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Sommario del 10/02/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa: vivere il mistero della presenza di Dio nella Messa, venire a Santa Marta non è tappa turistica
  • P. Lombardi: Benedetto XVI vive il tempo della preghiera, la sua rinuncia ha inciso nella storia della Chiesa
  • Altre udienze e nomine di Papa Francesco
  • Tweet del Papa: preghiamo per i sacerdoti che si dedicano alla gente con generosità e sacrificio silenzioso
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Crisi siriana. Ripresi i colloqui di pace a Ginevra. Brahimi: stop delle violenze e governo di transizione
  • Veglia di preghiera per la Siria a Roma. Mons. Marayati: "Crediamo ancora nella pace"
  • Centrafrica. Non c'è sicurezza a Bangui: la testimonianza di un missionario
  • L'Europa alla Svizzera: dal voto ci saranno problemi. A rischio l'accordo di mercoledì
  • Il "gigantismo" delle Olimpiadi. L'analisi dell'economista Luigino Bruni
  • Giorno del ricordo per le vittime delle foibe. Una pagina storica cancellata per 60 anni
  • "Save the children" risponde a "La Repubblica": travisata la nostra ricerca sui social network
  • Pillola del giorno dopo. Cambia la dicitura: da abortivo a contraccettivo. Scienza e Vita: "Una bugia"
  • Grande partecipazione popolare per l'Ostensione delle spoglie di Don Gnocchi
  • 75 anni fa la morte di Pio XI. Giovagnoli: un grande Papa missionario
  • Illmitz: con l'opera prima di Susanna Tamaro si apre una pagina nuova per la scrittrice triestina
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Siria. Nuovo video delle suore di Maaloula: chiedono la liberazione di "tutti i detenuti" nel Paese
  • Centrafrica. Appello dei leader religiosi: non trascinare la religione nel conflitto politico
  • Libano. Festa di San Marone: un'occasione per riflettere sulla Carta dei vescovi
  • Sud Sudan: la Chiesa chiede un ruolo nelle trattative di pace
  • Sud Africa: messaggio dei vescovi in vista delle elezioni del 7 maggio
  • Colombia. L'impegno della Chiesa: negoziati di pace anche con altri gruppi
  • Australia: condizioni disumane per i bambini nei Centri di detenzione per immigrati
  • Malaysia. Appello di leader civili e religiosi: un nuovo anno all’insegna dell’armonia
  • Indonesia: a Java le chiese di Pantura in prima linea per le vittime dell'alluvione
  • Myanmar: cristiani, musulmani e buddisti insieme per la Vergine di Nyaunglebin
  • Regno Unito: preoccupazione dei vescovi per la consultazione sull'aborto lanciata dal Ministero della salute
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa: vivere il mistero della presenza di Dio nella Messa, venire a Santa Marta non è tappa turistica

    ◊   Riscoprire il senso del sacro, il mistero della presenza reale di Dio nella Messa: è l’invito di Papa Francesco durante la celebrazione eucaristica presieduta stamani a Santa Marta. Ce ne parla Sergio Centofanti:

    La prima Lettura del giorno parla di una teofania di Dio ai tempi del re Salomone. Il Signore scende come nube sul Tempio, che viene riempito della gloria di Dio. Il Signore – commenta il Papa – parla al suo Popolo in tanti modi: attraverso i profeti, i sacerdoti, la Sacra Scrittura. Ma con le teofanie parla in un’altra maniera, “diversa dalla Parola: è un’altra presenza, più vicina, senza mediazione, vicina. E’ la Sua presenza”. “Questo – spiega - succede nella celebrazione liturgica. La celebrazione liturgica non è un atto sociale, un buon atto sociale; non è una riunione dei credenti per pregare assieme. E’ un’altra cosa. Nella liturgia, Dio è presente”, ma è una presenza più vicina. Nella Messa, infatti, “la presenza del Signore è reale, proprio reale”:

    “Quando noi celebriamo la Messa, noi non facciamo una rappresentazione dell’Ultima Cena: no, non è una rappresentazione. E’ un’altra cosa: è proprio l’Ultima Cena. E’ proprio vivere un’altra volta la Passione e la morte redentrice del Signore. E’ una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo. Noi sentiamo o diciamo: ‘Ma, io non posso, adesso, devo andare a Messa, devo andare a sentire Messa’. La Messa non si ‘sente’, si partecipa, e si partecipa in questa teofania, in questo mistero della presenza del Signore tra noi”.

    Il presepe, la Via Crucis, sono rappresentazioni – ha spiegato ancora Papa Francesco – la Messa, invece, “è una commemorazione reale, cioè è una teofania: Dio si avvicina ed è con noi, e noi partecipiamo al mistero della Redenzione”. Purtroppo – ha sottolineato – tante volte guardiamo l’orologio a Messa, “contiamo i minuti”: “non è l’atteggiamento proprio che ci chiede la liturgia: la liturgia è tempo di Dio e spazio di Dio, e noi dobbiamo metterci lì, nel tempo di Dio, nello spazio di Dio e non guardare l’orologio”:

    “La liturgia è proprio entrare nel mistero di Dio, lasciarsi portare al mistero ed essere nel mistero. Per esempio, io sono sicuro che tutti voi venite qui per entrare nel mistero; però, forse qualcuno dice: ‘Ah, io devo andare a Messa a Santa Marta perché nella gita turistica di Roma c’è da andare a visitare il Papa a Santa Marta, tutte le mattine: è un posto turistico, no?’ (ride). Tutti voi venite qui, noi ci riuniamo qui per entrare nel mistero: è questa la liturgia. E’ il tempo di Dio, è lo spazio di Dio, è la nube di Dio che ci avvolge tutti”.

    Il Papa ricorda che, da bambino, durante la preparazione alla Prima Comunione, c’era un canto che indicava come l’altare fosse custodito dagli angeli per dare “il senso della gloria di Dio, dello spazio di Dio, del tempo di Dio”. E quando, durante le prove, si portavano le ostie, dicevano ai bambini: “Guardate che queste non sono quelle che voi riceverete: queste non valgono niente, perché ci sarà la consacrazione!”. Così, conclude il Papa, “celebrare la liturgia è avere questa disponibilità ad entrare nel mistero di Dio”, nel suo spazio, nel suo tempo, e affidarsi “a questo mistero”:

    “Ci farà bene oggi chiedere al Signore che dia a tutti noi questo ‘senso del sacro’, questo senso che ci fa capire che una cosa è pregare a casa, pregare in chiesa, pregare il Rosario, pregare tante belle preghiere, fare la Via Crucis, tante cose belle, leggere la Bibbia … e un’altra cosa è la celebrazione eucaristica. Nella celebrazione entriamo nel mistero di Dio, in quella strada che noi non possiamo controllare: soltanto è Lui l’Unico, Lui la gloria, Lui è il potere, Lui è tutto. Chiediamo questa grazia: che il Signore ci insegni ad entrare nel mistero di Dio”.

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    P. Lombardi: Benedetto XVI vive il tempo della preghiera, la sua rinuncia ha inciso nella storia della Chiesa

    ◊   Ricorre domani il primo anniversario dell'annuncio della rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI. Un gesto epocale che fu accolto con immensa sorpresa in tutto il mondo e non solo nella Chiesa. Al momento della rinuncia, del resto, molti osservatori ammisero che non si era preparati ad una decisione di tale portata. Per una riflessione sulla rinuncia di Papa Benedetto, un anno dopo, Alessandro Gisotti ha intervistato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana e della nostra emittente:

    R. – Erano secoli che non si aveva una rinuncia da parte di un Papa e quindi per la grandissima maggioranza delle persone si trattava di un gesto inusitato e sorprendente. In realtà, per chi accompagnava più da vicino Benedetto XVI, si era capito che aveva una riflessione su questo tema, e lo aveva detto già esplicitamente nella sua conversazione con Peter Seewald, qualche tempo prima – diverso tempo prima. E quindi, era un tema su cui egli pregava, rifletteva valutava, faceva un suo discernimento spirituale. E’ quello di cui ci ha dato poi atto e ci ha dato come un rapporto sintetico nel giorno della sua rinuncia, in quelle parole brevi ma densissime che spiegavano in modo assolutamente adeguato e chiaro i criteri in base a cui aveva preso la sua decisione. Quello che io dico – e ho detto già allora – è che mi sembrava un grande atto di governo, cioè una decisione presa liberamente che incide veramente nella situazione e nella Storia della Chiesa. In questo senso è un grande atto di governo, fatto con una grande profondità spirituale, una grande preparazione dal punto di vista della riflessione e della preghiera; un grande coraggio perché, effettivamente, trattandosi di una decisione inusitata, potevano esserci tutti i problemi o i dubbi sul “che cosa” avrebbe significato, come riflessi, come conseguenze per il futuro, come ricezione da parte del popolo di Dio o del pubblico. La chiarezza con cui Benedetto XVI si era preparato a questo gesto e, direi, la fede con cui si era preparato, gli ha dato la serenità e la forza necessaria per attuarla, andando con coraggio e con serenità, con una visione veramente di fede e di attesa del Signore che accompagna continuamente la sua Chiesa, incontro a questa situazione nuova che egli ha vissuto in prima persona, per diverse settimane, e poi la Chiesa ha vissuto con l’avvicendamento e l’elezione del nuovo Papa, come tutti sappiamo. Ecco: quindi, si è verificato in pieno questo senso di accompagnamento della Chiesa in cammino da parte dello Spirito del Signore.

    D. – Proprio riguardo a questo ultimo passaggio: in molti, un anno fa, si chiedevano come sarebbe stata l’inedita convivenza tra due Papi. Oggi si vede che tante paure – forse più degli “esperti” che del popolo di Dio – erano esagerate …

    R. – Sì … da questo punto di vista, a me sembrava assolutamente chiaro che non ci fosse da avere assolutamente nessun timore. Perché? Perché la questione è quella del fatto che il papato è un servizio e non è un potere. Se si vivono i problemi in chiave di potere, allora è chiaro che due persone possono avere difficoltà a convivere perché può essere difficile il fatto di rinunciare ad un potere e convivere con il successore. Ma se si vive tutto esclusivamente come servizio, allora una persona che ha compiuto il suo servizio davanti a Dio e in piena coscienza passa il testimone di questo servizio ad un’altra persone che con atteggiamento di servizio e di piena libertà di coscienza svolge questo compito, allora il problema non si pone assolutamente! C’è una solidarietà spirituale profonda fra i Servitori di Dio che cercano il bene del popolo di Dio nel servizio del Signore.

    D. – Papa Benedetto si è congedato sottolineando che avrebbe continuato a servire la Chiesa con la preghiera: questo è un contributo realmente straordinario che ha dato, e sta dando ancora, vero?

    R. – Sì … un piccolissimo ricordo personale: soprattutto nei primi tempi del Pontificato, ogni volta che c’era un’udienza e io passavo a salutare il Papa, come abituale mi dava un Rosario, perché succede spesso che si dia un’immagine, un Rosario, una medaglia … E ogni volta che il Papa mi dava un Rosario diceva: “Anche i preti devono ricordarsi di pregare”. Ecco, questo non l’ho mai dimenticato, perché manifestava così, in un modo molto semplice, la sua convinzione e la sua attenzione al posto della preghiera nella nostra vita, anche e in particolare nella vita di chi ha compiti di responsabilità nel servizio del Signore. Ecco, Benedetto XVI certamente è stato sempre un uomo di preghiera, in tutta la sua vita, e desiderava – probabilmente – avere un tempo in cui vivere questa dimensione della preghiera con più spazio, totalità e profondità. E questo è adesso il suo tempo.

    D. – D’altro canto, la vita di preghiera di Papa Benedetto non manca di avere momenti di incontro, anche con Papa Francesco, come sappiamo. Cosa può dire su questa dimensione di vita nascosta, ma non isolata, di Joseph Ratzinger?

    R. – Credo che sia giusto rendersi conto che vive in un modo discreto, senza una dimensione pubblica; ma questo non vuol dire che viva isolato, chiuso come in una clausura stretta. Svolge un’attività normale per una persona anziana – una persona anziana religiosa: quindi, una vita di preghiera, di riflessione, di lettura, di scrittura nel senso che risponde alla corrispondenza che riceve; di colloqui, di incontri con persone che gli sono vicine, che incontra volentieri, con cui ritiene utile avere un dialogo, che gli chiedono consiglio o vicinanza spirituale. Ecco, quindi: la vita di una persona ricca spiritualmente, di grande esperienza, in un rapporto discreto con gli altri … Quello che non c’è è la dimensione pubblica a cui eravamo abituati, essendo il Papa, e quindi era sempre sui teleschermi, davanti all’attenzione di tutto il mondo. Questo non c’è; ma per il resto, è una vita normale di rapporti. E tra questi rapporti, c’è il rapporto con il suo successore, il rapporto con Papa Francesco che, come sappiamo, ha dei momenti anche di incontro personale, di dialogo … uno è andato a casa dell’altro e viceversa. E poi ci sono le altre forme di contatto che possono essere il telefono o i messaggi che vengono mandati: una situazione di rapporto del tutto normale, direi, e di solidarietà. Mi pare che sia molto bello per noi, quando abbiamo quelle rare immagini dei due Papi insieme e che pregano insieme – il Papa attuale e il Papa emerito: è un segno molto bello e incoraggiante, della continuità del ministero petrino nel servizio della Chiesa.

    D. – Da ultimo: padre Lombardi, lei ha seguito Benedetto XVI per tutti gli anni del suo Pontificato. Cosa Papa Benedetto le sta dando ora, personalmente, spiritualmente, dall’11 febbraio scorso?

    R. – Ma, io sento molto la presenza di Papa Benedetto XVI, come una presenza spirituale forte che accompagna, che rasserena … Io penso alle grandi figure degli anziani della Storia della Chiesa e della Storia sacra; in particolare, tutti pensiamo – per esempio – a Simeone, che accoglie nel Tempio Gesù e che guarda con gioia anche al suo destino eterno e anche al futuro della comunità che continua a camminare su questa terra. Ecco, tutti noi sappiamo il grandissimo valore di avere con noi gli anziani, anziani ricchi di saggezza, ricchi di fede, sereni: sono veramente un grandissimo aiuto per chi è più giovane, per andare avanti guardando con fiducia e con speranza al futuro. Questo è per me – e credo per la Chiesa – Benedetto XVI: il Grande Anziano, saggio, diciamo pure: santo, che ci invita con serenità – perché è anche bello, quando lo si vede: dà veramente un’impressione di grande serenità spirituale. Ha conservato il suo sorriso che ci era abituale, nei momenti belli in cui lo incontravamo – e che ci invita quindi ad andare avanti nel cammino, con fiducia e con speranza.

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    Altre udienze e nomine di Papa Francesco

    ◊   Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in Udienza: il card. Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; il card. Agostino Vallini, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma; mons. Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino. Il Santo Padre ha ricevuto nel pomeriggio di sabato 8 febbraio il card. Julián Herranz.

    In Zambia, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Monze (Zambia), presentata da S.E. Mons. Emilio Patriarca, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato Vescovo della diocesi di Monze il Rev.do Sac. Moses Hamungole, del clero di Lusaka, Direttore del programma inglese-Africa e kishwahili della Radio Vaticana.

    In Argentina, il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Prelatura territoriale di Cafayate, presentata da Mons. Mariano Anastasio Moreno García, O.S.A., per sopraggiunti limiti d’età. Il Santo Padre ha nominato Vescovo Prelato di Cafayate il rev.do P. José Demetrio Jiménez Sánchez-Mariscal, O.S.A., finora Vicario Regionale degli Agostiniani in Argentina.

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    Tweet del Papa: preghiamo per i sacerdoti che si dedicano alla gente con generosità e sacrificio silenzioso

    ◊   Papa Francesco ha lanciato questo nuovo tweet sull'account @Pontifex: "Preghiamo per tutti i sacerdoti buoni e fedeli che si dedicano alla loro gente con generosità e sacrificio silenzioso".

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Come lampade accese: all’Angelus il pensiero del Papa ai malati e il saluto agli atleti impegnati nei Giochi olimpici di Sochi.

    A Messa senza orologio: il Pontefice celebra a Santa Marta.

    11 febbraio: l’editoriale sull’anniversario della firma dei Patti Lateranensi.

    Un anno dopo: l’11 febbraio 2013 nei media internazionali, con una riflessione del cardinale Antonio Canizares Llovera dal titolo “Solo Dio basta” e una sintesi dell’intervista dell’arcivescovo Georg Gänswein al Centro televisivo vaticano.

    Un articolo di Alberto Manzoni dal titolo “In quella lista Venezia non c’era”: l’arcivescovo Loris Francesco Capovilla ricorda quando Roncalli fu scelto come cardinale.

    E l’anatroccolo diventò un cigno: Marco Beck sull’edizione nazionale delle opere di Giuseppe Parini.

    Shakespeare agostiniano: Marco Tebaldi recensisce il musical “Romeo e Giulietta. Ama e cambia il mondo”.

    A trent’anni dalla “Salvifici doloris” un articolo di Federico Cancelli sul senso della sofferenza.

    Quello scambio di umanità fra sano e malato: l’arcivescovo Zygmunt Zimowski sul messaggio del Papa per giornata mondiale.

    Una testimonianza insostituibile: il Corpo diplomatico presso la Santa Sede.

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    Oggi in Primo Piano



    Crisi siriana. Ripresi i colloqui di pace a Ginevra. Brahimi: stop delle violenze e governo di transizione

    ◊   In Siria continuano gli scontri tra lealisti e rivoltosi: oltre 20 le vittime in varie parti del Paese nelle ultime ore, mentre a Ginevra è iniziato il secondo round dei colloqui tra la delegazione del regime e una della Coalizione delle forze di opposizione. Sul tappeto, la richiesta dell'inviato di Onu e Lega Araba, Lakdar Brahimi, per una tregua bilaterale e la formazione di un governo di transizione. La Francia, insieme ad altri Paesi, punta all’apertura di corridoi umanitari, mentre l'Arabia Saudita ha chiesto alle Nazioni Unite un vertice d'emergenza sulla situazione in Siria. Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo:

    R. – Si rischia che possa impantanarsi fin dall’inizio, un’ipotesi di un governo di transizione. A mio avviso il primo passo fondamentale, e forse fattibile, è quello di puntare ad una pausa nei combattimenti. Questo potrebbe dare qualche speranza per una trattativa che non sia condizionata dalle notizie continue di morti e feriti per bombardamenti o per fame, le ultime notizie parlavano appunto di 136 mila morti in questo terribile conflitto, nonché di milioni di persone che continuano a fuggire dalla Siria.

    D. – Il mediatore Brahimi ha intenzione di incontrare le delegazioni separatamente per i prossimi due giorni …

    R – E’ una metodologia negoziale che permette di far sì che due delegazioni, che altrimenti si scontrerebbero immediatamente, invece possano incominciare a ragionare con un mediatore che appunto è terzo, rispetto a questo conflitto; Brahimi potrebbe svolgere un ruolo fondamentale per arrivare ad un’ipotesi di accordo, almeno su alcuni punti minimali.

    D. – La Francia ed altri Paesi premono affinché siano aperti dei corridoi umanitari: secondo lei, è percorribile questa strada?

    R. – E’ un nodo da affrontare, perché da Homs a Damasco e a tante altre zone, nel conflitto ci vanno di mezzo i civili. Questo mi sembra fondamentale. Poi, l’incarico di chi lo possa sorvegliare, evidentemente, dev’essere dato dalle Nazioni Unite a rappresentanti delle Nazioni Unite, perché certamente non può essere sorvegliato da una delle due parti in causa.

    D. – Anche perché assistiamo a scontri anche all’interno dei gruppi di rivoltosi …

    R. – Questo è uno dei grandi problemi di questa trattativa, perché all’interno dei ribelli noi assistiamo a posizioni le più variegate: da quelli che avevano iniziato la rivolta ad al Qaeda e così via. E questa, tra l’altro, è una delle preoccupazioni della comunità internazionale.

    D. – L’Arabia Saudita invoca un vertice d’emergenza in sede Onu proprio sulla Siria; alcuni osservatori ribadiscono che questa richiesta mostra un po’ la debolezza di “Ginevra 2” …

    R. – Certamente: si indica chiaramente che non si ha fiducia in questo negoziato, e dato che l’Arabia Saudita è strettamente legata a tutta l’area di crisi, come per altri versi l’Iran, un intervento del genere vuol dire sostanzialmente sfiduciare un po’ l’azione di Brahimi.

    D. – Allo stato attuale, quindi, bisogna soltanto aspettare?

    R. – Assolutamente sì. Sperando che Brahimi riesca a trovare una mediazione. Ma, certamente, se dall’esterno arrivano segnali contrari, come quello dell’Arabia Saudita si rischia che, per quanto possa essere capace l’azione diplomatica di Brahimi, le influenze esterne possono minarne i risultati finali.

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    Veglia di preghiera per la Siria a Roma. Mons. Marayati: "Crediamo ancora nella pace"

    ◊   Si è pregato per la Siria ieri sera a Roma: nella parrocchia di Santa Maria in Portico in Campitelli, una veglia è stata presieduta dal vescovo ausiliare di Roma mons. Matteo Zuppi. I fedeli e religiosi presenti hanno pregato per la pace nel Paese mediorientale e la liberazione di tutti i rapiti, in particolare i due sacerdoti padre Michel Kayyal e padre Maher Mahfouz, il vescovo siro-ortodosso di Aleppo, Gregorios Youhanna Ibrahim, e il vescovo greco-ortodosso di Aleppo e Iskenderun, Bouloz Yaziji, le suore di Maalula e padre Paolo Dall’Oglio, gesuita romano. Per noi c’era Davide Maggiore:

    “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati, beati i miti, perché avranno in eredità la terra… Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. Il “discorso della montagna”, tratto dal Vangelo di Matteo, insieme ai canti della comunità di Taizé, ha accompagnato la meditazione di quanti si sono raccolti in preghiera. Questa la riflessione di mons. Matteo Zuppi:

    “Non c’è felicità e non c’è beatitudine senza lavorare per la pace, senza scegliere di stare dalla parte di chi è afflitto, di chi deve essere consolato, non c’è felicità chiudendosi nella bolla di sapone o diventando spettatori. Il rischio di fronte alle guerre e anche alla guerra in Siria è di essere distratti, di non vivere la tragedia di quel Paese. Lavorare per la pace vuol dire perlomeno fare nostra la domanda, il gemito di dolore, e intercedere per la Siria”.

    Oltre all’intercessione per la Siria e per i popoli del Medio Oriente - perché abbandonino ogni divisione e costruiscano un futuro di giustizia e pace - a un anno dal sequestro dei due sacerdoti di Aleppo, si è chiesta la liberazione loro e di tutti gli ostaggi del conflitto siriano. Ancora mons. Zuppi:

    “Molti di loro li conoscevamo, sono amici, persone che, come i due vescovi, in realtà cercavano di liberare altri. Ci aiutano a capire la tragedia di questo Paese che è interamente prigioniero della violenza e della guerra”.

    Della situazione in Siria ha dato testimonianza mons. Boutros Marayati, l’arcivescovo armeno cattolico di Aleppo, che ha parlato di una città “martire”, i cui abitanti sono “senza acqua, senza luce, senza cibo, senza medicine né riscaldamento”:

    “Ma noi ancora crediamo nella pace, ancora crediamo che Dio è con noi e non ci lascia mai. Crediamo nella forza della preghiera. Crediamo nei miracoli!”.

    La preghiera dei religiosi e dei fedeli di Roma è una consolazione per il popolo sirano, ha proseguito l’arcivescovo:

    “Dirò ai miei fedeli: non abbiate paura, non lasciate il Paese, credete nel Signore e il Signore ascolterà il grido di tutti coloro che vivono la guerra e aspettano la pace”.

    Sul valore della preghiera si è soffermato anche mons. Zuppi, a partire dalla parabola evangelica della vedova insistente:

    “Non può che essere così. Chi vuole giustizia e chi è colpito dalla sofferenza chiede con insistenza finché non ottiene. È quello che noi dobbiamo far nostro, ciò che il Signore ci insegna, cioè a essere insistenti. Per noi che siamo spesso molto più rapidi, ci stanchiamo subito, questa insistenza ci aiuta ad andare in profondità e scegliere davvero di pregare per la Siria”.

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    Centrafrica. Non c'è sicurezza a Bangui: la testimonianza di un missionario

    ◊   Nuove violenze nella Repubblica Centrafricana: almeno 11 persone, tra cui un parlamentare, sono rimaste uccise in scontri e saccheggi avvenuti nelle ultime ore a Bangui. Il Paese africano è piombato nel caos da quando, nel marzo 2013, i ribelli Seleka portarono al potere Michel Djotodia, dimessosi poi il mese scorso per l’incapacità di fermare i combattimenti. Al momento le truppe francesi schierate in Centrafrica denunciano sanguinose azioni anche da parte delle milizie anti-Balaka. Alla presidenza del Consiglio nazionale di transizione è stata intanto eletta il sindaco di Bangui, Catherine Samba Panza, ma le condizioni di sicurezza in città sono ancora precarie. La testimonianza di padre Joseph Tanga Koti, responsabile della casa di formazione della Società Missioni Africane a Bangui. L’intervista è di Giada Aquilino:

    R. – Ieri stavo celebrando la Messa al Seminario maggiore, dove sono riparate tra le 5mila e le 7mila persone, che al momento alloggiano lì, e abbiamo udito colpi di fucile: dopo, alla radio, abbiamo sentito che c’erano state violenze in un quartiere popolare, abitato da musulmani e dove sorgono tanti negozi. Ci sono stati anche dei morti, 10-11 persone, e sono stati segnalati pure dei furti. Questo capita forse perché quelli che abitano lì, in passato, erano molto vicini alle forze Seleka e gli stessi Seleka abitavano in quella zona: alcuni mesi fa, quando sono venuti a fare il colpo di Stato, erano loro che andavano a rubare in altri quartieri.

    D. – Adesso ad agire sono le forze anti-Balaka?

    R. – Ci sono le milizie anti-Balaka, ma sul terreno operano pure i francesi e i militari della Misca - la missione internazionale – che vengono da Rwanda, Burundi, Congo e sono lì per proteggere la popolazione.

    D. – Le ultime notizie sono che tra le vittime c’è anche un parlamentare …

    R. – Sì, era un parlamentare che veniva dal centro-nord, un parente del ministro della Giustizia. Mi sembra che si opponesse alla violenza contro alcuni musulmani. Al momento però non dicono ancora perché sia stato ucciso. Adesso, a causa della violenza che imperversa a Bangui, è facile essere uccisi.

    D. – Quindi non c’è sicurezza al momento a Bangui?

    R. – Non c’è tanta sicurezza. Il livello della violenza adesso è molto alto, ci sono molti gruppi che hanno armi e nei cuori c’è tanto rancore. Per questo motivo tutti quelli che si sono rifugiati nelle missioni cattoliche non vogliono andare a casa.

    D. – La stampa riporta anche notizie di vittime in scontri a sfondo religioso: è così?

    R. – Non posso dire che sia un problema tra musulmani e cristiani. Quando si parla di Seleka e anti-Balaka, i politici vogliono presentare tutto come uno scontro tra musulmani e cristiani mentre il problema, all’origine, è stato di potere politico: è stata una coalizione militare che è venuta a fare un colpo di Stato. La questione è che coloro che hanno preso il potere erano musulmani e altri musulmani li hanno appoggiati per proteggere le loro ricchezze: sembrava che andassero non contro i cristiani, ma contro i non musulmani. Quando ci fu il movimento per contrastare questa violenza, quelli che si opposero andarono contro i musulmani. Per questo, alcuni organi di stampa definiscono gli anti-Balaka “milizia cristiana”, mentre all’interno degli anti-Balaka ci sono solo persone che non credono a niente.

    D. – In questo quadro di violenza, qual è la speranza della Chiesa centrafricana?

    R. – La Chiesa spera che il Centrafrica possa ancora tornare com’era: un popolo non violento, un popolo fraterno, un popolo unito e accogliente. Noi, nella Chiesa, annunciamo che l’ultima parola non è la violenza, ma l’amore, la pace, la riconciliazione.

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    L'Europa alla Svizzera: dal voto ci saranno problemi. A rischio l'accordo di mercoledì

    ◊   All’indomani del voto in Svizzera, che ha visto la vittoria dei sì sulle quote degli immigrati, risponde l’Unione Europea e, in attesa di mercoledì, giorno in cui è prevista la firma dell’accordo istituzionale Ue-Svizzera per l’adattamento dell’insieme delle norme svizzere a quello dell’Unione, da Bruxelles arriva l’avvertimento di Barroso: l’accordo “non parte sotto buoni auspici”. Dalla Germania, alla Francia, all’Italia, i Paesi europei hanno reagito negativamente al voto elvetico, che va contro il principio della libera circolazione tra l’Ue e la Svizzera. I vescovi elvetici a proposito del referendum sull'immigrazione avevano parlato di "visione dell'uomo discriminatoria". Francesca Sabatinelli ha intervistato il vescovo di Lugano, mons. Valerio Lazzeri:

    R. - Certamente, i vescovi avevano segnalato il pericolo di una presa di posizione che non solo segnala il crescere della difficoltà della Svizzera a continuare a lasciare entrare nel Paese altri immigrati, ma mette la Svizzera in una posizione particolare all’interno dell’Europa, perché evidentemente questa posizione contro il procedere di questa immigrazione nel Paese significa che bisogna rivedere tutti gli accordi con l’Europa. E questo porterà la Svizzera ad un ulteriore isolamento, questo preoccupa molto.

    D. – Sono stati 17 i cantoni che si sono schierati a favore, tra cui il Ticino, con un’altissima percentuale di ‘sì’: il 68,17% …

    R. – Bisogna pensare che il Ticino è un cantone di frontiera, e quindi la gente è molto impaurita di fronte ad un certo aumento soprattutto dei frontalieri che vengono ad occupare tanti posti, non portando via lavoro agli svizzeri ma provocando degli effetti a livello salariale che possono lasciare molto preoccupati gli svizzeri. Il risultato dipende molto dalla collocazione geografica dei cantoni. Il Ticino ha risposto in questo modo perché in un cantone di confine è più forte la paura che questa immigrazione possa avere uno sviluppo indiscriminato. Si è giocato molto sulla paura, ma c'erano altre vie per rispondere alle preoccupazioni – anche legittime – dei ticinesi e degli svizzeri nei confronti di questa presenza che va controllata e accompagnata, ma con altri mezzi, non fissando quote che rischiano di far tornare a stagioni ormai, si sperava, superate. Si è paventato perfino il ritorno dello Statuto degli stagionali, che abbiamo sperimentato quanto sia stato deleterio per molte famiglie di immigrati.

    D. – Allo stesso tempo è stato invece bocciato il secondo quesito, cioè quello che invece bloccava il finanziamento alla pratica dell’aborto …

    R. – I vescovi avevano preso una posizione molto prudente perché la formulazione di questa iniziativa sembrava molto imperfetta. Si coglieva l’aspetto positivo, nel senso che l’iniziativa voleva incidere su questa mentalità abortista che ha preso sempre più piede negli ultimi decenni, però, la stessa argomentazione dell’iniziativa rischiava, facendo dell’aborto una questione privata, di compromettere altre iniziative di accompagnamento delle persone che intendevano praticare l’aborto, per esempio all’interno dei consultori. Se è una questione privata – si sarebbe potuto anche dire – allora togliamo le persone che potrebbero accompagnare coloro che stanno per fare un aborto e quindi aiutarle a distoglierle da questa decisione. L’iniziativa così formulata sembrava troppo imperfetta per poter raccogliere un consenso pieno da parte dell’organizzazione anti-aborto e quindi anche la Chiesa non ha voluto vincolare la coscienza dei cattolici ad un ‘sì’, anche se ha apprezzato l’intento di voler rimettere in discussione, di voler riaprire la riflessione su questo argomento.


    Quali saranno quindi le ricadute nei rapporti tra Unione Europea e Svizzera? Francesca Sabatinelli lo ha chiesto a Natalino Ronzitti, professore emerito di Diritto internazionale presso l'università Luiss e consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali:

    R. – Dovranno essere rivisti gli accordi che già vigevano e che vigono tuttora, tra Unione Europea e Svizzera, per la libera circolazione delle persone. Lo spazio Schengen si era allargato, il primo accordo, concluso nel 1999 per la libera circolazione delle persone, era poi entrato in vigore nel 2002 e, man mano, i benefici di questo accordo sono stati riconosciuti anche ai nuovi Stati che erano entrati nell’Unione Europea, quindi: Cipro, Malta e infine, nel 2009, con particolari restrizioni, però anche a Bulgaria e Romania. Ora tutto viene rimesso in discussione, ora si vuol capovolgere questo principio: non si entra a meno che non si faccia parte del contingente stabilito di volta in volta dalla Svizzera.

    D. – I lavoratori transfrontalieri italiani sono circa 65 mila, dunque adesso cosa accadrà?

    R. – Questo è un problema. Intanto, diciamo che quanto proposto dal referendum deve essere attuato e trascorrerà un lasso di tempo, si calcolano, mi sembra, due o tre anni. Poi, questi accordi devono essere rinegoziati: non è che la Svizzera possa dall’oggi al domani violare l’accordo, perché incorrerebbe in responsabilità internazionali. Quindi, si parla di rinegoziazione dell’accordo. I margini di tempo ci sono. Per quanto riguarda l’Italia, io credo che si debba esplorare la possibilità, specialmente per i frontalieri, di trovare accordi ad hoc. Ricordiamoci, poi, che noi in particolare abbiamo a disposizione taluni strumenti di cui ora ci siamo dimenticati ma che sono ancora in vigore, che sono stati negoziati nel quadro del Consiglio d’Europa, e riguardano la cooperazione transfrontaliera, e quindi anche tra Italia e Svizzera. Quindi, diciamo che tutte queste piccole aperture debbono essere esplorate.

    D. – Quanto è grave, quanto è preoccupante questo voto, anche alla luce dell’ondata di nazionalismo che sta investendo l’Europa?

    R. – E' grave nel senso che c’è questa politica ormai restrittiva che riguarda tutti i membri dell’Unione Europea e anche i non-membri dell’Unione Europea, che sono integrati nell’ambito dell’Europa occidentale. Questa ondata per certi aspetti xenofoba purtroppo sta montando e di questo bisogna preoccuparci e bisogna prendere adeguate contromisure.

    D. – Questo, quindi, è un avvertimento all’Unione Europea, ciò che sta accadendo?

    R. – E’ un avvertimento all’Unione Europea ma anche nell’ambito dell’Unione Europea, perché a quanto si apprende da alcune dichiarazioni che sono già state fatte, taluni plaudono, direttamente o indirettamente, a questa presa di posizione che esce fuori dal referendum. Io credo che queste cose debbano essere viste con buon senso: c’è questo shock iniziale, ma ora bisogna vedere come questo momento iniziale, che non è favorevole, possa essere superato. Io credo che con pazienza, gli strumenti possano essere trovati. Il primo strumento dev’essere trovato, ovviamente, nell’ambito dell’Unione Europea: non bisogna rincorrere politiche nazionali. Però, per quanto riguarda in particolare problemi di minore entità – minore tra virgolette – e mi riferisco in particolare ai frontalieri italiani, una politica nazionale può essere individuata in alcuni strumenti che sono a disposizione già nell’ambito del Consiglio d’Europa.

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    Il "gigantismo" delle Olimpiadi. L'analisi dell'economista Luigino Bruni

    ◊   Le Olimpiadi stanno diventando sempre più esempi di “gigantismo”, visti gli enormi costi sostenuti dalle città che le ospitano. Non sottovalutando l’aspetto di rilancio economico per interi Paesi, sicuramente queste spese di gestione, ritenute da più fronti eccessive, escludono dall’organizzazione i Paesi più poveri. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Luigino Bruni, docente di Economia presso la Lumsa:

    R. – Il gigantismo è una delle malattie dell’attuale stagione dei grandi eventi sportivi. Basti pensare a cosa sta avvenendo in Brasile in questo periodo, dove c’è un movimento che non vuole la Coppa del mondo, abbinando questo evento giustamente ai grandi business e sempre meno allo sport. Ed uno degli effetti di tutto questo è che i Paesi più poveri rimangono sistematicamente esclusi da queste possibilità.

    D. – Non bisogna dimenticare che c’è un esempio reale, di economia reale, l’economia greca, poi finita in dissesto, che ha avuto ripercussioni negative enormi dopo le Olimpiadi di Atene...

    R. – Sì, se guardiamo l’evidenza empirica di questi ultimi anni, dal dopoguerra ad oggi, è ambivalente l’effetto netto dei grandi eventi sul Pil nazionale. In certi casi è stato positivo e in altri casi è stato negativo. Ad esempio a Barcellona e Los Angeles le ricadute sono state positive. Non c’è, quindi, un segno sicuro. Questo, però, è solo l’aspetto economico in senso stretto. In realtà, noi sappiamo che la vera malattia del nostro tempo è che stiamo trasformando questi giochi, che erano nati come grande evento civile e non a scopo di lucro, in grandi intraprese di tipo commerciale e capitalistico. E questo ha degli effetti sulla cultura sportiva dei giovani, dei bambini, che sta cambiando radicalmente.

    D. – La grande esclusa dall’organizzazione dei Giochi olimpici, in questo momento, è e continua ad essere l’Africa, che di fatto potrebbe anche essere pronta ad ospitare i giochi, ma in che modo, secondo lei?

    R. – Ma, innanzitutto, dovrebbero essere giochi distribuiti su più nazioni. Dovrebbe essere un’Olimpiade a rete, con un Paese che magari fa da pivot, ma con una rete nazionale dove si svolgano le Olimpiadi e non solo in un’unica città o un unico Paese, come invece accade ora. E soprattutto dovremmo immaginare una gestione molto più partecipata, con un’enorme attenzione agli effetti della corruzione. Lei capisce, infatti, che quando queste macchine da guerra arrivano in Paesi molto fragili, dal punto di vista istituzionale, chi arriva a gestire gli appalti sono le varie mafie locali, non sicuramente attività che producono sviluppo inclusivo. Io, però, non vedrei male, anzi vedrei molto bene, un’Olimpiade tra qualche anno in Africa su più Paesi, con uno stile anche nuovo, meno business e più sport come bene nazionale, come bene civile.

    D. – E’ ancora possibile, secondo lei, oggettivamente fare un passo indietro, mettendo al centro il messaggio di de Coubertain, il fondatore delle Olimpiadi moderne, tutto centrato su pace, fratellanza ed internazionalismo?

    R. – Ma io me lo auguro con tutto il cuore, per due ragioni principali. Innanzitutto, noi stiamo assistendo ad un uso molto scorretto delle metafore sportive nell’economia. C’è un uso dell’idea delle metafore dello sport, del vincere, della gara, di persone vincenti, di persone perdenti, di giochi, che sta invadendo il linguaggio economico. Stiamo utilizzando male l’idea di sport nell’economia. L’economia, infatti, il mercato, non è il luogo dove si vince o si perde, ma un luogo di mutuo vantaggio; dall'altra parte, l’economia invade lo sport con le sue categorie. Si fa, quindi, ciò che rende. Il mero bilancio e la massificazione del profitto domina tutto. Se oggi, quindi, spezziamo questo abbraccio mortale tra lo sport professionistico ed economia e business ne uscirebbero migliori sia lo sport che l’economia.

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    Giorno del ricordo per le vittime delle foibe. Una pagina storica cancellata per 60 anni

    ◊   A dieci anni dalla sua istituzione in Italia si celebra oggi, il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano dalmata, provocate tra il 1943 e il 1945 dalla furia dei partigiani comunisti jugoslavi di Tito. Una pagina storica cancellata per 60 anni e ancora poco conosciuta. Almeno 10 mila gli infoibati accertati, 350 mila gli esuli italiani. Secondo i parenti delle vittime, oggi il rischio è che dal negazionismo si passi al riduzionismo, ovvero alla svalutazione della reale portata di questa tragedia. Il servizio di Paolo Ondarza:

    Sono gli anni a cavallo del 1945, l’Italia lentamente prova a rialzarsi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ma a Trieste è l’inizio di un incubo. Nella città e nell’Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito i cittadini subiscono torture, deportazioni o vengono uccisi. Sono innocenti, colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti. Moltissimi di loro vengono gettati vivi dentro le foibe, voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso. In massa fuggono dalle terre di Istria e Dalmazia cacciati dalla furia comunista. Una tragedia italiana ancora poco conosciuta e per sessant’anni cancellata dai libri di storia. Solo dal 2004, in memoria delle vittime della foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale, l’Italia istituisce ogni 10 febbraio la solennità nazionale e civile del "Giorno del Ricordo". La riflessione di Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice del libro “Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a dieci anni dall’istituzione del 'Giorno del Ricordo'” edito da Pagine, membro dell'"Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”:

    R. – Sono esule di terza generazione, nipote di Manlio Cace, un patriota che visse primo e secondo esodo. Mio nonno ha raccolto diverso materiale fotografico dei campi di concentramento titini, dove erano detenuti tantissimi italiani.

    D. – Ci aiuta a ricostruire, anche attraverso la testimonianza di suo nonno, l’orrore di quegli anni?

    R. – Io faccio sempre un paragone: è come se nel Lazio di colpo si dicesse a tutti: “Guardate, voi d’ora in poi siete tedeschi! Dovete parlare tedesco. Cambiamo le scritte di tutti i negozi. Se voi non fate questo o verrete uccisi oppure vivrete nel terrore”. Questo è avvenuto in una regione che, a tutti gli effetti, era una regione d’Italia. Le fasi degli “infoibamenti” sono due: ’43 e ’45. Quelli del ’43 ancora con la guerra in corso e quelli del ’45 a guerra finita. In quest’ultimo caso si parla, quindi, di crimini contro l’umanità e non crimini di guerra. Tutte le persone rappresentative, tutti coloro che rappresentavano lo Stato italiano - sindaci, dipendenti comunali, parroci, intellettuali, medici e quant’altro - erano i primi ad essere ricercati e perseguitati, perché svolgevano un ruolo di collante della collettività. Senza processi o con processi farsa del cosiddetto Tribunale del Popolo, venivano presi, torturati molto spesso e poi gettati in queste cavità carsiche, caverne verticali, precipizi - le foibe - affinché sparisse proprio tutto di loro. Venivano distrutti anche i loro documenti.

    D. – E colpisce anche il sadismo con cui venivano gettati nelle foibe...

    R. – Solitamente, per risparmiare le pallottole, venivano legati a gruppi di dieci con fili di ferro, gli uni agli altri, sempre nudi, perché gli si toglieva tutto - gli abiti e la dignità – e si sparava al primo: questo col peso morto praticamente trascinava nella foiba le persone vive, che magari morivano anche dopo due o tre giorni. Nel libro ho anche pubblicato l’unico documento di una perizia medico-legale, condotta su una serie di corpi recuperati dalle foibe. Si capisce che queste persone sono morte anche dopo due o tre giorni con le ossa rotte, nudi, di dolore, dentro questi abissi.

    D. – Anche in ragione della profondità di queste cavità, è stato difficile poi quantificare il numero delle vittime...

    R. – Assolutamente. Consideriamo intanto che un’analisi è stata fatta solo sulle foibe sul territorio italiano, che sono comunque una piccola percentuale rispetto a tutte quelle che sono disseminate sul territorio croato e sloveno e sulle quali ancora non è stato condotto – e penso mai lo sarà – alcun tipo di indagine.

    D. – Quest’anno ricorrono i 10 anni dalla istituzione, nel 2004, del giorno del ricordo...

    R. – Certamente l’istituzionalizzazione di un giorno per ricordare queste vittime ha squarciato tanti veli. E’ chiaro, però, che in 10 anni non si può compensare il silenzio di 60 anni. E poi recentemente si avverte una minore attenzione. Basti pensare anche ai tagli del sindaco Marino a Roma ai “viaggi del ricordo” alla foiba di Basovizza, che è stato un segno, secondo me, molto negativo, considerando che ci troviamo nell’anno di celebrazione del decennale della legge e che siamo la capitale d’Italia e quindi abbiamo anche un dovere simbolico, di traino. Il rischio è quello di passare dal negazionismo al riduzionismo del fenomeno.

    D. – 60 anni di silenzio, perché?

    R. – Perché noi abbiamo perso la guerra, la situazione era difficile e sicuramente la Jugoslavia di Tito era una realtà strategica, che faceva da cuscinetto tra Occidente ed Urss. Diciamo quindi che si è sacrificata, per gli interessi internazionali, la dignità dei nostri morti. C’era poi anche il discorso ideologico, comunque, del partito comunista, che non ha mai voluto accettare questi eccidi, perché la liberazione non poteva portare ad aberrazioni. E invece i partigiani comunisti di Tito hanno compiuto l’eccidio più grande della storia della nazione, dopo l’unità d’Italia.

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    "Save the children" risponde a "La Repubblica": travisata la nostra ricerca sui social network

    ◊   Oggi i giornali – riportando i risultati di una ricerca dell’Istituto Ipsos - titolano a tutta pagina “indagine shock”, rivelando che un italiano su tre è favorevole a rapporti sessuali tra adulti e minori. Addirittura “La Repubblica” scrive “il sondaggio che sdogana la pedofilia”. Roberta Gisotti ha intervistato Valerio Neri, direttore generale dell’organizzazione “Save the Children”, che ha commissionato il sondaggio, in vista della Giornata europea per la sicurezza su Internet, che ricorre domani:

    D. - Dott. Neri, è vero o si tratta di semplificazioni che avvalorano una realtà che non è? Voglio dire che una campagna mediatica può indurre nell’opinione pubblica emulazione per conformarsi a ciò che si crede sia la cultura dominante e creare sfiducia in chi la pensa diversamente e giocare infine a favore di chi promuove invece in assoluta minoranza un’idea, una causa, in questo caso il sesso tra adulti e minori...

    R. – Sì, sono d’accordo. Mi è dispiaciuto moltissimo, soprattutto vedere il titolo de “La Repubblica” totalmente sbagliato, fuorviante. Ci siamo anche lamentati ufficialmente con il giornale. Quindi lei ha perfettamente ragione. Ogni anno noi facciamo ricerche sull’uso delle nuove tecnologie da parte dei ragazzi. Negli ultimi casi di cronaca, però, le ragazzine coinvolte nella prostituzione ai Parioli, a Roma, e altri casi, ci hanno fatto chiedere: “Ma questi ragazzi cui noi ci rivolgiamo e con i quali lavoriamo nelle scuole e così via, si trovano inseriti in un mondo adulto e gli adulti verso di loro, anche su Internet, come si comportano?”. E quando abbiamo visto che ad una domanda precisa sullo scambio di contenuti sessuali su Internet tra un adulto e un ragazzo, il 38 per cento sostiene che sono accettabili, questa cosa ovviamente ci ha molto, molto preoccupato. Al di là che uno sia genitore dei propri figli, vorrei ricordare che ci chiamiamo adulti proprio perché abbiamo una responsabilità verso tutti quei ragazzi che si chiamano “minori di età”, proprio perché sono persone in formazione. Non è certamente accettabile che un quarantenne, magari fingendosi ragazzino, abbia delle relazioni di ordine sessuale, anche se solo virtuale via Internet, con ragazzi che sono distanti dalla sua età di oltre 20 anni.

    D. – Quindi quello che emerge è che si devono difendere i minori dalla loro inesperienza, ma anche dalla irresponsabilità degli adulti...

    R. – Esatto. Lei ha centrato il problema, almeno a leggere i dati della ricerca, perché molti adulti – il 26 per cento – sostiene anche di avere tra i propri contatti – sapete la lista degli ‘amici’ nei vari social network - anche ragazzi che loro sanno essere senz’altro minori, ma che non appartengono neanche al proprio gruppo familiare, parentale o amicale. E’ una cosa strana, no? Se ci pensiamo, insomma, cosa ha da condividere un quarantenne con un quindicenne?

    D. – Quindi l’ambiente digitale sicuramente sta creando problematiche nuove delle quali è giusto parlarne: parlarne in famiglia, a scuola...

    R. – Sì ... parlarne sui giornali. E’ un problema questo, perché quello che notano i sociologi è che anche le differenze delle generazioni si stanno molto abbassando. E questa cosa genera una sproporzione tra ragazzi e adulti molto grave. Un ragazzo ha molta virtualità in testa, soprattutto sulla sessualità, sull’emozione, sugli affetti legati alla sessualità, mentre un adulto normalmente ha avuto la sua famiglia, i suoi innamoramenti, è una persona che l’ha praticata realmente e quindi ha molti più strumenti di un ragazzo. Questa sproporzione tra le due classi generazionali ovviamente crea dei rischi che poi finiscono sui giornali non come ricerche, ma come dati di cronaca: ragazzi più o meno sedotti dall’adulto a fare delle cose o ad incontrarsi con lui. Tutti comportamenti molto seri, assolutamente non accettabili, che però nascono da questa confusione, che Internet e i social network proprio come strumenti favoriscono, attraverso la falsa identità, il furto della personalità. La nostra ricerca voleva essere, come è stata, in questo senso un “per favore, società italiana alza l’attenzione su queste cose”.

    D. – Anche ricordare i diritti dei minori ad una educazione e iniziazione sessuale equilibrata, che appunto ne rispetti lo sviluppo psicofisico...

    R. – Assolutamente sì. Lo sviluppo della sessualità insieme all’affettività, che la sessualità deve rappresentare per tutti.

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    Pillola del giorno dopo. Cambia la dicitura: da abortivo a contraccettivo. Scienza e Vita: "Una bugia"

    ◊   Da Farmaco abortivo a contraccettivo. Cambia la dicitura sul foglietto illustrativo della pillola del giorno dopo. La revisione è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Ma nel merito l’opinione della comunità medico-scientifica è ancora spaccata. Il servizio di Paolo Ondarza:

    Pillola del giorno dopo, si cambia. Solo a parole per il momento, ma se queste vengono scritte nero su bianco sul foglietto illustrativo il loro peso diventa enorme. Nonostante la comunità medico-scientifica sia tutt’altro che unanime a riguardo, sul bugiardino la vecchia dicitura "il farmaco potrebbe anche impedire l'impianto", è stata sostituita con "inibisce o ritarda l'ovulazione". Totale il disaccordo dell’associazione "Scienza e Vita". L'opinione di Bruno Mozzanega, ginecologo, ricercatore dell’Università di Padova:

    R. – Nessun bugiardino più di questo ha il dovere di chiamarsi bugiardino, perché riporta una grossa bugia, anche se lo dice l’Aifa, anche se lo dice l’Agenzia europea del farmaco, anche se lo dice la Federazione mondiale dei ginecologi. La letteratura mondiale sperimentale su cui si fondano queste considerazioni evidenzia, con molta chiarezza, che il levonergestrel agisce inibendo l’ovulazione soltanto quando viene dato nel primo dei giorni fertili. In tutti gli altri giorni, ma soprattutto nei preovulatori, che sono i più fertili, tutte le donne studiate ovulano, l’unica cosa è che il corpo luteo, cioè la struttura che poi deve assicurare che l’organismo materno si prepari alla gravidanza, diventa insufficiente o ha una durata molto più breve di quella che servirebbe per preparare l’endometrio all’impianto dell’embrione concepito. Quindi è una grossa bugia.

    D. – Secondo voi, quindi, la pillola del giorno dopo impedisce l’impianto e non è un semplice contraccettivo...

    R. – Sì, impedisce l’impianto del concepito e quindi non è compatibile con le nostre leggi, che tutelano il concepito e che tutelano la vita umana dal suo inizio e non dall’inizio della gravidanza, che gli americani vorrebbero far cominciare con l’impianto.

    D. – E’ grave se in un foglietto illustrativo vengono riportate informazioni non corrette, grave per chi non conosce a sufficienza, anche comprensibilmente, questa materia così difficile...

    R. – E’ gravissimo. Credo che sia forse la più grave delle violenze, a parte la violenza fisica, che oggi viene perpetrata nei confronti della popolazione, soprattutto femminile, perché in questo modo si estorce un consenso che non è più informato, ma condizionato dal potere scientifico, o chi altro stia dietro - non lo so - che tende a far passare questi farmaci come anticoncezionali, quando non lo sono, cioè ad alleggerire la responsabilità di un utente. Ma non è un alleggerire la responsabilità dell’utente terminale, è non dargli la possibilità di effettuare una scelta libera, perché gli si dà un’informazione falsa.

    D. – A vantaggio di chi?

    R. – Ma, io penso a vantaggio di una cultura, che non ha nessun rispetto per la persona sin dai suoi primi istanti, perché non ha nessun rispetto per l’embrione, ma soprattutto non ha nessun rispetto per la verità. A loro pragmaticamente interessa non effettuare interruzioni di gravidanza. Se questo viene fatto a scapito di concepiti nelle prime fasi del loro sviluppo, loro sono del tutto indifferenti a questo meccanismo di azione. Sono gli stessi che fanno la selezione genetica sugli embrioni, sono gli stessi che vogliono utilizzare le cellule embrionali per la sperimentazione. E’ un’anti-cultura, che purtroppo ha il sopravvento in questo momento.

    D. – E a questo punto, per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, che cosa accadrà a quei farmacisti che da sempre si rifiutano di dare la pillola del giorno dopo a chi la chiede o a quei medici che si rifiutano di prescriverla?

    R. – Io mi auguro che si possa serenamente discutere dei meccanismi di azione di questi farmaci e che queste discussioni non vengano limitate ai congressi medici, in cui parlano prevalentemente medici inviati dalla case farmaceutiche.

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    Grande partecipazione popolare per l'Ostensione delle spoglie di Don Gnocchi

    ◊   Continua l’ostensione delle spoglie del Beato don Carlo Gnocchi a Roma, che si concluderà domani nella Basilica di San Giovanni in Laterano in occasione della Giornata Mondiale del Malato. Una figura rappresentativa del dono di se stessi agli altri, una vita spesa per la riabilitazione di quella parte di umanità spesso lasciata in disparte. Maura Pellegrini Raho ha intervistato mons. Angelo Bazzari, presidente della Fondazione don Carlo Gnocchi, intervistato da Maura Pellegrini Rhao:

    R. - C’è stata un’accoglienza davvero notevole sia da parte del comune, sia da parte di alcune autorità ma soprattutto da parte della gente. Una grande partecipazione riflessiva, forti emozioni e gli insegnamenti di don Gnocchi "rispolverati" per il messaggio che - pur giocato in ambiti diversi - mantiene la stessa vitalità, lo stesso spirito.

    D. - Qual è l’importanza oggi della figura di Don Gnocchi?

    R. - Don Gnocchi è una figura poliedrica, presenta tante sfaccettature: da sacerdote ambrosiano, quindi, di una salda spiritualità vestita di concretezza; un formidabile educatore, poi alpino volontario dove ha imparato tra gli alpini la generosità e la dedizione; ha frequentato le praterie della solidarietà facendosi carico dei "mutilatini". La novità, oltre alla donazione degli organi - incluse le cornee, nel momento in cui non c’era ancora la copertura della legge - è che lui fu l’inventore della riabilitazione, che chiama “restaurazione della persona umana”. Lui affermava che: “Non esistono le malattie ma i malati”, per questo motivo non bisogna recuperare solo gli organi - magari violentati dalla idiozia e dalla follia umana - ma bisogna recuperare le persone. Dunque, come diceva lui, si trattava di una terapia del corpo e dello spirito, del gioco e del lavoro; quindi una terapia integrale per il recupero della persona.

    D. - Domani sarà la Giornata del malato che quest’anno ha come tema: "Fede e Carità. Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”. Don Gnocchi è un simbolo di questo messaggio…

    R. - Per i momenti che stiamo vivendo c’è bisogno, più che di maestri, di testimoni; anzi maestri proprio perché testimoni. In questo caso, a sostenere don Gnocchi era una fibrillazione di una speranza affidabile, di una tenace volontà ma soprattutto era il senso della Provvidenza e la fede che lo ha sostenuto. Credo che la carità e le opere che lui ha realizzato sono proprio figlie di questa fede nel Dio che si è fatto uomo, facendosi prossimo a noi, e nel Dio che non ha eliminato il dolore ma lo ha condiviso fino a morire solo sulla croce. Perché esiste il dolore? Esiste proprio perché ci siano a servizio del dolore e della sofferenza, la scienza umana, la tecnologia, anche la più avanzata ed anche le multiformi opere di solidarietà. Credo sia questo l’itinerario percorso da Don Gnocchi e noi, con gli stessi valori, stiamo cercando di allargare il perimetro dove l’uomo è fragile, debole e ferito. Cerchiamo quindi di collocare i paletti della nostra solidarietà.

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    75 anni fa la morte di Pio XI. Giovagnoli: un grande Papa missionario

    ◊   Settantacinque anni fa, il 10 febbraio del 1939, moriva Pio XI, al secolo Achille Ratti. Nato a Desio, in provincia di Monza, il 31 maggio del 1857, ricoprì vari incarichi come sacerdote. Fu nunzio in Polonia durante l’invasione sovietica, arcivescovo di Milano e il 6 febbraio del 1922 venne eletto Papa con il nome di Pio XI. I 17 anni del suo Pontificato vengono ricordati per la firma dei Patti Lateranensi nel 1929, per aver voluto la Radio Vaticana, inaugurata nel 1931 alla presenza di Guglielmo Marconi e per le importanti Encicliche. Per tracciare un profilo di Pio XI, Debora Donnini ha sentito Agostino Giovagnoli, professore di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

    R. – Pio XI è stato un uomo molto coraggioso e questo è diventato anche un tratto del suo Pontificato: l’idea era appunto di una forza della Chiesa, che deve far sentire la sua voce e non deve cedere di fronte alle potenze di questo mondo.

    D. – Sotto il suo Pontificato avviene un evento centrale. L’11 febbraio del 1929 vengono sottoscritti i Patti Lateranensi: la Santa Sede riconosce il Regno d’Italia sotto la dinastia di casa Savoia e, a sua volta, l’Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano sotto la sovranità del Sommo Pontefice. Quanto la personalità di Pio XI ha influito su questo?

    R. – Sulla conciliazione la personalità di Pio XI è stata decisiva. Ha avuto anche qui un grande coraggio. I suoi predecessori avevano rotto con lo Stato italiano e anche se man mano si erano delineate delle spinte conciliariste, nessuno aveva avuto il coraggio di realizzare questa conciliazione. Quindi, anche qui è un Papa innovatore e, direi, che ha chiuso la “questione romana” in tempi che, da un punto di vista storico, sono brevi. In fondo non erano passati molti anni dal 1870. Poi, c’è naturalmente l’altra faccia della medaglia, e cioè il fatto che questo accordo sia stato fatto con Mussolini, col fascismo, e questo gli è stato molto rimproverato. Bisogna, però, tener conto che, questo aspetto, nella visione di Pio XI, era secondario: per lui ciò che contava erano le grandi questioni, i grandi problemi, e il resto passava in secondo piano.

    D. – Pio XI poi nel ’31 con l’Enciclica “Non abbiamo bisogno” interviene anche nei confronti del Governo italiano, che ha sciolto le associazioni giovanili e universitarie dell’Azione Cattolica. Quindi, c’è una presa di posizione?

    R. – Sì, certamente, fa parte dello spirito combattivo di questo Papa. Avere fatto un accordo non significava per lui avere chiuso tutte le questioni. Direi, però, che la svolta avviene intorno alla metà degli anni ’30, quando si rende conto che i grandi poteri totalitari del nazismo, e in qualche modo anche il fascismo, in fondo stanno preparando l’Europa alla guerra.

    D. – Questo si vede con la “Mit brennender Sorge”, con questa Enciclica, con cui interviene contro il Reich nazista e poi con la “Divini Redemptoris” contro il comunismo ateo dominante in Russia...

    R. – Pio XI aveva tentato fino alla fine, in qualche modo, un accordo con l’Unione Sovietica. Il suo stretto collaboratore, Eugenio Pacelli, viene coinvolto fin verso la fine degli anni ’20 in questi tentativi, che poi falliscono, perché c’è una sordità sovietica totale. Ma è abbastanza interessante che Pio XI abbia tentato appunto questo accordo e poi abbia invece assunto una posizione totalmente ferma nella condanna del comunismo ateo. Il rapporto con il nazismo ovviamente ha avuto una dinamica diversa, ma appunto questa Enciclica del ’37 è molto importante, come importante è anche l’Enciclica che è stata preparata contro il razzismo, contro l’antisemitismo, che poi, per la morte del Papa, non ha mai visto la luce. E’ comunque indicativa di questo suo atteggiamento, di cui rimane l’espressione forse più famosa quella frase: “Siamo tutti spiritualmente semiti”.

    D. – Non si può dimenticare la sua grande attenzione al mondo della comunicazione. Il 12 febbraio del 1931 inaugura la stazione della Radio Vaticana inviando a tutti in latino il messaggio “Qui arcano Dei”. Questo grande segno di attenzione alla comunicazione dà l’idea di come Pio XI fosse attento al mondo moderno?

    R. – Non c’è dubbio. Questa apertura al mondo moderno è molto significativa ed è anche, credo, significativa appunto questa apertura che è avvenuta nel campo della comunicazione. Qui c’è tutta la sensibilità anche alla trasmissione di un messaggio che deve arrivare il più lontano possibile, come riesce a fare la Radio Vaticana. Voglio dire, c’è un senso missionario. E, del resto, Pio XI è stato un grande Papa missionario, che ha guardato all’Africa, alla Cina con tanta attenzione e vedeva in questi nuovi mezzi di comunicazione una possibilità ulteriore per la Chiesa di raggiungere tutti i popoli.

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    Illmitz: con l'opera prima di Susanna Tamaro si apre una pagina nuova per la scrittrice triestina

    ◊   Aveva suscitato l'apprezzamento di intellettuali come Claudio Magris e Giorgio Voghera, colpiti dallo stile scarno, sincopato, antiaccademico dell'allora giovane scrittrice triestina, eppure non fu mai pubblicato. Esce dunque ora, Illmitz, l’opera prima di Susanna Tamaro, scritto nel 1982 e rimasto per oltre 30 anni chiuso nel cassetto. Illmitz è la storia del viaggio di un giovane alla scoperta delle proprie origini, che diventa anche indagine interiore, attraverso la propria memoria e i propri fantasmi. “C’è in nuce tutto il mio mondo” riconosce l’autrice: in Illmitz si trovano infatti il dolore, la solitudine, il disagio esistenziale, l’inquietudine, l’incapacità di amare, temi al centro del suo universo narrativo. Illmitz, dunque, uno stato d’animo, oltre che un luogo geografico? Adriana Masotti lo ha chiesto alla stessa Tamaro:

    R. – Sì, sicuramente! Lo stato d’animo di chi vive sul confine, perché Illmitz è una località che si trova sul confine, il confine tra l’Austria e l’Ungheria, che in quegli anni – erano gli anni Ottanta – era un confine anche tra l’Occidente e l’Oriente, fra il comunismo e la società – diciamo – libera ed occidentale. E poi è un confine anche di tante altre cose: il confine dell’adolescenza e dell’età più matura; il confine tra la poesia e la non poesia… Già nel nome stesso di Illmitz, che è il nome reale del luogo dove ho scritto il libro, mi sembrava ci fosse in qualche modo l’assonanza con “limite”. Dunque è una serie di confini Illmitz.

    D. – “C’è tutto il mio mondo”, lei ha detto, parlando di questo libro. E, infatti, c’è il dolore, la solitudine, la paura della violenza, l’incapacità di amare: i temi che poi, nella sua successiva produzione letteraria, ritornano, magari approfonditi…

    R. – Questo è un libro che ho scritto – diciamo – praticamente all’asilo, perché avevo 22 anni quando l’ ho scritto. Rileggendolo – non l'ho riletto per 30 anni – mi è capitato di accorgermi che, in realtà, conteneva insieme tutto quello che poi è esploso nei 20 libri che sono seguiti. E’ stato un libro molto compatto, molto stringato; però tutto l’universo di domande, di dolore, di domande anche sulla fede e sul mistero, sulla morte sono perfettamente già contenute in questo libro. In questo senso è molto interessante leggerlo - anche per me - perché ho visto come in realtà tutto il mio lavoro è legato da un filo rosso misterioso.

    D. – “Io sono un clandestino”: questa la frase con cui finisce il libro. Un clandestino della vita, immagino…

    R. – Sì, praticamente è la professione di fede nella letteratura, perché uno scrittore è sempre, in fondo, un clandestino della vita: una persona cioè che guarda la vita, che l’analizza, che entra nella vita in modo diverso dalle altre persone. Insomma, c’è questo talento particolare che pone sempre ad essere molto dentro e molto fuori.

    D. – Lei in un’intervista ha detto di essersi sempre misurata con il dolore e con il male e che ora vuole esplorare il mondo del bene. Significa che la pubblicazione di questa opera prima chiude un cerchio e apre un nuovo capitolo?

    R. – Sicuramente, l’ho pubblicato perché l’ultimo libro che ho scritto: “Ogni angelo è tremendo” terminava proprio con la stesura di Illmitz. Dunque, a questo punto, mi sembrava giunto il momento di pubblicarlo proprio per chiudere il cerchio, per vedere la coerenza che c’era stata dentro questi 20-21-22 libri, no? Adesso, però, sento proprio che pubblicando questo ho finito una parte della mia opera: la parte più pesante anche, la parte dell’elaborazione del dolore, del rapporto col male, dell’indagine sulle fragilità. Ora mi sento in una fase della vita in cui ho molta voglia, invece, di lavorare sulla fantasia, che è una parte per me molto importante – si capisce che c’è, perché già in Illmitz ci sono molti passaggi di fantasia e tutti i libri per bambini confermano che sono un autore che ha una grande parte fantastica – ma che finora ho usato veramente poco. Dunque penso di aprirmi alla parte fantastica e al racconto anche del mistero del bene.

    D. – Che non è una cosa molto semplice, anzi forse ancora più difficile …

    R. – E’ difficilissimo! E’ una cosa che di solito la letteratura ha aborrito, ma io credo che sia invece molto importante, perché c’è un mistero del bene nella vita, che forse, appunto, a vent’anni non si vede, a quaranta non si vede, ma vicino ai sessanta si può anche incominciare ad intravedere. E penso che sia una grandissima sfida raccontare questo mistero del bene.

    D. – Illmitz esce a vent’anni da “Va’ dove ti porta il cuore”: come vive lei questo anniversario e contemporaneamente l’uscita dell’opera prima?

    R. – Questo è proprio qualcosa che per me è molto strano. Mi sembra di aver scritto ieri “Va’ dove ti porta il cuore”… E’ un libro per me sempre presente, perché tutti me ne scrivono, me ne parlano, dunque è come se fosse uscito l’altro ieri. E’ interessante che 20 anni dopo sia uscito Illmitz, perché – proprio come dicevo prima – questo chiude un po’ tutta la sinfonia dei miei primi 30 anni di scrittura. Comunque “Va’ dove ti porta il cuore” è stato il libro più conosciuto, ma anche più misconosciuto: in realtà il fatto che sia stato un libro così famoso, lo ha anche fatto leggere male a molte persone. In realtà è un libro che ha diversi livelli di profondità, anche di profondità spirituale, che non sono stati molto indagati e che, forse, hanno dato anche un certo fastidio.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Siria. Nuovo video delle suore di Maaloula: chiedono la liberazione di "tutti i detenuti" nel Paese

    ◊   Un nuovo video che mostra le religiose di Maaloula, la cittadina cristiana a 55 km a nord di Damasco, è stato diffuso ieri pomeriggio dalla televisione Al Jazeera con base in Qatar. Le suore erano state portate via con la forza il 2 dicembre scorso dal monastero greco-ortodosso di santa Tecla e finora si sapeva che erano state trasportate a Yabroud, più a nord, da un gruppo di ribelli. Nel video - riporta l'agenzia AsiaNews - le suore non parlano, ma una voce fuori campo afferma che "esse dicono di stare in buona salute , non sono state maltrattate e attendono di essere liberate per ritornare nel loro monastero". La voce non dice nulla del luogo in cui esse sono, ma le definisce "rapite" e afferma che fra loro vi sono "siriane e libanesi". In un video diffuso sempre dalla telvisione del Qatar lo scorso 6 dicembre le suore dicevano che non erano state rapite, ma trasportate fuori da Maaloula per sfuggire ai bombardamenti per garantire la loro sicurezza e che sarebbero ritornate dopo due giorni. Allora, i media siriani avevano accusato i ribelli di usare le suore come scudo umano; ora è evidente il volerle utilizzare come merce di scambio. Nell'ultima sequenza del video di ieri la voce fuori campo dice che "le suore ringraziano tutti coloro che cercando di ottenere la loro liberazione e domandano la liberazione di tutti i detenuti". In precedenza il loro rapimento era stato rivendicato dalle brigate islamiste di Ahrar al-Qalamoun che, in cambio del rilascio delle suore domandavano la liberazione di "mille donne siriane detenute nelle prigioni del regime siriano". Per la liberazione delle suore vi sono stati appelli di papa Francesco e dei vescovi ortodossi. Per esse si sono mossi le autorità libanesi e l'emiro del Qatar, ma finora non si è giunti a nessun risultato. Maaloula, cittadina a maggioranza cristiana, è famosa per essere il luogo dove si parla ancora l'aramaico antico, la lingua del tempo di Gesù. Nei mesi scorsi è stata teatro di una lunga battaglia fra l'esercito regolare e i ribelli. La città è stata invasa diverse volte dai ribelli islamisti che hanno violato chiese e monasteri, e ucciso diversi cristiani. (R.P.)

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    Centrafrica. Appello dei leader religiosi: non trascinare la religione nel conflitto politico

    ◊   “Non vogliamo che la religione sia trascinata in un conflitto che è puramente politico”. È quanto hanno affermato nel corso di una conferenza stampa, i principali leader religiosi della Repubblica Centrafricana: mons. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui; il pastore Nicolas Guerékoyame Gbangou, presidente delle Chiese Evangeliche, e l’imam Oumar Kobine Layama, Presidente della Comunità islamica centrafricana . Secondo mons. Nzapalainga “i politici vogliono imporre una guerra religiosa ad un popolo che ha sempre vissuto in armonia”, ricordando che in Centrafrica l’80% della popolazione è cristiana, il 10% musulmana e il 10% animista. “Non c’è alcun motivo di trascinare la religione in un conflitto puramente politico” ha aggiunto l’imam Oumar Kobine Layama. I leader religiosi hanno inoltre denunciato le interferenze straniere in Centrafrica, che hanno contribuito a trascinare il Paese nella più grave crisi della sua storia, ed hanno invitato, come dice il pastore Guerékoyame Gbangou, a lasciar agire “il Parlamento provvisorio, le forze vive della nazione, la comunità internazionale. Presto si troverà la soluzione”. La situazione in Centrafrica rimane comunque caotica. (R.P.)

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    Libano. Festa di San Marone: un'occasione per riflettere sulla Carta dei vescovi

    ◊   La festa di San Marone, celebrata ieri nelle chiese maronite del Libano e di tutto il mondo, ha rappresentato per i libanesi anche un'occasione di riflessione intorno alla cosiddetta “Carta di Bkerkè”, il documento pubblicato la scorsa settimana dai vescovi maroniti come contributo per uscire dalla drammatica crisi politica, sociale e istituzionale vissuta dal Paese. Molte omelie e dichiarazioni di leader politici nazionali - riferisce l'agenzia Fides - hanno ripreso e commentato i punti di sofferenza e le prospettive di soluzione delineate nel testo. Nella cattedrale di San Marone a Gemmayzeh l'arcivescovo di Beirut del maroniti Boulos Matar - alla presenza del Presidente libanese Michel Sleiman e del Primo Ministro designato Tammam Salam – ha denunciato la paralisi politica e istituzionale vissuta dal Paese, invitando a proclamare uno “stato d'emergenza nazionale” e ribadendo che la Carta di Bkerkè rappresenta un punto di riferimento prezioso per uscire dallo stallo istituzionale e arrivare alla formazione di un governo. I veti incrociati delle forze politiche da più di 9 mesi impediscono la formazione di una compagine governativa stabile. Nella sede patriarcale di Bkerkè, il patriarca maronita Bechara Boutros Rai ha ripetuto che l'intento concreto del documento è quello di porre il Libano sulla via della ripresa, preparando l'elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. “la popolazione” ha aggiunto il Patriarca “ha perso la fiducia nei rappresentanti politici, alcuni dei quali hanno purtroppo coperto violazioni perpetrate contro la legge”. Alla Messa celebrata a Bkerkè ha preso parte anche il generale Michel Aoun, capo della Corrente Patriottica Libera e alleato con gli sciiti di Hezbollah in seno alla Coalizione 8 marzo. Il generale Aoun ha espresso il suo pieno appoggio alla Carta di Bkerkè, che a suo giudizio ripropone “i principi sui quali il Libano è stato fondato e che assicurano al Paese stabilità e continuità”. (R.P.)

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    Sud Sudan: la Chiesa chiede un ruolo nelle trattative di pace

    ◊   La Chiesa in Sud Sudan si mobilita per la pace a causa della situazione preoccupante nel Paese africano mentre oggi ad Addis Abeba inizia la seconda tornata dei colloqui di pace. Secondo l’agenzia Sir, la popolazione ha voglia di pace, ma non si ferma la guerra civile. La capitale Juba, dove la crisi è esplosa a metà dicembre, è ormai tranquilla, ma in altre aree la tregua faticosamente raggiunta il 23 gennaio non è stata rispettata. Si ipotizza la cifra di 10mila morti in meno di due mesi e 738mila gli sfollati. La direttrice del Catholic radio network, Enrica Valentini, commenta: “ Si soffre per la mancanza di accesso al cibo, provocata dalla difficoltà dei commerci; la Chiesa si è mobilitata chiedendo, attraverso i vescovi, di poter giocare un ruolo nelle trattative e nei colloqui di pace”. (V.G.)

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    Sud Africa: messaggio dei vescovi in vista delle elezioni del 7 maggio

    ◊   “All’avvicinarsi delle elezioni, i politici lanciano appelli per ottenere il nostro voto, attraverso la tv, la radio e altri media. È importante che ascoltiamo con attenzione e ci facciamo un’idea chiara su come meglio votare” affermano i vescovi sudafricani in un messaggio pubblicato all’indomani dell’annuncio della data delle elezioni generali, che si terranno il 7 maggio, pervenuto all’agenzia Fides. I vescovi indicano alcuni criteri in base ai quali i fedeli sono invitati a scegliere come votare: sacralità della vita e dignità di ogni essere umano; sostegno al matrimonio e alla famiglia; responsabilità sociale e rispetto del bene comune; equa condivisione delle risorse e della ricchezza; solidarietà con i poveri e gli emarginati. Il messaggio insiste in particolare su questo ultimo punto, invitando “a votare per i partiti le cui politiche siano autenticamente al servizio di tutti e in particolare dei più poveri e vulnerabili” ed esortando: “Dobbiamo respingere ogni forma di avidità, di etnicità, di corruzione e di arricchimento illecito”. “Cari fratelli e sorelle, non c’è modo migliore per celebrare la libertà di cui godiamo che partecipare appieno alle elezioni per plasmare il nostro Paese” affermano i vescovi, che concludono con l’invito a pregare ogni giorno e nelle celebrazioni delle Messe con la seguente formula: “Signore, preghiamo affinché le prossime elezioni possano accrescere la nostra democrazia e perché possiamo adempiere al nostro dovere come cittadini responsabili, nel rispetto dei diritti degli altri. Possano le scelte che facciamo portare speranza ai poveri, unità a tutto il nostro popolo e un futuro sicuro e pacifico per nostri figli. Amen”. (R.P.)

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    Colombia. L'impegno della Chiesa: negoziati di pace anche con altri gruppi

    ◊   Mons. Darío de Jesús Monsalve Mejía, arcivescovo di Cali, ha riferito alla stampa che in questi ultimi giorni, durante i dialoghi preliminari di pace che si stanno svolgendo a Cuba, sono apparsi elementi molto importanti da considerare. La nota inviata all’agenzia Fides ricorda che mons. Darío de Jesús Monsalve Mejía ha partecipato, come rappresentante della Conferenza episcopale colombiana, a diversi dialoghi per la liberazione dei rapiti dal gruppo guerrigliero Eln (Esercito di Liberazione Nazionale), e si è sempre espresso positivamente sui negoziati di pace in corso: "Ho sentito che c'è disponibilità dalle parti. Il Presidente Santos è venuto a parlare con noi durante l'Assemblea della Conferenza episcopale, e ha ribadito la sua convinzione in questo dialogo". Secondo mons. Monsalve, l' Eln avrebbe già definito alcuni punti per una possibile agenda per un dialogo di pace "soprattutto nel settore delle miniere, dell'energia e dell’ambiente” ed ha commentato: “Credo sia essenziale che l'Eln entri in questi processi di dialogo con un tavolo separato, e dovrebbe anche aumentare la partecipazione dei cittadini". Infine ha chiesto ai colombiani di allontanarsi dalla violenza, di aprire uno spazio per la riconciliazione e di accettare questi accordi umanitario con le Farc e con l'Eln. (R.P.)

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    Australia: condizioni disumane per i bambini nei Centri di detenzione per immigrati

    ◊   La Commissione per i Diritti Umani dell’Australia (Ahrc) ha recentemente avviato una ricerca sulla situazione dei bambini detenuti nelle prigioni per gli immigrati. Le carceri in questioni sono quelle di Naurau e di Papua Nuova Guinea. Secondo la Commissione si tratta di bambini ai quali è negata la libertà di movimento e vivono in ambienti fortemente stressanti per la loro crescita. Lo riferisce l’agenzia Fides. Lo studio avviato dall’Ahrc serve a verificare l’impatto della detenzione sulla salute mentale dei piccoli. Secondo gli esperti quello che manca è la collaborazione del dipartimento australiano per l’immigrazione che ha dato sempre meno informazioni utili alla Commissione. Molti organismi per la tutela dei diritti umani condannano da tempo le condizioni “disumane” nelle carceri australiane di Naurau e Papua Nuova Guinea. (V.G.)

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    Malaysia. Appello di leader civili e religiosi: un nuovo anno all’insegna dell’armonia

    ◊   Il nuovo anno – appena iniziato, dopo il capodanno lunare – sia foriero di pace, armonia e unità nazionale: è l’appello lanciato da leader civili e religiosi che hanno preso atto delle nuove tensioni sociali e religiose che preoccupano la società malaysiana. Uno degli elementi che ha contribuito e generare tensioni fra la maggioranza (popolazione di etnia malay e di religione musulmana) e le minoranze di altre religioni è la controversia sull’uso del termine “Allah” per i cristiani. Di recente due bombe molotov sono state lanciate in una chiesa cattolica a Penang. Il premier malaysiano Najib Razak ha chiesto alla popolazione di lavorare per costruire “armonia multirazziale e religiosa”, invitando a rifiutare “qualsiasi forma di violenza o di estremismo”, e a “rispettare lo Stato di diritto e le credenze altrui”. A lui si è unito il leader dell'opposizione, Anwar Ibrahim, esortando i malesi a “proteggere la loro armonia sociale conquistata a fatica”. “Voci di odio e animosità stanno cercando di soffocare l'armonia, la cooperazione e la comprensione che siamo riusciti a costruire a fatica”, ha rimarcato. Liow Tiong Lai, presidente della “Malaysian Chinese Association” (Mca) ha aggiunto che “i cittadini vogliono stabilità. Dobbiamo vivere l’accettazione e la comprensione dell’altro”. Le voci dei leader religiosi hanno fatto eco a quelle dei leader civili: il rev. Hermen Shastri, segretario generale del “Consiglio delle Chiese della Malaysia” ha detto che “la maggior parte dei malaysiani ama la pace e non cederà alle provocazioni”, mentre il rev. Eu Hong Seng, presidente della “Christian Federation of Malaysia” ha invitato tutti i leader, civili e religiosi, “a risolvere questioni delicate attraverso il dialogo sincero”. Il leader islamico Mujahid Yusof Rawa, membro del “Consiglio consultivo dell'unità nazionale”, si è detto rincuorato perchè “i malesi respingono l'odio e l'estremismo”, invitando i mass-media a dare rilevo alle iniziative di pace. Sardar Jagir Singh, presidente del “Malaysian Consultative Council of Buddhism, Christianity, Hinduism, Sikhism and Taoism”, che raccoglie tutte le minoranze religiose, ha chiesto “tolleranza zero nei confronti di quanti creano inimicizia razziale e religiosa”. (R.P.)

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    Indonesia: a Java le chiese di Pantura in prima linea per le vittime dell'alluvione

    ◊   Per aiutare le popolazioni colpite dalle devastanti alluvioni dei giorni scorsi, la diocesi di Purwokerto ha aperto un Centro di primo soccorso dal quale decine di volontari si muovono ogni giorno verso le zone colpite. L'impegno dei cattolici della Linea costiera settentrionale di Java (meglio nota come Pantura) è molto apprezzato dai residenti, per la maggior parte non cristiani di etnia cinese, che hanno poi partecipato alla Messa organizzata per celebrare il Nuovo anno lunare. Il Centro è stato intitolato a San Luca. Il parroco, padre Mardi Usmanto Pr, racconta all'agenzia AsiaNews: "Il Centro è per ora temporaneo, ed è stato pensato per rispondere alle necessità primarie della gente di qui. Le piogge hanno inondato migliaia di case, e moltissime persone sono in fuga dalle aree colpite. I nostri volontari, non professionisti, sono tutti parrocchiani: la maggioranza è di etnia cinese. Portiamo cibo, coperte, acqua potabile". Su invito del sacerdote, i parrocchiani si sono messi in contatto con i fedeli di altre zone: "La risposta è stata commovente. Abbiamo mandato messaggi alle parrocchie di Pekalongan, Purwokerto, Tegal, Semarang e persino nelle diocesi di Bandung, Cibubur, Cirebon e Jakarta: hanno risposto tutti nel giro di poche ore, inviando generi di prima necessità e denaro che ora stiamo distribuendo". Sabato scorso i volontari cattolici del Centro hanno visitato il villaggio di Pedagung, devastato dalla furia della natura: "Le piogge hanno inondato più di 300 abitazioni, e i ponti sono crollati. Parliamo di 400 persone del tutto isolate, che hanno bisogno urgente di aiuto. Dobbiamo fare in fretta". Il sacerdote non è da solo in questa battaglia. Il parroco della chiesa di Santa Maria di Fatima - sempre nella diocesi di Purwokerto - ha celebrato due messe speciali in occasione dell'Imlek (il nome "cinese" con cui gli indonesiani indicano il Nuovo anno lunare). Alle celebrazioni si sono aggiunte delle collette straordinarie per le vittime delle alluvioni e la grande partecipazione di fedeli, per la maggior parte cattolici cinesi, ha reso il tutto un grande successo. Il padre Martino Ngarlan Pr dice ad AsiaNews: "Abbiamo pregato per loro e raccolto degli aiuti, che saranno inviati a chi ne ha bisogno". Erano presenti anche membri delle comunità cristiane non cattoliche, così come i rappresentanti delle altre religioni: "Una buona occasione per i cattolici cinesi di mostrare il proprio senso di responsabilità e solidarietà nei confronti degli altri cittadini". Un'iniziativa simile è stata presa anche dalla parrocchia San Pietro di Pekalongan, sempre nella zona di Pantara. I tre sacerdoti locali - padre Maryoto Pr, padre Sheko Swandi Pr e padre Tri Kusuma Pr - hanno organizzato una messa per l'Imlek caratterizzata da una raccolta fondi: "Questo è il momento giusto, per la Chiesa, di organizzare cose utili alle persone sul campo". Tutte queste attività sono state accolte con gioia dal vescovo di Purwokerto, mons. Julius Sunarka, che ha "appreso con vivo piacere" dell'impegno delle parrocchie nell'aiuto alle vittime dell'alluvione. (R.P.)

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    Myanmar: cristiani, musulmani e buddisti insieme per la Vergine di Nyaunglebin

    ◊   Il governo del Myanmar deve abbandonare "la propria natura aggressiva", il "mobbing verso gli innocenti" e "l'ingiustizia" verso i cittadini, cercando al contempo di "riparare i danni causati fino a oggi". È l'appello lanciato da mons. Charles Bo, arcivescovo di Yangon, alle centinaia di migliaia di fedeli - cristiani e non - che hanno partecipato alle solenni celebrazioni per il 112.mo anniversario del santuario di Nostra Signora di Lourdes a Nyaunglebin. Il centenario luogo di culto mariano sorge nel distretto di Bago, 145 km a nord di Yangon, diocesi di appartenenza. Dal 7 al 9 febbraio cristiani, buddisti, musulmani e indù - oltre 100mila persone - hanno affollato il santuario per pregare la Madonna e chiedere grazie personali e per tutto il Paese. Quest'anno il governo di Naypyidaw ha imposto meno vincoli e restrizioni ai fedeli diretti a Nyaunglebin, favorendo un flusso record di persone provenienti da tutto il Paese. Pace in Myanmar e la fine delle violenze confessionali - in particolare nello Stato di Rakhine, fra buddisti e musulmani - le intenzioni di preghiera più comuni. Almeno mille i pellegrini provenienti dallo Stato settentrionale Kachin, dove è concentrata una nutrita rappresentanza cristiana. Il santuario è considerato un luogo privilegiato di "rinnovamento spirituale" e di "rafforzamento della fede" per tutti. A guidare le celebrazioni vi erano oltre 200 sacerdoti, circa 300 religiosi, tre arcivescovi e suore. Mons. Charles Bo ha presieduto la solenne concelebrazione eucaristica della mezzanotte dell'8 febbraio, chiedendo "pace, giustizia e sviluppo umano" per tutte le anime della nazione birmana, le sue etnie e le comunità religiose. Nel corso dell'omelia l'arcivescovo di Yangon ha parlato di "opportunità storica" per un vero processo di "riconciliazione e di ricostruzione della nostra nazione", grazie anche al contributo della Chiesa nei settori "dell'istruzione e dello sviluppo umano". Con l'intercessione di Maria, ha spiegato il prelato, sarà possibile "ricostruire" ciò che "è andato perduto". La Madonna, ha aggiunto, "non smette mai di prendersi cura dei malati, degli emarginati, dei disabili, degli orfani, di quanti sono senza speranza". È Lei che accompagna, continua mons. Bo, nei momenti "di gioia e di dolore". Quest'anno la Chiesa del Myanmar festeggia i 500 anni di storia e rende omaggio ai propri martiri, una componente essenziale dei cinque secoli di vita e di evangelizzazione nel Paese asiatico. Mons. Bo si è augurato che "le ferite della storia siano lenite" e che i fatti del passato "non vengano mai dimenticati" - il dramma della dittatura militare, la repressione - perché "celare la storia di una nazione, implica al contempo occultare la vera pace e la giustizia". Da ultimo, l'arcivescovo di Yangon ha reso omaggio al lavoro svolto dalla Chiesa e dai missionari a favore "dei fratelli e sorelle" che vivono nelle zone montagnose e remote della nazione, spesso dimenticate dalle autorità e dai vertici del governo centrale. I missionari "hanno portato nuove lingue", conclude il prelato, insegnanti e libri "per costruire la Chiesa locale al costo delle loro stesse vite". Il Myanmar è una nazione caratterizzata da forti contrasti, soprattutto fra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana. I cattolici birmani sono una piccolissima percentuale sul totale (poco più dell'1%), ma la loro presenza e il loro lavoro verso l'unità e la pace sono fondamentali in una realtà contraddistinta da conflitti etnici e scontri interconfessionali. Spesso ancora oggi essere cristiani è un "fattore identitario" per molte tribù - vedi le minoranze religiose Karen e Kachin - che deve però diventare fonte di incontro e non elemento di divisione, come ha sottolineato più volte in passato lo stesso arcivescovo di Yangon. (R.P.)

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    Regno Unito: preoccupazione dei vescovi per la consultazione sull'aborto lanciata dal Ministero della salute

    ◊   È grande la preoccupazione della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles per la consultazione sull’aborto lanciata dal Ministero della sanità e che mira a modificare la legge nazionale di riferimento, varata nel 1967, la quale consente l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) solo per motivi di probabile “pericolo per la salute fisica o psichica della donna incinta o per figli”. Di tale legge, in particolare, la consultazione del Ministero vuole cancellare il requisito secondo cui una donna che sta valutando l'Ivg deve consultare un medico; inoltre, si propone che la procedura possa essere effettuata da un infermiere e al di fuori di una clinica, “nella privacy della propria casa”. In una lettera aperta al Ministro della sanità, Jeremy Hunt, mons. Peter Smith, presidente dell’Ufficio episcopale per la responsabilità cristiana e la cittadinanza, mette innanzitutto in luce “la tragedia personale e sociale” che si cela dietro l’aborto ed invita il Ministro “ad una consultazione più ampia ed allargata” per discutere “in modo aperto e chiaro su un tema così delicato e difficile”. Sottolineando, quindi, che “l’opposizione della Chiesa cattolica all’Ivg è chiara e ben nota”, mons. Smith evidenzia come “molte persone, pur non essendo necessariamente d’accordo con la dottrina della Chiesa, non di meno sono profondamente turbate dai 200mila aborti procurati che si verificano ogni anno”. “Una tragedia umana e sociale su vasta scala”, evidenzia il presule, ricordando che l’aborto “è un atto con un notevole peso morale”, mentre le nuove procedure vorrebbero “eroderne il significato etico, riducendolo ad una semplice intervento medico”, quasi “una routine”. Di qui, il richiamo forte che mons. Smith fa all’impegno portato avanti dalla Chiesa per “cercare di ridurre la necessità di abortire, fornendo sostegno alle donne con una gravidanza indesiderata e adeguato supporto sociale e finanziario alle loro famiglie”. (I.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 41

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.