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Sommario del 28/10/2013
◊ Gesù continua a pregare e a intercedere per noi, mostrando al Padre il prezzo della nostra salvezza: le sue piaghe. E' quanto ha detto Papa Francesco durante la Messa a Santa Marta nel giorno in cui la Chiesa celebra i Santi Simone e Giuda Taddeo, Apostoli. Il servizio di Sergio Centofanti:
Al centro dell’omelia è stato il brano del Vangelo in cui Gesù passa tutta la notte pregando il Padre prima di scegliere i dodici Apostoli: "Gesù sistema la sua squadra" – sottolinea il Papa – e subito dopo è attorniato da una grande moltitudine di gente "venuta per ascoltarlo ed essere guarita" perché "da Lui usciva una forza che guariva tutti". Sono i "tre rapporti di Gesù" – osserva Papa Francesco – "Gesù con il Padre, Gesù con i suoi Apostoli e Gesù con la gente". Gesù pregava il Padre per gli Apostoli e per la gente. Ma ancora oggi prega:
"E’ l’intercessore, quello che prega, e prega Dio con noi e davanti a noi. Gesù ci ha salvati, ha fatto questa grande preghiera, il suo sacrificio, la sua vita, per salvarci, per giustificarci: siamo giusti grazie a Lui. Adesso se n’è andato, e prega. Ma, Gesù è uno spirito? Gesù non è uno spirito! Gesù è una persona, è un uomo, con carne come la nostra, ma in gloria. Gesù ha le piaghe sulle mani, sui piedi, sul fianco e quando prega fa vedere al Padre questo prezzo della giustificazione, e prega per noi, come se dicesse: ‘Ma, Padre, che non si perda, questo!’".
Gesù "ha la testa delle nostre preghiere" perché "è il primo a pregare" e come "nostro fratello" e "uomo come noi" intercede per noi:
"In un primo tempo, Lui ha fatto la redenzione, ci ha giustificato tutti; ma adesso, cosa fa? Intercede, prega per noi. Io penso cosa avrà sentito Pietro quando lo ha rinnegato e poi Gesù ha guardato e ha pianto. Ha sentito che quello che Gesù aveva detto era vero: aveva pregato per lui, e per questo poteva piangere, poteva pentirsi. Tante volte, tra noi, ci diciamo: ‘Ma, prega per me, eh?, ne ho bisogno, ho tanti problemi, tante cose: prega per me’. E quello è buono, eh?, perché noi fratelli dobbiamo pregare gli uni per gli altri".
Il Papa esorta a chiedere: "Prega per me, Signore: Tu sei l’intercessore":
"Lui prega per me; Lui prega per tutti noi e prega coraggiosamente perché fa vedere al Padre il prezzo della nostra giustizia: le sue piaghe. Pensiamo tanto a questo, e ringraziamo il Signore. Ringraziamo per avere un fratello che prega con noi, e prega per noi, intercede per noi. E parliamo con Gesù, diciamogli: ‘Signore, Tu sei l’intercessore, Tu mi hai salvato, mi hai giustificato. Ma adesso, prega per me’. E affidare i nostri problemi, la nostra vita, tante cose, a Lui, perché Lui lo porti dal Padre".
◊ Una “squadra” chiamata a servire il Papa e la Chiesa con uno “stile” particolare, da cui tutto deve dipendere: dalle scelte editoriali ai palinsesti. È così che Papa Francesco vede il lavoro del Ctv, il Centro Televisivo Vaticano, i cui dipendenti con le loro famiglie sono stati ricevuti stamattina in udienza in occasione dei 30 anni di fondazione dell’organismo. Il servizio di Alessandro De Carolis:
Sull’autostrada globale della comunicazione, da 30 anni il Ctv occupa una corsia preferenziale, e la percorre a velocità sostenuta al ritmo incalzante delle innovazioni tecnologiche, ciascuna traguardo e sfida insieme. Ma tutto con un preciso orientamento, ha ricordato Papa Francesco davanti alle circa 150 persone che lo hanno ascoltato in Sala Clementina, ovvero servire con la diffusione delle immagini televisive del Pontificato la causa del Vangelo:
“Siate professionisti al servizio della Chiesa. Il vostro lavoro è di grande qualità, e così dev’essere per il compito che vi è assegnato. Ma la professionalità per voi sia sempre servizio alla Chiesa, in tutto: nelle riprese, nella regia, nelle scelte editoriali, nell’amministrazione… Tutto può essere fatto con uno stile, una prospettiva che è quella ecclesiale, quella della Santa Sede. È necessario che la comunicazione del Ctv sappia effondere negli spettatori, nei fedeli e nei 'distanti', il profumo e la speranza del Vangelo”.
Nato 30 anni fa per intuizione e volontà di Giovanni Paolo II, il Centro Televisivo Vaticano ha come rotta e missione – ha affermato Papa Francesco – di “mantenere saldamente la prospettiva evangelica” in un settore, quello mediatico, in cui tale prospettiva è sconosciuta o ignorata. E per riuscirvi, è necessario un gruppo unito e responsabile:
“Giocate come squadra. L’efficacia della pastorale della comunicazione è possibile creando legami, facendo convergere attorno a progetti condivisi una serie di soggetti; una ‘unione di intenti e di forze’. Sappiamo che questo non è facile, ma se vi aiutate insieme a fare squadra tutto diventa più leggero e, soprattutto, anche lo stile del vostro lavoro sarà una testimonianza di comunione”.
Nel ringraziare i membri del Ctv non solo, ha detto, “per la professionalità oggi riconosciuta in tutto il mondo, ma soprattutto per la disponibilità e la discrezione che ogni giorno mi testimoniate e con cui mi accompagnate”, Papa Francesco ha mostrato attenzione e delicatezza anche per le famiglie dei dipendenti…
“…perché, come ha ricordato il direttore, mons. Viganò, vivono l’agenda settimanale sugli impegni del Papa! È un sacrificio non da poco, immagino, e per questo non solo vi sono grato, ma assicuro una preghiera per tutti voi, in particolare per i vostri bambini. Il Papa non vuole ingombrare la vita di famiglia, eh? Ma vi ringrazio della pazienza”.
L’ultimo saluto, il Papa lo ha rivolto “agli amici che – ha osservato – si coinvolgono a vario titolo nella grande famiglia del Ctv”. “Da soli – ha concluso – non possiamo fare molto, ma insieme possiamo essere al servizio di tutto il mondo, diffondendo la verità e la bellezza del Vangelo sino ai confini della terra”.
Il Papa riceve Aung San Suu Kyi: sostegno per il contributo alla democrazia in Myanmar
◊ Papa Francesco prega per il Myanmar e incoraggia e apprezza il contributo “per la democrazia e la pace” offerto da Aung San Suu Kyi, ricevuta questa mattina in udienza in Vaticano. Lo ha riferito ai giornalisti il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi che ha anche espresso “grande sintonia” avvertita dal Papa con “questa figura così simbolica nel mondo asiatico”. La leader birmana ha anche incontrato il premier italiano, Enrico Letta, e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il servizio di Debora Donnini:
Una "sintonia fondamentale" è emersa nell'incontro tra Papa Francesco e la leader dell’opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, su temi che sono a cuore al Pontefice come "la cultura dell'incontro" e il dialogo interreligioso. E’ quanto spiega padre Federico Lombardi parlando del “cordialissimo incontro” in Vaticano tra il Santo Padre e il Premio Nobel per la Pace, che ha vissuto anni e anni di restrizioni alla sua libertà per la difesa dei diritti umani e della democrazia, vissuta in modo non violento. L’udienza si è tenuta nella Biblioteca papale e padre Lombardi riferisce anche che Papa Francesco ha espresso “tutto il suo apprezzamento per l’impegno della signora per lo sviluppo della democrazia nel Paese, assicurando da parte sua l’impegno della Chiesa per questa causa, senza che si faccia alcun tipo di discriminazione perché la Chiesa è al servizio di tutti con le sue attività caritative”.
Padre Lombardi ricorda poi è nota l’attenzione di Papa Francesco per l’Asia e il suo desiderio di visitare quel continente. Dopo aver ricevuto ieri la cittadinanza onoraria di Roma, conferitagli ben 19 anni fa, oggi per Aung San Suu Kyi è stato dunque il giorno dell’incontro con il Papa. "Il Santo Padre mi ha detto che le emozioni come odio e paura sminuiscono la vita e il valore delle persone. Dobbiamo valorizzare l'amore e la comprensione per migliorare la vita dei popoli", ha affermato la leader birmana parlando dell’udienza con il Santo Padre, durante la conferenza stampa con il ministro degli Esteri, Emma Bonino. La San Suu Kyi - che ha oggi ha anche incontrato il premier Letta e il presidente Napolitano - si è detta “commossa” dell’accoglienza riservatagli in Italia. “Mi auguro che rimaniate al nostro fianco”, ha affermato, ricordando che per far sì che il Myanmar "diventi un Paese veramente democratico", si deve "modificare la Costituzione”. “Una Costituzione democratica non può essere basata tenendo a mente una sola persona", ha spiegato ancora, rilanciando l’appello a emendare la Carta costituzionale birmana che le impedisce di diventare presidente perché madre di due figli stranieri. "E' chiaro - ha aggiunto - che questa Costituzione è stata scritta pensando al mio caso".
Riguardo, poi, allo sviluppo economico, Aung San Suu Kyi ha affermato che dipenderà dalle novità politiche, perché "senza una modifica della Costituzione l'esercito manterrà i suoi privilegi non solo in ambito politico ma anche nell'economia". E a proposito del fatto che durante gli anni degli arresti domiciliari le sia stato impedito di incontrare il marito morente e i due figli, ha anche ricordato che la sua famiglia non è stata l’unica a essere subordinata alle vicende del Paese. "Condanno ogni forma di violenza e odio ma non un popolo in particolare", ha poi detto rispondendo ad una domanda sulle violenze tra le comunità buddista e musulmana nel suo Paese e spiegando che "tutto ciò avviene per paura".
La visita a Roma rientra nell'ambito di un viaggio che la leader dell'opposizione birmana, che nel 2015 si candiderà alle elezioni presidenziali, sta compiendo in Europa. Enrico Letta le ha assicurato il massimo impegno per favorire il processo di transizione democratica in Myanmar, in particolare per aiutare il cambiamento della Costituzione e per agevolare il passaggio alla democrazia in vista delle prossime elezioni. Da parte sua, la San Suu Kyi ha confermato che sarà a Milano, ospite del governo italiano, in occasione dell'Expo 2015 nell'ambito impegno a favore della food security. Quindi, la leader dell’opposizione birmana è stata ricevuta al Quirinale dal presidente Napolitano.
Aung San Suu Kyi, 67 anni, figlia di un generale birmano protagonista dell’indipendenza del suo Paese, ha vissuto per molto tempo all’estero, frequentato le migliori scuole indiane e inglesi, lavorato a New York per le Nazioni Unite, dove ha conosciuto suo marito con il quale ha avuto due figli. Tutto cambia nel 1988 quando ritorna in Brimania per accudire la madre malata e il generale Saw Maung instaura il regime militare. La San Suu Kyi, fortemente influenzata dagli insegnamenti non-violenti di Ghandi, fonda il partito di cui oggi è presidente, La Lega Nazionale per la Democrazia. Quindi, fino al 2010 sarà costretta a restrizioni della sua libertà personale, anche con gli arresti domiciliari. Nel 1990, il suo partito vince le elezioni ma i militari annullano il voto. La San Suu Kyi non può allontanarsi dal Paese, pena il non poter farvi ritorno, neanche quando nel 1995 a suo marito viene diagnosticato il cancro che di lì a due anni lo ucciderà, lasciandola vedova. Dopo le elezioni del 2010, il governo concede una serie di riforme atte ad ottenere una democrazia liberale, un'economia mista e la riconciliazione nazionale. Oltre al rilascio della leader, altri 200 prigionieri politici vengono liberati e nel 2012 Aung San Suu Kyi ottiene un seggio al parlamento birmano.
Negli anni, la donna è divenuta un’icona di impegno non violento per la difesa dei diritti umani e della democrazia, tanto da meritare nel 1991 il Nobel per la Pace, che ha potuto ritirare solo nel 2012. Nei giorni scorsi, dopo 23 anni, ha potuto poi ricevere il Premio Sakharov conferitogli dal parlamento europeo, mentre ieri a Roma ha ricevuto la cittadinanza onoraria. “Abbiamo bisogno di pace molto più di qualunque altra cosa, e la pace nasce dal cuore”, ha detto sorridente in Campidoglio, nella sua eleganza sempre composta, con i capelli raccolti in uno chignon di fiori gialli. Da ricordare che in Myanmar la religione più diffusa è il buddismo. I cristiani sono circa il 7,9% della popolazione composta da 50 milioni di persone di diverse etnie. L’1,3% sono cattolici, mentre circa i tre quarti dei cristiani sono protestanti.
Una mamma e un nonno raccontano la gioia della “Giornata della famiglia” con Papa Francesco
◊ A Piazza San Pietro come a casa. E’ il piccolo “miracolo” che si è compiuto questa fine settimana grazie alla “Giornata della Famiglia” celebrata con Papa Francesco, nel contesto dell’Anno della Fede. Un evento che si è contraddistinto per la gioia dei bambini che ha contagiato tutti a partire dal Santo Padre. All’indomani di questo evento, Alessandro Gisotti ha raccolto la testimonianza di Laura Patanella, mamma milanese che assieme al marito e ai suoi quattro figli ha preso parte alla due giorni con il Papa:
R. - Non è la prima volta che andiamo a Roma con la famiglia. In effetti, però, erano un po’ di anni che non riuscivamo ad andare tutti insieme. I miei figli li ho visti molto contenti, anche se all’inizio magari qualcuno dei più grandi borbottava all’idea di fare due giorni così intensi. Poi, alla fine, li abbiamo vissuti con serenità, nel guardare le altre famiglie che erano con noi, nello stare insieme e nelle tre parole belle e semplici che ha pronunciato il Papa per noi. Siamo stati molto contenti.
D. – Le tre parole, ricordiamolo, sono “permesso, scusa, grazie”…
R. – Esatto, le tre parole sono queste. Ripensando anche con mio marito, siamo stati proprio fortunati, ci siamo guardati ed abbiamo pensato: “Caspita, forse 19 anni di matrimonio sono anche per queste tre parole che ci siamo detti”. Si può bisticciare durante la giornata ma come ci ha detto il Papa alla sera bisogna guardarsi in faccia e ricominciare.
D. – La cosa che Papa Francesco ha sottolineato è che le famiglie cristiane non devono solo dirsi che sono belle tra loro ma uscire ed andare a testimoniare questa bellezza fuori…
R. – Esatto. Sempre con mio marito facciamo il corso ai fidanzati in parrocchia. In effetti, la cosa bella è testimoniare ogni volta a queste coppie di fidanzati che si vogliono sposare la bellezza del matrimonio, vissuto proprio come un cammino di fede.
D. – In queste due giornate, le gioie sono state tante, però poi c’è la vita quotidiana. Cosa resta allora di questo evento?
R. – Resta il fatto che siamo fortunati ad avere un Papa che ci vuole così bene e ci guida. Non siamo soli ma siamo in una grande famiglia che è la Chiesa. Non siamo soli come famiglia per cui, anche nei momenti di fatica e sconforto della quotidianità, il fatto di condividerli con altre persone, altre famiglie, o amici, ti richiama a guardare sempre a Gesù.
Nella veglia di sabato, Papa Francesco non ha mancato di mettere l’accento sul ruolo insostituibile dei nonni nella vita delle famiglie. Parole che hanno toccato il cuore di Eugenio Bollani, nonno, che assieme alla moglie e alla nipotina di tre anni ha vissuto la “Giornata della Famiglia” in Piazza San Pietro. Alessandro Gisotti lo ha intervistato:
R. - Come tutti i pellegrini o come tutti i turisti quando si va in un posto, il mattino dopo, una volta tornati, si iniziano a guardare le fotografie scattate. Una delle fotografie che ho in mente è questa: questi palloncini che hanno inondato il cielo sopra Piazza San Pietro. La mia nipotina ne ha lasciato andare uno senza piangere; ha tre anni e generalmente guai! Si sa quando un bambino perde un palloncino! Mentre, questa volta ha detto: “Nonno, lo faccio andare in cielo da Gesù”. La seconda immagine che ho in mente è questa: sembrava di essere in una piazza di un paese, davanti alla chiesa dove tutti eravamo insieme; nei tempi morti vedere i bambini sul sagrato sdraiati a disegnare quello che vedevano … L’altra immagine è questo Papa Francesco circondato dai bambini; con alcuni di essi dialogava. Ad un bambino stava addirittura spiegando cosa succedeva. Questo Papa, come un nonno che sta lì ad ascoltare, era veramente un richiamo a noi grandi di come bisogna porsi davanti ai bambini.
D. - Lei ha detto che Papa Francesco in alcuni momenti sembrava proprio un nonno con i suoi nipoti. Sappiamo quanto Jorge Mario Bergoglio tenga a cuore i nonni. Anche in questi giorni, ha ribadito che i nonni “sono la saggezza di un popolo”, hanno tanto da dare a figli e nipoti. Cosa hanno detto al suo cuore queste parole?
R. - La cosa che mi ha colpito da nonno e da padre è stata che - e lo ha anche detto lui - noi cristiani non siamo ingenui, non ci dimentichiamo le difficoltà che ci sono nel mondo. Però, ci ha richiamato a non avere paura di assumerci le nostre responsabilità e andare a dire agli altri quanto è bello stare in un certo modo. Il culmine è stato quando il Papa ha chiesto a tutti i bambini di fare il Segno della Croce. È il primo gesto che un padre, un nonno insegnano ai propri figli. Devo dire che la mia nipotina, pur avendo tre anni, ha pasticciato un po’, però alla fine era convinta di aver fatto il Segno della Croce perché glielo aveva detto il Papa. Glielo aveva detto questo grande nonno!
Altre udienze e nomine di Papa Francesco
◊ Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza: il signor Teruaki Nagasaki, ambasciatore del Giappone presso la Santa Sede, in occasione della presentazione delle Lettere Credenziali; il card. William Joseph Levada, prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, il signor Jim Yong Kim, Presidente della Banca Mondiale: la signora Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace 1991 e il signor Rrok Logu, ambasciatore di Albania in Visita di Congedo.
In Sudan, il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di El Obeid, presentata da mons, Macram Max Gassis, M.C.C.J., per sopraggiunti limiti d’età. Gli succede mons. Michael Didi Adgum Mangoria, Coadiutore della medesima Diocesi.
In Canada, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Winnipeg, presentata da mons. James Weisgerber, per sopraggiunti limiti d’età. Il Santo Padre ha nominato arcivescovo di Winnipeg mons. Richard Joseph Gagnon, finora vescovo di Victoria.
Tweet del Papa: siamo peccatori, ma Dio ci guarisce con abbondanza di misericordia e tenerezza
◊ Il Papa ha lanciato un nuovo tweet: “Siamo tutti peccatori. – scrive - Ma Dio ci guarisce con un’abbondanza di grazia, misericordia e tenerezza”.
◊ “Cristiani e Indù, con l’amicizia e la solidarietà, possono favorire le relazioni umane a beneficio di tutta l’umanità”. Così il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso nel Messaggio per la Festa del Deepavali, tra le più antiche e radicate nel mondo induista, che quest’anno culmina il 3 novembre. Il servizio di Roberta Gisotti:
“Cari amici indù”, scrive in amicizia il cardinale Tauran esprimendo i suoi auguri per questa ricorrenza, nota come ‘Festa delle Luci’ - per la tradizione di accendere lucerne, candele o lampade nelle case - occasione per le famiglie induiste di ritrovarsi per celebrare la vittoria della verità sulla menzogna, del bene sul male, della vita sulla morte. “In questo mondo cosi competitivo”, con “crescenti tendenze individualistiche e materialistiche”, che “hanno effetti negativi sulle relazioni e creano spesso divisioni nelle famiglie e nell’intera società”, - osserva il porporato nel Messaggio - “la sicurezza e la pace nelle comunità locali, nazionali e sovranazionali dipendono “in gran parte” “dalla qualità del nostro interagire umano”. “Più approfondiamo le nostre relazioni, più siamo capaci di progredire nella collaborazione, nella costruzione della pace e nell’autentica solidarietà ed armonia”. “Noi tutti apparteniamo, infatti, - scrive il porporato - all’unica famiglia umana”, “prescindendo dalle nostre differenze etniche, culturali, religiose ed ideologiche”. Occorre quindi contrastare “la crescita nella società del materialismo e del disprezzo verso i valori spirituali e religiosi più profondi”, “accompagnata da una pericolosa tendenza a dare identico valore alle cose materiali e alle relazioni umane, riducendo la persona umana da un ‘qualcuno’ a un ‘qualcosa’ che si può mettere da parte a propria discrezione”. “Tendenze individualistiche” che “generano un falso senso di sicurezza”, favorendo – come indicato da Papa Francesco – “la cultura “dell’esclusione e “dello scarto” e “la globalizzazione dell’indifferenza”. Promuovere dunque “una cultura della solidarietà” è un imperativo per tutti i popoli, perché si veda nell’altro “non un concorrente o un numero ma un fratello”. E ciò “si può ottenere – conclude il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso - solo come risultato di uno sforzo comune di tutti verso il bene comune.”
Standard Ethichs eleva rating del Vaticano: passi rilevanti in fatto di trasparenza finanziaria
◊ Standard Ethics, agenzia di rating indipendente, ha reso noto di aver elevato lo Standard Ethics Rating (SER) attribuito allo Stato della Città del Vaticano a “EE” dal precedente “EE-” (che dal 12 luglio scorso aveva un “outlook positivo”). “Nel corso di questi mesi, Standard Ethics – riferisce un comunicato dell’agenzia - ha rilevato un ridimensionamento della distanza tra lo Stato della Città del Vaticano e le richieste internazionali in fatto di trasparenza e di rendicontazione delle proprie finanze e delle proprie istituzioni finanziarie, ed una fattiva collaborazione per la ‘crescita della Comunità internazionale’”.
“In particolare – prosegue il comunicato - appaiono rilevanti i passi effettuati contro il rischio di riciclaggio, illecito finanziario e finanziamento del terrorismo, soprattutto grazie al graduale adeguamento alle indicazioni del Financial Action Task Force – Groupe d’action financière (FATF – GAFI) ed alle raccomandazioni della Divisione Moneyval del Consiglio d’Europa (processo necessario per accedere alla c.d. “white list” dell’Ocse)”.
“Il passo di governance più significativo dello Stato della Città del Vaticano – afferma l’agenzia - è individuato nella recente Legge N. XVIII dell’8 ottobre 2013 approvata dalla Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, avente per oggetto un organico e ‘stabile’ intervento legislativo in materia di trasparenza, vigilanza ed informazione finanziaria. Si tratta di un provvedimento che porta a conclusione un percorso avviato alcuni anni fa con la costituzione dell’Autorità d’Informazione Finanziaria (AIF)”.
“Ulteriori di elementi di trasparenza – riferisce ancora il comunicato - sono la pubblicazione del ‘Rapporto Annuale sulle attività di informazione finanziaria e di vigilanza per la prevenzione e il contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. Anno I-2012’ dell’AIF e la pubblicazione (in data 1 ottobre) sul sito dell’Istituto per le Opere Religiose (IOR) dell’annual report secondo principi contabili internazionali. Si tratta, nel complesso, di azioni che rafforzano il tentativo di creare un sistema di controlli ‘efficace e sostenibile nel lungo periodo’”.
Il miglioramento del rating porta il Vaticano a uscire dal gruppo di Paesi in cui figurano, tra gli altri, anche Brasile e Polonia, e ad entrare nel gruppo in cui sono presenti anche Giappone e Italia.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Quell’amore paziente che genera gioia: il Papa incontra le famiglie del mondo in piazza San Pietro.
Giocate come squadra per diffondere il Vangelo: il Pontefice durante l’incontro con il personale del Centro televisivo vaticano.
Dieci milioni di follower per il Vangelo.
Germania e Stati Uniti ai ferri corti sul datagate.
Polveriera Iraq: più di 60 morti in attentati dinamitardi a Baghdad e a Mossul.
Libertà in cammino: celebrati a Villa Nazareth i 90 anni del cardinale Achille Silvestrini.
Un padre per amico: l’alunno Dario Rezza ricorda il cardinale Pericle Felici nell’ottantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale.
Siria: i gruppi fondamentalisti contrari alla Conferenza di pace "Ginevra 2"
◊ Si trova oggi a Damasco il mediatore per la Siria, Brahimi, per colloqui con il presidente Assad e altri esponenti di governo. Intanto, ancora incertezze sulla Conferenza di pace “Ginevra 2”. Ieri, una ventina di gruppi di oppositori, per lo più di ispirazione jihadista, hanno definito “traditori” i responsabili degli insorti che decideranno di prendere parte al vertice elvetico di novembre prossimo, una minaccia che mette in discussione l’organizzazione e gli esiti stessi dell’incontro. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Eric Salerno, esperto di Medio Oriente del quotidiano “Il Messaggero”:
R. - Temo che sarà un incontro per così dire “monco”. L’unica cosa che potrebbe venir fuori di positivo, ammesso che ci sia almeno un parte consistente dei gruppi non islamici – che sono proprio quelli che hanno cominciato la rivolta contro Assad – è che, forse, se si trovasse tra loro ed il regime siriano una via d’uscita politica allora la comunità internazionale invece di appoggiare – come ha fatto finora – tutti i ribelli anche i più vicini ad al-Qaeda, a quel punto potrebbe crearsi un meccanismo diverso: cioè un’alleanza tra il governo e quella parte della popolazione siriana, che si è rivoltata contro il governo, in chiave di opposizione a questi gruppi islamisti. Questa, al momento, è l’unica via d’uscita. I gruppi islamisti non rappresentano la maggioranza della popolazione siriana e, oltretutto, stanno creando problemi non soltanto alla Siria, ma anche la Turchia, che è molto preoccupata per questo rafforzamento dei gruppi islamici. Questo vale anche per Israele che ha paura di questi movimenti fondamentalisti, che potrebbero intervenire con armi, che hanno già a disposizione, costringendo così Israele ad entrare in guerra.
D. – Eliminare dal futuro istituzionale della Siria parte degli insorti potrebbe causare un rischio di terrorismo?
R. – Credo che questa deriva esista già adesso. Le organizzazioni internazionali non di parte, che stanno seguendo quello che sta succedendo in Siria, dicono costantemente che molti gruppi islamici continuano a sparare addosso ai laici, ai curdi, oppure ad altri gruppi… Perciò, c’è già parecchio terrorismo all’interno del Paese.
Escalation di violenza in Iraq: 65 morti, ma la società civile non si arrende
◊ Ennesima domenica di sangue in Iraq. Almeno 65 persone hanno perso la vita in una lunga scia di attentati; i più gravi sono avvenuti a Baghdad, dove sono state 52 le persone che hanno perso la vita a causa di 10 bombe esplose in otto aree a maggioranza sciita. Una situazione di forte instabilità che, dall’inizio dell’anno, ha provocato oltre 6500 vittime. Nonostante tutto, la società civile irachena continua a lottare contro la violenza e propone quotidianamente iniziative per promuovere la pace. L’appuntamento più importante è stato il primo Forum Sociale Iracheno, svoltosi a Baghdad dal 23 al 28 settembre scorsi, alla presenza di almeno 3000 attivisti. Tra loro anche Martina Pignatti Morano, presidente dell'Associazione “Un ponte per...” e coordinatrice del comitato internazionale di solidarietà per il Forum Sociale Iracheno. Salvatore Sabatino l’ha intervistata:
R. – E’ stato un momento di grande speranza. Noi delegati internazionali ci siamo confrontati con una nuova generazione di attivisti iracheni, ragazzi che hanno 20-30 anni e che, nonostante siano cresciuti sotto le bombe, in un clima di terrore, hanno grande capacità di lavorare per diffondere la cultura della pace e della non violenza, lottare per i diritti umani e non hanno paura: quindi, sono disposti a mettersi in gioco, a scendere in strada e a organizzare eventi culturali.
D. – In quei giorni voi avete vissuto comunque il clima di tensione che in realtà gli iracheni vivono sulla loro pelle quotidianamente …
R. – Noi ci siamo resi conto che quello che ci dicevano le ambasciate internazionali non era vero, nel senso che per promuovere la nostra sicurezza e quella degli attivisti non serviva scorta armata: era sufficiente muoversi con persone che conoscono la città, e quindi noi eravamo sempre scortati da giovani ragazzi disarmati. Da questo punto di vista, anche grossi eventi pubblici in parchi cittadini vengono organizzati dall’associazionismo senza la scorta della polizia: quindi, anche il tentativo vano del governo iracheno di promuovere la sicurezza acquistando più armi dagli Stati Uniti è illusorio.
D. – Affianco alla cronaca degli attentati e delle violenze, c’è comunque una voglia di ripartire e questa voglia parte dalla base …
R. – Sì: e forse la priorità da parte degli iracheni è dimostrare che c’è grande capacità di lavorare insieme tra etnie e confessioni religiose diverse e grandissimo rispetto per le minoranze. Quindi, quelle minoranze che spesso hanno dovuto fuggire, tra cui naturalmente quella importantissima cristiana. Fuggire da Baghdad, fuggire da Mossul per rifugiarsi in aree confinate nel Nord dell’Iraq oppure all’estero … A Baghdad, nel Forum Sociale Iracheno, sono state riconosciute: il forum è stato aperto con una danza di ragazzi delle comunità caldee cristiane del Nord; davanti alle registrazioni c’era la musica curda che nel centro di Baghdad è una cosa assolutamente eccezionale, non ordinaria. Quindi da parte delle persone, del popolo iracheno c’è una grande volontà di dimostrare la pratica della convivenza, ogni giorno, nel quotidiano …
D. – Nonostante questa voglia di ripartire, di mettersi alle spalle la violenza, però purtroppo la cronaca quotidiana ci propone attentati, morte, distruzione … sono circa 6.500 le persone che hanno perso la vita dall’inizio dell’anno. La gente cosa dice di questa violenza quotidiana?
R. – Sono esasperati e sanno benissimo che questa situazione di sicurezza precaria è causata anche dagli sviluppi della guerra in Siria e dalle posizioni che il governo iracheno sta assumendo in questo momento. Però c’è una chiara imputazione di responsabilità alla politica: questo non è un conflitto interconfessionale, non ha matrice religiosa, ha una matrice interamente politica e la chiave repressiva con cui il governo sta cercando di gestire la crisi e la militarizzazione sono tutte strategie fallimentari che non fanno altro che provocare l’aumento della tensione. E quindi, contro tutto ciò le persone protestano.
D. – Baghdad è stata conosciuta nella storia come città della pace, città della convivenza. Tornerà ad essere una città così, aperta?
R. – Noi abbiamo la speranza che questa nuova generazione ce la faccia. Questi sono ragazzi che noi non conoscevamo, perché anche con l’associazione “Un ponte per”, che da tempo lavora nella cooperazione con l’Iraq, eravamo abituati a relazionarci con chi ha ormai dai 40 ai 60 anni. I giovani di Baghdad hanno l’intelligenza, la forza di volontà e, in questo momento, davvero anche i contatti internazionali per promuovere un significativo cambiamento politico e sociale. Internet ci aiuta: possiamo seguirli anche da lontano, per fortuna. E quindi invito, per esempio, chi legge l’inglese a controllare il sito www.iraqicivilsociety.org per conoscere le loro campagne e portare solidarietà.
Elezioni in Argentina: sconfitta per il fronte che sostiene la presidente Kirchner
◊ Elezioni legislative ieri in Argentina. I primi risultati ufficiali confermano una serie di sconfitte per i sostenitori del governo di Cristina Fernandez de Kirchner. Nella provincia di Buenos Aires si afferma il dissidente Sergio Massa, con il 42% dei consensi su Martin Insaurralde. Da Buenos Aires, Francesca Ambrogetti:
Duro monito degli elettori argentini al governo di Cristina Kirchner: alle parlamentari di ieri, il peronismo dissidente ha ottenuto una netta vittoria nel più importante distretto, quello della provincia di Buenos Aires. Il suo candidato, Sergio Massa, una figura emergente con il 44 per cento dei voti, ha battuto il rivale del Fronte per la vittoria con uno scarto di 12 punti. La coalizione al governo è stata sconfitta anche in altre importanti regioni, ma continua ad essere la prima forza politica del Paese e mantiene la maggioranza alla Camera e al Senato. Il responso delle urne riflette il malessere dilagante per l’inflazione, problemi di sicurezza, le denunce di corruzione e l’economia che sta rallentando, dopo anni di crescita. Per la presidente, in convalescenza dopo un intervento per un ematoma al cranio, il prossimi due anni – gli ultimi del suo governo – non saranno facili: oltre al peronismo dissidente, dovrà affrontare settori del suo stesso partito che propongono un cambio di rotta; e trovare un candidato in grado di sostituirla per far fronte alle pressioni dell’opposizione, anche quella del centrodestra e del centrosinistra, che hanno formato nuove coalizioni con buoni risultati elettorali.
◊ Inizia oggi a Manaus, nello Stato brasiliano di Amazonas, il primo incontro della Chiesa cattolica dell’Amazzonia. Sono presenti più di 100 vescovi, insieme a laici, coordinatori pastorali e responsabili di varie istituzioni locali. Al centro dei lavori fino al 31 ottobre, l’analisi della realtà politica, sociale, culturale e religiosa della regione al fine di difenderla e preservarla. “L’incontro ha una grande importanza per la Chiesa e coincide con un momento delicato della storia del Paese”, spiega il cardinale Claudio Hummes, presidente della Commissione episcopale per l’Amazzonia, al microfono della nostra inviata Christiane Murray:
R. - È un momento molto importante e decisivo anche dal punto di vista storico, perché c’è un progetto per lo sviluppo dell’Amazzonia da parte del governo e dell’iniziativa privata. Il governo, soprattutto, ha un grande progetto per la raccolta dell’acqua che serve per produrre energia elettrica. Dunque si pone di nuovo, tutta la questione di preservare l’Amazzonia che ha un’importanza ecologica fondamentale anche dal punto di vista della biodiversità. Inoltre, c’è una grande concentrazione di Indios del Brasile, millenari abitanti di quella regione, che tante volte vengono dimenticati, e ai quali non sono riconosciuti i loro diritti. È vero che qualche progresso in questo senso è stato fatto negli ultimi anni in loro favore, ma sono ancora abbandonati. E allora la Chiesa si pone la questione della sua missione lì, perché la Chiesa cattolica è presente nella storia dell’Amazzonia fin dall’inizio. Questo vuol dire che ha una storia, un’esperienza, una conoscenza. È vero anche che i missionari, i vescovi, vengono sempre da altri luoghi, molti di loro quindi non hanno avuto questa lunga esperienza storica. Anche per loro, perciò, è importante poter prendere parte a questo incontro per imparare e riflettere insieme. La cosa più importante è che la Chiesa si metta insieme e discuta per trovare delle grandi linee comuni di azione e anche di interpretazione dell’Amazzonia e delle sue sfide. Questo perché la Chiesa ha la responsabilità - come dice il Papa - di dare alla Chiesa in Amazzonia “una faccia amazzonica”. Questo vuol dire una inculturazione che abbia come punto centrale gli Indios.
D. - Lei ha detto che il Papa vi ha stimolato e incoraggiato molto, chiedendo ai vescovi di essere coraggiosi in questa opera di evangelizzazione, stando accanto ai popoli. Ricordiamo che molti vescovi sono anche minacciati di morte in Amazzonia …
R. - Sì, è vero. È sempre stato così perché molte volte gli interessi particolari sia di imprese, sia di altro tipo, hanno minacciato vescovi, sacerdoti, suore, laici impegnati, leader sia degli indigeni sia dell’altra popolazione dell’Amazzonia, che rivendicano il diritto dell’Amazzonia come tale, il diritto di essere preservata, di essere curata e non distrutta.
D. - Le grandi opere del governo stanno minacciando questa biodiversità anche umana, no? Perché, a parte gli Indios, ci sono anche tutti gli altri abitanti di altre origini che vivono vicino ai fiumi …
R. - Lo sviluppo è importante anche per loro. Però la domanda è questa: come fare in modo che questo sviluppo non sia distruttivo per la cultura, per la storia? È vero che il Brasile ha bisogno di energia elettrica; è vero che l’energia idroelettrica è più pulita delle altre, però, tutto deve essere discusso, deve essere condiviso prima di tutto con la gente che vive lì. E tutto questo deve essere fatto in modo intelligente, perché è l’uomo il soggetto che deve essere sempre posto al centro dei grandi obbiettivi di sviluppo.
Scuola: i sindacati dicono no al blocco del contratto
◊ Insegnanti in agitazione. I sindacati giudicano infatti in modo negativo il blocco del contratto e degli scatti d’anzianità, previsti nella legge di stabiltà, e per questo hanno indetto una grande manifestazione nazionale a Roma il 30 novembre. Secondo le organizzazioni dei lavoratori, poi, pochi passi in avanti sono stati fatti per risolvere l’annoso problema del precariato. Alessandro Guarasci:
Gli insegnanti chiedono più attenzione al governo. Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda, in una manifestazione oggi a Roma, hanno minacciato lo sciopero. Primo punto il contratto. Dunque rinnovo della parte economica e normativa, sblocco degli scatti d’anzianità. Il commento di Rino Di Meglio, segretario del sindacato Gilda:
"Negli ultimi cinque anni, un insegnante medio ha perso qualcosa come 3400 euro netti. Su uno stipendio, che è già basso, è una perdita gravissima, che riduce la capacità di spesa e qualche volta anche quella di sopravvivenza".
Basta dire che un insegnante tedesco guadagna il doppio di un italiano. E il rischio è che docenti mal pagati siano anche poco motivati nell’insegnamento. C’è anche affrontare una volta per tutte il problema del precariato. Sono circa 160 mila gli insegnanti che non hanno certezze su dove e quando insegneranno. Il decreto del ministro Carrozza che immette in ruolo 69 mila docenti rischia solo di andare a coprire chi va in pensione. E i problemi non si risolvono, come vorrebbero alcuni, tagliando i fondi alle paritarie. La riflessione di Giorgio Scrima, segretario della Cisl Scuola:
"Per fare un esempio, la scuola dell’infanzia, in questo Paese, per il 48 per cento è garantita e assicurata dallo Stato. Noi dobbiamo garantire il sistema integrato nazionale e non affrontare le questioni in termini ideologici".
Insomma per i sindacati c’è una disattenzione, voluta, della classe politica nei confronti della scuola.
Siria. Mediazione per la salvezza dei civili a Sadad: la Chiesa siro-ortodossa in prima linea
◊ Uno sforzo di mediazione, sostenuto da una preghiera incessante: cosi la Chiesa siro-ortodossa in Siria si è coinvolta per la salvezza dei civili cristiani intrappolati nella città di Sadad, sulla strada fra Damasco e Homs. Nei giorni scorsi la città è stata attaccata da truppe islamiste e il metropolita Silwanos Boutros Alnemeh, titolare dell'arcidiocesi siro-ortodossa di Homs e Hama, aveva lanciato un accorato appello per creare un “corridoio umanitario”che consentisse l’evacuazione dei civili. Ora, come appreso da Fides, il patriarcato siro-ortodosso ha lanciato una catena di preghiera incessante, in tutte le chiese di Damasco e della regione. Accanto alla preghiera, i rappresentanti del Patriarcato hanno messo in atto un tentativo di mediazione fra le parti in lotta, che mira alla salvezza di 1.500 civili, in maggioranza cristiani siro-ortodossi, fra i quali donne, bambini e anziani, che tuttora si trovano a Sadad. Ieri davanti alla cattedrale siro-ortodossa di San Giorgio a Damasco, i fedeli si sono riuniti a pregare e a manifestare, in solidarietà con la popolazione di Sadad e con quella di Homs, ricordando tutti i sequestrati tuttora tenuti in ostaggio dai gruppi armati. Mons. Matteo Khoury, vescovo del patriarcato siro-ortodosso di Damasco, in una dichiarazione inviata a Fides ribadisce “l’urgenza della preghiera incessante” e manda un messaggio a tutte le nazioni “perché aiutino la Siria a combattere l’estremismo religioso e il terrorismo”. Il vescovo, chiedendo “la fine dello spargimento di sangue” nel Paese, nota che “autentici musulmani e leader religiosi islamici hanno espresso vicinanza ai cristiani di Sadad, che hanno subìto cinque giorni di barbaro terrore dopo le incursioni di estremisti armati”. Il patriarcato si rivolge, in particolare, alle organizzazioni internazionali che promuovono i diritti umani, invocando “un impegno per salvare Sadad”. Tra i fedeli di Damasco, padre Gabriel Daoud, sacerdote siro-ortodosso, nota: “Oggi vi sono troppi gruppi terroristi che hanno l’’unico obiettivo di portare morte e distruzione in Siria. Non solo: stanno cercando di distruggere i tesori archeologici e i monumenti della millenaria storia della Siria”. L'antica città di Sadad si trova nella catena montuosa di Qalamoon. Gruppi islamisti armati sono entrati di sorpresa in città all'alba del 21 ottobre, occupandola e prendendo in ostaggio oltre 1.500 civili. Lo sforzo di mediazione per salvare i civili non ha ancora avuto successo. (R.P.)
Egitto. Vescovo copto ortodosso: le chiese non hanno bisogno di nascondere armi
◊ Gli attacchi e e le persecuzioni subite dai copti nelle ultime convulse stagioni vissute dall'Egitto non devono essere strumentalizzate per propagandare idee e comportamenti estranei alla fede cristiana e contrari ai veri interessi delle comunità cristiane autoctone presenti in Egitto. Lo ha ribadito con nettezza il vescovo copto ortodosso Morcos, titolare della diocesi di Shubra al-Khaimah, nell'area metropolitana del Cairo. Secondo fonti egiziane consultate dall'agenzia Fides, Anba Marcos ha chiarito che “tutti i tentativi di invocare l'intervento dell'Occidente con il pretesto di salvare la minoranza cristiana vanno respinti”. Intervistato da una televisione, il vescovo egiziano ha voluto anche sottolineare che “le chiese non hanno bisogno di nascondere armi al proprio interno, come sostengono alcuni”, perchè oltretutto ogni misura di auto-difesa armata avrebbe scarsa efficacia davanti ad attacchi terroristici mirati. Nel contempo, il vescovo Morcos ha mostrato comprensione per il senso di frustrazione che cresce in particolare tra i gruppi organizzati di giovani copti, nutrita anche dall'impunità finora riservata ai responsabili degli attacchi terroristici contro chiese e abitazioni cristiane, invitando comunque tutti ad aver fiducia nell'aiuto e nella protezione del Signore. (R.P.)
Polonia: morto a Varsavia Tadeusz Mazowiecki, primo premier del governo post-comunista
◊ E’ morto a Varsavia all'età di 86 anni Tadeusz Mazowiecki, uno dei fondatori di Solidarnosc e premier polacco nel primo governo post comunista del blocco sovietico, nel 1989, che aprì la strada al crollo del Muro di Berlino. Mazowiecki, la cui foto con il segno di vittoria divenne una delle immagini simbolo della fine della Guerra fredda - riferisce l’agenzia Agi - era stato l’architetto della “tavola rotonda” tra le autorità comuniste fedeli all’Urss e l’opposizione che portò alle prime elezioni parzialmente libere del blocco comunista, vinte da Solidarnosc. “E’ stato il miglior premier che la Polonia abbia mai avuto”, ha commentato Lech Walesa, il premio Nobel per la Pace 1983 che lo designò alla guida del governo dopo averci fondato insieme il sindacato-partito nel 1980. Il ministro degli Esteri, Radoslaw Sikorski, lo ha ricordato come “uno dei padri della libertà e dell’indipendenza in Polonia”. Nei 15 mesi in cui fu primo ministro, Mazowiecki guidò il Paese nella transizione verso la democrazia e il mercato libero. Giornalista, filosofo e scrittore, Mazowiecki era nato nel 1927 a Plock, nella Polonia centrale, da una famiglia nobile. Negli anni ’50 fu espulso dall’associazione cattolica Pax, controllata dai comunisti, per aver guidato un’opposizione interna al gruppo. Durante lo stalinismo in Polonia, fu accusato di essere un agente americano o una spia del Vaticano. Nel 1952 pubblicò il pamphlet ‘I nemici rimangono gli stessi’, su una presunta alleanza tra il movimento di resistenza anti-comunista polacco e i criminali di guerra nazisti. Nel 1992 era stato nominato inviato speciale dell’Onu nell’ex Jugoslavia, dove ha partecipato attivamente alla battaglia per i diritti umani prima di dimettersi nel 1995, lamentando la mancanza di un intervento internazionale contro le atrocità in Bosnia-Erzegovina. La Comunità di Sant’Egidio lo ricorda come “uomo di fede e di visione, che fu amico e collaboratore di Giovanni Paolo II in una fase cruciale della storia del suo Paese e dell’Europa. Tadeusz Mazowiecki ha lasciato un segno importante nella storia europea e sarà ricordato per la sua dedizione alla pace, al dialogo, alla giustizia sociale e alla diffusione della democrazia". (R.P.)
Il cardinale Marx: occorre approfondire la nostra identità europea
◊ “Mi sembra giunto il momento di guardare a noi stessi e pensare a come possiamo svolgere al meglio i compiti e le richieste che ci sono state affidate”: così scrive Reinhard Marx, cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga e presidente della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece), nell’introduzione al Rapporto annuale della Comece, ripreso dall'agenzia Sir. È infatti “mutato in questi ultimi anni l’ambiente in cui lavoriamo”, benché “ruolo, obiettivi, missione, modo di lavorare” della Comece siano andati chiarificandosi e consolidandosi. Il cambiamento più radicale è legato alla “espansione geografica” dell’Ue che ha portato con sé anche a una “provvisoria definizione” della cornice legislativa europea. La crisi economica, secondo il cardinale, pone però la domanda se “questi Trattati siano ancora adeguati alle esigenze e garantiscano gli strumenti necessari alle istituzioni” per svolgere il proprio ruolo o se non sia necessario un ulteriore approfondimento dell’Unione. Per altro verso, scrive il presidente dell’organismo ecclesiale, il cambiamento chiede ai vescovi della Comece, che sperimentano “una doppia tensione” come “delegati delle rispettive conferenze episcopali” e “membri di un insieme europeo”, di “approfondire la nostra identità europea ancora di più e, in un cambiamento di prospettiva, sviluppare in modo coerente una visione europea”. La Comece permette “alle Conferenze episcopali in Europa di impegnarsi congiuntamente e in maniera coordinata con le istituzioni dell’Ue”, in un “rapporto positivo”, si legge nel Rapporto della Commissione dei vescovi europei. Analizzare ed elaborare informazioni sulle politiche dell’Ue “per consentire alle Conferenze episcopali di prendere parte attiva nel processo d’integrazione europea” e “prendere posizione sui temi di attualità dell’Unione” sono in sintesi i compiti della Comece. Al centro dell’attenzione le sfide sociali ed etiche interpretate sulla base della dottrina sociale cattolica. Tutto ciò si è tradotto nel 2012 in una vasta gamma di attività: gli appuntamenti delle assemblee plenarie (che hanno portato al cambio di presidente, dall’olandese Van Luyn al tedesco Marx e di segretario, dal polacco Mazurkyewicz all’irlandese Daly); le riflessioni dei quattro gruppi di lavoro su questioni sociali, migrazioni, bioetica e affari legali; i dialoghi con le istituzioni (incontri con le due presidenze del Consiglio europeo 2012, summit annuale dei capi religiosi e seminari in collaborazione con le istituzioni). Lungo anche l’elenco delle prese di posizione, dei documenti prodotti e dei contatti intrattenuti. Il rapporto è consultabile online su www.comece.eu. (R.P.)
Bangladesh. Esplode la violenza pre-elettorale: 5 morti e oltre 500 feriti
◊ Cinque morti - tra cui un ragazzo di 16 anni - e oltre 500 di feriti: è il bilancio provvisorio del primo giorno di hartal, lo sciopero, indetto dall'opposizione in Bangladesh per chiedere la creazione di un governo ad interim che organizzi le nuove elezioni generali nel gennaio 2014. Iniziato ieri, lo sciopero si concluderà domani e rischia di mettere a ferro e fuoco il Paese: esplosioni, atti di vandalismo, blocchi stradali, incendi dolosi e scontri (anche con la polizia e l'esercito) si sono già verificati in almeno 19 distretti. Nelle città molti esercizi commerciali e scuole sono rimasti chiusi. Finora i militanti pro-hartal hanno danneggiato 45 veicoli, 22 negozi e due ospedali in tutto il Paese. Negli ultimi mesi almeno 250 persone hanno perso la vita in scontri e violenze di natura politica, come quello in corso. Khaleda Zia, leader del Bangladesh Nationalist Party (Bnp, primo partito dell'opposizione), ha annunciato l'hartal il 25 ottobre scorso con il sostegno del Jamaat-e-Islami, partito fondamentalista islamico. Obiettivo dello sciopero era di spingere Sheikh Hasina, primo ministro e guida dell'Awami League (partito laico), a dimettersi e formare un governo ad interim - i cui membri non fanno parte di alcun partito, né sono in corsa per il voto - che ha 90 giorni per organizzare le elezioni. Nel 2011 però la premier ha deciso di abolire questo organismo, con il 15° emendamento della Costituzione. Dopo l'annuncio dell'hartal ci sono stati scontri tra attivisti politici (sostenitori di Bnp, Jamaat e Awami) e polizia, culminati con la morte di sette persone e oltre 300 feriti. Gli uccisi erano tutti sostenitori dell'opposizione. In seguito alle violenze, Hasina ha tentato di bloccare l'hartal invitando Zia a cena. L'incontro non è avvenuto, ma le due hanno avuto un colloquio telefonico di 40 minuti: il primo contatto tra le leader in oltre un decennio, che però non ha risolto nulla. Hasina si è rifiutata di dimettersi, proponendo invece una commissione composta da rappresentanti di ogni fazione politica, da lei presieduta. Zia (già due volte primo ministro) ha definito la proposta "illegale", confermando l'hartal. Per quasi 20 anni la politica del Bangladesh è stata ostaggio dell'aspra rivalità tra Hasina e Zia, note come le "begum battagliere". Begum è un titolo onorifico per le donne musulmane di alto rango. Il braccio di ferro tra le due leader rischia di portare gravi conseguenze sulla popolazione. La situazione sembra già troppo tesa per andare al voto senza un governo apartitico. E quanto sta accadendo ricorda il 2007/2008, quando venne imposto lo Stato d'emergenza e il potere venne affidato a un governo ad interim sostenuto dall'esercito. Di fatto, per quasi due anni il Bangladesh rimase in una fase di stallo, in cui diritti civili e politici vennero sospesi. Al contempo, preoccupa l'alleanza tra Bnp e Jamaat. La corruzione dilagante nell'Awami potrebbe portare alla vittoria il partito nazionalista, facendo così guadagnare potere anche ai fondamentalisti islamici. (R.P.)
Congo. Nord Kivu: l'esercito riconquista tre importanti località. Scoperte fosse comuni
◊ In tre giorni di intensi scontri in Nord Kivu, le forze armate congolesi (Fardc) hanno riconquistato tre importanti località finora sotto il controllo dei ribelli del Movimento del 23 marzo (M23). Nelle ultime ore colpi d’arma da fuoco si sono fatti sentire a Rubare, dove le ostilità sarebbero ancora in corso. Gli ultimi sviluppi sul fronte dei combattimenti sono stati riferiti dall’emittente locale Radio Okapi che cita il portavoce dell’esercito nella provincia, il colonnello Olivier Hamuli. Dopo Kibumba e Kiwanja, anche Rutshuru è tornata sotto il controllo governativo. I soldati di Kinshasa - riferisce l'agenzia Misna - sono stati accolti in un clima di festa e sollievo dalle popolazioni di questi tre centri. Secondo Hamuli l’M23 “non ha opposto grande resistenza” e la ribellione sarebbe “molto indebolita”. Dal canto suo la dirigenza del gruppo ribelle, creato nel 2012, ha dichiarato di “rifiutarsi di combattere” e avrebbe deciso di “ritirarsi da Kiwanja, per lasciarne il controllo alle forze della Monusco (locale missione Onu)”. L’M23 ha poi avvertito che si ritirerà definitivamente dai colloqui di pace di Kampala – sospesi il 21 ottobre – in caso di “mancata cessazione immediata delle ostilità”, minacciando di “attuare una contro-offensiva su vasta scala contro le posizioni nemiche”. Proprio a Kiwanja, 70 km a nord del capoluogo regionale di Goma, occupata da un anno, un Casco blu tanzaniano è rimasto ucciso e numerosi saccheggi sono stati denunciati nei combattimenti dello scorso fine settimana. La Monusco ha confermato che dopo gli scontri a Kiwanja, “alcuni combattenti dell’M23 hanno deposto le armi e si sono arresi nelle basi dell’Onu nel territorio di Rutshuru”. Da Kibumba, 25 km a nord di Goma, località dove gli scontri sono cominciati venerdì scorso, il governatore regionale Julien Paluku ha annunciato la scoperta di due fossi comuni, chiedendo l’apertura di un’inchiesta internazionale per “identificare e punire i responsabili”. Rifugiatesi nel vicino parco del Virunga, centinaia di persone hanno cominciato a rientrare a Kibumba; in soccorso degli sfollati la Monusco ha aperto un corridoio umanitario. Nei giorni scorsi si sono anche riaccesi i toni del confronto politico-militare tra Kinshasa e Kigali dopo che alcuni ordigni siano caduti in territorio ruandese. “Se ciò dovesse ancora accadere, passeremo all’azione senza aspettare. I soldati ruandesi sono pronti ad attuare un’operazione mirata in territorio congolese” ha dichiarato l’ambasciatore ruandese all’Onu, Eugène Richard Gasana. Di fronte alla nuova escalation di violenza nella ricca ed instabile provincia minerarie dal Nord Kivu, il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrebbe convocare già oggi una riunione d’urgenza sulla situazione nell’est della Repubblica Democratica del Congo. (R.P.)
Mazara del Vallo: mons. Mogavero visita accampamento con 500 migranti
◊ L’accampamento di 500 migranti subsahariani a contrada Erbe Bianche, a Campobello di Mazara, “è un’offesa non per loro ma per noi”: lo ha detto il vescovo di Mazara del Vallo mons. Domenico Mogavero, dopo la visita di ieri sera (non programmata) alla tenda/presidio medico della Croce rossa italiana a Campobello di Mazara. L’iniziativa della tenda/presidio medico è partita da migranti, volontari, Cri e associazioni, tra cui l’Agesci e il movimento “Campobello Comune Virtuoso”. A Campobello è già attivo da alcune settimane un coordinamento di associazioni e volontari, al quale collaborano anche tutte le Caritas cittadine. “L’accampamento? È peggio di una bidonville - ha detto il vescovo -. E’ una realtà dove il livello di vita è subumano ed è un offesa non per loro, è un’offesa per noi. Non possiamo consentire che in un Paese civile, con una tradizione umanitaria e religiosa, possano succedere queste cose”. “C’è un protagonismo civile e civico - ha proseguito -, che di fronte ad un problema umanitario non reagisce in maniera istintiva dando sfogo al mal di pancia ma s’immedesima. Lì dove può fare qualcosa, sollecita le istituzioni perché vengano appresso alla buona volontà ed alla generosità della gente”. Il vescovo ha dato l’ok alla Fondazione San Vito Onlus per la concessione gratuita della tenda, mentre un privato cittadino ha messo a disposizione il recinto della proprietà privata, fornendo anche luce e acqua. (R.P.)
Messico-Guatemala: l'impegno dei vescovi per il sostegno ai migranti
◊ Il vescovo della diocesi di Córdoba (Messico), mons. Eduardo Patino Leal, e quello della diocesi di Huehuetenango (Guatemala), mons. Alvaro Leonel Ramazzini Imeri, si sono incontrati questo fine settimana a Córdoba per trattare il delicato tema dell’emigrazione. Secondo la nota pervenuta a Fides, durante la celebrazione eucaristica nella cattedrale dell'Immacolata, entrambi i vescovi hanno parlato ai presenti sul rispetto della dignità umana della popolazione migrante. Dopo la messa hanno quindi illustrato le iniziative e gli sforzi del governo messicano per incoraggiare lo sviluppo e l'occupazione nelle comunità con un grande numero di popolazione emigrante. Il vescovo di Huehuetenango, conosciuto per il suo impegno sociale e per la difesa dei migranti, ha visitato Cordoba per condividere la propria esperienza riguardo a questioni complesse come l’emigrazione e la prostituzione. Dal momento che Córdoba è diventato il punto di passaggio per gli emigranti verso gli Stati Uniti, il vescovo mons. Eduardo Patino Leal si è preoccupato di sensibilizzare la popolazione sul rispetto dei migranti, e sulla necessità di dare loro sostegno spirituale e aiuto materiale, perché molti arrivano qui senza cibo, senza soldi e senza indumenti di ricambio. Durante la conferenza, i due vescovi hanno invitato le forze dell'ordine a rispettare i diritti dei migranti, in quanto "dovrebbero essere loro i primi a garantire la sicurezza per i senza documenti, a proteggere e a non violare i loro diritti umani". Mons. Alvaro Ramazzini ha inoltre sottolineato che il fenomeno dell’emigrazione rimarrà tale fino a quando i governi non riusciranno ad assicurare lo sviluppo nel proprio Paese. (R.P.)
India: estremisti indù attaccano i cristiani con l'accusa di "conversioni forzate"
◊ Una assemblea di fedeli cristiani è stata attaccata ieri, da estremisti indù del gruppo radicale “Bajrang Dal” a Kalva, nello Stato indiano di Maharashtra. Come riferisce all'agenzia Fides l’organizzazione “Catholic Secular Forum” (Csf), un gruppo di 35 militanti indù armati di bastoni e spranghe, animati da furore religioso, hanno fatto irruzione nella sala della comunità protestante “Assemblea di Dio”, iniziando a saccheggiare e colpire in modo indiscriminato i fedeli presenti, accusandoli di “conversioni forzate”. Quattro cristiani sono rimasti gravemente feriti e sono stati condotti in ospedale. Come appreso da Fides, alcuni fedeli hanno denunciato l’accaduto alla polizia, che ha arrestato cinque militanti. Il 6 ottobre scorso la stessa sala di preghiera era stata oggetto di un attacco e il Pastore Arul Raj, che guidava la liturgia, era stato duramente picchiato e trascinato alla stazione di polizia con false accuse. Dopo l’episodio, la polizia aveva disposto che due agenti sorvegliassero le celebrazioni, ma i due che erano davanti alla chiesa ieri non hanno potuto fermare la furia degli attaccanti. In una nota inviata a Fides, Joseph Dias, laico cattolico, segretario generale del Csf nota: “Questo è palese un tentativo di polarizzare la società su base religiosa, per motivi puramente politici, in vista delle elezioni generali in India (previste nel 2014, ndr). Chiediamo al Ministro degli Interni del Maharashtra, Raosaheb Ramrao Patil, di garantire protezione alle chiese e alle sale di preghiera cristiane e di punire con severità quanti cercano di innescare un conflitto religioso”. (R.P.)
Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel: rinnovarsi per un servizio migliore ai poveri
◊ La necessità di un rinnovamento della “Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel” perché realizzi nel modo migliore il suo servizio per la lotta alla siccità e alla desertificazione nel Sahel, realizzando nel quotidiano la carità del Papa, è stata messa in luce durante i lavori del Consiglio di amministrazione della Fondazione, che si concludono oggi a Ouagadougou. Secondo la nota pervenuta all’agenzia Fides dalla curia diocesana di Bissau, questa sessione straordinaria si è aperta il 25 ottobre con gli interventi dell’arcivescovo di Ouagadougou, mons. Philippe Ouedraogo; del presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione, mons. Jean-Pierre Bassene, vescovo di Kolda (Senegal); del nunzio apostolico in Burkina-Niger, l’arcivescovo Vito Rallo, e del card. Robert Sarah, presidente di Cor Unum. Nei suoi 30 anni di vita, la Fondazione ha adempiuto alla sua missione di essere “il buon samaritano” per le persone in maggiori necessità dei nove Paesi che abbraccia (Burkina Faso, Capo Verde, Ciad, Gambia, Guinea Bissau, Mali, Mauritania, Níger, Senegal), ora al centro dei lavori di questa riunione, c’è la domanda su quali strade intraprendere per proseguire nel modo migliore il sostegno alle popolazioni povere del Sahel nella loro lotta alla siccità. (R.P.)
Centrafrica: a Bouar scontri tra milizie locali e soldati ex-ribelli
◊ Si è conclusa con almeno 12 morti e un numero imprecisato di feriti l’ultima ondata di violenza nella città occidentale di Bouar. Fonti di stampa locale hanno riferito che alle prime ore del giorno di sabato, uomini delle milizie chiamate anti-balakas (anti-machete) pesantemente armati hanno accerchiato la località di 40.000 abitanti, vitale per il commercio con il vicino Camerun. Bouar, 400 km da Bangui, viene considerata vicina all’ex presidente François Bozizé, destituito con un colpo di Stato della coalizione ribelle Seleka lo scorso 24 marzo, e sostituito da Michel Djotodia. Le componenti di queste milizie di autodifesa, create da contadini e giovani per proteggersi dai ribelli, si sono scontrati alle porte di Bouar, in particolare nella zona dell’aerodromo. In tutto tra 300 e 500 uomini delle milizie hanno combattuto contro soldati dell’esercito, costituito in parte da ex-combattenti Seleka integrati nelle forze armate regolari, causando la fuga di più di 6000 civili rifugiati in una chiesa locale. Nelle ultime settimane - riferisce l'agenzia Misna - la situazione sul piano della sicurezza si è gravemente deteriorata anche a Bouar dove gruppi di ribelli che si rifiutano di disarmare continuano a uccidere, rubare e saccheggiare, spingendo la popolazione ad organizzarsi in milizie. Fonti locali hanno confermato che gli anti-balakas hanno soprattutto colpito esponenti della comunità musulmana, alla quale appartiene la maggioranza dei membri della Seleka e il presidente Djotodia, in un Paese a maggioranza cristiana. A sette mesi dal colpo di Stato, le nuove autorità di transizione non riescono a ristabilire l’ordine nell’ex colonia francese. Se la situazione è in via di miglioramento a Bangui, la capitale, soprattutto grazie al dispiegamento di soldati di altri Paesi africani, si è invece deteriorata nelle regioni occidentali e settentrionali, aggravando ulteriormente la crisi umanitaria. Dicendosi “preoccupati” per il numero crescente di violenze intercomunitarie e interreligiose, i capi di Stato e di governo dei dieci Paesi membri della Comunità economica dell’Africa centrale (Ceeac) hanno ordinato il disarmo forzato dei ribelli, e se necessario con la forza, oltre ad aver chiesto un potenziamento dei mezzi finanziari e logistici per dispiegare altri soldati in tutte le regioni. Sulla carta nelle prossime settimane il Consiglio di sicurezza potrebbe decidere di far passare la missione africana (Misca) di 2500 uomini, già dispiegata, sotto il comando dell’Onu. (R.P.)
Africa occidentale: passi avanti verso l'integrazione. L'urgenza della sicurezza
◊ La creazione di una Tariffa esterna comune (Tec) ai 15 Stati membri della Comunità economica dell’Africa occidentale (Cedeao) come tappa decisiva verso l’integrazione regionale: è questa la principale decisione varata nei giorni scorsi a Dakar, la termine di un vertice straordinario dell’organismo regionale. La riunione è stata definita “storica” dal presidente del Paese ospite, il senegalese Macky Sall. In cima all’agenda del vertice - riferisce l'agenzia Misna - ci sono state questioni economiche e finanziarie, che hanno portato i partecipanti a raggiungere un accordo per l’entrata in vigore, nel 2015, di un’unica tariffa doganale per tutta la regione. “Grazie alla Tec formeremo un blocco commerciale solido e competitivo” ha commentato il presidente ivoriano Alassane Dramane Ouattara. La Tec era prevista dalla nascita della Cedeao, nel 1975. Per completare il dispositivo i capi di Stato hanno approvato anche alcune misure di protezione tra cui una tassa di aggiustamento all’esportazione, una tassa complementare di protezione e un prelievo comunitario di integrazione. A Dakar sono state stilate alcune proposte per accelerare il negoziato di un Accordo di partenariato economico (Ape) regionale che regolamenterà gli scambi commerciali con l’Unione Europea (Ue). In stallo da anni, l’Ape dovrebbe sostituire l’accordo di Cotonou, in vigore dal 2000. Sul piano monetario, sempre in chiave di integrazione, i dirigenti della Cedeao si sono impegnati a creare in tempi brevi una seconda zona monetaria in Africa occidentale, per integrare nell’Unione economica e monetaria ovest-africana (Uemoa) i sette Paesi che finora non ne fanno parte, in vista di una moneta unica comune ai 15. Oltre alle tematiche previste, il vertice di Dakar ha dedicato molta attenzione alla questione della sicurezza. I partecipanti hanno concordato che “è necessario mettere i nostri sforzi e i nostri mezzi in comune per garantire una sicurezza migliore alla regione, dove i terroristi mantengono una certa capacità di destabilizzazione”. Lo ha dichiarato il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou. Nella capitale senegalese i capi di Stato e di governo hanno condannato l’ultimo attentato che ha colpito Tessalit, nel nord del Mali, sottolineando che “la lotta per rendere sicuri i nostri Paesi non è terminata”. I Paesi membri dell’Uemoa hanno deciso di istituire una politica comune di pace e sicurezza, senza fornire però altre precisazioni. Oltre che dal Mali, l’altra fonte di preoccupazione è rappresentato dalla crisi in corso in Guinea Bissau ma anche dalla pirateria marittima che si manifesta con maggior frequenza nel Golfo di Guinea. A Dakar Cedeao, Commissione del Golfo di Guinea e Comunità economica dell’Africa centrale (Ceac) hanno costituito un apposito gruppo di lavoro incaricato di dare vita a una cornice giuridica efficace nella lotta alla pirateria marittima ma anche al banditismo e al traffico di droga. (R.P.)
Sudan: al via referendum nell'Abyei nonostante il "no" di Juba e Khartoum
◊ Migliaia di persone stanno partecipando da ieri a un referendum per l’autodeterminazione di Abyei, un voto però non riconosciuto né dal Sudan né dal Sud Sudan: lo dice all'agenzia Misna mons. Michael Didi Mangoria, vescovo di El Obeid, la diocesi che comprende questa regione petrolifera contesa al confine tra i due Paesi. “Le comunità Dinka stanno partecipando con entusiasmo – sottolinea mons. Mangoria – ma resta da capire quali conseguenze potrà avere un voto deciso in modo unilaterale, non sostenuto né dal governo del Sudan né da quello del Sud Sudan”. Il vescovo aggiunge di sperare che il referendum, convocato da organizzazioni della società civile locale, “non rimetta in discussione” la volontà di Juba e di Khartoum di raggiungere un compromesso su Abyei. Un riferimento, questo, all’impegno per una soluzione negoziata del contenzioso sulla regione ribadito ancora oggi dal presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir e nei giorni scorsi dal suo omologo sud-sudanese Salva Kiir. Il voto, in realtà, qualche tensione l’ha già creata. Il governo di Khartoum ha impedito a una delegazione dell’Unione Africana (Ua) di recarsi ad Abyei, sostenendo di “non voler far coincidere la visita con i preparativi” del referendum. L’organismo continentale, impegnato in un complesso tentativo di mediazione, aveva accusato il Sudan di ostacolare il proprio lavoro e chiesto “una piena cooperazione con l’obiettivo di risolvere la situazione ad Abyei”. Secondo i rappresentanti delle comunità Dinka, le votazioni andranno avanti per tre giorni e i risultati saranno diffusi giovedì. Prevista dagli accordi che nel 2005 misero fine alla guerra civile ma già rinviata una prima volta nel 2011, l’anno dell’indipendenza del Sud Sudan, la consultazione in teoria consentirebbe di decidere se Abyei e i suoi giacimenti saranno controllati da Juba o da Khartoum. Finora il voto non si era tenuto per i contrasti sull’identificazione degli aventi diritto: solo i residenti Dinka, come vorrebbe il Sud, o anche i pastori arabi Misseriya, che si spostano nella regione solo alcuni mesi l’anno e che sono alleati di Khartoum. (R.P.)
Somalia, raid della polizia: chiuse Radio Shabelle e Sky Fm
◊ La polizia somala ha sequestrato i locali di Radio Shabelle a Mogadiscio, l’emittente indipendente più nota del Paese e dell’intero Corno d’Africa interrompendone la programmazione. La notizia – diffusa dagli stessi giornalisti – ha già provocato polemiche e critiche a quello che appare a tutti gli effetti l’ennesimo colpo alla libertà di informazione nel paese. Almeno sei giornalisti, riferiscono le altre fonti di informazione nella capitale, riprese dall'agenzia Misna, sono stati arrestati nel corso del raid, avvenuto ieri, e con cui la polizia politica ha determinato anche la chiusura di Sky Fm Radio, emittente gemella, che aveva sede nello stesso stabile. Il ministro degli Interni, Abdikarin Hussein Guled, intervenuto sulla vicenda, ha dichiarato che la sede dell’emittente era stata occupata abusivamente e che i locali dovranno ritornare ad ospitare la redazione della radio pubblica. Un’accusa smentita dai responsabili del network che dicono di aver ottenuto l’utilizzo della struttura previo accordo con il precedente governo. I resoconti sulla vicenda forniti oggi dalle testate somale riferiscono che gli studi dell’emittente sarebbero stati saccheggiati e le attrezzature e i computer dei giornalisti “sequestrati”. Un numero imprecisato di reporter, hanno raccontato i testimoni, “sono stati forzati a salire su dei camion e portati al dipartimento di investigazione criminale (Cig) della capitale”. Anche l’editore di entrambe le stazioni radio, Abdi Malik Yusuf Mohamud, è stato tratto in arresto. Intanto, dalla capitale somala, è giunta anche la notizia della morte di Mohammed Mohamoud Timacade, un corrispondente della somala Universal Tv, basata a Londra, gravemente ferito da un commando armato all’inizio della scorsa settimana. Il reporter è deceduto all’ospedale Medina, dove era stato ricoverato dopo l’agguato. Il suo decesso porta a sette il numero dei reporter uccisi in Somalia dall’inizio del 2013. Nessuno dei responsabili di queste morti è stato finora assicurato alla giustizia. (R.P.)
Tragedia dell’immigrazione: 35 morti nel deserto tra Niger e Algeria
◊ E’ di almeno 35 migranti nigerini morti di sete il bilancio di una nuova tragedia dell'immigrazione, nel deserto tra Niger e Algeria. Il camion su cui viaggiavano i migranti si è bloccato nel deserto, per un guasto. Al momento, informa una fonte della polizia locale, sono stati trovati i cadaveri di due donne e tre adolescenti. Diciannove i superstiti. (A.G.)
Angola: profanata la statua di Nostra Signora di Muxima. La condanna del vescovo
◊ “Un’azione perpetrata in modo freddo e vigliacco”. Così mons. Joaquim Ferreira Lopes, vescovo di Viana, descrive la profanazione del santuario di Muxima, in Angola. Secondo Radio Ecclesia (l’emittente della Chiesa angolana), ieri, 6 persone non identificate hanno vandalizzato e distrutto alcune immagini della Madonna venerate nel santuario. “Per fortuna la statua dell’immagine principale di Nostra Signora di Muxima ha subito danni limitati, ma altre immagini sono irrecuperabili perché sono state barbaramente distrutte” ha affermato il vescovo. Il grave atto vandalico è stato commesso proprio nel giorno di chiusura dell’Anno della Fede in Angola. Appresa la notizia alcune centinaia di fedeli si sono radunate di fronte al santuario per protestare. Mons. Lopes ha invitato tutti a mantenere la calma ma ha sottolineato che oltre ai danni materiali, le autorità devono tenere conto “dei danni meno visibili, quelli morali che colpiscono il cuore delle persone che provocano ira e rabbia nella popolazione, che si sente privata di simboli a cui è molto devota”. Le autorità hanno annunciato un’inchiesta e il ricorso a dei specialisti per riparare i danni subiti dalla statua della Vergine. Secondo notizie di stampa la polizia ha fermato alcune persone appartenenti alla confessione evangelica chiamata "Chiesa profetica dell'arca di Betlemme” e sta valutando la loro posizione in relazione all’atto di profanazione. I vescovi angolani hanno espresso in più occasioni preoccupazione per l’aumento delle sette e per il forte incremento di immigrati di religione musulmana nel Paese. Una preoccupazione rilanciata al termine della loro ultima Assemblea plenaria da mons. Manuel Imbamba arcivescovo di Saurimo e portavoce della Ceast, che in un’intervista a radio Ecclesia ha affermato che la Chiesa cattolica non può impedire l'ingresso di altre religioni nel Paese, ma ha sottolineato che non si possono ignorare “le gravi conseguenze” per l’arrivo di forme religiose contraddistinte “dall’intolleranza, dal fondamentalismo, dalla violenza e dalla perversione della loro stessa cultura”. Ricordando che vi sono Paesi che finanziano l'espansione dell'Islam per fini politici, mons. Imbamba ha concluso: "Dobbiamo stare in guardia contro queste situazioni, anche guardando alle situazioni di violenza in Nigeria, nella Repubblica Centrafricana e in Medio Oriente”. (R.P.)
Costa Rica: le famiglie in difesa della vita, primo diritto umano
◊ In concomitanza con la Giornata della Famiglia, celebrata il 26 e 27 ottobre a Roma in occasione dell'Anno della Fede, presieduta da Papa Francesco, si è svolto a San José di Costa Rica il "Primo Congresso nazionale per la vita e la famiglia". Sotto gli auspici della Conferenza episcopale, attraverso la Commissione nazionale per la pastorale della famiglia e l'Associazione per la Vita, l’incontro si è tenuto presso la sede della Conferenza episcopale, a San José. Le informazioni pervenute all’agenzia Fides riportano che le conferenze hanno avuto come slogan comune "E' ora di agire!", sollecitando "un'azione concreta per respingere le pressioni contro il primo diritto umano: il diritto alla vita". L’evento, che ha visto un’ampia partecipazione di persone e l'intervento di esperti "Pro-vita" di tutta l'America latina, è parte di un ampio progetto proposto dalla Commissione nazionale per la pastorale della famiglia insieme al Dipartimento “Famiglia, Vita e Gioventù” del Celam, che prevede una serie di incontri regionali e nazionali con l'obiettivo di "promuovere la famiglia come casa e scuola di comunione e modello di vita per la società". Il progetto dovrà realizzare dal 2013 al 2015 in ogni nazione. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 301