendono di mira la componente musulmana della società centrafricana. “Sono loro, gli Anti-Balaka, che sono diventati i principali nemici della pace”: a lanciare l’accusa è il generale Francisco Soriano, comandante della missione francese Sangaris, dispiegata nel Paese da due mesi. Degli Anti-Balaka fanno parte semplici cittadini stanchi dai soprusi inflitti dai Seleka, ma anche esponenti delle ex forze armate centrafricana (Faca) e sostenitori dell’ex presidente François Bozizé. Intanto da Bruxelles il consiglio dei ministri dell’Unione Europea ha formalmente approvato il dispiegamento di una missione militare di 500 soldati europei in Centrafrica. Inoltre, in un colloquio con il capo della diplomazia francese Laurent Fabius, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon è tornato a chiedere “un celere dispiegamento delle truppe europee” e “potenziamento del sostegno alla missione africana Misca”. (R.P.)

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    Sud Sudan: a rischio la ripresa dei colloqui ad Addis Abeba

    ◊   È sempre più incerta la ripresa del negoziato di pace ad Addis Abeba tra i rappresentanti del governo di Juba e il fronte fedele all’ex vicepresidente Riek Machar, all’origine di scontri e violenze che hanno proiettato sul Sud Sudan lo spetto di un nuovo conflitto. Ieri, l’improvviso rinvio dei colloqui che a fine gennaio avevano consentito di raggiungere un cessate-il-fuoco, finora solo parzialmente rispettato, aveva già fatto intravedere nuovi ostacoli sulla strada dei mediatori dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo). A rafforzare tale convinzione - riferisce l'agenzia Misna - nella serata di ieri, sono giunte le dichiarazioni del portavoce dei ribelli, Taban Deng, che ha minacciato di “non prendere parte ai colloqui fino a quando i prigionieri politici non saranno liberati e le truppe ugandesi abbandoneranno il territorio nazionale”. Tuttavia, sulla possibilità di una ripresa, la situazione è ancora confusa: “Queste dichiarazioni – ha detto il capo negoziatore dell’Igad, l’etiope Seyoum Mesfin in conferenza stampa – contraddicono quanto promesso finora dal loro leader, che aveva assicurato che non avrebbe posto queste questioni come una precondizione al dialogo”. Nel comunicato, i ribelli al fianco di Machar accusano le truppe di Kampala di proseguire le operazioni militari nonostante il cessate-il-fuoco e accusano le forze del presidente Salva Kiir di aver messo sotto assedio un compound dell’Onu alla periferia di Juba, che ha accolto migliaia di civili sfollati, perlopiù di etnia Nuer. Oggi, il primo ministro etiope Hailemariam Desalegn si è aggiunto al coro di quanti – come Kenya e Sudan – chiedono un ritiro delle truppe ugandesi dal Sud Sudan, poiché la loro presenza “rischia di estendere il conflitto a libello regionale” e priva l’Igad “della forza necessaria ad esercitare pressioni per il dialogo”. Non si è fatta attendere la risposta di Juba che ha rivendicato il suo “diritto sovrano di chiedere agli amici di intervenire, per mantenere la stabilità interna del Paese”. La rivalità tra il Presidente e il suo ex vice, deposto dal suo incarico nel giugno scorso nell’ambito di un ampio rimpasto di governo, ha riacceso i timori per un conflitto etnico tra le due principali comunità del Paese, i Dinka a cui appartiene Kiir, e i Nuer di cui è esponente Machar. Entrambe le parti nelle ultime settimane si accusano a vicenda di aver compiuto massacri di civili della fazione opposta. (R.P.)

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    Somalia. Attentati a Mogadiscio. Governo promette più sicurezza

    ◊   Ieri un doppio attentato ai danni di esponenti delle forze di sicurezza e del governo ha causato una vittima e quattro feriti a Mogadiscio. La notizia arriva dall’emittente locale Radio Shabelle. Un primo ordigno è stato collocato e azionato a distanza sul veicolo di Ahmed Omar Mudane, ferendo il vicecomandante dei servizi di sicurezza. Poi un’autobomba è esplosa davanti ad un albergo a nord di Mogadiscio, dove risiedono alcuni esponenti del governo somalo, uccidendo una delle guardie di sicurezza dell’edificio. Recentemente, la stessa Radio Shabelle, ha riferito che anche altre 11 persone hanno perso la vita nella stessa modalità di attentato. Il primo ministro Abdiweli Sheikh Ahmed ha assicurato che il suo governo è entrato in una nuova era ed è pronto a garantire la sicurezza al Paese. Il neo capo dell’esecutivo ha annunciato che “chiunque si renderà responsabile di crimini contro la nazione e la popolazione verrà arrestato e processato”. (V.G.)

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    Nigeria. Mons. Kaigama: pregiudizi ed ignoranza dietro le critiche alla Chiesa

    ◊   Le critiche alla posizione della Chiesa su alcuni temi etici – come l’aborto, la prevenzione dell’Aids, la ricerca sulle cellule staminali embrionali – sono spesso da attribuire a pregiudizi e a scarsa conoscenza della dottrina della Chiesa. Lo afferma mons. Ignatius Kaigama, presidente della Conferenza episcopale della Nigeria (Cbcn), intervenuto in questi giorni al Seminario per medici ed infermieri cattolici tenutosi a Jos sul tema “La pastorale sanitaria e la dottrina sociale cattolica”. Ribadendo che il punto di vista della Chiesa sui principi etici non può essere soggetto a compromessi, il presule sottolinea: “La Chiesa cattolica è spesso giudicata da persone che non si prendono la briga di conoscere cosa essa realmente faccia e quindi i pregiudizi, ereditati di generazione in generazione, rendono le critiche poco obiettive”. Mons. Kaigama, poi, punta il dito contro alcune organizzazioni internazionali che vogliono forzare il dibattito sull’etica, imponendo il punto di vista occidentale nei Paesi africani: “Non dobbiamo farci inghiottire da chi vuole imporci valori secolari”, spesso attraverso “aiuti finanziari”, esorta il presule, perché “l’Africa non deve pensare che tutto ciò che arriva dall’Occidente sia buono”. Al contrario, il presidente della Cbcn richiama la necessità di “un discernimento culturale ed intellettuale”, così da evitare il rischio di perdere i propri valori tradizionali e di non essere “né africani né occidentali”. Guardando, inoltre, alla specificità del Seminario, il presule invita medici, infermieri e tutti gli operatori sanitari a considerare il proprio lavoro “non come una carriera, ma come una vocazione” e li esorta ad approfondire la dottrina sociale della Chiesa, così da prestare un servizio “adeguato ai principi morali ed etici”. Elogiando, infine, i medici cattolici che si sono distinti nella difesa della vita “non mettendo in vendita la propria fede per alcun motivo”, mons. Kaigama esprime l’auspicio che il Seminario possa essere occasione di approfondimento dell’etica cattolica. (A cura di Isabella Piro)

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    Mali: nel nord jihadisti rivendicano il rapimento di operatori umanitari

    ◊   “Sono in vita e in buone condizioni di salute. Siamo stati noi a bloccare il veicolo dei nemici dell’Islam con a bordo i loro complici”: con queste parole Yoro Abdoulsalam, dirigente del Movimento per l’unicità del jihad in Africa Occidentale (Mujao), ha rivendicato il rapimento di cinque operatori umanitari. Poche ore prima - riferisce l'agenzia Misna - il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) si era detto “preoccupato” per aver perso le tracce, dall’8 febbraio, di un suo team operativo nell’instabile regione settentrionale del Mali. Del convoglio di cinque persone tutte di nazionalità maliana, partito da Kidal (estremo nord-est) a destinazione di Gao (più a sud) facevano parte quattro impiegati del Cicr e un veterinario di un’altra organizzazione. Il rapimento degli operatori umanitari si è verificato in un clima di rinnovata tensione nel nord del Mali, già teatro di una crisi armata durata 18 mesi a partire da gennaio 2012, quando l’estesa regione desertica dell’Azawad è passata sotto controllo di gruppi armati locali tuareg (Mnla) e di movimenti jihadisti legati ad Aqmi, tra cui il Mujao e Ansar Al Din. Sulla carta il conflitto è terminato da diversi mesi, dopo l’intervento delle truppe francesi di Serval e dei caschi blu, ma nei fatti le operazioni anti-terrorismo sono tutt’ora in corso. Proprio ieri è stato rafforzato il dispositivo di sicurezza e controlli nella capitale Bamako, in seguito ad un allarme per il rischio di possibili attentati con autobombe, diffuso dalla missione Onu nel Paese (Minusma). Le autorità hanno disposto controlli nei principali angoli della città e scorte militari presso le sedi di obiettivi sensibili. Inoltre, fonti governative e della società civile del capoluogo settentrionale di Gao hanno denunciato un “ritorno in forza sul terreno” dei combattenti del Mujao. Ieri alcune decine di jihadisti armati avrebbero lanciato un assalto contro la località di Djebock, a una cinquantina di chilometri da Gao. Il ministro della Sicurezza Sada Samake ha accusato lo stesso gruppo di essere responsabile di recenti imboscate a veicoli civili nella stessa regione ma soprattutto delle violenze della scorsa settimana tra comunità peul e tuareg, concluse con una trentina di vittime. Anche la ribellione tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla, già alleato del Mujao nel 2012), accusa i jihadisti di essere gli autori del “massacro terroristico” ai danni di una trentina di civili tuareg nella città di Tamkoutat, non lontana da Djebock. Fonti della Minusma hanno invece ricollegato il pesante bilancio di vittime a “scontri intercomunitari” che da tempo mettono a confronto i due gruppi, tuareg e peul. (R.P.)

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    Usa: la Chiesa chiede un'America più giusta per i migranti

    ◊   “Noi cattolici vogliamo la stessa cosa che volevano i padri fondatori di questo Paese: un’America giusta per tutti, che difenda gli innocenti e permetta ai deboli di migliorare la loro condizione”. Lo dice in un’intervista all'agenzia Sir José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles, in seguito al discorso del presidente americano Barack Obama che ha invitato la Camera dei rappresentanti a muoversi sul terreno della riforma dell’immigrazione per regolarizzare 11 milioni di migranti. “Bisogna trovare qualche misura per consentire ai ‘sans papier’ di espiare la pena per aver infranto la legge”, afferma Gomez. “Penso a programmi di servizio alla comunità più che a deportazioni. Al contempo dobbiamo anche offrire agli ‘indocumentados’ la chance di normalizzare il loro status e invitarli a prendere parte alla costruzione della nuova America”. “Vediamo ogni giorno Los Angeles attraverso gli occhi degli ultimi, dei padri e delle madri che lavorano sodo per dare un futuro ai loro figli”, sottolinea Gomez, per il quale “l’immigrazione è un aspetto cruciale della vita, perché concerne la dignità umana. Volgendo il pensiero alle categorie sociali più disagiate della società americana, il presule ha evidenziato che esse sono “persone senza diritti, senza sicurezza, senza assistenza sanitaria” e “questo è triste e ingiusto”, perché “sono loro i volti della riforma dell’immigrazione”. (R.P.)

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    Uruguay. Mons. Fuentes: "Siamo al centro di una tempesta ideologica. Il Paese è vicino al baratro"

    ◊   “Siamo al centro di una tempesta ideologica. Con la legalizzazione dell’aborto, la commercializzazione e la coltivazione della marijuana, i matrimoni gay e l’inseminazione artificiale il governo ha compiuto quattro passi verso l’abisso”. L’accusa è del vescovo di Minas e presidente della Commissione Vita e Famiglia della Conferenza episcopale uruguaiana, mons. Jaime Fuentes che, in una nota ufficiale, ricorda che l’Uruguay è stato il primo Paese americano ad approvare il divorzio nel 1907. “Per questo motivo la famiglia oggi è devastata” scrive il presule. “La colpa è di un sostrato ideologico individualista, che è alla base delle leggi menzionate e che influenza profondamente la formazione delle nuove generazioni. Norme che esprimono un solo concetto: la cosa più importante è che ciascuno sia felice a modo suo e che la verità è un fatto soggettivo” spiega mons. Fuentes. Il vescovo di Minas si sofferma, poi, su uno dei temi a lui più cari, la formazione: “Se si considera che l'80% degli studenti frequenta la scuola pubblica e che qui non solo non viene insegnata alcuna nozione religiosa, ma è persino proibito parlare di Dio, risulta chiaro che è necessario un impegno a lungo termine per superare questo stato di cose”. Quanto alla legalizzazione e alla vendita di marijuana, il presidente della Commissione Vita e Famiglia della Ceu critica le argomentazioni addotte dal Presidente José Mujica secondo cui si tratterebbe di un provvedimento utile a combattere il traffico di droga a seguito dei fallimenti registrati sia dalla polizia, che dall’esercito. La nuova norma, chiarisce il presule, è stata bocciata dal 62% della popolazione e dalla stessa opposizione. “A mio parere si tratta di un approccio quanto meno pelagiano, come se il peccato originale non esistesse, se non avessimo prove provate, in tutto il mondo e nel corso della storia, che lo Stato è formato da uomini e che gli uomini peccano”. Secondo mons. Fuentes “Coltivare piante di cannabis privatamente può diventare un grande business, tenuto conto che la legge lo consente anche se in numero limitato. Ma chi controlla se ho quattro o dieci piante dietro casa mia, se ne faccio un uso personale o le vendo ai turisti? Ad ogni modo sono altri gli argomenti che spiegano a gran voce che la marijuana causerà gravi danni. Così come sono tanti i medici che hanno detto una volta per tutte che fa male, altera le funzioni del cervello, le prestazioni intellettuali e fisiche ed avvia ad esperienze con droghe più pesanti”. Da qui la necessità di un ritorno alle radici: “Siamo ben lontani da quello che dice la nostra Costituzione all’articolo 40, ovvero che la famiglia è il fondamento della società e che lo Stato è tenuto a tutelarla per una migliore formazione dei bambini”. Mons. Fuentes si dice convinto che l’Uruguay di oggi è paragonabile a quello in cui vissero i primi cristiani. “Con la loro coerenza e il loro esempio, comunque ebbero la meglio. Siamo nel bel mezzo di una tormenta ideologica che passerà, come tante altre. Ma è necessario lavorare e pregare, pregare molto e lavorare molto. (A cura di Davide Dionisi)

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    Myanmar: cristiani, musulmani e buddisti insieme per la Vergine di Nyaunglebin

    ◊   Il governo del Myanmar deve abbandonare "la propria natura aggressiva", il "mobbing verso gli innocenti" e "l'ingiustizia" verso i cittadini, cercando al contempo di "riparare i danni causati fino a oggi". È l'appello lanciato da mons. Charles Bo, arcivescovo di Yangon, alle centinaia di migliaia di fedeli - cristiani e non - che hanno partecipato alle solenni celebrazioni per il 112.mo anniversario del santuario di Nostra Signora di Lourdes a Nyaunglebin. Il centenario luogo di culto mariano sorge nel distretto di Bago, 145 km a nord di Yangon, diocesi di appartenenza. Dal 7 al 9 febbraio cristiani, buddisti, musulmani e indù - oltre 100mila persone - hanno affollato il santuario per pregare la Madonna e chiedere grazie personali e per tutto il Paese. Quest'anno il governo di Naypyidaw ha imposto meno vincoli e restrizioni ai fedeli diretti a Nyaunglebin, favorendo un flusso record di persone provenienti da tutto il Paese. Pace in Myanmar e la fine delle violenze confessionali - in particolare nello Stato di Rakhine, fra buddisti e musulmani - le intenzioni di preghiera più comuni. Almeno mille i pellegrini provenienti dallo Stato settentrionale Kachin, dove è concentrata una nutrita rappresentanza cristiana. Il santuario è considerato un luogo privilegiato di "rinnovamento spirituale" e di "rafforzamento della fede" per tutti. A guidare le celebrazioni vi erano oltre 200 sacerdoti, circa 300 religiosi, tre arcivescovi e suore. Mons. Charles Bo ha presieduto la solenne concelebrazione eucaristica della mezzanotte dell'8 febbraio, chiedendo "pace, giustizia e sviluppo umano" per tutte le anime della nazione birmana, le sue etnie e le comunità religiose. Nel corso dell'omelia l'arcivescovo di Yangon ha parlato di "opportunità storica" per un vero processo di "riconciliazione e di ricostruzione della nostra nazione", grazie anche al contributo della Chiesa nei settori "dell'istruzione e dello sviluppo umano". Con l'intercessione di Maria, ha spiegato il prelato, sarà possibile "ricostruire" ciò che "è andato perduto". La Madonna, ha aggiunto, "non smette mai di prendersi cura dei malati, degli emarginati, dei disabili, degli orfani, di quanti sono senza speranza". È Lei che accompagna, continua mons. Bo, nei momenti "di gioia e di dolore". Quest'anno la Chiesa del Myanmar festeggia i 500 anni di storia e rende omaggio ai propri martiri, una componente essenziale dei cinque secoli di vita e di evangelizzazione nel Paese asiatico. Mons. Bo si è augurato che "le ferite della storia siano lenite" e che i fatti del passato "non vengano mai dimenticati" - il dramma della dittatura militare, la repressione - perché "celare la storia di una nazione, implica al contempo occultare la vera pace e la giustizia". Da ultimo, l'arcivescovo di Yangon ha reso omaggio al lavoro svolto dalla Chiesa e dai missionari a favore "dei fratelli e sorelle" che vivono nelle zone montagnose e remote della nazione, spesso dimenticate dalle autorità e dai vertici del governo centrale. I missionari "hanno portato nuove lingue", conclude il prelato, insegnanti e libri "per costruire la Chiesa locale al costo delle loro stesse vite". Il Myanmar è una nazione caratterizzata da forti contrasti, soprattutto fra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana. I cattolici birmani sono una piccolissima percentuale sul totale (poco più dell'1%), ma la loro presenza e il loro lavoro verso l'unità e la pace sono fondamentali in una realtà contraddistinta da conflitti etnici e scontri interconfessionali. Spesso ancora oggi essere cristiani è un "fattore identitario" per molte tribù - vedi le minoranze religiose Karen e Kachin - che deve però diventare fonte di incontro e non elemento di divisione, come ha sottolineato più volte in passato lo stesso arcivescovo di Yangon. (R.P.)

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    Australia: sussidio dei vescovi per la festa di San Valentino

    ◊   Saranno circa 25mila i fidanzati di tutto il mondo che incontreranno Papa Francesco in Piazza San Pietro venerdì prossimo, 14 febbraio, per la Festa di San Valentino, Patrono degli innamorati. Un incontro che avrà l’obiettivo di ribadire l’importanza del “per sempre”, della scelta affettiva duratura in una società dominata – come ha detto spesso il Papa – dalla “cultura del provvisorio”. Anche la Chiesa australiana si sta preparando all’evento e per l’occasione la Conferenza episcopale ha pubblicato un sussidio, intitolato “Il matrimonio, amore romantico per sempre”. Il testo – che contiene spunti di riflessione per le omelie, l’agiografia di San Valentino e indicazioni spirituali per i fidanzati – è a cura della Commissione episcopale per la Vita pastorale (Bcpl) e del Consiglio australiano cattolico per il matrimonio e la famiglia (Acmfc). Inaugurato nel 2010 e giunto alla quinta edizione, il sussidio – spiega mons. Eugene Hurley, presidente della Bcpl – vuole ribadire l’importanza della preparazione al matrimonio: “In una cultura sempre più intollerante di fronte ai valori ed al credo cristiano – si legge nella prefazione – le feste che hanno colpito l’immaginario collettivo in senso secolare, come quella di San Valentino, rappresentano un’opportunità unica per la Chiesa” per “sottolineare gli aspetti positivi di tali valori e proteggerli per il bene dell’intera comunità”. “È essenziale – affermano Ron e Mavis Pirola, co-presidenti dell’Acmfc – riaffermare l’importanza della vocazione del matrimonio cristiano” ed è per questo che “si vuole riportare alle origini cristiane il focus di quella che è divenuta una festa secolare, e celebrare San Valentino come una figura storica realmente vissuta nella Chiesa”, “un martire” che “ci indica l’importanza del sacramento del matrimonio nella società”. (I.P)


    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 42

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.