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Sommario del 12/12/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco ai siro-cattolici: fede coraggiosa di fronte a disumanità

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Vicinanza e incoraggiamento ai tanti cristiani che, soprattutto in Siria e Iraq, stanno sperimentando una disumanità che costringe alla fuga: sono i sentimenti espressi da Papa Francesco durante l’incontro con la comunità cattolica siro-antiochena, riunita a Roma per il suo Sinodo, che si è svolto fuori dal territorio patriarcale a causa della guerra. A guidare la delegazione siro-cattolica, il patriarca Ignace Youssif III Younan. Il servizio di Sergio Centofanti

Al centro del discorso del Papa la drammatica situazione delle comunità cristiane in Medio Oriente:

“Tramite voi, posso far giungere il mio saluto alle vostre comunità sparse nel mondo, ed esprimere il mio incoraggiamento in particolare a quelle dell’Iraq e della Siria, che vivono momenti di grande sofferenza e di paura di fronte alle violenze”.

Il Sinodo dei siro-cattolici ha cercato di rispondere ai “bisogni impellenti” di questa Chiesa e “alle attese spirituali dei fedeli”. In particolare, ha discusso la riforma della Divina Liturgia, per permettere un nuovo slancio di devozione. “Questo lavoro – ha sottolineato il Papa - ha richiesto un intenso approfondimento della Tradizione e molto discernimento, sapendo quanto l’assemblea dei fedeli è sensibile al grande dono della Parola e dell’Eucaristia”:

“La difficile situazione nel Medio Oriente ha provocato e continua a provocare nella vostra Chiesa spostamenti di fedeli verso le Eparchie della diaspora, e questo vi mette di fronte a nuove esigenze pastorali”.

E’ una duplice sfida – ha osservato il Papa – “da una parte, rimanere fedeli alle origini; dall’altra, inserirsi in contesti culturali diversi operando al servizio della salus animarum e del bene comune. Questo movimento di fedeli verso Paesi considerati più sicuri impoverisce la presenza cristiana in Medio Oriente, terra dei profeti, dei primi predicatori del Vangelo, dei martiri e di tanti santi, culla degli eremiti e del monachesimo”. Tutto ciò – ha affermato – richiede che ci siano pastori e fedeli “coraggiosi, capaci di testimoniare il Vangelo nel confronto, a volte non facile, con persone di etnie e religioni diverse”:

“Tanti sono fuggiti per mettersi al riparo da una disumanità che getta sulle strade popolazioni intere, lasciandole senza mezzi di sussistenza. Con le altre Chiese cercate di coordinare i vostri sforzi per rispondere ai bisogni umanitari sia di quanti restano in patria, sia di coloro che si sono rifugiati in altri Paesi”.

Papa Francesco esorta, infine, la Chiesa siro-cattolica a proseguire il suo “ministero di speranza” al servizio di questa antica comunità cristiana.

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Younan: cristiani in Medio Oriente, ecatombe nell'indifferenza

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Sull’incontro con il Papa e la situazione della comunità cristiana in Medio Oriente, ascoltiamo il patriarca di Antiochia dei Siri Ignace Youssif III Younan, al microfono di Sergio Centofanti

R. – Siamo davvero commossi per questo incontro. E’ la prima volta che la nostra piccola Chiesa ha potuto radunare circa 400 tra fedeli, suore, religiosi, preti, vescovi e patriarchi. E quindi, per noi è stato un evento storico, nell’ambito della nostra visita “ad Limina apostolorum”. Sono sicuro che sia andata molto bene: il Santo Padre, con la sua spontaneità paterna, ha conquistato i cuori di tutta la comunità.

D. – Il Papa ha parlato di disumanità che colpisce le vostre comunità: qual è la situazione che state vivendo?

R. – Noi stiamo vivendo una situazione allarmante: è quasi un’ecatombe che è caduta su di noi. La nostra Chiesa - che nel corso della storia ha conosciuto epoche di persecuzioni, di sradicamento come nel 1915, di cui l’anno prossimo commemoriamo il centenario - questa volta sta affrontando una situazione efferata, terribile, perché nel XXI secolo c’è lo sradicamento di tutta una comunità da Mosul e dalla Piana di Ninive: vescovi, preti, religiosi, suore, decine di migliaia di fedeli, di cui molti ora sono senza un tetto sotto al quale vivere degnamente. Umanamente parlando, è una catastrofe che noi stiamo vivendo di fronte all’indifferenza e al silenzio della comunità internazionale.

D. – Che cosa chiedete alla comunità internazionale?

R. – Noi l’abbiamo sempre detto: noi cristiani del Medio Oriente non siamo gente immigrata in questi Paesi; sono i Paesi dei nostri antenati. Siamo rimasti fedeli al Vangelo, a Cristo, e per questo siamo stati perseguitati. D’altro canto, noi siamo stati cacciati dalle nostre terre dell’Iraq non perché avevamo le armi, oppure perché abbiamo cercato di rovesciare governi, oppure perché avessimo nemici qui e là; noi siamo stati sradicati perché siamo cristiani. Ed ecco, questi gruppi di fanatici, cosiddetti jihadisti, sia Dabiq, sia Isis, sia al Qaeda, sia al Nusra, veramente sono da eliminare perché loro non riconoscono gli altri e non sono disposti ad alcun dialogo. Quindi, è una politica ipocrita da parte dei potenti di questo mondo, a causa – noi lo sappiamo bene – del petrolio, delle ricchezze di quella zona e anche di altri progetti geopolitici che perseguono. Noi lo stiamo dicendo, come il Papa ci ha detto e sta dicendo. Noi dobbiamo dire a quegli Stati che hanno la maggioranza dei cittadini musulmana, che devono riconoscere gli altri; e le autorità politiche e religiose devono dirlo. E già incominciano a farlo, come per esempio è accaduto con l’incontro all’Università di al-Azhar al Cairo della settimana scorsa. Le autorità islamiche stanno riconoscendo che questi gruppi devono essere condannati perché - secondo quanto dicono - non rappresentano l’islam. Ebbene, dovranno prendere tutte le misure per impedire che gente innocente sia perseguitata in tal modo.

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Papa a Esercito della Salvezza: testimoniare insieme Cristo nelle periferie

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Papa Francesco ha ricevuto oggi in Vaticano una delegazione dell’Esercito della Salvezza, movimento internazionale evangelico fondato nel 1865 e presente in oltre 120 Paesi, che promuove, insieme alla predicazione della Parola di Dio, opere sociali a favore dei più poveri. Servizio di Francesca Sabatinelli

Che la comune fede in Gesù Cristo “diventi sempre più il fondamento solido di amicizia e di collaborazione” tra  cattolici e salvazionisti e con altri cristiani. E’ con parole di cordialità che Francesco accoglie la visita dei dirigenti dell’Esercito della Salvezza da lui conosciuto sin dai tempi della sua infanzia a Buenos Aires, come ricorda lui stesso:

"Quando io avevo quattro anni – era nell’anno 1940, nessuno di voi era nato, eh? – andavo per strada con la mia nonna. In quel tempo, l’idea era che tutti i protestanti andavano all’Inferno. Ma, dall’altra parte del marciapiedi venivano due donne dell’Esercito della Salvezza, con quel cappello che avevate voi … Lei lo ha usato? E io ricordo come se fosse oggi, io ho detto a mia nonna: 'Quelle, chi sono? Monache, suore?'. E mia nonna ha detto: 'No. Sono protestanti. Ma sono buone'. E così, la mia nonna per la testimonianza vostra, mi ha aperto la porta all’ecumenismo: la prima predica ecumenica che ho avuto è stata davanti a voi. Thank you very much".

Francesco sottolinea i proficui contatti che negli anni si sono avuti tra l’Esercito della Salvezza e il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, volti a “promuovere una migliore conoscenza reciproca, mutuo rispetto e regolare collaborazione". Il suo augurio è quindi che cattolici e salvazionisti possano continuare a “rendere testimonianza comune di Cristo e del Vangelo in un mondo che ha tanto bisogno di sperimentare la misericordia infinita di Dio”, perché “riconoscono che i bisognosi hanno un posto speciale nel cuore di Dio e per questo “si incontrano frequentemente nelle stesse periferie umane”. La preghiera di Francesco è quindi che tutti i discepoli di Cristo nel mondo “offrano il loro contributo con la stessa convinzione e lo stesso dinamismo che l’Esercito della Salvezza dimostra nel suo devoto e apprezzato servizio”.

"Le differenze tra cattolici e salvazionisti su questioni teologiche ed ecclesiologiche non devono ostacolare la testimonianza del nostro amore condiviso per Dio e per il prossimo, un amore che è in grado di ispirare energici sforzi nell’impegno di ripristinare la dignità di coloro che vivono ai margini della società".

L’auspicio è che tante persone in difficoltà possano continuare a contare sull’azione dell’Esercito della Salvezza, “che permette alla luce di Cristo di splendere negli angoli più bui della loro vita”.

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Francesco ai Nobel per la pace: l'eredità di Mandela vi incoraggi

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Il Papa ha espresso gratitudine ai premi Nobel per la pace, riuniti a Roma per il loro XIV vertice mondiale. In un messaggio a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, Francesco si dice profondamente grato per “l'impegno dei partecipanti al Vertice a promuovere la pace e la fratellanza tra i popoli, e per il loro impegno nella ricerca di soluzioni ai conflitti dei nostri giorni”. “Dato che questo incontro onora la memoria di Nelson Mandela – si legge – la cui eredità della non violenza e della riconciliazione continua ad ispirare il mondo”, Papa Francesco prega che tutti i presenti possano essere rinnovati e incoraggiati nel loro lavoro urgente, e che le loro fatiche possano portare abbondanti frutti di pace per il mondo”.

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Predica d'Avvento. Cantalamessa: la pace nella Chiesa è fraternità

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La pace è un dono dello Spirito Santo, ma anche un “compito” che la Chiesa è chiamata a costruire sui valori della fraternità al suo interno e del dialogo all’esterno. È la riflessione di padre Raniero Cantalamessa nella sua seconda predica d’Avvento. Il servizio di Alessandro De Carolis

Raffinata strategia contro disarmante semplicità. Predisporre ciò che serve a uccidere e distruggere, una guerra, è uno sforzo di calcoli ultracomplessi e dal prezzo altissimo. Guadagnare il bene più alto cui non rinuncerebbe nessuno in nessuna cultura, la pace, è sempre, di partenza, a costo zero:

“La pace non si fa come la guerra. Per fare la guerra, occorrono lunghi preparativi: formare grossi eserciti, predisporre strategie, sancire alleanze e poi muovere compatti all’attacco. Guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata: sarebbe votato a sicura disfatta. La pace si fa esattamente al contrario: cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano. La pace si fa, diceva papa Francesco in una circostanza recente, ‘artigianalmente’”.

È uno dei tanti esempi che, com’è suo costume, padre Raniero Cantalamessa propone per dare corpo alle sue riflessioni spirituali. L’obiettivo della sua seconda meditazione è mostrare come la pace – considerata nella prima predica d’Avvento “dono di Dio” – sia anche un “compito” concreto e un impegno tipicamente cristiano, quello che Gesù affida ai discepoli, quello che lo induce a definire gli operatori di pace “figli di Dio”. Negli stessi anni in cui l’imperatore Augusto celebra la sua “pax romana” frutto di vittorie delle sue legioni, Gesù – osserva padre Cantalamessa – “rivela che esiste un altro modo di operare per la pace”:

“Anche la sua è una ‘pace frutto di vittorie’, ma vittorie su se stessi, non sugli altri, vittorie spirituali, non militari. Sulla croce, scrive san Paolo, Gesú ‘ha distrutto in se stesso l’inimicizia’: ha distrutto l’inimicizia, non il nemico, l’ha distrutta in se stesso, non negli altri. La via alla pace proposta dal Vangelo non ha senso solo nell’ambito della fede; vale anche nell’ambito politico. Oggi vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico. I nemici si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo”.

E con il dialogo si crea la pace sociale, che è “frutto della giustizia”, e col dialogo si rende solida la pace fra le altre religioni, afferma padre Cantalamessa, in particolare quella tra i due popoli fratelli, quello ebreo e quello cristiano, che pure molte divisioni ha sofferto. Ma l’attenzione del predicatore pontificio è in particolare per la Chiesa e per il modo in cui essa vive la pace al suo interno. La pace, indica, si esprime attraverso la “fraternità”, cui Papa Francesco, ricorda, ha dedicato il suo Messaggio per la prossima Giornata della pace. Certo, per essere “un cuor solo e un’anima sola” serve lo Spirito Santo e la dimostrazione – prosegue – sta proprio in quello che accade il giorno della Pentecoste. Prima di ricevere lo Spirito, gli Apostoli “discutevano tra loro chi fosse il più grande”, dopo non pensano ad altro che all’annuncio della gloria di Dio. L’opposto, dice, dei costruttori della torre di Babele:

“Vogliono costruire un tempio alla divinità, ma non per la gloria della divinità; per diventare famosi, per farsi un nome, non per fare un nome a  Dio.  Dio è strumentalizzato, deve servire alla loro gloria. Anche gli apostoli, a Pentecoste, iniziano a costruire una città e una torre, la città di  Dio che è la Chiesa, ma non più per farsi un nome, ma per farlo a  Dio. E difatti, li ascoltatori li capiscono proprio perché non parlano di se stessi. Il fuoco di Pentecoste ha bruciato in loro ogni ambizione personale”.

Da qui Sant’Agostino, ricorda padre Cantalamessa, ha tratto lo spunto per scrivere “La Città di  Dio”, dove la “città di Satana”, Babilonia, “costruita sull’amore di sé fino al disprezzo di  Dio, si contrappone alla “città di  Dio”, Gerusalemme, costruita “sull’amore di  Dio fino al sacrificio di se stessi”. Ma, ecco il punto per padre Cantalamessa, le due città “sono due cantieri aperti fino alla fine del mondo e ognuno deve scegliere in quali dei due vuole impiegare la sua vita”:

“Ogni iniziativa, anche la più spirituale, come è la nuova evangelizzazione, può essere o Babele o Pentecoste. (Anche, naturalmente, questa meditazione che io sto dando). È Babele se ognuno con essa cerca di farsi un nome; è Pentecoste, se a dispetto del sentimento naturale di riuscire e ricevere approvazione, si rettifica costantemente le proprie intenzioni, ponendo la gloria di  Dio e il bene della Chiesa al di sopra di tutti i propri desideri personali con la volontà, perché Dio guarda la volontà profonda, non i sentimenti naturali”.

Questo, conclude padre Cantalamessa, dimostra un fatto non sempre considerato: lo Spirito Santo “non annulla le differenze, non appiana automaticamente le divergenze”. Anche gli Apostoli dopo la Pentecoste ebbero motivi di discussione, ognuno espresse “la propria convinzione con rispetto e libertà” senza però dividersi in “partiti o schieramenti”:

“Accennavo alla Curia. Quale dono per la Chiesa se essa fosse un esempio di fraternità! Lo è già, almeno molto più di quanto il mondo e i suoi media vogliono far credere; ma può diventarlo sempre di più. La diversità di opinioni, abbiamo visto, non deve essere un ostacolo insormontabile. Basta, con l’aiuto dello Spirito Santo, rimettere ogni giorno al centro delle proprie intenzioni Gesù e il bene della Chiesa, e non il trionfo della propria opinione personale”.

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Papa, tweet: nostra Signora di Guadalupe, prega per noi!

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Nel giorno della sua Messa in San Pietro in memoria della Patrona delle Americhe, Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Nostra Signora di Guadalupe, prega per noi!”.

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Papa nomina arcivescovo di Saragozza mons. Jiménez Zamora

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In Spagna, Papa Francesco ha nominato arcivescovo metropolita di Saragozza mons. Vicente Jiménez Zamora, trasferendolo dalla Sede di Santander. Il presule è nato ad Ágreda (Soria) il 28 gennaio 1944. Dopo aver compiuto gli studi nel Seminario di Burgo de Osma presso la Pontificia Università di Comillas (allora a Santander), fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1968. Ha conseguito la Licenza in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana (1968), la Licenza in Teologia Morale presso l’Accademia Alfonsiana (1970) e la Licenza in Filosofia presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino Angelicum (1970). Nella diocesi di Osma-Soria (Castilla y León) è stato: Superiore del Seminario Diocesano (1970-1972); Professore di religione (1974-1988); Professore nella Scuola di Infermeria di Soria; Professore di Filosofia e Teologia nel Seminario Diocesano; Canonico della Cattedrale (1977-2004); Presidente del Capitolo della Concattedrale di Soria (1990-2004); Delegato Episcopale per l’Insegnamento religioso (1978-1985) e per il Clero (1985-1992); Vicario Episcopale e Coordinatore per la Pastorale (1988-1993); Vicario Generale (2001-2003); Amministratore Diocesano (2003-2004); Membro dell’Associazione dei Teologi Moralisti di Spagna. Il 21 maggio 2004 è stato nominato Vescovo di Osma-Soria ed ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 17 luglio 2004. Il 27 luglio 2007 è stato trasferito alla sede di Santander (Cantabria). Nella Conferenza Episcopale ha collaborato come Membro della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede e di quella per la Pastorale Sociale. Dal 29 marzo 2014 è Membro della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.

In Ecuador, Papa Francesco ha nominato vicario apostolico di Napo, padre Adelio Pasqualotto, della Congregazione di San Giuseppe, attuale provicario del Vicariato apostolico di San Miguel de Sucumbíos. Gli è stata assegnata la sede titolare vescovile di Abtugni. Padre Pasqualotto è nato il 26 aprile 1950 a Novoledo di Villaverla, Diocesi di Vicenza (Italia). Ha iniziato la formazione all’interno della Congregazione di San Giuseppe, negli Istituti di Montecchio, Arcugnano (Vicenza), e Civezzano (Trento). Nel 1966 è entrato in Noviziato a Vigone (Torino), emettendo la prima Professione religiosa il 27 settembre 1967. Successivamente ha fatto tre anni di tirocinio pastorale in Spagna, ad Orduna (Vizcaya), prima di intraprendere gli studi di Teologia a Viterbo, presso l’Istituto San Pietro dei PP. Giuseppini. Ha emesso la Professione solenne il 13 ottobre 1973. È stato ordinato sacerdote l’11 marzo 1978. Dopo l’Ordinazione sacerdotale, ha ricoperto i seguenti incarichi (1978-1983): Vice Rettore della Comunità presso la Colonia S. Pio X, a Santa Marinella, Roma, (1983-1987) Animatore vocazionale della Congregazione di S. Giuseppe di Acquedolci (Messina), in Sicilia (1987-1988) Animatore della pastorale giovanile presso la parrocchia S. Giuseppe di Lucera (Foggia), (1988-1991) Parroco dell’Opera Sacro Cuore a Rossano (Cosenza) e Direttore della Comunità locale; (1991-1997) Parroco di San Jorge Martir, Città del Messico; (1997-2008) Parroco di Santa Isabel de Hungria, Hermosillo (Sonora-Messico); (2000-2006) Vicario Provinciale della Provincia messicana dei PP. Giuseppini; (2009) Anno di formazione permanente presso l’Istituto Teologico di Viterbo; (2010-2012) Parroco di San José Obrero, nella Diocesi di Aguacalientes (Messico); (2013) Collaboratore nelle parrocchie di Archidona e Loreto, nel Vicariato Apostolico del Napo; dal 2013: Provicario del Vicariato Apostolico di San Miguel de Sucumbíos.

Il Vicariato Apostolico di Napo (1871), ha una superficie di 24.600 kmq e una popolazione di 102.760 abitanti, di cui 85.226 sono cattolici. Ci sono 18 parrocchie servite da da 26 sacerdoti (di cui 9 diocesani, 12 Religiosi e 5 Fidei donum, 15 Fratelli Religiosi, 50 suore e 8 seminaristi maggiori. Il Vicariato Apostolico di Napo, è vacante dal febbraio 2014, a seguito del trasferimento dell’Ordinario, S.E. Mons. Celmo Lazzari, C.S.I., al Vicariato Apostolico di San Miguel de Sucumbíos.

Il Santo Padre ha nominato segretario della Pontifica Commissione Biblica il padre gesuita, Pietro Biovati Bovati.

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Due anni con @Pontifex. Giaccardi: Francesco testimone non testimonial

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Il 12 dicembre di due anni fa il Benedetto XVI lanciava i primi Tweet dal suo account @Pontifex. Una scelta lungimirante raccolta fruttuosamente da Francesco. Proprio oggi l’account Twitter del Papa ha superato i 17 milioni di follower. I tweet sono pubblicati in 9 lingue: italiano, inglese, spagnolo, francese, portoghese, tedesco, polacco, arabo e latino. Sul successo di Papa Francesco su Twitter e più generalmente sui social network, Alessandro Gisotti ha intervistato la prof.ssa Chiara Giaccardi, docente di sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano: 

R. - Il contributo è enorme non soltanto ai comunicatori ma ai semplici fedeli. Intanto Papa Francesco dimostra di essere perfettamente un Papa “cross mediale”, nel senso che attraversa tutti i territori comunicativi con la stessa disinvoltura che è radicata nella sua autenticità. Il perno della sua comunicazione è la comunicazione faccia a faccia, ma tutte le altre forme, quella televisiva, il videomessaggio, la telefonata, il tweet sono tutte modalità convergenti - appunto - che si radicano nella sua autenticità, che è l’autenticità del testimone e non del testimonial. Lui non rimanda se stesso, ma è il medium del messaggio di cui si fa portavoce e autentica incarnazione. Per questo è così convincente: dimostra che le strategie comunicative in realtà sono abbastanza artificiose. Siamo sempre preoccupati degli effetti, di trovare il modo più convincente; in realtà l’unico modo convincente è l’autenticità da un lato, quindi l’essere testimoni, e la parresia quindi la capacità di parlare con franchezza senza preoccuparsi tanto - al contrario - di tutti gli effetti delle propria comunicazione.

D. – Cosa invece questa presenza sui social network sta dando all’azione pastorale di Papa Francesco tutta rivolta ad uscire anche nel continente digitale?

R. – Certo, a me sembra che l’icona che il Papa ha utilizzato nel messaggio per la 48.ma Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali - quella del samaritano - sia veramente indicativa in questo senso, perché nei territori digitali si possono incontrare anche gli stranieri, oppure si può incontrare altri nella posizione di stranieri, altri che ritengono – appunto - il messaggio cattolico come un messaggio in stile antiquato. Ho notato che su Twitter, per esempio, i rilanci soprattutto di alcuni grandi gesti simbolici del Papa sono fatti anche da persone che mai entrerebbero in una chiesa. Quindi io credo che questo territorio in particolare, che è un territorio frequentato da persone di tutte le estrazioni e ideologie però sensibili a cogliere lo spirito del tempo, sia un luogo in cui è possibile incontrare e notare questa missione di evangelizzazione e portarla anche al di là dei nostri consueti perimetri.

D. - La comunicazione di Francesco è molto visuale. Spesso procede proprio per immagini. Anche qui il suo successo come comunicatore che, pur non avendo ma usato praticamente internet da cardinale, invece si ritrova da Papa ad avere un grande ascolto sui social network…

R. - Penso che la sua sia una comunicazione gestuale ed iconica: gestuale nel senso che il primo medium comunicativo è il corpo, il primo modo di comunicare è ridurre le distanze, quindi uscire dai protocolli, avvicinarsi alle persone accarezzarle, con una gestualità che da una parte rompe i cerimoniali, ma dall’altra non crea un clima di equivalenza, siamo tutti uguali, lui rimane il Papa, rimane autorevole, ma esprime una paternità in questa sua sollecitudine anche affettuosa. Quindi il gesto è il primo medium comunicativo. Poi a me viene in mente questa espressione: “lui risveglia le parole”, nel senso che usa delle parole che sono delle immagini, parole che richiamano l’esperienza quotidiana e sono comprensibili proprio perché rievocano quelle situazioni quotidiane che ciascuno di noi conosce benissimo che però vengono illuminate da una luce diversa nei suoi discorsi, nei suoi modi di presentare la fede attraverso questa quotidianità. Quindi c’è il gesto e c’è l’immagine iconica relativa alla quotidianità: due modi visuali di comunicare estremamente efficaci.

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Nuovo sito Radio Vaticana, Lombardi: sempre più multimediale

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E’ stato presentato nella Sala Marconi della nostra emittente, il portale della Radio Vaticana, www.radiovaticana.va, in fase di rinnovamento. Nella sua presentazione, il direttore generale padre Federico Lombardi ha sottolineato che la Radio Vaticana è sempre più un editore multimediale impegnato a portare a tutti il messaggio evangelico e il magistero del Papa. Cambiano dunque gli strumenti, non la missione. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Sempre più dinamici, sempre più social per portare la Parola di Dio e del Papa a tutti, anche nel continente digitale. Questa in sintesi la filosofia che ha sta animando il rinnovamento del portale della Radio Vaticana. Un work in progress come ha subito voluto precisare padre Federico Lombardi:

“Il nostro sito è stato, quindi, rinnovato pensando di venire meglio incontro a questa situazione nuova della comunicazione e dei nostri fruitori. Voi dite: ‘Ma lo conosciamo già!’. Lo conoscete già sì e no, nel senso che qui noi stiamo parlando sempre  – quando siamo alla Radio Vaticana – di 37 lingue, di 10 e passa alfabeti differenti…”

Un lavoro dunque che continua, anche pensando al prossimo viaggio di Papa Francesco in Asia. Del resto, padre Lombardi ha rammentato che la Radio Vaticana ha costantemente seguito l’evoluzione della tecnologia per mettere il Pontefice in contatto con il resto del mondo. Da ormai 15 anni, ha soggiunto, l’emittente vaticana ha investito sempre più energie e impegno nella comunicazione multimediale e ora anche sui social network. Oggi dunque, la Radio Vaticana è presente su Facebook con 17 profili in diverse lingue, ha 6 account Twitter disponibili in 6 lingue, e 9 canali su You Tube. Inoltre, è presente sui social network Weibo e QQ per gli utenti cinesi. Tutto disponibile anche su smartphone e tablet. Lo sforzo per raggiungere soprattutto i nativi digitali si è inoltre rivolto nella realizzazione di App scaricabili gratuitamente e visibili su iOs, Android e Windows Mobile. Rispondendo alle domande dei giornalisti, padre Lombardi ha quindi voluto sottolineare che, pur impegnata nella comunicazione digitale, la Radio Vaticana non viene meno alla sua funzione originaria:

“Noi insistiamo che continuiamo ad essere una radio, che continua anche a trasmettere come radio. E’ presente anche con tutta una sua programmazione radiofonica in diversi modi, anche via web. Su Roma con una Fm tradizionale, ma importante; sull’Italia con il  Dab+. Per fortuna noi abbiamo l’impressione che il Dab si stia, piano piano, diffondendo anche in Italia e su cui quindi è importante che siamo presenti. Su questo la nostra offerta radiofonica è già a copertura praticamente nazionale. Un’altra osservazione è che naturalmente la nostra offerta radio, tramite le vie classiche, sia satellitare e sia via internet, è offerta per la ritrasmissione da parte delle radio locali cattoliche in particolare”.

Una delle principali novità sviluppate dalla Radio Vaticana, ha detto ancora padre Lombardi, è il Vatican Player, strumento che offre contenuti multimediali live e on demand, in particolare l’agenda del Papa e i video integrali delle celebrazioni, in collaborazione con il Ctv. Quindi, si è soffermato sulla novità dei Blog aggregati ad alcune pagine web della Radio. Come sempre, ha detto il direttore dell’emittente, c’è fiducia in chi pubblica i contenuti:

“Nella Radio Vaticana la tradizione della fiducia in chi redige è costituzionale, nel senso che non c’è nessuno al mondo che capisca e controlli tutto quello che viene pubblicato dalla Radio Vaticana nelle sue 37 lingue. Per noi è sempre essenziale che chi opera alla radio - in particolare i responsabili delle diverse sezioni, come guide - capisca bene che cosa ci stiamo a fare, perché siamo qui, qual è la nostra missione, con quale spirito e con quali criteri lavoriamo”.

Alla presentazione hanno preso parte anche i colleghi dell’emittente, Pietro Cocco e David Rem Picci che – in quanto coordinatori rispettivamente del vecchio e nuovo sito web – hanno raccontato l’evoluzione della presenza della Radio Vaticana su Internet. In particolare è stato messo l’accento sullo sforzo di rendere il sito web non una “vetrina”, ma uno “snodo” della comunicazione cattolica nel mondo. Un impegno che oggi prosegue articolando il messaggio del Papa nelle diverse piattaforme informative.

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A Sant'Anna cena per i poveri del Papa

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I poveri del Papa alla cena natalizia organizzata dalla parrocchia di Sant’Anna in Vaticano. Ieri sera erano più di cento gli indigenti che ricevono aiuti dalla parrocchia del Papa che si sono ritrovati nel salone parrocchiale. Con loro a mensa c’era anche mons. Konrad Krajewski - Elemosiniere - che ha portato la benedizione del Papa e ha donato a tutti i commensali il suo biglietto di auguri.

La cena è stata offerta da alcuni benefattori della parrocchia di Sant’Anna e ha radunato in un clima gioioso e conviviale persone di diverse nazionalità e differenti religioni che durante tutto l’anno sono assistiti dalla parrocchia del Papa.

E il 19 dicembre per loro, alle 9, sempre a Sant’Anna, sarà celebrata una Messa natalizia al termine della quale saranno consegnati dei pacchi dono. (T.C.)

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In fuga dalla disumanità: Papa Francesco torna a denunciare la difficile situazione dei cristiani in Medio oriente.

Da Narushima, Cristian Martini Grimaldi sulla memoria dei cristiani giapponesi nascosti: due chiese dell'isola di Goto candidate a patrimonio dell'Unesco.

Speranza e tolleranza: Ritanna Armeni recensisce una commedia e un dramma francesi sulla sfida della convivenza tra religioni e tradizioni culturali.

Predica sempre, anche con le parole: Silvia Guidi sul libro fotografico di Enrique Cangas sugli anni di Bergoglio tra Buenos Aires e il Vaticano.

La forza della memoria: uno stralcio tratto dal libro "Nel cuore di ogni padre" di Jorge Mario Bergoglio che quarantacinque anni fa, il 13 dicembre 1969, veniva ordinato sacerdote.

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Oggi in Primo Piano



Libano: morti 12 bambini siriani nei campi profughi

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Dodici bambini siriani, tra cui neonati, sono morti di freddo e stenti nell'ultimo mese e mezzo nei campi profughi improvvisati nell'est del Libano. La denuncia è stata riferita dai media di Beirut. Il Paese continua intanto a subire le conseguenze della guerra civile in Siria e nella lotta contro lo Stato Islamico. I jihadisti dell'Is e i qaedisti del Fronte al Nusra si sono nuovamente scontrati nella regione montuosa del Qalamoun, al confine tra i due Paesi. In Libano sono oltre un milione e mezzo i profughi ospitati, in fuga dalle violenze. Massimiliano Menichetti ha intervistato il prof. Aldo Morrone, presidente dell'Istituto Mediterraneo di ematologia, appena rientrato dalla quinta missione nei campi profughi libanesi: 

R. – La situazione rispetto al passato è peggiorata purtroppo. I bambini e le donne si ammalano più rapidamente e più velocemente rispetto al passato, ci sono meno medicine e meno possibilità di curarli.

D. - Quali sono le malattie che ha riscontrato?

R. – Intanto, in questo momento in Libano fa freddo, molto freddo. Le tende, le baracche fanno passare il gelo e il vento, quindi abbiamo broncopolmoniti diffuse, scabbia, morbillo tra i bambini. Abbiamo l’epatite virale, poi due malattie drammatiche: la poliomielite e l’altra è la Mers, un’infezione dal virus della Sars, modificato, che è proprio un’infezione respiratoria grave del Medio Oriente, che si chiama "Middle East Respiratory Syndrome".

D. – Il sistema sanitario libanese è al collasso: come vive la popolazione la presenza di così tanti profughi?

R. – Effettivamente, c’è una situazione drammatica perché in Libano, su una popolazione di quattro milioni di abitanti circa, abbiamo almeno un milione e mezzo di rifugiati che sono arrivati dalla Siria. Però, devo dire che molti libanesi, in particolare le donne, si danno da fare per aiutare le altre donne siriane e palestinesi a essere accolte. Il nostro lavoro è quello di visitare, curare e distribuire anche le medicine dopo aver fatto le diagnosi in questi campi: non soltanto ai rifugiati, noi visitiamo anche i libanesi più poveri.

D. – In questa quinta missione siete stati anche al campo profughi di Shatila?

R. – In una superficie di un chilometro quadrato, in pratica, vivono in questo momento più di 30 mila persone in una condizione di degrado ambientale e di povertà estrema. In quest’area, per poter visitare e curare abbiamo dovuto creare una struttura temporanea addirittura in un grande parcheggio, perché dentro Shatila è un caos: fili della corrente sparsi dappertutto, tubi dell’acqua, c’è una situazione assolutamente invivibile, inimmaginabile per noi occidentali. Stiamo cercando, per il prossimo anno, di creare una struttura stabile sia per visitare, sia per avviare la formazione del personale locale e garantire quindi che un’attività di prevenzione delle malattie e restituire la salute a queste persone.

D. – Ma dunque l’intervento delle Ong e della Caritas non è sufficiente?

R.  – La situazione in Libano si è deteriorata perché le risorse che in un primo tempo sono arrivate adesso non ci sono più. C’è anche da parte del governo un tentativo di evitare altri accampamenti, per cui i rifugiati si organizzano in un “fai da te” impressionante. Le risorse, ripeto, non ci sono. L’80% della popolazione libanese non ha accesso al servizio sanitario, non gode di un’assicurazione privata. Non esiste un servizio sanitario pubblico degno di questo nome. Ed è proprio all’interno di questo quadro che noi stiamo lavorando perché il governo, immediatamente dopo - noi speriamo al più presto - la fine della guerra in Sira e dell’avanzata dei terroristi dell’Is si possa creare un servizio sanitario pubblico per tutti.

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Afghanistan, Pangea: non si abbandoni il Paese

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Ferma condanna del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dopo l’attentato suicida che ieri ha colpito un centro culturale francese di Kabul, causando la morte di un cittadino tedesco e dell'attentatore, oltre a una ventina di feriti. L’organismo dell’Onu esprime serie preoccupazioni alla società afghana e alla presenza internazionale nel Paese di fronte alle minacce da parte di talebani, al Qaeda e altri gruppi terroristici. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Simona Lanzoni, portavoce di Pangea onlus, l’Associazione che porta avanti numerosi progetti umanitari in Afghanistan: 

R. – Ultimamente, abbiamo visto un aumento degli attentati, soprattutto dopo le elezioni presidenziali, che hanno portato all’avvicendarsi di Karzai e Ghani e come primo ministro il suo concorrente, Abdullah Abdullah. Pensavamo che questo potesse essere anche un momento di chiusura di tensioni che c’erano state durante tutto il periodo elettorale, in realtà tutto novembre è stato all’insegna di attacchi terroristici – non solo a Kabul, ma nell’intero Paese – e la popolazione si interroga su quale sarà il proprio futuro. C’è poi il momento di chiusura della missione Nato, e quindi anche di quella americana, che si trasforma in altro. E chiaramente la sicurezza in questo momento è nella mani dello Stato afghano e questo vuol dire un impegno maggiore sia per le istituzioni afghane, ma allo stesso tempo anche per noi Comunità internazionale.

D. – In questo clima come riescono a lavorare gli operatori umanitari, tra i quali ci siete anche voi di Pangea Onlus?

R. – Noi come Fondazione Pangea siamo molto responsabili del fatto di continuare a mantenere il nostro impegno, a stare vicino alla popolazione afghana e alle donne afghane in particolare, come facciamo da sempre con il nostro progetto di microcredito. Quindi, è chiaramente una sfida anche per tutta la comunità internazionale a non abbandonare l’Afghanistan, continuando a garantire la costruzione di un futuro diverso.

D. – Il problema che rimane in piedi è quello, come sempre, dei rapporti con i talebani?

R. – Sì. Rimane un problema anche rispetto alle milizie afghane – perché non è detto che all’interno delle milizie non vi siano dei talebani – come anche quale sarà la sostenibilità effettiva di tutto l’apparato militare afghano nei confronti proprio del mantenimento della sicurezza e c’è tutta la questione anche del mantenimento della struttura militare, perché ricordiamoci anche che in questi prossimi anni sarà mantenuta anche da quello che la comunità internazionale sarà capace di poter dare. Tutti questi attacchi che ci sono, chiaramente fanno pensare che ci sia una volontà di alzare il livello di contrattazione chiaramente verso i talebani.

D. – Questo periodo come lo giudichi, in rapporto a quelli che sono stati altri periodi difficili?

R. – E’ un periodo rischioso, perché adesso è veramente un momento di passaggio: si è conclusa la fase della presenza militare straniera e quindi si chiede una presa di responsabilità da parte dello Stato e questo vuol dire però anche da parte di tutta la popolazione. Ci saranno più forze contrapposte che dovranno imparare a dialogare, accompagnati dalla comunità internazionali. Altrimenti, sarà molto difficile prevedere un futuro di pace, come noi veramente crediamo che sia possibile.

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Ucraina, regge la tregua. Mosca: possibile presto la pace

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È iniziata una nuova tregua nel sudest dell’Ucraina, questa volta sembra con prospettive decisamente migliori rispetto agli accordi di settembre. “C’è l'opportunità di arrivare alla pace”, afferma il Cremlino e anche il presidente ucraino, Poroshenko, parla di “reale cessate il fuoco”, dopo sette mesi di conflitto e più di 4.300 vittime. Ma tutto sembra molto fragile, infatti due feriti si registrano stamane nei territori filorussi, da dove i separatisti sostengono di aver ritirato le armi pesanti. Dunque, effettivamente la situazione si va stabilizzando? E per quali ragioni? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Serena Giusti ricercatrice esperta dell'Est Europa all’Università Sant’Anna di Pisa e all'Ispi: 

R. - Forse, più che di una stabilizzazione possiamo parlare di un maggior accordo politico sulla cessazione delle tensioni. È una tregua che in ogni momento, a mio avviso, può nuovamente degenerare se la Russia ritenesse che poi i suoi interessi non sono rispettati.

D. – Quanto c’è di economico dietro l’accordo politico?

R. – L’economia è la chiave di tutto, sia dal punto di vista dell’Ucraina che dal punto vista della Russia e della stessa Unione Europea. Le sanzioni stanno avendo un effetto economico rilevante nell’economia russa, che già era in declino. A questo si aggiunga il ribasso del prezzo del petrolio e delle forniture del gas. Per quanto riguarda l’Ucraina, è a rischio "default": si prevede infatti che il prossimo anno si abbia una contrazione del Pil del 7%. Infine, le sanzioni stanno danneggiando parte dell'Unione Europea, l’Italia, la Germania, la Francia. Quindi, c’è un interesse comune nel trovare una soluzione per quanto riguarda questa parte dell’Ucraina.

D. – Risulta dunque che affossare l’economia russa è una perdita per tutti o per tanti?

R. – È una perdita intanto economica, ma ci sono delle ripercussioni anche politiche che non bisogna sottostimare, nel senso che un collasso del regime di Putin in questo momento sarebbe un disastro per tutti. Tanto più che in Russia non c’è una vera opposizione costruita, identificata in un partito politico che possa essere un’alternativa a Putin. Si potrebbe pensare veramente quindi in questo momento a una frammentazione e disgregazione del Paese e soprattutto a una ripresa anche di forze islamiche da non sottovalutare.

D. – Comunque, sta di fatto che tutta la zona del sudest non ha trovato ancora un assetto politico istituzionale...

R. – No, ci sono ancora conflitti che la Russia può continuare a fomentare in un'area "grigia" che consente a Mosca di esercitare una certa influenza.

D. – Sembra comunque che il fronte ucraino si confermi dopo tutti questi mesi di tensione un fronte, per più di un motivo, "globale"…

R. – Sì, dall’Ucraina è ripartita una certa tensione tra gli Stati Uniti e la Russia. Poi, bisogna sempre distinguere tra retorica, linguaggio politico e real politik, in quanto i toni sono molto alti. Molti analisti parlano di “guerra fredda”. In realtà, c’è anche da parte dello stesso Putin un giocare questo nuovo bipolarismo per acquisire maggior consenso interno, che invece è in declino. Comunque sì, l’Ucraina ha riaperto vari fronti, vari conflitti, riproponendo soprattutto una tensione Unione Europea-Russia e Russia-Stati Uniti.

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Sciopero generale: Alta adesione, tensioni a Milano e Torino

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Oggi in tutta Italia lo sciopero generale di otto ore, dalle 9 alle 17, proclamato da Cgil, Uil e Ugl contro la legge di Stabilità e il "Jobs Act". Alta l’adesione secondo i sindacati. Fermi molti servizi pubblici e il sistema dei trasposti. Cortei e manifestazioni in 54 città animati anche dagli studenti. Tensioni e scontri con la polizia si sono registrati a Milano e Torino. Il servizio di Marco Guerra: 

“Se Renzi tira dritto lo faremo anche noi”. Il leader della Cgil, Susanna Camusso, al comizio di Torino avvisa il governo che il sindacato non si rassegna alle condizioni che “vogliono imporgli”. Il segretario della Uil, Carmelo Barbgagallo, ha scelto invece il corteo di Roma per annunciare “una nuova resistenza contro chi vuol fare a meno dei sindacati”. In tutta Italia, sono 54 le manifestazioni partecipate da lavoratori, pensionati, precarie e anche tanti studenti, per dire "no" alla legge di stabilità e al "Jobs Act", ma anche per chiedere l'estensione del bonus degli 80 euro a pensionati e incapienti e lo sblocco del contratto del pubblico impiego. Momenti di tensione con la polizia a Torino e Milano. Alta l’adesione e fermi diversi servizi pubblici. Lo stop riguarda circa il 50% dei treni e degli aerei e  il 70% degli autobus. E nel settore ferroviario lo sciopero resta in violazione delle norme, dice il garante Alesse, il quale sta valutando eventuali sanzioni. Per un commento sulle ragioni della protesta, sentiamo l’economista ed esperto del lavoro, Nunzio Bevilacqua:

R. – I sindacati fanno il loro dovere, quello di cercare di preservare al massimo quelli che sono i diritti dei lavoratori. D’altro canto, però, è inevitabile oggi che, se vogliamo continuare a preservare i diritti, qualche cosa nel mondo del lavoro deve necessariamente cambiare, altrimenti non ci sarà più la sostenibilità del lavoro. È sicuramente un importante passo quello che il governo ha fatto con il "Jobs Act", ma sicuramente non basta per risolvere i problemi dell’Italia. Quindi, se questo contrasto è civile – affinché le modifiche che avverranno nel mondo del lavoro saranno condivise e magari anche migliorate in determinati punti – ben venga un confronto. Ma certamente oggi non possiamo più stare fermi, perché il modo del lavoro deve andare avanti per continuare a creare lavoro.

D. – Quindi, non c’è il rischio di un’eventuale guerra generazionale tra chi ha un po’ di diritti e vede levarseli e i giovani che invece chiedono un minimo di garanzie nel contesto di un lavoro precario?

R. – Ci vuole sicuramente una giusta mediazione tra queste due istanze, quindi tra un livello occupazionale, che a livello quantitativo deve aumentare, e preservare una qualità del lavoro che, purtroppo, dobbiamo renderci conto in questi tempi non può essere pari a quello di 20 o 30 anni fa, perché non avremmo più la sostenibilità.

D. – Tra le altre cose, al centro delle richieste dei sindacati l’estensione del bonus degli 80 euro a pensionati e incapienti e lo sblocco del contratto del pubblico impiego. Insomma, si chiede una risposta dello Stato alla crisi che attanaglia le famiglie. Però, c’è anche l’Europa che continua a far sentire la pressione in tema di austerità e conti pubblici…

R. – Il governo Renzi sta facendo tutto quello che è nelle umane possibilità per poter cercare di sbloccare un’economia italiana che effettivamente è ancora in sofferenza. Per quanto riguarda l’estensione degli 80 euro, sono perfettamente d’accordo sulla necessità di estenderlo ai pensionati ma anche, per una questione di uguaglianza sostanziale, ai titolari di partite Iva. Purtroppo, la grande battaglia si combatterà sul trovare le risorse finanziare per coprire queste misure.

D. – Di oggi sono i dati che rilevano una produzione industriale in Italia in calo anche a ottobre. Si può trovare una via per la crescita malgrado questa pressione dell’Europa?

R. – La via della crescita si trova sul sentiero del taglio della tassazione sulla produzione. Il nostro è un Paese purtroppo poco competitivo, abbiamo un grande prodotto in termini di made in Italy, ma purtroppo non riusciamo ad essere competitivi, perché rimanendo con questo livello di tassazione, la concorrenza di altri Paesi è troppo forte. E la politica industriale è necessario che venga accompagnata non solo da una diminuzione delle tasse, ma anche da un sistema burocratico che guardi ad altri Paesi europei come modello di efficienza, perché prima del livello di tassazione, il vero cruccio dell’imprenditore nell’iniziare una produzione e nell’assumere è il peso della burocrazia italiana.

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Rom e Sinti: basta con i campi, ghetti senza speranza

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In Italia, vivono circa 180 mila Rom e Sinti, sono la terza minoranza dopo sardi e friulani, e continuano a essere uno dei gruppi più discriminati ed esclusi. Se ne è parlato ieri al Senato, in un Convegno dal titolo “Il popolo Rom: dall’emarginazione all’integrazione possibile”, organizzato da varie associazioni in collaborazione con la Commissione Diritti umani del Senato. Il servizio di Francesca Sabatinelli

L’Italia è il Paese dei campi nomadi, perché è in Italia che, nonostante l’esiguo numero di Rom e Sinti rispetto a ad altre realtà europee, ne è concentrato il più alto numero. E’ da questi ghetti che parte il processo di discriminazione, istituzionale ancor prima che sociale. Se ne è parlato ieri, al Senato, un momento per fare il punto sulla situazione che vivono Rom e Sinti in Italia e in pieno scandalo "Mafia capitale", che ha messo in luce il business legato ai campi nomadi. Questi luoghi – è stata la denuncia – rappresentano la violazione dei diritti dell’uomo, del diritto alla salute e, per i ,minori la violazione del diritto alla famiglia e all’istruzione. Eppure, nonostante la "Strategia nazionale di inclusione dei Rom", approvata quasi tre anni fa dal governo italiano, preveda il superamento dei campi rom, attualmente se ne stanno progettando di nuovi in almeno dieci città. Lo dice Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio:

R. – L’Italia è chiamata “il Paese dei campi” e quindi è il Paese che ha ritenuto che per i Rom in emergenza abitativa, la soluzione fossero i campi. Quindi, bisogna partire dal campo, il luogo dove inizia la violazione del diritto e di tutti i diritti, e quindi dal superamento dei campo per iniziare un reale processo di inclusione.

D. – “Mafia capitale”, per quanto un drammatico scandalo, può aiutare?

R. – Può aiutare perché mette in crisi un sistema-campi incancrenito nella nostra capitale da 20 anni. Giusto un mese fa, il sindaco Marino ha chiesto alla nostra organizzazione un piano, una road-map, per superare i campi, che è stata presentata e che speriamo che il sindaco adesso faccia propria e che prevede proprio la riconversione dei 24 milioni di euro che il Comune di Roma spende ogni anno per il mantenimento del sistema-campi, in progetti di uscita, progetti di inclusione. E’ possibile farlo, tante città lo hanno dimostrato: da Padova a Messina. E’ possibile chiudere i campi. Purtroppo, sono tanti gli enti e le organizzazioni che vanno in direzione contraria. E su questo noi dobbiamo confrontarci per arrivare veramente alla chiusura di questi ghetti etnici nei quali i diritti sono sospesi.

D. – Se prima poteva essere legata all’introito criminale, oggi perché la volontà politica di mantenerli? A cos’altro possono servire?

R. – Non c’è solo un introito criminale, c’è anche un introito legale di tutto l’indotto. Solamente nella città di Roma, sono 35 le organizzazioni che non sono assolutamente criminali, che si muovono attorno al sistema-campi. C’è quindi un indotto che si muove, non necessariamente criminale assolutamente, ma comunque un indotto fallimentare – perché ha prodotto finora risultati fallimentari – e che determina il fatto che questi soldi non vadano ai Rom e quindi al percorso di inclusione, ma vanno alle 400 persone che lavorano attorno ai campi. Quindi, questo va superato, sono queste le persone e gli enti che si oppongono alla chiusura dei campi.

D. – Lei ha lanciato un appello ai Rom che non vivono nei campi, che sono una minoranza, che sono nelle case, li ha incitati ad uscire allo scoperto. Per quale motivo?

R. – Loro fino adesso sono rimasti mimetizzati per paura di essere discriminati, e questo è legittimo e comprensibile. E’ venuto il momento di dimostrare che ci sono Rom fuori dai campi, che è possibile un’inclusione, che ci sono storie di successo. E’ importante, ed è una responsabilità per questi Rom in questo momento storico, uscire allo scoperto e dire: “Anch’io sono Rom, anch’io che lavoro regolarmente, che pago un affitto, che pago le tasse. Anch’io sono Rom”. Questo aiuterebbe anche a cambiare nella società maggioritaria un’immagine profondamente negativa e stereotipata che si ha.

Manca ancora molto per far sì che la popolazione rom abbia nella società il posto che le compete. “Siamo 14 milioni nel mondo, di questi 12 milioni sono in Europa, nonostante questo – spiega Beatriz Carrillo de los Reyes, gitana spagnola, antropologa, presidente della Associazione delle donne gitane universitarie di Andalusia – è la cultura più ignorata e perseguitata, vittima di stereotipi che cercano di negarla e di impedire che si riconosca”.

R. – La situacion en Italia, para mi, es una situacion muy tragica...
La situazione in Italia è, secondo me, molto tragica. E quello che più mi allarma è quanto sta succedendo riguardo soprattutto allo smantellamento dei campi. La strategia che si sta applicando è una politica discriminatoria, mentre la politica dovrebbe puntare alla neutralità. Quando si perseguitano i rom, quello che si vuole fare è costruire un nemico nel mezzo di una crisi economica. Noi non siamo rappresentati, non abbiamo potere politico, i nostri valori e il nostro diritto ad essere protetti come minoranza etnica non sono difesi. Io qui la situazione la vedo tragica, ma la vedo tragica anche in Spagna. Io credo che a livello europeo si stiano colpendo fortemente tutti i princìpi comunitari e si stiano dimenticando tutti i trattati. Si sta dimenticano di cercare di unire tutte le nazionalità e tutte le culture per creare convivenza e armonia tra gli esseri umani. E in questo momento con questa crisi economica stanno usando come capro espiatorio le minoranze etniche, come quella gitana, tra l’altro noi non siamo certo una minoranza, visto che siamo circa 12 milioni di cittadini e cittadine, che è come dire la popolazione di un Paese come la Grecia. E tuttavia continuano a umiliarci e continuano a maltrattarci. E perché questo? Perché umiliare e attaccare i gitani è facile, non costa nulla! E questo lo vediamo nella repressione, e dovrebbe essere condannato, dovrebbe essere considerato “terrorismo razziale”. L’Unione Europea deve mettersi al passo e condannare tutti quegli Stati e a tutti quei politici che sostengono questo tipo di crimini contro i gitani. Tra l’altro, tutti i parametri economici dicono che un Paese che elimina le differenze e le disuguaglianze è un Paese in crescita economica e con questo dobbiamo fare i conti.

I Rom, i Sinti, chiedono giustizia storica, e chiedono soprattutto che i media non li ingabbino in un quadro di miseria, povertà e delinquenza. Damiano Cavazza, ha 31 anni, viene da Lucca ed è un sinto:

R. – Viviamo in un periodo in cui vengono violati i diritti riportati nella Costituzione, gli articoli 1, 2 e 3 nei quali si parla di “dignità” e di “diritti umani”. Io sono qui per chiedere un riscatto, non economico, ma di dignità per il mio popolo.

D. – La tua comunità, il tuo popolo, se ha sbagliato, in cosa?

R. – Nell’essere ignorante, nell’essere non curante degli stessi diritti di cui di base noi necessitiamo, come tutti. I campi nomadi, ad esempio, non sono realtà che il sinto o il rom ha scelto di avere e in cui vivere per tutta una vita, ma una condizione che lo Stato ha creato.

D. – Il fatto che il popolo Rom, il popolo dei Sinti sia nomade e per questo venga quindi attuata una serie di politiche, è una leggenda?

R. – Sì. I Rom e i Sinti non sono mai stati nomadi. Se fuggivano, è perché non erano accettati in una città o in un Paese, qualsiasi esso sia, dove cercavano di sviluppare con coscienza, con cuore e con umiltà un rapporto vero.

D. – Voi cosa fate, però, per farvi conoscere, per includere, voi, i cittadini?

R. – Parlando per me, io lavoro da quando ho 14 anni. Ora come ora sono disoccupato perché, sempre per questioni razziali, ho dovuto lasciare il mio lavoro, che era di operatore ecologico a Lucca. Ripeto: lavoro da quando ero ragazzino. Se l’integrazione è legata al lavoro e a una dialettica più corretta, italiana, per esprimere meglio ciò che pensi, io questo faccio e cerco di passare questo messaggio ai miei cugini, ai miei fratelli e quindi al mio popolo in generale.

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Card. Vallini: non dimenticare parole del Papa a Strasburgo

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La riflessione sull’identità europea, sull’invecchiamento del continente e sulla solitudine che lo caratterizza, la promozione dei diritti umani e il tema delle migrazioni. Sono stati questi i punti chiave del discorso pronunciato il 25 novembre scorso da Papa Francesco al Parlamento Europeo, al centro dell’incontro che si è svolto ieri sera nell’Aula della Conciliazione del Palazzo apostolico Lateranense. La serata è stata promossa dalla diocesi di Roma. Il servizio di Marina Tomarro

Mettere al centro la dignità della persona umana, prima dell’economia, perché solo ripartendo da questo punto sarà possibile dare una nuova speranza all’Europa. Sono parole di incoraggiamento ma anche esortazione quelle che Papa Francesco ha pronunciato al Parlamento Europeo nella sua recente visita. Il cardinale vicario della diocesi di Roma, Agostino Vallini:

“La vera dignità non sta nell’uomo-individuo, proprio perché la fonte originaria viene da Dio. E’ chiaro che avendo posto questo fondamento, poi può declinare come ha fatto in maniera molto bella e molto stimolante, su diversi temi applicativi. Ridurre gli aspetti della realtà europea alle questioni, secondo me significa impoverire. Il discorso del Papa a Strasburgo è stato un discorso che invece invita a questa riflessione più profonda, ad andare alle radici delle questioni dell’uomo. E questo è molto positivo. Quindi, ci auguriamo che l’eco che questo discorso ha avuto non passi inosservato e non si bruci nella velocità della cronaca”.

Papa Francesco nel suo discorso ai parlamentari ha ricordato che affermare la dignità della persona vuol dire prendersi cura del prossimo, contrastando quindi quell’individualismo che spesso prevale nella società attuale. Ancora il cardinale Vallini:

“Il problema vero, oggi, è una crisi di relazioni che affonda le sue radici in una crisi spirituale. Il cammino spirituale serio, solido, dà forza, porta gioia, fiducia, coraggio e anche impegno nelle relazioni. Quindi, il modo di superare l’individualismo è crescere nella vita cristiana”.

E la profonda crisi che ha attraversato l’Europa è stata soprattutto una crisi morale e politica, ma per uscirne definitivamente c’è bisogno dell’impegno di tutti. Leonardo Becchetti, docente presso l’Università di Tor Vergata:

“Il Papa ha parlato in una situazione storica molto particolare, di crisi dell’Europa, l’Europa in mezzo al guado: ha fatto un passo avanti, che è quello dell’integrazione economica, ma non ha fatto quello dell’integrazione politica e se resta in mezzo al guado rischia di perdere tutto. Non ci sono problemi tecnici insormontabili, ma solo problemi politici. O si fa quel salto di qualità nel mettere assieme le proprie risorse e riconoscere anche la miseria che verrebbe dal restare soli, oppure si rischia di perdere tutto”.

Per far crescere l’Europa è fondamentale anche il contributo di tutti i cittadini. Ancora Leonardo Becchetti:

“Il Papa parla molto chiaramente e molto lucidamente di una sfida per la democrazia, che rischia di essere messa in crisi da poteri economici e finanziari che sono diventati troppo grandi e che rischiano anche di essere ostaggio di imperi oscuri. E questo vuol dire proprio che dobbiamo avere un passo in avanti di cittadinanza attiva. Se c’è più cittadinanza attiva, più voto con il portafoglio e più cittadini che partecipano e che votano nel momento in cui scelgono le imprese, i loro consumi e i loro risparmi, allora quest’azione dei cittadini può ridare fiato e slancio alle istituzioni e può ridare anche una maggiore dignità al mercato”.

Ma in che modo le istituzioni europee potrebbero mettere in pratica le esortazioni di Papa Francesco? Maria Chiara Malaguti, dell’Università Cattolica Sacro Cuore:

“Purtroppo, gli interessi nazionali hanno bloccato tutto: la burocrazia, il numero… Però, in passato c’erano veramente dei fortissimi ideali. Io ho lavorato alla Corte di Giustizia a Lussemburgo e avevamo fatto una riunione con dei vecchissimi referendari e uno che era lì proprio dall’inizio, disse: ‘Io, lussemburghese, non avrei mai creduto di dare la mano ad un tedesco’, perché uscivano dalla guerra. Allora, lavoravano nell’istituzione, assieme, e hanno fatto la storia dell’Europa, dei loro figli e dei loro nipoti, insieme. Questi valori ci sono, in Europa; è che adesso, purtroppo, li abbiamo molto diluiti nel numero”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Patriarca Sako: digiuno per il ritorno dei profughi cristiani

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Digiuno, preghiera e penitenza nei tre giorni che precedono il Natale, e l'invito a rinunciare a feste con musica e balli in occasione delle feste natalizie e del Capodanno: sono questi i gesti di penitenza che il patriarca Louis Raphael Sako propone a tutti i fedeli della Chiesa caldea per invocare la liberazione di Mosul e della Piana di Ninive e per manifestare vicinanza concreta e solidale a tutti i profughi iracheni, costretti a abbandonare le città e i villaggi caduti sotto il controllo dei jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is).

“Nel tempo di Avvento – scrive il primate della Chiesa caldea in un messaggio ripreso dall'agenzia Fides – ci si prepara al Natale con il digiuno, la preghiera, la penitenza e le opere di carità. E soprattutto quest'anno – aggiunge il patriarca - noi viviamo qui e ora in attesa della sua venuta nelle nostre vite e nelle nostre case, mentre il nostro Paese vive circostanze tragiche e dolorose”.

Per questo il patriarca Sako chiede “a tutti i figli e a tutte le figlie” della Chiesa caldea di praticare il digiuno stretto da lunedì 22 fino alla sera del 24 dicembre, per invocare dal Signore il dono della liberazione di Mosul e della Piana di Ninive, così che tutti i rifugiati possano “ritornare in sicurezza alle proprie case, al proprio lavoro e alle proprie scuole”.

Nel suo messaggio, il patriarca Sako si dice certo che “Cristo ascolterà le nostre preghiere”, e cita le parole di Gesù riportate nel Vangelo di Matteo: “Questa razza di demòni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno” (Mt 17,21).

Inoltre il primate della Chiesa caldea suggerisce ai cristiani di non organizzare feste con musica e balli in occasione del Natale e del Capodanno. Invita piuttosto tutti a sostenere iniziative di solidarietà concreta rivolte ai fratelli che si trovano nell'emergenza. “ho potuto toccare con mano la loro croce pesante e dolorosa” aggiunge il patriarca, facendo riferimento anche alla sua recente visita ai profughi che hanno trovato rifugio nella città di Amadiya, e invita tutti ad aiutare e confortare quelli che vivono in simili situazioni di emergenza, invece di spendere energie e risorse nell'organizzazione di “concerti rumorosi”. (R.P.)

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Kenya. Leader cristiani ai musulmani: fermate violenza degli Shabaab

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“Vogliamo vedere uno sforzo deciso e concertato da parte dei nostri fratelli e sorelle musulmani. Devono andare oltre la mera condanna dell’ondata di attacchi che hanno preso di mira i non-musulmani, per iniziare ad intraprendere passi nei confronti dei simpatizzanti del terrore, aiutandoci a costruire ponti tra fedi e comunità” affermano i leader cristiani del Kenya in una dichiarazione congiunta intitolata “The State of The Nation”.

Secondo quanto riportano le agenzie cattoliche Cisa e Canaa riprese dalla Fides, la dichiarazione, presentata alla stampa mercoledì scorso, è stata firmata dai leader religiosi cattolici, anglicani, presbiteriani, metodisti e dell’African Inland Church.

I leader cristiani affermano di aver “riflettuto profondamente e con cuore affranto” sullo stato della nazione dopo gli ultimi attacchi compiuti dagli integralisti somali Al Shabaab.

“Gli attacchi che inizialmente hanno preso di mira i luoghi di culto cristiani a Nairobi, Garissa e Mombasa, sono ora diretti contro cristiani innocenti sui mezzi di trasporto pubblico e nei loro luoghi di lavoro” afferma la dichiarazione, facendo riferimento ai recenti massacri del 22 novembre e del 2 dicembre nella Contea di Mandera (nord-est del Kenya), nei quali più di 60 persone sono state uccise in base alla loro appartenenza religiosa.

“Solo quest’anno, si sono verificati oltre 20 attacchi, che hanno lasciato una scia di morte e distruzione con più di 200 keniani che hanno perso la vita” sottolinea il documento.

“La realtà di questa situazione ci porta alla conclusione che questi attacchi, perpetrati da persone che affermano essere Al Shabaab, hanno preso una dimensione religiosa” affermano i leader cristiani, che invitano i keniani “a evitare dichiarazioni che incitano ulteriormente all’odio e dividono il Paese lungo linee religiose”.

I capi delle confessioni cristiane concludono sottolineando la necessità di superare la mancanza di coordinamento tra gli organi di polizia e di intelligence, e richiamando i leader politici alle proprie responsabilità perché operino per l’unità nazionale e non approfittino invece dell’insicurezza per alimentare nuove divisioni a fini elettorali. (R.P.)

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Messico: segno di pace per festa della Madonna di Guadalupe

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In occasione della festa della Vergine di Guadalupe, della cui apparizione a San Juan Diego si celebrano oggi 483 anni, i vescovi messicani hanno invitato i fedeli a indossare un abito bianco in segno del loro impegno a pregare e lavorare per la giustizia e la pace in Messico e a offrire la Messa per tale intenzione.

Il comunicato dell’episcopato messicano, dal titolo “Tutti vestiti di bianco per la pace”, si inserisce - secondo quanto affermato dall’arcivescovo di Acapulco, mons. Carlos Garfias Merlos -, nel contesto della campagna in favore della pace lanciata dalla Chiesa in risposta alla crisi umanitaria, divenuta ormai crisi politica e sociale, che negli ultimi anni ha colpito il Paese.

Anche quest’anno - riferisce l'agenzia Sir - sono giunti in massa pellegrini nei dintorni della basilica di Santa Maria di Guadalupe e hanno atteso il loro ingresso al santuario pregando la Madonna del Tepeyac, patrona del Messico e di tutta l’America. (R.P.)

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Usa: teologi cattolici in campo contro il razzismo

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Un profondo esame di coscienza collettivo e la costituzione di una Commissione di Verità e Riconciliazione che accerti quanto ancora sia diffusa la piaga del razzismo negli Stati Uniti. E’ quanto chiedono più di 300 teologi cattolici in una dichiarazione diffusa ieri, mentre continuano nel Paese le proteste contro le violenze della polizia verso la comunità afro-americana dopo i casi Michael Brown e Eric Garner.

“Le uccisioni di uomini, donne e bambini neri da parte di poliziotti bianchi e la decisione di non procedere contro alcuni agenti coinvolti, richiamano la nostra attenzione non solo sulle falle dell’applicazione della legge, ma sull’ingiustizia razziale nella nostra nazione, nelle nostre comunità e chiese”, affermano i firmatari del documento, sottolineando come le parole scritte nel 1963 da Martin Luther King nella Lettera da una prigione di Birmingham suonino ancora tragicamente attuali.

I teologi cattolici americani non vogliono ignorare e tacere su quanto sta accadendo, come purtroppo – affermano - era stato fatto negli anni 60, durante le lotte del Movimento per il diritti civili: “Dobbiamo fare un esame di coscienza sulle nostra complicità nel peccato di razzismo e su come essa puntelli l’immagine fallace di una supposta superiorità bianca e inferiorità nera”.

Come gesto di penitenza e conversione i teologi americani hanno deciso di astenersi dalle carni tutti i venerdì di Avvento, del periodo natalizio e anche della Quaresima. Essi si impegnano altresì a sostenere i movimenti di protesta contro il razzismo ancora radicato nel Paese e a promuovere attivamente la giustizia razziale.

Quanto all’attuale gestione dell’ordine pubblico negli Stati Uniti, i teologi americani si uniscono alle richieste avanzate da più parti di una riforma radicale della polizia in tutti gli Stati dell’Unione, perché il ricorso alle armi da parte degli agenti di pubblica sicurezza sia ammesso solo nei casi effettivi di legittima difesa. Essi chiedono altresì la sostituzione dell’attuale sistema dei Gran Giurì, manifestamente inadeguato, con organismi di inchiesta indipendenti che verifichino la condotta degli agenti di polizia.

Infine, l’appello ai vescovi degli Stati Uniti “a proclamare e a testimoniare con iniziative concrete l’insegnamento della fede contro il razzismo” e in particolare ad aggiornare i documenti pubblicati dall’episcopato sull’argomento. Tra questi la lettera pastorale del 1979 “Nostri fratelli e sorelle”, in cui il razzismo viene definito come un “peccato che divide la famiglia umana, esclude dall’immagine di Dio alcuni membri di questa famiglia e viola la fondamentale dignità umana si quelli che sono chiamati figli dello stesso Padre”. (A cura di Lisa Zengarini)

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La Mongolia ha il suo primo diacono: ordinato in Sud Corea

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La strada per diventare un buon sacerdote "deve essere piena di gioia. Gioia per la chiamata ricevuta e soprattutto gioia per l'annuncio del Vangelo. In questo modo si diventa bravi pastori e si possono affrontare tutte le sfide". Lo ha detto ieri mons. Lazzaro You Heung-sik, vescovo di Daejeon, durante l'omelia che ha accompagnato l'ordinazione di otto nuovi diaconi: fra loro anche Giuseppe Enkh-Baatar, primo consacrato nella storia della Mongolia moderna.

Oltre a Giuseppe, in Corea del Sud dall'agosto del 2012, il seminario di Daejeon ospita anche un altro giovane mongolo che ha ricevuto la vocazione: "Dio vi ha mandati insieme - ha detto il presule - perché poteste compiere il suo comandamento 'Ama il prossimo tuo come te stesso'. È un comandamento bello, di amore, che dobbiamo tenere sempre in mente".

La consacrazione di Giuseppe, ha aggiunto mons. You, "ricorda la storia di sant'Andrea Kim Taegon, primo santo e primo sacerdote della Corea del Sud. Anche lui è divenuto sacerdote fuori dalla sua terra, a Shanghai, e come Giuseppe anche sant'Andrea è tornato nel suo Paese per portare i semi del Vangelo. Speriamo che diano buoni frutti".

Oltre all'importanza ecclesiale, missionaria e apostolica questa ordinazione ha un grande rilievo anche dal punto di vista pratico. Secondo il diritto della Repubblica di Mongolia, infatti, soltanto i cittadini mongoli hanno il diritto di acquistare terreni da dedicare alla costruzione di luoghi di culto e soltanto loro possono guidare le organizzazioni religiose. Anche se abbastanza tolleranti con i cattolici, i funzionari mongoli hanno applicato con durezza queste regole ad altre denominazioni cristiane, che hanno dovuto limitare il proprio apostolato nel Paese.

Secondo le ultime stime, i cristiani - di tutte le confessioni - presenti in Mongolia rappresentano poco più del 2% della popolazione, a stragrande maggioranza di fede buddista mischiata con credenze sciamaniche della tradizione locale. Resta alta anche la quota degli atei, che sfiora il 40% del totale. I cattolici sono un migliaio circa, ma hanno saputo far nascere e crescere col tempo Centri di accoglienza per orfani, diseredati e anziani, cliniche mediche - in un Paese in cui le infrastrutture sanitarie scarseggiano - e diverse scuole e istituti tecnici. (R.P.)

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In ricordo del nostro collega Tonino Mancini

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Se ne è andato all’improvviso, a 70 anni, portato via dalla malattia, il nostro collega Antonio Mancini. Per tutti, semplicemente Tonino. Uomo dal sorriso gentile, generoso, capace di infondere il buonumore a chiunque gli stesse accanto, portava in sé la solarità della Calabria, sua terra d’origine.

Alla Radio Vaticana era arrivato nel gennaio del 1978. La sua esperienza e la sua vasta cultura, forte anche di una laurea in Filosofia, lo avevano portato a lavorare in diverse redazioni: prima alla Redazione Centrale, poi a “Quattro voci”, il programma speciale nato per l’Anno Santo del 1974; quindi al Radiogiornale ed infine, dal 1989, al Sedoc, il Servizio Documentazione della Radio. Qui, aveva messo le sue capacità al servizio dell’approfondimento di alcuni temi specifici, come il dialogo interreligioso nel periodo della “guerra fredda”.

Soprattutto, nel 1994 Tonino aveva ideato il “Bollettino delle Notizie dalla Chiesa”: una raccolta quotidiana di informazioni sulle principali attività delle diocesi in tutto il mondo, per dare voce all’universalità della Chiesa. Grazie al “Bollettino” - che ancora oggi il Sedoc continua a produrre - nel 2002 Tonino aveva ricevuto il Premio speciale “Cronista Piero Passetti”, conferito dall’Unione nazionale cronisti italiani (Unci) per “un prodotto informativo innovativo in ambito internazionale”. Dopo la premiazione, era stato ricevuto al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

Ma la passione per la cronaca aveva portato Antonio Mancini anche in Africa e in America Latina, come inviato della Radio Vaticana al seguito di diversi viaggi di Papa Wojtyła. E tante volte, durante i Pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Tonino aveva accompagnato gli ascoltatori con le sue radiocronache pacate ed eleganti, condotte con discrezione.

Sposato e padre di tre figlie, a dicembre 2009 era andato in pensione dalla Radio Vaticana, ma non dal giornalismo: aveva fondato infatti il mensile “Monterotondo oggi”, per raccontare l’attualità dei dintorni di Roma con uno sguardo lungimirante alle “periferie”, care a Papa Francesco. Tutti i colleghi della Radio Vaticana si stringono in preghiera alla sua famiglia. (A cura del Sedoc)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 346

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.