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Sommario del 01/12/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco ai vescovi svizzeri: Chiesa non è semplice Ong

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Che la Chiesa in Svizzera sia segno visibile del Corpo di Cristo e del suo popolo, non solo una bella organizzazione, un'altra Ong: così si è espresso Papa Francesco nel discorso consegnato ai vescovi svizzeri ricevuti in Vaticano in visita "ad Limina". Il servizio di Roberta Gisotti

Parole chiare e dirette quelle di Francesco ai presuli della Svizzera, un Paese di pacifica “coesistenza culturale e religiosa” – ha ricordato il Papa – “sede di istituzioni internazionali importanti per la pace, il lavoro, la scienza e l’ecumenismo”, dove nonostante “molti abitanti si tengano distanti dalla fede, la maggioranza riconosce ai cattolici e ai protestanti un ruolo positivo nell’ambito sociale”. Ma “senza una fede viva in Cristo risorto” – qui il richiamo di Francesco ai presuli – “le belle chiese e i monasteri” come l’Abbazia di San Maurizio, che si appresta a celebrare 1500 anni di vita religiosa continuativa, “fatto eccezionale in tutta la Chiesa”, diventeranno poco a poco dei musei; tutte le encomiabili opere e istituzioni perderanno la loro anima lasciando solamente ambienti vuoti e gente abbandonata”.

“La vostra missione – ha detto Francesco ai vescovi svizzeri – è di pascere il gregge, camminando secondo le circostanze davanti, al centro o dietro”, perché “il popolo di Dio non può sussistere senza i suoi pastori, vescovi e preti”.

Da qui l’incoraggiamento di Francesco “ai presuli a dare una risposta chiara comune ai problemi della società, in un momento, dove molti, anche nella Chiesa, sono tentati di allontanarsi dalla reale dimensione sociale del Vangelo”, che - ribadisce Francesco – “ha una propria forza originaria per elaborare proposte”. Tocca quindi a noi di presentare questo messaggio completo e renderlo accessibile a tutti, senza oscurare la bellezza del Vangelo, anche a quanti incontrano difficoltà nella vita quotidiana o cercano un senso alla propria esistenza o si sono allontanati dalla Chiesa. I quali, “confusi o concentrati su se stessi, si lasciano sedurre da modi di pensare che negano deliberatamente la dimensione trascendente dell'uomo, della vita e dei rapporti umani, in particolare di fronte alla sofferenza e alla morte“. “La testimonianza dei cristiani e delle parrocchie – ha detto Papa Francesco – può davvero illuminare la loro strada e sostenere la loro ricerca della felicità. In questo modo la Chiesa in Svizzera può essere se stessa e non solo una bella organizzazione, un’altra ong”.

E, dunque, conclude il Papa bisogna “annunciare la buona Novella, non piegarsi ai capricci degli uomini”. “Molte volte – osserva il Papa - noi fatichiamo a rispondere senza renderci conto che i nostri interlocutori non cercano risposte”. Occorre piuttosto porre “interrogativi con la visione apostolica mai superata: ‘Questo è Gesù, Dio l’ha resuscitato, noi ne siamo testimoni’”.

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Papa in aereo: Capi musulmani condannino terrorismo

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Durante il volo di ritorno a Roma il Papa ha tenuto la consueta conferenza stampa di fine viaggio colloquiando con i giornalisti del seguito. Tanti gli argomenti affrontati. Ce ne parla Sergio Centofanti:  (Il secondo link audio riguarda l'intera conferenza stampa) 

“Il Corano è un libro di pace" - dicono tanti musulmani - non si può equiparare islam e terrorismo, ma abbiamo bisogno che i leader musulmani condannino gli attentati terroristici, ha detto il Papa rispondendo alla prima domanda su islamofobia e cristianofobia:

“Sarebbe bello che tutti i leader islamici – siano leader politici, leader religiosi o leader accademici – dicano chiaramente e condannino quello, perché questo aiuterà la maggioranza del popolo islamico a dire ‘No!’, ma davvero, dalla bocca dei suoi leader”.

Tanti – dice - sono oggi i martiri cristiani: li stanno cacciando dal Medio Oriente. E proprio da questo martirio che riguarda le varie confessioni cristiane nasce l’ecumenismo del sangue:

“I nostri martiri ci stanno gridando: ‘Siamo uno! Già abbiamo un’unità, nello spirito e anche nel sangue”.

Il Papa ha ribadito la sua volontà di recarsi in Iraq: però ora non è possibile, ha spiegato:

“Io, se in questo momento andassi, creerebbe un problema abbastanza serio alle autorità, di sicurezza … Ma mi piacerebbe tanto e lo voglio”.

Ha quindi riaffermato che a suo avviso l’umanità sta vivendo una terza Guerra mondiale a pezzi. Ci sono inimicizie ma ci sono cause economiche, c’è “il dio denaro” che “è al centro e non la persona umana”. “Il traffico delle armi è terribile”, è oggi uno degli affari più fiorenti:

“Ma io penso, l’anno scorso a settembre, alla Siria, quando si diceva che avesse le armi chimiche. Io credo che la Siria non fosse in grado di fare le armi chimiche. Chi gliel’ha vendute? Forse alcuni degli stessi che l’accusavano di averne? Non so. Ma su questo affare delle armi c’è tanto mistero”.

E per quanto riguarda le armi nucleari ha detto che l’umanità non ha ancora imparato la lezione.

Ad una domanda sulle celebrazioni il prossimo anno del genocidio armeno, ha ricordato la lettera scritta da Erdogan sull’argomento: alcuni l’hanno criticata giudicandola “troppo debole”, ma – ha detto  – “è stata, a mio giudizio, grande o piccolo non so, ma un allungamento di mano. E questo sempre è positivo”. Dobbiamo pregare per la riconciliazione dei popoli – ha proseguito – “speriamo che si arrivi su una strada di piccoli gesti, di piccoli passi di avvicinamento”. E ha auspicato l’apertura della frontiera turco-armena.

Sul dialogo con gli ortodossi ha affermato che si è in cammino. Se dobbiamo aspettare che i teologi si mettano d'accordo – ha detto con una battuta citando Paolo VI – quel giorno non arriverà mai; bisognerebbe mettere su un’isola tutti i teologi. Noi dobbiamo continuare a camminare insieme. “Questo è l'ecumenismo spirituale: pregare insieme, lavorare insieme, tante opere di carità ...”. Ha poi precisato: “Le Chiese cattoliche orientali hanno il diritto di esistere, è vero. Ma l’uniatismo è una parola di un’altra epoca”. Ha ribadito la sua volontà di incontrare il Patriarca di Mosca Kirill. “Gli ho detto: ‘Ma io vado dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vado’. E lui ha la stessa voglia”. Ma in questo momento c’è la questione dell’Ucraina e il Patriarca ha altri problemi. Riguardo all’ecumenismo ha ripetuto con Giovanni Paolo II la sua disponibilità a discutere sul primato del Vescovo di Roma, quale sia la forma di esercizio di questo ministero condivisibile da tutti:

“La forma del primato dobbiamo andare un po’ al primo secolo per ispirarci. Non dico che la Chiesa ha sbagliato: no, no. Ha fatto la sua strada storica. Ma adesso la strada storica della Chiesa è quella che ha chiesto San Giovanni Paolo II: ‘Aiutatemi a trovare un punto d’accordo alla luce del primo millennio’”.

Ma la Chiesa – ha sottolineato - quando guarda se stessa e non Cristo, quando crede di essere Lei la luce e non semplicemente portatrice di Luce, crea divisioni. L’autoreferenzialità trasforma la Chiesa in una Ong teologica. Ha auspicato quindi che i cristiani possano festeggiare insieme la Pasqua nella stessa data.

Ha quindi parlato della visita alla Moschea Blu. Qui – ha detto – ho sentito il bisogno di pregare soprattutto per la pace. E sul dialogo interreligioso ha spiegato che è ora di fare un salto di qualità perché sia non un dialogo teologico ma esperienziale “tra persone religiose di diverse appartenenze”.

Infine, ad una domanda sulle discussioni sull’omosessualità in occasione dei recenti lavori sinodali, ha ricordato che “il Sinodo è un percorso, è un cammino”: non si può considerare in modo isolato l’opinione di una persona o di una bozza di documento. “Il Sinodo – ha concluso - non è un parlamento” ma “uno spazio protetto dove possa parlare lo Spirito Santo”.

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Istanbul. Papa incontra rifugiati: condizioni profughi degradanti e intollerabili

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L'ultima tappa ufficiale del Papa in Turchia ha riguardato la visita a un gruppo di giovanissimi rifugiati nella cattedrale dello Spirito Santo di Istanbul. Un appuntamento molto atteso dai profughi, fuggiti da Siria e Iraq e che, attraverso la voce di una loro coetanea irachena, hanno descritto a Francesco la drammatica loro drammatica situazione. Il servizio di Francesca Sabatinelli: 

Avrebbe voluto incontrare altri rifugiati il Papa, ma non è stato possibile farlo. E’ lo stesso Francesco a esprimere il suo rammarico, parlando ai giovani profughi, l’ultimo appuntamento ufficiale del suo viaggio in Turchia. Sono un centinaio, la maggior parte bambini, di una decina di anni, sostenuti dall’Oratorio dei Salesiani. Vengono dall’Iraq e dalla Siria in prevalenza, e sono cristiani e musulmani. A prendere la parola per tutti è una giovane irachena, forse ha una quindicina di anni, è emozionata ed esprime il dolore di chi non può andare a scuola, di chi non ha di che mangiare. Il Papa spera, con la sua visita, di donare loro consolazione. La loro condizione è generata dalla guerra, che “è sempre un male – dice Francesco – e non rappresenta mai la soluzione dei problemi, ma anzi ne crea altri”. I profughi vengono privati di abitazioni dignitose, di assistenza sanitaria, di educazione, di lavoro. Hanno dovuto abbandonare le realtà materiali, ma “soprattutto la libertà, la vicinanza dei familiari, il loro ambiente vitale e le tradizioni culturali”:

"Le condizioni degradanti in cui tanti profughi devono vivere sono intollerabili! Per questo bisogna mettere tutto l’impegno per rimuovere le cause di questa realtà. Lancio un appello per una maggiore convergenza internazionale volta a risolvere i conflitti che insanguinano le vostre terre di origine, a contrastare le altre cause che spingono le persone a lasciare la loro patria e a promuovere le condizioni perché possano rimanere o ritornare".

Francesco chiede a chi si impegna per la giustizia e la pace a non perdersi d’animo e poi lancia un appello ai leader internazionali:

"Mi rivolgo ai Capi politici, affinché tengano conto che la grande maggioranza delle loro popolazioni aspira alla pace, anche se a volte non ha più la forza e la voce per chiederla!".

Sono molte le organizzazioni che operano al fianco dei profughi, Francesco lo ricorda sottolineando soprattutto “l’opera efficace di tante realtà cattoliche, che offrono un generoso aiuto a tante persone bisognose senza alcuna discriminazione”. Il suo ringraziamento si estende poi alla Turchia per il lavoro di assistenza agli sfollati, soprattutto iracheni e siriani, e poi lancia il monito alla comunità internazionale, perché non manchi il necessario sostengo. Chiede poi ai giovani di non scoraggiarsi:

"E’ facile dirlo ma fate uno sforzo per non scoraggiarvi. Con l’aiuto di Dio,  continuate a sperare in un futuro migliore, nonostante le difficoltà e gli ostacoli che adesso state affrontando".

La Chiesa resterà al fianco dei profughi, è la promessa di Francesco, che assicura le sue preghiere affinché il Signore possa ispirare “coloro che occupano ruoli di responsabilità, affinché promuovano la giustizia, la sicurezza e la pace senza tentennamenti e in modo veramente concreto”.

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Turchia. P. Monge: Francesco e Bartolomeo, visione profetica

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Con i loro gesti fraterni e la loro stima reciproca, Papa Francesco e Bartolomeo hanno dato un esempio e schiuso un orizzonte alle rispettive comunità ecclesiali. È l’osservazione di un religioso domenicano, padre Claudio Monge, che nei giorni scorsi ha da vicino seguito il viaggio apostolico in Turchia. La nostra inviata a Istanbul, Francesca Sabatinelli, lo ha intervistato: 

R. – Francesco si impone all’attenzione attraverso la mitezza del suo stile. E credo che abbia invitato fortemente, attraverso dei gesti, a usare l’incontro diretto, questo dal punto di vista ecumenico. Ha anche invitato e sollecitato in modo estremamente forte, chiaro, anche lo stesso mondo cattolico, così variegato al suo interno, a usare molto di più con creatività, l’incontro e l’unità.

D. – Il richiamo al mondo cattolico è stato molto chiaro nell’omelia in cattedrale. C’è una divisione qui in Turchia delle comunità cattoliche? Ricordiamo che sono quattro i riti…

R. – Sono quattro i riti principali... Io non credo ci sia una divisione preconcetta ma di fatto, spesso e volentieri, quando si è una minoranza la tendenza – se non si ha un po’ il coraggio profetico di andare all’incontro con l’altro, di rinnovare continuamente anche la freschezza dell’annuncio evangelico – è quella appunto di sviluppare una sorta di guscio per proteggere e salvare il salvabile di quello che rimane. Il secondo aspetto, secondo me molto importante, è la tendenza un po’ a ripiegarsi in una memoria “archeologica” della propria storia gloriosa, del proprio passato, senza fare di questa memoria fondamentale, essenziale, una base di partenza per costruire il presente e costruire il futuro in nome del Vangelo. Mi ha colpito molto che sia stato fortemente sottolineato anche da Bartolomeo quando ha ricordato che è uno sperpero il fatto di passare un millennio per conservare giustamente un deposito della fede se poi questo lavoro di memoria di conservazione della tradizione non ci porta a costruire il presente e a costruire il futuro…

D. – Un futuro che però molti cristiani qui temono. Il fatto di essere diminuiti in modo così drammatico fa temere il rischio di una scomparsa dei cristiani d’Oriente…

R. – Se parliamo a livello di secolo, è chiaro che negli ultimi 100 anni la presenza cristiana in queste terre è drasticamente diminuita. Se il nostro sguardo va invece più recentemente, agli ultimi anni, i discorsi che parlano semplicemente in modo allarmistico di una tendenza alla scomparsa non sono completamente giustificati da un punto di vista statistico. Perché non è statisticamente vero che la presenza dei cristiani in Turchia stia diminuendo ulteriormente. Infatti, a fronte di una effettiva diminuzione della presenza di certe chiese storiche, in realtà la presenza cristiana in senso lato sta cambiando molto: sta accogliendo nuovi fratelli, nuove sorelle da altri continenti, dall’Africa, e penso ancora alla grande migrazione asiatica che continua. Penso soprattutto alle Filippine, in termini cristiani. E’ una Chiesa in movimento che chiaramente chiede un rinnovamento anche di pastorale, una flessibilità, una freschezza, un’agilità che solo un confronto diretto con il Vangelo può dare.

D. - Le immagini di Papa Francesco e Bartolomeo raccontano la loro amicizia, la loro sintonia. Cattolici e ortodossi stanno seguendo il percorso tracciato dalle loro figure di riferimento?

R. – L’impressione generale è che soprattutto durante questo viaggio i due leader abbiano deciso di fare uno scatto netto in avanti e penso sia un dovere dei leader. I leder devono avere anche una dimensione profetica, però è anche compito poi dei leader trovare gli strumenti, prima di tutto per aiutare le rispettive comunità a seguire in questo cammino. Sicuramente, c’è molto lavoro da fare. Penso sia davvero necessario in nome del Vangelo che ci accomuna lasciarci guidare anche un po’ dalla creatività dello Spirito.

D. – Cosa lascia ai turchi il viaggio del Papa?

R. – I veri credenti oranti sanno in qualche modo trovare una direzione comune verso un Dio da invocare e – ci ha detto in modo un po’ nuovo e forte Papa Francesco – anche da adorare: un termine un po’ nuovo che ha introdotto nell’ambito del dialogo interreligioso, come per dire che c’è un riconoscimento comune del fatto che l’incontro è possibile nella misura in cui è frutto di un dono che viene da Dio stesso. E finché non conosci, o meglio, non riconosci la grandezza di questo Dio, non puoi neanche accogliere da Lui il dono dell’unità che ti vuol dare.

Più volte il Papa in questo viaggio ha parlato di unità tra le diverse confessioni e religioni. Ma come sono state accolte le sue parole dai più giovani? La nostra inviata Francesca Sabatinelli ha raccolto la testimonianza di Isabel Cankardes, 23.enne sirocattolica di Instanbul, del Cammino Neocatecumenale: 

R. – Durante la Messa, ho sentito il Papa dire: “Noi dobbiamo essere uniti”. Per noi giovani specialmente è un po’ difficile amare il prossimo, non odiare. Però ho capito che si deve fare, perché altrimenti non si va avanti. In questo Paese viviamo con i musulmani e altre religioni: è sempre più difficile vivere, andare avanti…

D. – Ma quali sono le difficoltà che una giovane cattolica come te incontra ogni giorno in un Paese a così larga maggioranza musulmana?

R. - Vivere in un Paese musulmano è difficile, nel senso che io per loro sono diversa dagli altri, perché quando mi incontrano mi chiedono sempre: “Perché ti chiami Isabel? Allora sei cristiana. Ogni domenica vai a Messa?”… Ti vedono sempre come la persona più diversa del mondo. È chiaro, perché noi siamo lo 0,01% qui… Ma ho anche l’opportunità di vedere ogni giorno cosa faccio e cosa vivo, che cosa voglio seguire. Ponendomi queste domande, forse sono più forte.

 

D. – L’aspetto forse più importante di questo viaggio è il dialogo ecumenico. Quanto è importante il rapporto con gli ortodossi?

 

R. – Penso sia molto importante, perché ora c’è una linea tra cattolici e ortodossi. Personalmente, non conosco tutte le differenze, perché siamo cristiani e, come dice il Papa, dobbiamo essere uniti. Penso che pian piano si inizia a essere uniti vedendo tutte queste cose che anche Papa Benedetto XVI aveva notato e detto con lo stesso messaggio. Quindi, forse iniziamo ad essere uniti.

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Strage in Nigeria. Card. Tauran: "Dov'è la ragione?"

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Un doppio, agghiacciante attentato kamikaze ha sconvolto ancora una volta la Nigeria. A seminare la morte una donna kamikaze nel mercato di Maiduguri, già teatro di una strage martedì scorso di una strage che aveva causato la morte di 45 persone. Dopo aver attirato l'attenzione della polizia e della gente intorno, la donna si è fatta saltare in aria e, pochi istanti dopo, una seconda esplosione poco lontano ha distrutto altri edifici e ucciso molte persone, secondo le prime testimonianze. Dalla Turchia Papa Francesco aveva ricordato le vittime del terrorismo in Nigeria, in particolare gli oltre 120 morti provocati dall’attentato di venerdì scorso nella moschea centrale di Kano, rivendicato dal gruppo fondamentalista Boko Haram. Tra le vittime, molti fedeli riuniti in preghiera. Nei giorni scorsi, proprio in questa moschea, sono state duramente condannate le azioni dei miliziani di Boko Haram. Su questo ennesimo episodio di violenza, ascoltiamo le parole del card. Jean Louis Tauran presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso: 

“Nous sommes tous bouleversés...
Noi siamo tutti sconvolti per questa violenza folle che continua a colpire e uccidere anche dei credenti pacificamente riuniti per la preghiera. Non si può restare in silenzio, non si può rimanere indifferenti. Dov’è l’intelligenza, dov’è la ragione, dov’è il cuore? Dobbiamo denunciare questo mistero d’iniquità. Spero che la comunità internazionale sappia reagire in maniera unanime e molto velocemente. Inoltre c’è da dire che i più colpiti sono proprio i moderati perché sono proprio quanti sanno far ragionare gli altri. E’ molto triste, ma bisogna continuare sulla via del dialogo. Quanto più la situazione è drammatica, tanto più il dialogo s’impone. Non ci sono alternative: solo il dialogo, il dialogo, il dialogo! La nostra speranza è che se il male è contagioso lo sia anche il bene!”.

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Dal Papa i nunzi di Ghana e Repubblica Dominicana

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Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, l’arcivescovo Jude Thaddeus Okolo, nunzio apostolico nella Repubblica Dominicana, con incarico di delegato Apostolico in Porto Rico, l’arcivescovo Jean-Marie Speich, nunzio apostolico in Ghana, il neo ambasciatore di Costa Rica, Marco Vinicio Vargas Pereira, per la presentazione delle Lettere credenziali, il cardinale Tarcisio Bertone, camerlengo di Santa Romana Chiesa, e mons. Stephan Burger, arcivescovo di Freiburg im Breisgau, nella Repubblica Federale di Germania.

In Colombia, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Mocoa – Sibundoy, presentata da mons. Luis Alberto Parra Mora, in conformità al canone 401 - paragrafo 2 del Codice di Diritto Canonico.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La logica dell'incontro: in prima pagina, un editoriale del direttore a conclusione del viaggio del Papa in Turchia.

Insieme quasi per mano: Pierluigi Natalia recensisce il libro che raccoglie un lungo dialogo tra Ettore Bernabei, cattolico fervente, e Sergio Lepri, laico impenitente (presentato domani nella sede della Rai).

Dire la verità e poi ubbidire: a dieci anni dalla morte, Onorato Bucci ricorda il canonista Ivan Zuzek.

Quella conferenza di Mario sul papato: Gabriele Nicolò su un libro dedicato alle origini astigiane di Bergoglio.

Con attacchi e attentati Boko Haram rilancia la sua sfida in Nigeria.

Su teologia e procreazione il mensile "donne chiesa mondo".

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Oggi in Primo Piano



Siria. Mons. Jeanbart: “Ad Aleppo cristiani testimoni di speranza”

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Il World Food Programme, l'agenzia Onu che si occupa di aiuti alimentari, ha annunciato la sospensione delle forniture a 1,7 milioni di profughi siriani, per la mancanza di fondi. Il Wfp ha quindi lanciato un appello per raccogliere 64 milioni di dollari necessari per nutrire i rifugiati siriani in Giordania, Libano, Turchia, Iraq ed Egitto. Intanto ad Aleppo, nel nord della Siria, la comunità cristiana, con decine di volontari, resta in prima linea nella distribuzione di aiuti di ogni genere. Vivo e constante anche l’impegno nelle attività religiose. Marco Guerra ne ha parlato con mons. Jean Clement Jeanbart, vescovo greco-melkita di Aleppo: 

R. – I giovani - ma anche i più anziani, i preti, i sacerdoti, i vescovi, tutti quanti… -  si mettono insieme per aiutare la gente ad andare avanti in questa situazione molto difficile e veramente molto pesante per tutta la popolazione, per i cristiani ma anche per tutti gli altri. I giovani sono numerosi e lavorano in ogni parrocchia, in ogni luogo, in ogni Centro di distruzione di aiuti… Sono in maggioranza volontari, che vengono a dare una mano a coloro che organizzano questo aiuto, che viene poi distribuito a quanti ne hanno bisogno.

D. – La distribuzione di aiuti e il sostegno ai bisognosi sono rivolti anche ai musulmani?

R. – Sì! Forse anche più ai musulmani che non ai cristiani: e questo perché le organizzazioni cattoliche internazionali che aiutano – come la Caritas – esigono che questo aiuto venga dato a tutti! E quando si fa per tutti, vuol dire che i cristiani ricevono il minimo… Accettiamo tutto questo come segno di fratellanza, ma anche come segno di solidarietà e di rispetto. Invece noi, come vescovi, facciamo il possibile per aiutare i cristiani specificatamente: io faccio molti sforzi per aiutare i cattolici in differenti modi, affinché possano continuare e resistere alla tentazione di andarsene.

D. – Quindi la comunità cristiana continua ad essere un punto di riferimento per tutta Aleppo, per tutta questa città martoriata dalla guerra…

R. – Senz’altro! Ha dato un segno di solidarietà, ma anche di carità e di misericordia e questo fa veramente onore e dà anche un’idea molto bella della Chiesa: dell’amicizia, della bontà dei cristiani nel mondo e della loro sensibilità. Proprio ieri uno dei miei sacerdoti, con un musulmano, ha tenuto una conferenza: ero presente con diversi miei sacerdoti ed era presente anche gente musulmana. E’ stato un incontro molto bello… Speriamo che questa cultura del dialogo e della fratellanza possa portare sicurezza a tutti quanti.

D. – Al di là degli aiuti materiali per la popolazione che soffre, la comunità cristiana continua a vivere anche i suoi riti, le sue liturgie?

R. – In tutte le comunità – ci sono differenti riti e differenti chiese – ci sono centinaia di battesimi; un po’ meno matrimoni, ma comunque ce ne sono. Le celebrazioni liturgiche sono tante quante erano prima, forse una o due in meno, che sono state soppresse perché non c’erano tantissimi fedeli: come lei sa, il 25% della popolazione si è spostata, è andata via… Questa è la grande ferita che abbiamo: la partenza e la migrazione di giovani che lasciano e se ne vanno via. Facciamo tutto quello che è possibile per cercare di tranquillizzarli ed incoraggiarli, con le parole, con i nostri bollettini, ma con la nostra presenza e con le celebrazioni. Ho chiesto a tutti i miei sacerdoti che facciano il massimo affinché questo Natale sia un Natale di gioia, un Natale di speranza; che facciano in modo di riuscire a dare ai giovani un’occasione per esprimersi, ed essere felici di stare insieme; ma anche per i più anziani di creare occasioni per stare insieme come piccoli banchetti o qualcosa del genere, e per i più giovani gli alberi di Natale… Facciamo tutto quello che è possibile affinché sia un Natale di speranza. Abbiamo fatto lo stesso in occasione della Pasqua: ci sono stati alcuni incidenti, ma è andato bene… E’ stata un’occasione per tutti quanti di essere rassicurati e per noi una consolazione importante.

D. – Quindi il mosaico siriano può essere ricomposto anche da iniziative come la vostra?

R. – E’ molto importante! Facciamo tutto quello che è possibile per ricomporlo, affinché sia un esempio non soltanto per la Siria e per tutto il mondo arabo, ma anche per il mondo intero. Perché islam non vuol dire esclusione: sono 40-50 anni che viviamo con i musulmani, in una società in cui tutti hanno la propria fede, tutti sono rispettati e la legge è uguale per tutti.

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Moldavia: europeisti vincono le elezioni, ma i socialisti filorussi sono il primo partito

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Elezioni in Moldavia. Quando sono stati scrutinate circa il 90% delle schede, i tre partiti filoeuropei sono in vantaggio con il 44% dei voti. La prima forza politica, a sorpresa, è tuttavia quella del partito socialista, molto vicino a Mosca. La Moldavia, che quest’anno ha firmato un accordo di partenariato con l’UE, appare quindi divisa tra Europa e Russia. Ma qual è la situazione nel Paese? Michele Raviart lo ha chiesto a Danilo Elia, giornalista dell’Osservatorio Balcani-Caucaso: 

R. – Il risultato del voto segna nello stesso tempo una conferma di quelle che potevano essere le aspettative della vigilia ma, nello stesso tempo, apre nuovi scenari. Mi riferisco al fatto che la coalizione dei partiti filo-europeisti ha ottenuto la maggioranza dei seggi in parlamento ma, nello stesso tempo, il primo partito è emerso essere il Partito socialista che ha raccolto sicuramente i voti del Partito comunista a seguito di una scissione che si è verificata in passato, ma anche molto probabilmente i voti di “Patria”, un partito apertamente filo russo che era stato escluso dalla competizione elettorale pochi giorni prima del voto. La prospettiva adesso è cercare di capire quali saranno gli assetti per la formazione di un nuovo governo, cosa che non è a questo punto del tutto scontata.

D. - A cosa è dovuto l’exploit del partito socialista che non era dato favorito dai sondaggi?

R. – Questa del Partito socialista è stata, di fatto, una rivelazione. Molti ritengono che questo sia il risultato di un aiuto esterno. Il Partito socialista ha fin da subito fatto una Campagna molto chiaramente rivolta alla Russia e all’Unione euro-asiatica contro l’avvicinamento verso l’Europa e l’Unione europea. Giusto per dare un dato: i manifesti elettorali che c’erano nei giorni scorsi nel Paese ritraevano una fotografia di un incontro dei leader del partito con Vladimir Putin con lo slogan: “ Noi insieme alla Russia”.

D. – Seppure con una forte componente filorussa al suo interno, la Moldavia sembra però avvicinarsi velocemente verso l’Unione Europea …

R. – Potremmo definire la Moldavia come il primo della classe tra i Paesi della politica di partenariato europeo. La firma di accordo di associazione e del trattato commerciale con l’Unione Europea e soprattutto la rimozione del regime di visti per i cittadini moldavi sono stati due grandi risultati raggiunti dal governo di Leanca lo scorso anno. Molto probabilmente sono stati anche il risultato dell’influsso della crisi ucraina che ha dato un impulso al Paese verso l’Europa.

D. – La regione orientale della Transnistria è di fatto indipendente dal 1990 e ha sempre manifestato la volontà di unirsi alla Russa. C’è il rischio di una replica della crisi ucraina?

R.  – Lo scenario ucraino in Moldavia è stato lo spauracchio di queste elezioni e di quest’ultimo anno. La Transnistria è sicuramente un grimaldello nelle mani di Mosca per cercare di influenzare la politica della Moldavia. Ma non c’è soltanto la Transnistria: ricordiamo che c’è anche un altro territorio molto più piccolo, la Gagauzia, abitata da una popolazione turcofona che al momento è una regione dotata di autonomia all’interno della Moldavia, che recentemente sull’onda della crisi ucraina ha manifestato delle rivendicazioni di indipendenza. Quindi ci sono effettivamente le premesse potenziali per creare una situazione analoga a quella che abbiamo visto in Crimea.

D. – Quali saranno le sfide economiche per il nuovo governo, considerando che la Russia ha bloccato le importazioni dalla Moldavia proprio dopo l’accordo di associazione con l’Unione Europea?

R. – È uno dei Paesi più poveri d’Europa o quello più povero. Purtroppo questo primato se lo contende con l’Albania. Però è anche vero che negli ultimi tempi, e in questo senso a differenza dell’Ucraina, la Moldavia ha ottenuto dei risultati. Insomma, c’è una timida crescita economica. Quindi la sfida sarà sicuramente cercare di incanalare l’economia del Paese verso la direzione europea. C’è da dire che l’Europa è il suo primo partner commerciale; la Russia il secondo, e adesso sta anche danneggiando piuttosto gravemente l’economia della Moldavia proprio a seguito delle contromisure messe in atto sull’importazione. In particolare, pensiamo ai vini, una delle principali fonti di export moldavo.

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Aids, Giornata Onu. Ban Ki-moon: eliminiamo Hiv entro il 2030

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“Esorto i leader mondiali ad unirsi nella nostra causa comune. Abbiamo fissato un obiettivo audace: insieme, mettiamo fine all’Aids entro il 2030”. Così il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel messaggio per la Giornata mondale contro il virus Hiv, indetta dalle Nazioni Unite, che si celebra oggi. A oggi, sono 35 milioni le persone che hanno contratto il virus: circa 19 milioni di loro non lo sanno. L'epidemia è in aumento in Europa orientale, con dati allarmanti per la Russia, in Asia centrale e in Medio Oriente. Ma, sottolinea Ban Ki-moon, si è “cominciato a invertire la tendenza”. Quasi 14 milioni di persone in tutto il mondo hanno accesso ai trattamenti, le nuove infezioni sono state ridotte del 38% dal 2001, puntando in particolare a evitare la trasmissione da madre in gravidanza a figlio. Giada Aquilino ha raggiunto telefonicamente in Malawi Paola Germano, coordinatrice generale di "Dream", il Programma per curare l’Aids in Africa avviato nel 2002 dalla Comunità di Sant’Egidio: 

R. – Le infezioni sono diminuite tantissimo e soprattutto sono diminuiti i morti in questi dieci anni. Quindi, io direi che il primo dicembre è anche il segno di una giornata di vittoria. Certo, non è stato fatto tutto.

D. – L’Aids è in aumento in Europa, in Asia centrale, in Medio Oriente. Qual è la situazione in Africa secondo l’esperienza del progetto Dream di Sant’Egidio?

R. – In Africa è molto migliorata, nel senso che c’è stata una riduzione notevole dei casi di Aids e soprattutto del numero dei morti. Però, in Africa si parla ancora di tanti milioni di persone infettate e il 705 delle persone infettate sono nell'Africa subsahariana. Detto questo, più si diffonde la terapia più ci sono dei cali vistosi. Si calcola che il 40% circa della persone che ha bisogno di terapia la riceve. Sono diminuiti del 39%  decessi a causa di Aids, si tratta di migliaia e migliaia di vite umane. La diffusione della terapia ha migliorato tantissimo la situazione in Africa, non soltanto per "Dream" ma per tutti. Di sfide ce ne sono ancora, perché sono ancora pochissimi i bambini che vengono trattati. C’è bisogno di incrementare la cura per i bambini e c’è bisogno che la terapia arrivi a tutti. Ma anche qualche anno fa, ancora tutte le donne incinte sieropositive non ricevevano la terapia per far nascere il bambino sano. Oggi, un po’ tutti i Paesi africani hanno adottato la terapia per far nascere il bambino sano e salvare la vita della madre: cosa che "Dream" fa dal 2002, ma oggi lo fanno tutti.

D. – E' sufficiente portare i farmaci antiretrovirali nei Paesi africani o serve qualcosa di più a livello di sistemi sanitari, di educazione sanitaria?

R. – L’approccio di "Dream" è sempre stato quello di non distribuire soltanto farmaci – nonostante la terapia sia importantissima per curare e per prevenire, perché si abbassa il livello di contagio nella popolazione – ma anche la necessità di fare educazione alla salute, di fare un monitoraggio accurato, creare infrastrutture. Voglio fare un esempio: oggi tutti noi siamo colpiti da quello che sta succedendo agli africani a causa dell’Ebola. Ma questa è soltanto la prova di quello che si dice da anni, cioè che non è sufficiente curare la malattia. Perché Ebola è così grave in Africa? È grave perché è un virus terribile, ma soprattutto non si riesce a controllare perché manca il personale sanitario, mancano le infrastrutture, manca una cultura della salute per cui la gente non riesce a fare le cure per prevenire il virus. Allora, come noi abbiamo sempre creduto fin dall’inizio che non si può curare nessuna malattia in Africa se non con un pacchetto come questo, quindi creare delle infrastrutture, creare i laboratori, formare il personale che possa seguire i malati… Tutto questo va insieme.

D. – Quindi, in particolare qual è il modo di agire di "Dream" rispetto all’Aids, ma anche alla povertà, alla malnutrizione, alla tubercolosi, alla malaria, alle guerre... a tutti quegli altri fattori che comunque incidono nel quadro generale?

R. – La prima cosa è che è un approccio molto cristiano: come dice Papa Francesco, l’uomo è al centro. La persona, il malato sono al centro della cura. Poi, tutto ciò di cui ha bisogno il malato è il pacchetto di "Dream". Questo ha fatto la differenza e questo ci ha permesso di ottenere dei risultati straordinari. Oggi, noi curiamo 250 mila persone in Africa per l’Aids, abbiamo 26 mila bambini nati sani da madri sieropositive, abbiamo raggiunto un milione e mezzo di famiglie… Però, il malato è sempre visto nel suo contesto, non  soltanto sanitario, ma anche sociale ed umano – questo accanto al discorso Aids chiaramente. La nostra lotta è sempre stata anche contro la malnutrizione che è un fatto innegabile in Africa. La gente muore di fame: non si può pretendere di curare una malattia senza dar da mangiare alle persone. Una delle chiavi di successo di "Dream" è la partecipazione attiva dei malati al progetto: loro diventano protagonisti. E in questo modo, non solo ritrovano dignità, ma sono degli strumenti efficaci per aiutare gli altri, per vincere lo stigma nelle famiglie, per impegnarsi nella società per cambiare la mentalità.

D. – Proprio in quest’ottica, come leggere l’obiettivo dell’Onu che punta a porre fine all’Aids entro il 2030?

R. – Trovo sia una cosa importante in cui bisogna credere e continuare a lottare. È possibile perché è dimostrato scientificamente. I risultati che oggi, nel 2014, abbiamo ottenuto sono dovuti al fatto che si è investito molto e si è diffusa moltissimo la terapia, quindi l’accesso alle cure per i malati. Io trovo che l’obiettivo del 2030 sia un obiettivo da percorrere e su cui concentrare gli sforzi di tanti per arrivare a zero infezioni.

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"Incubo finito". Scagionata insegnante accusata di omofobia

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“E’ finito un incubo”. Adele Caramico, l’insegnante di religione di Moncalieri, ingiustamente finita nella bufera mediatica con l’accusa di omofobia, commenta così la chiusura del caso da parte dell’Ufficio scolastico regionale per il Piemonte. “La professoressa – si legge in un comunicato – ha svolto la propria funzione educativa nel rispetto dei diritti e della dignità degli studenti”. La docente era stata falsamente accusata da un suo allievo di aver definito l’omosessualità una malattia: la denuncia, smentita dal resto degli studenti, era stata poi amplificata dall’Arcigay. Paolo Ondarza ha intervistato la stessa prof.ssa Caramico: 

R. - Diciamo che è finito un incubo, anche se le conseguenze ci sono ancora. La questione è durata più di venti giorni. Uscivo per strada e non potevo neanche andare al supermercato perché venivo indicata come l’insegnante omofoba, i miei figli venivano additati come figli dell’omofoba… Non è stata una cosa facile da affrontare. Sono finita dappertutto, anche sui giornali all’estero, e anche alla “Vita in diretta”, alla Rai. La mia vita familiare è stata violentata, perché un giornale ha dedicato tre o quattro pagine su di me, hanno reperito delle mie fotografie e non so chi gliele abbia date...

D. - È finita su questi organi di informazione senza che nessuno le desse voce…

R. - Nessuno mi ha dato voce, nessuno mi ha chiesto niente. L’unica voce in mio favore è stata quella di Avvenire.

D. - Venti giorni molto duri in un clima di caccia alle streghe. Lei ha detto: “Schiacciata dalla macchina del fango”…

R. - Sì, poi ho scoperto che era stata coinvolta la politica. Ben cinque deputati hanno chiesto un’interrogazione contro di me al ministro.

D. - È questo forse che l’ha spaventata di più?

R. - Sì, mi ha spaventato molto. Anche il presidente della Commissione istruzione al Senato ha presentato un’interpellanza urgente per il mio caso. Mi ha spaventato perché io non avevo fatto niente e non riuscivo a capire il motivo per cui queste persone facessero tutte queste cose. Il consigliere comunale radicale di Torino, Viali, ha detto che io mi dovevo sottoporre a un corso d’aggiornamento, una specie di “rieducazione”. Ma su cosa? Non lo so. Addirittura, anche il vicesindaco della città di Moncalieri ha detto che dovevano essere presi contro di me provvedimenti efficaci.

D. - Da quanto insegna?

R. - Da 30 anni. Non mi è mai capitato un’esperienza del genere e non ho mai sentito di esperienze del genere. Certamente, in 30 anni ho affrontato questi argomenti nelle mie classi.

D. - C’è da dire che la maggior parte dei suoi allievi però l’ha difesa?

R. - Sì, si preoccupavano per la mia salute, di ciò che succedeva e per loro era una cosa assurda ciò che era accaduto e che stava accadendo in quei giorni.

D. - Si è sentita sola in questi venti giorni?

R. - La mia famiglia mi è stata vicino ovviamente, poi Avvenire, l’avvocato Amato con tutti i Giuristi per la vita, i colleghi… So che hanno raccolto anche delle firme per me.

D. - E come ha appreso che l’incubo era finito?

R. – Da La Repubblica, edizione di Torino. Fino alla mattina in cui è uscito questo articolo, chiedevamo a scuola di sapere qualcosa, ma non c’è stato detto assolutamente nulla.

D. - C’è da dire che il caso, quando è nato, è finito su tutti i giornali con grande enfasi con due, tre, quattro pagine di quotidiani. Quando è stato chiuso la notizia ha avuto minore diffusione…

R. - C’era appena un trafiletto piccolino, in mezzo alla pubblicità, soltanto nell’inserto de La Repubblica di Torino e basta. Poi, molti altri giornali hanno ripreso la notizia da Avvenire e di conseguenza si è diffusa.

D. - Per lei la vicenda è chiusa?

R. - Insieme con i legali, valuto la possibilità di andare per via giudiziale, per chiedere risarcimento per tutto quello che ho sofferto in questi giorni. Non è stato soltanto diffamato il nome di una persona, ma proprio la dignità della persona. E poi anche per un altro motivo: sono un’insegnante di religione cattolica, lo leggo come un attacco all’insegnamento della religione cattolica. Penso anche ai miei colleghi: chiunque si potrebbe trovare in questa situazione. Visto che la mia sembra diventata una categoria a rischio, sto valutando questo tipo di azione  con i legali.

D. - C’è un clima di intimidazione per gli insegnanti di religione in particolare?

R. – Sì, c’è un clima intimidazione sugli insegnanti di religione, come se noi dovessimo insegnare ciò che altri decidono. Io sono stata nominata insegnante di religione cattolica dalla Cei, anche se sono dipendente dello Stato italiano. Ho un’idoneità che mi è stata data dal vescovo. Io devo insegnare con fedeltà in adesione al magistero della Chiesa.

D. - Il parlamento sta studiando una legge contro l’omofobia. Ecco, qualora passasse una legge contro il reato di opinione, come qualcuno dice, il suo caso potrebbe non diventare un caso isolato?

R. - Penso proprio di no, perché come sono stati capaci di inventarsi delle bugie su di me, le possono inventare su chiunque. È veramente una caccia alle streghe. Mi sono sentita come i primi cristiani che venivano perseguitati senza aver fatto o detto nulla di male. Forse non va bene come paragone, ma è stato questo quello che ho sentito. Mi dicevo: “Ma non ho fatto nulla, non ho mai detto quella frase”.

D. - E ora come sta?

R. - Sto bene, faccio lezione normalmente.

D. - Ha paura ad affrontare certe tematiche “sensibili”?

R. - No, non ho paura. Nonostante tutta questa bufera, mi sono sempre detta che quando si dice e si parla della verità e si cerca di portarla avanti, non si deve aver paura.

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Movimento “Maipiù” a Senato: subito risposte per alluvionati

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Nuova allerta maltempo con diffuse perturbazioni previste nei prossimi giorni in quasi tutta Italia. Intanto, al Senato il neonato Coordinamento nazionale “Maipiù”, promosso da vari Comitati di alluvionati, presenta una serie di proposte per sollecitare adeguate politiche di gestione e di tutela dei territori a rischio. Ma quale è lo scopo di questo nuovo Movimento? Amedeo Lomonaco lo ha chiesto ad uno dei portavoce di “Maipiù”, Nicola Luberto: 

R. – Cercare di far smettere il pietismo, durante e subito dopo queste tragedie che si ripetono in modo continuo. Negli ultimi 50 anni, abbiamo fatto un calcolo, ci sono stati circa 4 mila morti e 70 miliardi di danni accertati. Oggi noi, attraverso una forza dove siamo riusciti a mettere insieme più di 40 Comitati di tutta Italia, abbiamo dato il via ad un Coordinamento nazionale. La voce, infatti, deve essere unica, senza differenze fra chi parla lombardo o siciliano: l’acqua non guarda in faccia a nessuno.

D. – Quali sono soluzioni importanti che accomunano queste voci di tutta Italia?

R. – Noi vogliamo la certezza e finalmente bisogna dire attraverso una legge nazionale: basta consumo di suolo, basta devastazione del territorio. Diciamo poi un’altra cosa importante e cioè che nel momento in cui si mette un euro per la messa in sicurezza del territorio, automaticamente si deve mettere un euro per il risarcimento dei cittadini. In televisione, sui media, si parla di milioni di euro per gli alluvionati. In realtà, gli alluvionati prendono quasi zero. Ci deve essere una legislazione chiara. Posso fare l’esempio della Toscana, con tre eventi alluvionali e tre modi di intervenire diversi: c’è chi ha ricevuto soldi, chi è stato messo in sicurezza e chi no. Queste cose devono finire. Altra cosa importante: noi vogliamo una riforma della Protezione Civile. Deve essere non più verticistica, ma partecipata. Ci sono infatti degli strumenti per poter mitigare i danni. I cittadini, se vengono informati a livello capillare, si possono autodifendere.

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Cei. Mons. Nosiglia presenta Convegno ecclesiale Firenze 2015

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Le nuove vie per l’evangelizzazione e l’educazione cattolica devono essere trovate nella quotidianità delle persone. Questo sono chiamate a fare le comunità cristiane durante l’anno di preparazione al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, presentato oggi dall’arcivescovo di Torino, mons, Cesare Nosiglia. Il servizio di Corinna Spirito

Solo una Chiesa che si rende vicina alle persone e alla loro vita reale pone le condizioni per l’annuncio e la comunicazione della fede. Questo il fulcro del quinto Convegno ecclesiale nazionale che si svolgerà a Firenze dal 9 al 13 novembre 2015. A presentarlo questa mattina, nella Sala Marconi della Radio Vaticana, l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, presidente del Comitato Cei per il Convegno:

“Il messaggio cristiano può influire sia nel rinnovamento della Chiesa, sia nel rinnovamento della società. Quindi, una Chiesa in uscita, una Chiesa che annuncia, una Chiesa che vive il servizio, che è povera in mezzo ai poveri e così via. Vogliamo quindi avviare un dialogo, un confronto sulle tematiche umane oggi fortissime che ci sono nella nostra società. Pensiamo alla famiglia, pensiamo alla vita, pensiamo al lavoro, pensiamo alla sofferenza. Cercando di trovare vie comuni su cui impegnarci per rendere umano, sempre più umano e qualitativamente accettabile, non solo ma anche più forte e più evidente anche nelle sue esigenze, nelle sue necessità”.

Il convegno “In Gesù Cristo Il nuovo umanesimo” è rivolto principalmente ai Consigli presbiterali e pastorali delle diocesi, alle Associazioni e ai Movimenti, ma ha già riscosso un grande successo anche nelle scuole e nelle comunità. Al concorso per l’individuazione del logo, per esempio, hanno risposto oltre 200 concorrenti e i votanti chiamati a scegliere il lavoro migliore su Facebook sono stati migliaia:

“Sono esperienze concrete che mostrano come la fede cristiana si immerga nell’umano e quindi nella famiglia, nel lavoro, e tragga forza e vigore per essere fonte di vita nuova ma sempre alla luce di Cristo, alla luce della fede. Fa capire che c’è questo sforzo concreto da parte delle comunità di mettersi dentro al vissuto delle persone per trovare lo spunto dei varchi possibili in cui inserire il messaggio cristiano. E insieme a questo c’è però anche l’altro aspetto fondamentale della cultura, perché queste esperienze devono essere in qualche modo supportate e sostenute da una dimensione di razionalità, di ragionevolezza, di cultura. Perché se la fede non diventa cultura, resta un fatto virtuale. Invece, deve incarnarsi completamente anche dentro i linguaggi, dentro la realtà di pensiero del nostro tempo”.

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Riva del Garda, apre il terzo Festival della famiglia

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"L’ecosistema vita e lavoro. Occupazione femminile e natalità, benessere e crescita economica". E’ questo il tema del terzo Festival della famiglia, che si svolgerà il prossimo 5 dicembre a Riva del Garda con un confronto tra personaggi del mondo della politica, dell’impresa del sociale e della cultura. Ma la manifestazione, promossa dall’Agenzia per la famiglia della Provincia autonoma di Trento con il Dipartimento per le Politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, si apre con un pre-Festival già da oggi , attraverso una serie di workshop, seminari, tavole rotonde, su temi come la conciliazione tra  famiglia e lavoro e i distretti famiglia sul territorio. Marina Tomarro ha intervistato Luciano Malfer dirigente dell’Agenzia per la famiglia: 

R. – Il Festival vuole essere un momento di incontro delle famiglie, delle situazioni e delle organizzazioni che dibattono sui temi delle famiglie. Inoltre,  vuole essere soprattutto un momento in cui, rispetto ai temi proposti, si offrono modelli, politiche e azioni concrete messe in campo. Vuole essere un’opportunità di analisi, di approfondimento, di valutazione delle politiche fatte. Quest’anno, approfondiamo il tema della conciliazione vita e lavoro, parliamo di ecosistema, laddove per fare dell’Italia, delle Regioni, dei sistemi dobbiamo un po’ ripensare il modo di pensare le politiche. Non possiamo più pensare a una logica pubblico-privato, ma a una logica pubblico-privato-famiglia-territorio per avere un sistema di opportunità. Il Festival va ad analizzare esperienze già attivate, di successo, per dare delle misure positive rispetto alla negatività che purtroppo oggi vediamo nei nostri dibattiti.

D. – Di cosa ha bisogno la famiglia oggi? In che modo anche le istituzioni possono dare una mano a farla crescere?

R. – Ripensando le politiche per la famiglia. Le politiche per la famiglia non vengono concepite come politiche sociali, assistenziali: vengono fatte e implementate da tutta l’azione del governo. Quindi, non sono politiche sul bisogno: la famiglia non è un bisogno, è un problema al quale dobbiamo dare una risposta in termini di welfare classico. E' una politica che va a sostenere l’agio, il benessere della famiglia. Per cui, tutta l’azione di un governo fa politica per la famiglia. E proprio questa architettura mette in azione interventi sinergici, costruttivi e propositi, un modello che qui in Trentino – e il Festival è un risultato di questo modello – vede la centralità della famiglia, al centro appunto di tutte le politiche.

D. – Secondo lei, cosa manca al resto delle Regioni italiane per applicare questo modello?

R. – Vedo che in molte regioni di per sé c’è una grande azione. Abbiamo dei contatti con Regioni che sono molto interessate a implementare modelli, o che hanno già implementato modelli di questo tipo. Probabilmente, è proprio l’architettura delle "polis": si è più forti all’interno dell’azione di governo nel proporre politiche di questo tipo. Questo è un primo elemento. Il secondo elemento è la sussidiarietà orizzontale, il forte coinvolgimento con le associazioni delle famiglie nel progettare e valutare le politiche per la famiglia. Qui serve quell’azione di coraggio e propulsione che dobbiamo dare alle nostre azioni locali per credere veramente in queste politiche. Forse dobbiamo osare un po’ di più.

D. – E durante il Festival viene data voce anche a quelle che sono le famiglie numerose. Per loro invece, secondo lei, che cosa si potrebbe fare di più?

R. – Per le famiglie numerose poi in questo deserto demografico dobbiamo riconoscere loro un ruolo diverso, per cui andare ad individuare i percorsi specifici per riconoscere valore sociale che questi figli generano nelle collettività: sono le persone che domani sosterranno la previdenza di chi oggi lavora. Ecco che allora, in tutti i processi, un’attenzione va sempre alla politica famigliare dentro le politiche famigliari. A livello locale c’è una grande azione di sostegno delle famiglie numerose sono agevolazioni importanti.

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Nella Chiesa e nel mondo



Nigeria: vescovo di Kano vicino ai musulmani dopo strage in moschea

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“Che Boko Haram uccida i musulmani e gli uomini di preghiera, senza distinzione, non è una novità; per questo, come cristiani, siamo vicini alla comunità islamica e continueremo a esserlo”: mons. John Niyiring, vescovo di Kano, parla così all'agenzia Misna dopo l’attentato e la strage di fedeli di venerdì nella moschea centrale della città.

Secondo fonti concordanti, i morti sono stati più di cento. Prima tre esplosioni all’interno e a ridosso della moschea, provocate da attentatori suicidi, poi il blitz di un commando che ha aperto il fuoco sui fedeli. Alcuni osservatori hanno sostenuto che la strage potrebbe essere stata una rappresaglia contro l’emiro di Kano, Sanusi Lamido Sanusi, in carica da giugno. Il capo religioso, secondo nella scala dell’islam nigeriano solo al sultano di Sokoto, aveva rivolto un appello ai fedeli affinché si preparassero a difendersi da soli dalle violenze di Boko Haram senza aspettare l’intervento delle forze di sicurezza.

Un messaggio letto da alcuni come una critica all’indirizzo del governo del presidente Goodluck Jonathan, dell’esercito e della polizia, per altro a pochi mesi dalle elezioni di febbraio. Ma che secondo mons. Niyiring era in realtà in linea con una presa d’atto delle stesse autorità federali. “Negli Stati del nord-est dove Boko Haram ha le sue roccaforti – sottolinea il vescovo – il governo accetta da tempo la collaborazione delle Civilian Joint Task Forces, milizie di autodifesa formate in modo spontaneo dagli abitanti delle città e dei villaggi”.

Nelle sue prime dichiarazioni dopo l’attentato, Sanusi ha sostenuto che “la pianificazione della strage è andata avanti per almeno due mesi”. “Non abbandoneremo mai la nostra religione come vorrebbe chi ci ha aggredito” ha aggiunto l’emiro. Parole condivise dal sultano di Sokoto, Alhaji Mohammed Abubakar Sa’ad III: “Non credo che coloro hanno compiuto questo atto siano musulmani, perché se fossero musulmani professerebbero gli insegnamenti dell’islam”. La strage è stata condannata dall’Associazione cristiana della Nigeria, sia a Kano che a livello nazionale, “nella consapevolezza – sottolinea mons. Niyiring – che Boko Haram colpisce chiunque si opponga alla sua logica di violenza, senza distinguere tra cristiani e musulmani”.

Intanto Damaturu, capitale dello Stato di Yobe, nel nord della Nigeria, è stata presa d’assalto nella prima mattinata di oggi, da un commando di Boko Haram. La situazione a Damaturu rimane caotica con sparatorie ed esplosioni nelle strade, mentre aerei da combattimento sorvolano la città. Dopo l’assalto alla moschea di Kano, durante la preghiera di venerdì 28 novembre, tra sabato e domenica 30 scorsi, Boko Haram ha colpito in diverse parti del nord della Nigeria. (R.P.)

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Vescovi Kenya: stato di insicurezza sia dichiarato “disastro nazionale”

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Dichiarare lo stato di insicurezza nel quale vivono diverse aree del Kenya come un “disastro nazionale” e regolare la vendita di munizioni ai comuni cittadini. Sono alcune delle richiese avanzate dalla Commissione episcopale “Giustizia e Pace” nella dichiarazione intitolata “Kenya, una nazione in lutto…agire ora”, presentata nel corso di una conferenza stampa da mons. Zacchaeus Okoth, arcivescovo di Kisumu, presidente di “Giustizia e Pace”.

Mons. Okoth - riporta l'agenzia Fides - ha esortato il governo a posizionare strategicamente le forze speciali militari presso i punti di frontiera, per arginare il flusso delle milizie somale al-Shabaab nel Paese, ricordando il massacro avvenuto il 22 novembre nella Contea di Mandera (nel nord del Kenya al confine con la Somalia). In quel luogo 28 persone sono state uccise a sangue freddo da miliziani somali Shabaab, che hanno selezionato le loro vittime in base all’appartenenza religiosa, uccidendo coloro che non erano in grado di recitare un versetto del Corano.

Mons. Okoth ha inoltre affermato che la Commissione da lui presieduta è favorevole al ritiro di migliaia di dipendenti pubblici e di altri lavoratori dal nord-est del Kenya, come misura temporanea per salvaguardare la loro vita. "Se la situazione attuale dimostra che le loro vite sono in pericolo in quella regione, sì, sosteniamo la loro evacuazione, ma solo come misura temporanea" ha detto l’arcivescovo, che ha concluso accusando la corruzione istituzionalizzata per le gravissime carenze nel settore della sicurezza e chiedendo una corretta formazione di tutto il personale di sicurezza del Paese. (R.P.)

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Hong Kong: scontri fra polizia e dimostranti vicino uffici del governo

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Pesanti scontri fra la polizia di Hong Kong e il movimento pro-democrazia degli studenti sono avvenuti la notte scorsa e nel primo mattino, quando i giovani di Occupy hanno cercato di circondare gli uffici del governo a Long Wo Road. La strada si trova vicino ad Admiralty, zona centrale delle proteste e dei sit-in che proseguono da due mesi, per domandare democrazia reale per il territorio. Pechino ha garantito il voto per tutta la popolazione di Hong Kong, ma si riserva la verifica sui candidati al posto di capo dell'esecutivo. Il governo del territorio è allineato sulle posizioni di Pechino.

Gli scontri - riferisce l'agenzia AsiaNews - sono comincati ieri sera verso le 9, quando gruppi di studenti si sono riversati a Long Wo Road. La polizia ha attaccato con idranti, spray urticanti e manganelli. Secondo le forze dell'ordine gli studenti hanno lanciato mattoni e bottiglie e usato bastoni. Vi sono feriti da entrambe le parti e almeno 40 giovani sono stati arrestati. Quest'oggi gli uffici del governo rimangono chiusi e sotto il controllo delle forze dell'ordine.

L'azione degli studenti sembra frutto della frustrazione che caratterizza la loro posizione: dopo due mesi di occupazione, il governo non risponde; Pechino ha negato l'entrata in Cina di alcuni rappresentanti che volevano parlare con la leadership; molta popolazione - almeno il 68%, secondo un sondaggio - è del parere che l'occupazione debba terminare. Nelle prime settimane gli studenti avevano ricevuto il sostegno di centinaia di migliaia di persone.

Intanto, la scorsa settimana, la Corte sSuprema ha intimato lo sgombero di alcune zone della città, a Mong Kok e fra i membri del governo vi è chi continua ad additare l'occupazione come la causa delle cadute della borsa e del rallentamento dell'economia del territorio, anche se i dati non lo dimostrano con chiarezza. Il segretario delle finanze, John Tsang, ha dichiarato che il movimento di Occupy ha procurato danni all'immagine della città come centro finanziario internazionale.

Un gruppo di parlamentari britannici, che volevano raggiungere Hong Kong, sono stati avvertiti dall'ambasciata cinese che Pechino avrebbe rifiutato loro il visto di entrata. I parlamentari volevano giungere nel territorio per una verifica della Dichiarazione congiunta (Joint Declaration) firmata da Gran Bretagna e Cina che ha portato al ritorno di Hong Kong alla madrepatria.

Secondo la Joint Declaration a Hong Kong sarebbero garantiti "ampi spazi di autonomia" e uno stile di vita caratterizzato dal principio "una nazione, due sistemi". Secondo gli studenti e tutto il movimento di Occupy Central, i criteri stabiliti dalla Cina per le elezioni ad Hong Kong tradiscono questo principio, assorbendo sempre più il territorio nell'unico "sistema" cinese. (P.W.)

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L'India ricorda la tragedia di Bhopal di 30 anni fa

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30 anni dopo il peggior disastro industriale della storia che ha ucciso e mutilato migliaia di persone è stato aperto a Bhopal il “Remembering Bhopal Museum”. L’iniziativa intende commemorare le esperienze della gente comune e documentare il dramma sociale della fuga letale di gas del 1984. Il “Remembering Bhopal Museum” - riferisce l'agenzia Misna - è allestito in un semplice appartamento in Barésia Road, a pochi metri di distanza dalla fabbrica della Union Carbide da dove, nella notte del 2 dicembre 1984, avvenne la fuga dei gas. Nell’appartamento sono esposti immagini e oggetti, come i vestiti dei bambini morti, oltre alle registrazioni audio di circa 50 sopravvissuti.

“Se le persone che sono morte fossero ancora vive, avrebbero scritto le storie della loro vita per conto proprio. Ma sono morti. Il governo presente e le future generazioni dovrebbero imparare la lezione che non ci dovrebbero essere più Bhopal. Per questo motivo abbiamo costituito questo museo” ha detto ai media locali Hajra Bi, un sopravvissuto coinvolto nel progetto.

Nel 2009, il governo centrale e quello dello Stato del Madhya Pradesh avevano contemplato la creazione di un memoriale, ma la proposta aveva incontrato una dura resistenza. L’allora primo ministro Manmohan Singh aveva stanziato 10 milioni di rupie per costruire un memoriale per le vittime nell’area della fabbrica, che si sviluppa su una superficie di 67 ettari.

Rasheed Bi, un sopravvissuto, ha affermato che la Dow Chemicals, che ha rilevato la Union Carbide, dovrebbe prima assumersi la responsabilità della decontaminazione del sito della fabbrica. “Il terreno è ancora avvelenato. Se si costruisce un museo la tossicità si diffonderà nell’aria, nel suolo” ha detto Rasheed.

I sopravvissuti di Bhopal lottano ancora per la giustizia e nella lunga lista delle richieste c’è quella che chiede alla Dow Chemicals di ripulire i terreni contaminati e le acque sotterranee attorno alla fabbrica e di rispondere alle convocazioni della Corte distrettuale di Bhopal a comparire nel procedimento penale in corso.

“E’ tempo che il governo di Narendra Modi consideri la tragedia di Bhopal come un problema serio e ne parli apertamente con Obama, durante la sua visita in India il prossimo gennaio. Alle vittime e ai sopravvissuti del peggior disastro industriale del nostro tempo non si può chiedere di aspettare più a lungo. Trent’anni fa circa 20.000 persone sono morte e circa mezzo milione sono stati colpiti” ha detto Salil Shetty, di Amnesty International. (P.L.)

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Fao: 13 Paesi vicini all’obiettivo di sradicare la fame

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13 Paesi hanno guadagnato ieri il riconoscimento della Fao per il progresso eccezionale fatto nella lotta contro la fame, un risultato che implica il raggiungimento degli obiettivi internazionali in anticipo rispetto della scadenza stabilita del 2015.

Brasile, Camerun, Etiopia, Gabon, Gambia, Iran, Kiribati, Malesia, Mauritania, Mauritius, Messico, Filippine e Uruguay sono gli ultimi di una lista crescente di Paesi che hanno fatto grandi passi avanti nella lotta contro la denutrizione.

Questo risultato include il raggiungimento anzitempo del primo Obiettivo di sviluppo del Millennio di dimezzare la percentuale delle persone che soffrono la fame entro il 2015 - o dell'obiettivo più rigoroso stabilito al Vertice mondiale sull'alimentazione del 1996 di dimezzare entro 2015 il numero assoluto delle persone che soffrono la fame.

Nel corso di una cerimonia presso la sede della Fao, il direttore generale dell'agenzia Onu, José Graziano da Silva, ha consegnato dei diplomi di riconoscimento ai rappresentanti governativi dei 13 Paesi.

"Avete superato importanti sfide in condizioni economiche globali e politiche difficili. Avete dimostrato una forte volontà e mobilitato i mezzi", ha affermato Graziano da Silva rivolgendosi ai destinatari del riconoscimento.

I progressi nello sradicamento della fame nel mondo nel corso dei prossimi 10 anni "stanno sempre più aumentando", ma molto resta ancora da fare - 805 milioni di persone soffrono ancora di denutrizione cronica - ha continuato il direttore generale della Fao, invitando i Paesi ad accelerare il cammino in questa direzione.

Per raggiungere questi obiettivi, occorre "migliorare la qualità e l'efficienza dei sistemi alimentari, promuovere lo sviluppo rurale, aumentare la produttività, incrementare i redditi rurali, migliorare l'accesso al cibo e rafforzare la protezione sociale", ha affermato Graziano da Silva. (T.C.)

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Filippine: nel 2015 la Chiesa celebra l’Anno dei poveri

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Ponendo lo sguardo sul Signore crocifisso, il povero per eccellenza, “spogliato anche della dignità”, la Chiesa filippina invita “a celebrare il 2015 come Anno dei poveri”. Cristo, con la sua sofferenza “si fa oppresso, disprezzato, impotente, miserabile”, affermano i vescovi in un messaggio diffuso ieri da mons. Socrates B. Villegas, arcivescovo di Lingayen Dagupan e presidente della Conferenza episcopale.

Il messaggio - riporta l'agenzia Fides - si rivolge così a tutti i poveri: “Sulla sua croce, Egli è con te, Cristo è il Dio con voi. Ha preso la tua nudità, la vulnerabilità, la fame, la malattia, la vergogna”, invitando a “gridare a Lui, guardando negli occhi il Signore crocifisso”. Quale messaggio arriva da quella croce? chiedono i vescovi. Un messaggio di risurrezione: “Io sono venuto a portare la vita in abbondanza. Beati voi che siete poveri, Beati voi che avete fame, Beati voi quando vi odieranno”. “Nell'Anno dei poveri, diciamo a voi tutti: venite a Gesù, e troverete ristoro” esortando a pregare e chiedere aiuto a Cristo in ogni circostanza.

L’Anno dei poveri è un richiamo anche per i ricchi: perché non vivano “una vita da egoisti” ma orientata al bene comune e alla solidarietà. Anche i ricchi sono invitati a “fissare gli occhi su Gesù” e ad ascoltare la sua voce: “Qualunque cosa avrete fatto a uno di questi, il più piccolo dei miei fratelli e sorelle, l’avete fatto a me”.

“Nelle Filippine – scrivono i vescovi – questo significa fermare con urgenza la corruzione”. “Urge interrompere l'uso improprio dei fondi del popolo, fermare la distruzione indiscriminata dell'ambiente. Combattere la povertà, ridistribuire ricchezza equamente, costruire un'economia che risponda a criteri di giustizia, fornire istruzione che rispetti tutte le nostre persone, come esseri umani e figli di Dio”. L’ultimo appello è rivolto ai parroci e ai sacerdoti, chiamati a lasciare i comfort e a riabbracciare una vita semplice, vicina ai poveri. (R.P.)

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Spagna: messaggio dei vescovi per la festa della Sacra Famiglia

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È dedicato a “La gioia del Vangelo della famiglia” il messaggio dei vescovi spagnoli, membri della sotto-commissione episcopale per la famiglia e la difesa della vita, in vista della Giornata della Santa Famiglia, che ricorre il 28 dicembre. Nel documento, i presuli partono da una domanda centrale: “Come evangelizzare e come annunciare il Vangelo della famiglia dal momento che regna una concezione antropologica che si conforma alla cultura dominante e che trasforma la concezione ed il sentimento dell’amore, della sessualità e della corporeità?”.

La risposta, spiegano i presuli, si ritrova nel Vangelo che “annuncia che è possibile conoscere l’amore vero, l’amore che si mostra come vocazione, come cammino verso una pienezza che colma il cuore umano e lo rende libero e felice”.

La “vocazione all’amore”, dunque, sottolinea la Chiesa iberica, è “al centro del Vangelo della famiglia” ed ha origine dall’amore di Dio, “un amore più grande dei nostri desideri e di noi stessi”, che si realizza “nella vita umana”: “la differenza sessuale – spiegano i presuli – è una realtà originaria che ci mostra la dimensione di comunione dell’amore”. “Dio si è servito dell’amore sponsale per rivelare il suo amore – continua il messaggio – La trasformazione dell’amore umano nell’amore di Dio è permanente ed esclusivo come l’unione di Cristo con la Chiesa”.

Quindi, i vescovi spagnoli evidenziano che “la missione dei genitori è insostituibile” e la loro “responsabilità è enorme” nel comunicare ai propri figli “la verità del bene della famiglia”; allo stesso tempo, le istituzioni pubbliche vengono esortate a “tutelare, aiutare e proteggere la stabilità e la sicurezza delle famiglie”.

Essenziale, inoltre, si legge ancora nel testo, ricordare la centralità del nucleo familiare “nella trasmissione della fede”, affinché essa sia “viva, gioiosa, sospinta dalla speranza e dalla carità”. Ma tale missione evangelizzatrice appartiene a tutti i membri della comunità ecclesiale, sottolineano ancora i presuli, poiché “tutti abbiamo ricevuto una vocazione all’amore e tutti siamo chiamati ad essere testimoni di un amore nuovo, di una grande gioia che sarà il lievito di una nuova cultura, capace di guardare alla difesa dell’amore e della vita come beni basilari e comunità per l’umanità”.

Infine, in occasione della Festa della Santa Famiglia, i presuli invitano i fedeli a “sperimentare ed a testimoniare la gioia del Vangelo della famiglia in casa, in Chiesa, nella società, soprattutto là dove le povertà materiali, sociali o spirituali necessitano di un annuncio convincente di speranza e di salvezza”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 335

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