![]() | ![]() |

Sommario del 14/10/2013
Il Papa: il mondo soffoca, serve l’ossigeno del Vangelo annunciato con gesti più che parole
◊ L’annuncio del Vangelo passa oggi per la testimonianza di vita, prima che di parole, portata nel mondo da persone “credibili”, in grado di parlare come Gesù il linguaggio della misericordia. Lo ha affermato Papa Francesco, che ha ricevuto stamattina in udienza i partecipanti alla plenaria del dicastero Nuova evangelizzazione, guidati dall’arcivescovo Rino Fisichella. Il servizio di Alessandro De Carolis:
L’immagine simbolo Papa Francesco se la riserva alla fine: oggi ci sono bambini che neanche sanno farsi il segno della Croce. È un segno dell’analfabetismo religioso attuale che non ha bisogno di commenti. È con questa coscienza che il Papa parla della “nuova evangelizzazione”, un servizio da lui inteso in tre punti: primato della testimonianza, urgenza dell’andare incontro, progetto pastorale centrato sull’essenziale. La testimonianza, “specialmente di questi tempi”, ha bisogno – dice – di “testimoni credibili” che “con la vita” “rendano visibile il Vangelo”, e “risveglino l’attrazione per Gesù Cristo, per la bellezza di Dio”:
“Tante persone si sono allontanate dalla Chiesa. E’ sbagliato scaricare le colpe da una parte o dall’altra, anzi, non è il caso di parlare di colpe. Ci sono responsabilità nella storia della Chiesa e dei suoi uomini, ce ne sono in certe ideologie e anche nelle singole persone. Come figli della Chiesa dobbiamo continuare il cammino del Concilio Vaticano II, spogliarci di cose inutili e dannose, di false sicurezze mondane che appesantiscono la Chiesa e danneggiano il suo volto”.
Papa Francesco spiega poi lo stile con cui annunciare il Vangelo, che è quello richiesto ai suoi frati da Francesco di Assisi: parlare al mondo che non conosce Gesù, o che gli è indifferente, con “il linguaggio della misericordia, fatto di gesti e di atteggiamenti prima ancora che di parole”:
“Ogni battezzato è ‘cristoforo’, cioè portatore di Cristo, come dicevano gli antichi Padri. Chi ha incontrato Cristo, come la Samaritana al pozzo, non può tenere per sé questa esperienza, ma sente il desiderio di condividerla, per portare altri a Gesù. C’è da chiedersi tutti se chi ci incontra percepisce nella nostra vita il calore della fede, vede nel nostro volto la gioia di avere incontrato Cristo!”.
Il secondo punto riguarda “l’andare incontro agli altri”. Anche qui, Papa Francesco rilancia uno dei verbi chiave del suo magistero: uscire. È la vocazione del cristiano. Uscire verso gli altri, dialogare con tutti, che abbiano o meno fede, “senza paura e senza rinunciare – ripete il Papa – alla nostra appartenenza”:
“La Chiesa è inviata a risvegliare dappertutto questa speranza, specialmente dove è soffocata da condizioni esistenziali difficili, a volte disumane, dove la speranza non respira, soffoca. C’è bisogno dell’ossigeno del Vangelo, del soffio dello Spirito di Cristo Risorto, che la riaccenda nei cuori. La Chiesa è la casa in cui le porte sono sempre aperte non solo perché ognuno possa trovarvi accoglienza e respirare amore e speranza, ma anche perché noi possiamo uscire a portare questo amore e questa speranza. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire dal nostro recinto e ci guida fino alle periferie dell’umanità”.
Ma imboccare la strada delle periferie non vuol dire una pastorale fatta alla cieca. La Chiesa non lascia un progetto pastorale “al caso, all’improvvisazione”. Soprattutto, non lo formula in alcun modo che non “richiami l’essenziale” e non sia “ben centrato sull’essenziale, cioè – asserisce Papa Francesco – su Gesù Cristo”:
“Non serve disperdersi in tante cose secondarie o superflue, ma concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, con la sua misericordia, col suo amore e l’amare i fratelli come Lui ci ha amato. Un incontro con Cristo che anche è adorazione, parola poco usata. Adorare Cristo! Un progetto animato dalla creatività e dalla fantasia dello Spirito Santo, che ci spinge anche a percorrere vie nuove, con coraggio, senza fossilizzarci!”.
L’ultimo pensiero è un grazie ai catechisti. Il loro, osserva Papa Francesco, “è un servizio prezioso per la nuova evangelizzazione” ed “è importante – aggiunge – che i genitori siano i primi catechisti, i primi educatori della fede nella propria famiglia con la testimonianza e con la parola”.
◊ Bisogna combattere la “sindrome di Giona” che ci porta all’ipocrisia di pensare che per salvarci bastino le nostre opere. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha messo in guardia da “un atteggiamento di religiosità perfetta”, che guarda alla dottrina ma non si cura della salvezza della “povera gente”. Il servizio di Alessandro Gisotti:
La “sindrome di Giona” e il “segno di Giona”. Papa Francesco ha incentrato la sua omelia su questo binomio. Gesù, ha osservato, parla nel Vangelo odierno di “generazione malvagia”. E’ molto forte la sua parola. Ma, ha avvertito il Papa, non si riferisce alla gente “che lo seguiva con tanto amore”, bensì ai “dottori della legge” che “cercavano di metterlo alla prova e farlo cadere in trappola”. Questa gente, infatti, “gli chiedeva segni” e Gesù risponde che solo gli verrà dato “il segno di Giona”. C’è però, ha ammonito Papa Francesco, anche la “sindrome di Giona”. Il Signore gli chiede di andare a Ninive e lui fugge in Spagna. Giona, ha detto, “aveva le cose chiare”: “la dottrina è questa”, “si deve fare questo” e i peccatori “si arrangino, io me ne vado”. Quelli che “vivono secondo questa sindrome di Giona”, ha aggiunto il Pontefice, Gesù “li chiama ipocriti, perché non vogliono la salvezza” della “povera gente”, degli “ignoranti” e “peccatori”:
“La ‘sindrome di Giona’ non ha lo zelo per la conversione della gente, cerca una santità – mi permetto la parola – una santità di ‘tintoria’, tutta bella, tutta benfatta, ma senza quello zelo di andare a predicare il Signore. Ma il Signore di fronte a questa generazione ammalata dalla ‘sindrome di Giona’ promette il segno di Giona. L’altra versione, quella di Matteo, dice: Giona è stato dentro la balena tre notti e tre giorni, riferimento a Gesù nel sepolcro – alla sua morte e alla sua Risurrezione – e quello è il segno che Gesù promette, contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei”.
C’è una parabola nel Vangelo, ha soggiunto il Pontefice, che dipinge benissimo questo aspetto: quella del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio. Il fariseo, “tanto sicuro di se stesso”, davanti all’altare ringrazia Dio per non essere come il pubblicano che invece solo chiede la pietà del Signore, riconoscendosi peccatore. Ecco allora che “il segno che Gesù promette per il suo perdono, tramite la sua morte e la sua Risurrezione”, ha detto il Papa, “è la sua misericordia”: “Misericordia voglio e non sacrifici”:
“Il segno di Giona, il vero, è quello che ci dà la fiducia di essere salvati per il sangue di Cristo. Quanti cristiani, quanti ce ne sono, pensano che saranno salvati soltanto per quello che loro fanno, per le loro opere. Le opere sono necessarie, ma sono una conseguenza, una risposta a quell’amore misericordioso che ci salva. Ma le opere sole, senza questo amore misericordioso non servono. Invece, la ‘sindrome di Giona’ ha fiducia soltanto nella sua giustizia personale, nelle sue opere”.
Gesù parla dunque di “generazione malvagia” e “alla pagana, alla regina di Saba, quasi la nomina giudice: si alzerà contro gli uomini di questa generazione”. E questo, ha evidenziato, “perché era una donna inquieta, una donna che cercava la saggezza di Dio”:
“Ecco, la ‘sindrome di Giona’ ci porta alla ipocrisia, a quella sufficienza, ad essere cristiani puliti, perfetti, ‘perché noi facciamo queste opere: compiamo i comandamenti, tutto’. E’ una grossa malattia. E il segno di Giona, che la misericordia di Dio in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, per la nostra salvezza. Sono due parole nella prima lettura che si collegano con questo. Paolo dice di se stesso che è apostolo non perché ha studiato questo, no: apostolo per chiamata. E ai cristiani dice: ‘Siete voi chiamati da Gesù Cristo’. Il segno di Giona ci chiama: seguire il Signore, peccatori, siamo tutti, con umiltà, con mitezza. C’è una chiamata, anche una scelta”.
“Approfittiamo oggi di questa liturgia – ha concluso il Papa – per domandarci e fare una scelta: cosa preferisco io? La sindrome di Giona o il segno di Giona?”
Papa Francesco riceve il direttore generale dell’Oim, William Lacy Swing
◊ Papa Francesco ha incontrato nel corso della mattinata, in successive udienze, il direttore generale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), William Lacy Swing, con la consorte, e il seguito, il cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa, l’arcivescovo Leo Boccardi, nunzio apostolico in Iran, l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinario militare emerito per l’Italia, e mons. Fernando Panico, vescovo di Crato, in Brasile.
◊ Papa Francesco ha nominato il cardinale arcivescovo di Esztergom-Budapest, Péter Erdő, e l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, rispettivamente relatore generale e segretario speciale della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si terrà in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014, sul tema “Le sfide della famiglia nel contesto della evangelizzazione”.
Presentato il Cortile dei Gentili di Berlino. Mons. Zollitsch: "Indagine sul vescovo di Limburg"
◊ Esperienze di libertà, con e senza Dio. Questo il tema della tappa tedesca, Berlino dal 26 al 28 novembre prossimo, del Cortile dei Gentili, la struttura del Pontificio Consiglio della Cultura voluta da Benedetto XVI per il dialogo con i non credenti. L’evento è stato presentato oggi in Sala Stampa Vaticana dal presidente della Conferenza Episcopale Tedesca mons. Robert Zollitsch che ha anche rilasciato una dichiarazione sul caso del vescovo di Limburg, accusato dai fedeli di spese eccessive per la costruzione del centro diocesano. Il servizio è di Paolo Ondarza:
Dopo Parigi, Stoccolma, Barcellona tocca ad un’altra città che si confronta con la secolarizzazione: Berlino. Credenti e non credenti dialogheranno sul tema della libertà nella metropoli che di libertà ha fatto esperienze particolari già prima della Caduta del Muro e della Rivoluzione pacifica del 1989, come ricordato da mons. Robert Zollitsch:
"Es geht um die Tiefe des ethischen Humanismus..."
Il presidente dei vescovi tedeschi ha elencato le tematiche attorno a cui si snoderà il dialogo: l’umanesimo etico, la grandezza della fede in Dio, la libertà dell’arte e della bellezza, la grazia e la dignità della natura umana e della devozione. Una la domanda di partenza:
"Ist Gott Grund und Bestimmung menschlicher Freiheit oder ihr größter Feind und Gegner?..."
È Dio fondamento e destinazione della libertà dell’uomo o il suo più grande nemico e avversario? Ovvero: la fede in Dio riduce la libertà o la rende possibile? A partire da questa domanda si tenterà la risposta di un umanesimo etico capace di oltrepassare i pregiudizi storici tra atei e credenti.
"Schon lange stehen sich nicht mehr einfachhin klare Fronten von Atheisten und Glaubenden gegenüber, in deren Begegnung…"
“Da molto tempo – ha detto mons. Zollitsch - atei e credenti non si trovano più su fronti contrapposti. Ora si tratta di cessare di raccontare falsità gli uni sugli altri, di comprendere meglio le vite degli altri, i gesti e la realizzazione delle loro libertà”.
A La Charitè, uno degli ospedali più famosi in Europa si affronterà il rapporto scienza-etica. Anche qui una domanda: l’uomo è creatura creativa di Dio o designer di se stesso? Quindi il rapporto fede-arte, religione sul palcoscenico: tra rispetto, blasfemia e libertà artistica, sarà trattato nel’incontro in programma al Deutsches Theater di Berlino. Al Bode Museum invece la suggestiva rappresentazione del dialogo tra credenti e non attraverso due processioni di giovani che trovano un punto di incontro. L’obbiettivo del Cortile è stato così sintetizzato da mons. Zollitsch:
"Dem „Vorhof der Völker“ geht es darum…"
Il Cortile dei Gentili vuol mostrare la ricchezza e la profondità della fede cattolica, esprimere stima per le posizioni dei non credenti, ma anche vedere nella fede le tracce dell’incredulità. In attesa di Berlino, come riferito da padre Laurent Mazas, già si lavora ai prossimi Cortili: in Repubblica Ceca, a Washington nel mese di Aprile, e di nuovo a Roma dove ci si interrogherà su solidarietà etica laica e religiosa. Interrogato sul "Cortile dei giornalisti" a cui ha fatto seguito l’intervista concessa da Papa Francesco ad Eugenio Scalfari, il direttore della Sala Stampa Vaticana padre Federico Lombardi ha ribadito:
"Il senso del dialogo - come è stato riportato da Scalfari - è approvato e quindi sostanzialmente fedele".
A conclusione della conferenza stampa mons. Zollitsh ha rilasciato una dichiarazione in merito al caso del vescovo di Limburg, Franz-Peter Tebartz-van Elst, accusato dai fedeli di spese eccessive. Il presidente dei vescovi tedeschi spiega di voler far luce su questa vicenda rapidamente e informa di aver scritto al Papa con il quale parlerà personalmente; confermata l’esistenza di una commissione di esperti interni ed esterni, incaricata di indagare sul caso contestato a mons. Tebartz van Elst. Al termine dei lavori, il cui inizio è previsto questa settimana, verrà pubblicato un rapporto.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Nelle mani di Maria: in piazza San Pietro il Pontefice ha rinnovato l'atto di affidamento alla Madonna di Fatima.
L'ossigeno del Vangelo: Papa Francesco indica al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione come rinvigorire l'annuncio.
Imitatori di Cristo che ci "primerea" nell'amore: videomessaggio del Papa per la beatificazione dei 522 martiri spagnoli a Tarragona.
Aiuto e protezione per i migranti: intervista di Pierluigi Natalia al direttore generale dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni, William Lacy Swing.
Agguato mortale ai caschi blu nel Darfur.
Svolta sociale per la Banca mondiale: previsto il varo di nuovi programmi per combattere la povertà.
Siria: autobomba fa 20 morti a Idlib. Più lontana la Conferenza di pace "Ginevra 2"
◊ Ennesima giornata di sangue in Siria. Almeno 20 persone sono rimaste uccise in seguito all'esplosione di un'autobomba a Idlib, nell’area nordoccidentale del Paese. Ancora nessuna notizia, invece, dei sette operatori della Croce Rossa Internazionale, rapiti ieri nella stessa regione. Nel frattempo, è impasse nell’azione diplomatica internazionale dopo che il Consiglio nazionale siriano, il gruppo più importante di opposizione al regime all'interno della coalizione nazionale, ha deciso di non partecipare alla Conferenza di pace "Ginevra "2 e anzi minaccia di ritirarsi dalla coalizione se questa deciderà di aderire alla Conferenza. Una posizione netta, che preoccupa la Russia. Il ministro degli Esteri di Mosca, Sergej Lavrov, ha chiesto agli Stati Uniti di convincere l'opposizione che lotta contro il regime di Bashar el Assad a partecipare alla Conferenza. Da parte sua, il segretario di Stato americano, John Kerry, incontrando a Londra l'inviato di Onu e Lega Araba sulla crisi siriana, Lakhar Brahimi, ha sottolineato che "è urgente fissare una data" per la Conferenza di pace "Ginevra 2" come primo passo per "lavorare a una nuova Siria". Su questa situazione di stallo, Salvatore Sabatino ha intervistato Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana difesa:
D. – Credo siamo di fronte all’ennesimo indicatore di ciò che oggi costituisce la cosiddetta “opposizione siriana”, realtà che ha una struttura sostanzialmente bicefala: c’è una leadership politica che vive all’estero – per altro in lussuosi alberghi turchi – che rappresenta sé stessa e il proprio portafoglio. Dall’altra, abbiamo una serie di realtà militari che ormai – è bene dirlo, lo sappiamo tutti – sono sempre più islamiste, sempre più infiltrate da soggetti radicali che combattono sul terreno e che realmente sono l'opposizione a Damasco. Per cui, non credo ci sia nulla di nuovo sul terreno dopo l’accordo tra Stati Uniti e Russia sulle armi chimiche. Lì, la guerra continua esattamente come prima. Gli scontri vanno avanti in tutte le principali città siriane. Credo non ci sia sostanzialmente niente di nuovo e non mi stupisco che si arrivi ad un esito del genere rispetto alla cosiddetta "Ginevra 2".
R. – Forse, anche per questo la coalizione, così divisa al suo interno, non riesce poi a conquistare quella che è la fiducia della comunità internazionale…
D. – La comunità internazionale si è affidata a questa coalizione nazionale siriana che – ripeto – è un soggetto politico ma che è completamente disarticolato rispetto a quella che è la realtà militare sul terreno. Per cui, oggi la comunità internazionale si trova di fronte a una situazione assolutamente fuori controllo e per la quale non vale neanche la pena parlare di dialogo o cose del genere…
D. – Tutto questo, ovviamente, fa il gioco di Assad…
R. – Sì, Assad ha portato a casa un risultato molto importante: quello del mancato attacco americano. Peraltro, adesso gli Stati Uniti hanno altri problemi a cui pensare, devono guardare in casa propria dopo la chiusura del governo federale. Per cui, Assad tiene duro e va avanti: sta “sigillando” movimenti armati e focolai di insorgenza in una serie di aree ben precise. Quindi, quello che molti temevano qualche tempo fa – ovvero una balcanizzazione della Siria – è ormai di fatto una realtà sul terreno.
D. – Al di là di tutto, la Conferenza di pace "Ginevra 2" continua a essere un appuntamento importantissimo per poter, almeno nelle intenzioni, voltare pagina nella guerra siriana. Secondo lei, si riuscirà ad organizzarla in qualche modo e quando?
R. – Credo che per fare una cosa coerente, credibile e seria adesso i tempi sul terreno non siano maturi. Probabilmente, tra qualche mese, quando la situazione sul terreno sarà un pò più delineata da un punto di vista militare, si potrà iniziare a parlare di una Conferenza di pace, salvo la presenza di un interlocutore – l’opposizione siriana, l’alleanza islamica nata il 23 settembre – che mal si presta ad una conferenza politica di ampio respiro come sarebbe "Ginevra 2", che le potenze occidentali stanno cercando di organizzare. Su tutto, però, noi paghiamo una cosa molto semplice: il fatto che le potenze occidentali stesse non hanno di fatto una strategia in Siria, non ce l’hanno mai avuta e non credo ce l’avranno neanche nei prossimi mesi.
Iran, nucleare: domani incontro a Ginevra, ottimismo su possibile accordo in 6 mesi
◊ Trovare un accordo sul nucleare iraniano è questione di sei mesi: così esprime ottimismo il viceministro degli Esteri iraniano e capo negoziatore per il nucleare, Abbas Araghci, alla vigilia dell’incontro a Ginevra domani e dopodomani. Si tratta di una riunione a livello ministeriale tra i cinque Paesi membri permanenti dell'Onu, più la Germania, e Teheran. Il segretario di Stato americano, John Kerry, parla di “finestra diplomatica che si apre sempre di più”. L’obiettivo è assicurare un uso esclusivamente civile del nucleare. Fausta Speranza ha intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:
R. – Mi sembra una previsione molto ottimista, soprattutto fatta – e stupisce ancora di più - da un iraniano. Gli iraniani, che avevano sempre tenuto un muro abbastanza alto nei confronti dell’Occidente e degli Stati Uniti, a questo punto fanno un’affermazione del genere. Mi sembra però – lo ripeto – un po’ troppo ottimista, perché i problemi sul tavolo sono molti e sono abbastanza seri.
D. – Parliamo di cosa chiede la comunità internazionale a Teheran e di cosa, fino adesso, Teheran non abbia voluto assolutamente parlare…
R. – Io credo si debba partire da un punto centrale, che è quello del livello di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Da quello che si sa, l’Iran è riuscito ad arricchire l’uranio al 20%. Questo vuol dire che gli non manca tantissimo ad avere un uranio arricchito per la costruzione del primo ordigno nucleare. La richiesta esplicita da parte della comunità internazionale è sicuramente quella di fermare l’arricchimento e far sì che si possa controllare veramente sul campo se il nucleare che ha l’Iran sia soltanto per scopi civili. Questo è il problema centrale.
D. – Il presidente Rohani si presenta davvero con un atteggiamento di apertura del tutto nuovo. Ma quali possono essere i passi concreti, sostenuti da tutte le autorità del Paese?
R. – La questione è se ci sia una chiara sintonia tra la presidenza e tra la guida spirituale suprema Khamenei. Da quello che si legge, e che si vede, pare che fino ad adesso questa concomitanza di intenti ci sia. Quindi, pare che, al momento, le spalle di Rohani siano abbastanza forti, anche perché altrimenti un elemento importante del governo iraniano, quale è il viceministro degli Esteri, non avrebbe potuto fare un’affermazione del genere. Bisogna, dunque, vedere nello scambio con l’Occidente e con gli Stati Uniti quali siano i passi in avanti o indietro che bisogna fare per raggiungere l’accordo. Da qui, si capirà quale sia la vera forza del presidente iraniano attuale e quanto la guida spirituale sia dietro di lui.
D. – Kerry, il segretario di Stato americano, ha parlato di una finestra diplomatica che si apre sempre di più. Ma potrebbero anche scorgersi nuove questioni da questa finestra?
R. – Sì. Ha detto due cose che, secondo me, sono un po’ in contraddizione. Primo, si è aperta una finestra diplomatica e quindi bisognerebbe sfruttarla. Secondo, ha detto che un cattivo accordo non è meglio di nessun accordo. Io credo che le pressioni sul presidente Obama e sull’amministrazione americana debbano essere particolarmente forti, perché si raggiunga un accordo. E’ di non molto tempo fa, poche ore fa, anche l’appello che la comunità ebraica a Teheran ha fatto direttamente al presidente Obama, perché questa occasione non venga sabotata e perché si sfrutti. Questa occasione è stata definita irripetibile e d’oro. Quindi, bisogna vedere, ecco.
D. – Forse, la dichiarazione di Kerry sul cattivo accordo è più che altro per tranquillizzare quanti dicono che Obama vuole un accordo a tutti i costi…
R. – E’ possibile. Credo che sia più un’affermazione non tanto di politica interna, quanto di politica estera. Mi spiego: la questione è sempre Israele, l’alleato Israele nell’area. Israele, ma in particolar modo il primo ministro, Nethanyau, è particolarmente scettico nei confronti di questa apertura da parte dell’amministrazione. E’, quindi, il primo che deve essere rassicurato, anche perché è pure il più vicino ad un possibile pericolo iraniano.
Emergenza immigrazione, vertice a Palazzo Chigi per definire la missione "Mare sicuro"
◊ Prosegue l’emergenza immigrazione. Altri 150 profughi, in gran parte siriani e tunisini, sono arrivati, stamani, a Lampedusa. Nel siracusano un gommone con a bordo 92 africani è stato soccorso dalla Guardia costiera. Nel pomeriggio, intanto, si terrà a Palazzo Chigi il vertice per definire gli ultimi dettagli della missione “Mare Sicuro”. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
Pattugliare il Canale di Sicilia, impiegando mezzi aerei e navali, della Marina Militare per evitare nuove tragedie. Questo l’obiettivo della missione umanitaria e militare “Mare Sicuro”. Il ministro della Difesa, Mario Mauro, parla di tempi rapidissimi. La Marina è pronta con uomini e mezzi. Intanto, il primo ministro libico, Alì Zeidan, sottolinea che la Libia deve essere aiutata a controllare le proprie frontiere. Il premier maltese, Joseph Muscat, accusa poi l’Europa di aver lasciato “soli Malta e Italia” a gestire quello che definisce un “enorme problema”. Dall'Europa - avverte - servono soluzioni immediate e una vera solidarietà. All'Europa – sottolinea infine il presidente del parlamento Europeo, Martin Schulz - “mancano gli strumenti per l'aiuto temporaneo ai rifugiati che scappano da zone di guerra o da zone dove sono in corso catastrofi naturali”. “L’Europa – conclude - deve dotarsi di strumenti per una migrazione legale” simili a quelli di “tutti i grandi Paesi dove storicamente è diretta l’immigrazione, come Stati Uniti, Canada, Argentina, Nuova Zelanda, Australia”.
In molti i casi i barconi carichi di migranti, provenienti in gran parte da Siria, Eritrea e Somalia, partono dalla Libia. L’imbarcazione naufragata lo scorso 11 ottobre provocando la morte a largo di Lampedusa di almeno 34 persone, era partita dal porto libico di Zwara. In questa città nei giorni scorsi il giornalista della Rai, Amedeo Ricucci, ha incontrato alcuni cittadini libici che organizzano questi “viaggi della disperazione” verso le coste della Sicilia. Amedeo Lomonaco lo ha intervistato:
R. – Mi hanno raccontato che questo tipo di business, come lo chiamano loro, è un business che ai tempi di Gheddafi, avveniva praticamente alla luce del sole: Gheddafi utilizzava gli immigrati, anche le partenze sui barconi, come merce di scambio per ottenere maggiore visibilità, considerazione e aiuti da parte delle potenze europee. Per cui nei porti della Tripolitana - a Zwara dove ero io, ma anche gli altri fino ad arrivare a Misurata - praticamente non c’era famiglia che non fosse coinvolta in questi traffici, che avvenivano con una certa organizzazione all’epoca. Il carico comunque era un carico limitato, le barche venivano fornite di Gps, oltre che di satellitare Thuraya, e arrivavano infatti molto spesso a destinazione.
D. – Poi come è cambiata, nel corso degli anni, l’organizzazione di questi viaggi?
R. – Con gli anni il traffico è stato sempre più contrastato, tranne che nel periodo della guerra in cui Gheddafi ha utilizzato gli immigrati come scudi umani, mandandoli contro le coste italiane. Adesso questo tipo di traffico continua a partire dalle coste libiche, ma sta cambiando un po’ pelle: a detta dei trafficanti - quindi l’affermazione va presa con il beneficio del dubbio - ad organizzarlo sono soprattutto reti di stranieri, egiziane e tunisine, per non parlare degli stessi immigrati che si auto organizzano. I libici forniscono le barche. Tra l’altro i libici non salgano sui barconi e molto spesso a condurli sono marinai tunisini o egiziani. Sono gli immigrati, dicono i trafficanti, a spingere per partire a tutti i costi e, quindi, anche a riempire i barconi.
D. – Per molti migranti la paura di morire in mare è meno forte di quella di tornare in Paesi minati dalla povertà o dalla guerra, come l’Eritrea o la Siria. I barconi sono l’unica, a volte l’ultima, possibilità per raggiungere l’Occidente…
R. – Per loro, arrivare in Italia è importantissimo. Io ho sentito diversi immigrati che vivono a Tripoli - eritrei, somali e etiopi - che mi hanno detto molto candidamente: “Io non ho paura a fare questo viaggio. So che è rischioso, so che le barche possono naufragare, so che si può morire, ma questa è l’ultima tratta di un viaggio lunghissimo che ho fatto. Ne ho visto di tutti i colori: io ho visto la guerra nel mio Paese, io ho attraversato il deserto a piedi, io sono stato in galera, nelle prigioni libiche… Non ho alcun motivo per spaventarmi per queste 50-100 miglia che ci sono da fare”.
D. – Le coste libiche sono comunque controllate dalle autorità locali?
R. – Questa è una fase di particolare incertezza in Libia e quindi i controlli – che pure ci sono e io ho visto le guardie costiere che pattugliavano le coste – sono intermittenti e ovviamente non sono completi. La fase di anarchia che sta vivendo la Libia negli ultimi mesi – attentati, rapimenti, mancanza di una leadership politica forte, lo stesso primo ministro che viene sequestrato nell’albergo dove risiede e viene liberato qualche ora dopo – sono il segno di quanto le istituzioni della nuova Libia siano ancora fragili.
D. – Il premier libico ha detto che la Libia deve essere aiutata nel controllare le frontiere…
R. – Non esiste uno Stato in Libia e me lo ha confermato ieri in un’intervista esclusiva data a noi del Tg1 il primo ministro Alì Zeidan, che dice: “Non ci potete lasciare da soli ad affrontare questo problema. Noi non abbiamo né le risorse, né gli uomini, né le attrezzature per contrastare questo traffico”.
D. – Questo pomeriggio a Palazzo Chigi si terrà il vertice per definire i dettagli della missione “Mare sicuro”: l’obiettivo, attraverso pattugliamenti dei mezzi della Marina Militare, è di evitare nuove tragedie. Può essere questa una misura efficace per cercare almeno di arginare il business dei trafficanti di uomini dalle coste del Nord Africa?
R. – Ti rispondo con le parole del primo ministro, a cui ho fatto la stessa domanda. Il primo ministro Zeidan mi ha risposto: “Ben venga la missione ‘Mare sicuro’ che vuole varare il governo italiano. Tenete, però, presente che non è in questo modo che si risolve il problema, né in questo modo si ferma l’ecatombe di morti nel Mediterraneo”. “Il problema – dice il governo libico – va affrontato alla radice e affrontarlo alla radice vuole dire, ovviamente, cercare di impedire che questa gente emigri dai Paesi di origine, ma per la Libia – in questo caso – vuol dire migliorare il controllo sulle frontiere a Sud della Libia”. La Libia ha migliaia e migliaia di chilometri di frontiere con diversi Paesi africani: è lì che va bloccato il traffico!
L'Indice Cesvi su fame nel mondo: Africa e parte dell'Asia in gravi difficoltà
◊ E’ stato la “Resilienza Comunitaria” alla denutrizione il tema scelto quest’anno per l’Indice Globale della Fame 2013. Nel rapporto, che analizza la situazione in oltre 120 Paesi, si parla quindi della capacità delle comunità di anticipare, rispondere e riprendersi dai cambiamenti climatici e dalle svariate cause all’origine dell’insicurezza alimentare. L’Indice è stato presentato oggi in contemporanea mondiale in Italia, Francia, Germania, Usa, Inghilterra, Irlanda e Belgio. Francesca Sabatinelli ha intervistato Giangi Milesi, presidente di Cesvi, l’Ong all’origine dell’Indice:
R. - La fame è un problema multidimensionale. Possiamo affrontarlo dando la ciotola di riso all’affamato che incontriamo, però questo non rimuove il problema. Il problema vero è dare alle comunità locali la capacità di lavorare contro i cambiamenti climatici che vogliono dire siccità e alluvioni sempre più frequenti e quindi raccolti che se ne vanno, ma che se vanno per più anni: quindi il contadino povero deve smettere; gli muoiono i capi di bestiame; fugge, migra pur sfuggire alla siccità, alla carestia e all’alluvione. E poi c’è il land grabbing, cioè l’acquisto delle terre da parte di altri Paesi o di grandi multinazionali. Questa non è solo sottrazione della terra alle comunità locali, è anche cambiamento del destino di queste terre: invece che un’agricoltura per l’alimentazione, diventa una agricoltura per la produzione di fibre, come il cotone, o per la produzione di biocarburanti. Anche dal punto di vista finanziario, il contadino povero dei Paesi del Terzo Mondo oggi è piegato sotto il peso della speculazione finanziaria. Sembrerebbe incredibile, ma quando i futures pesano dieci volte il Pil mondiale, si buttano su qualsiasi materia prima e cambiano i prezzi del riso, anche in modo significativo, questo vuol dire dare sopravvivenza o portare al fallimento un agricoltore.
D. – Giangi Milesi, quali dati prende in considerazione l’Indice?
R. - Prende in esame i rapporti delle grandi organizzazioni delle Nazioni Unite sui temi dell’alimentazione, ma anche sui temi della salute e in particolare della salute infantile. Combinando i dati sull’alimentazione degli adulti, sull’alimentazione dei bambini e sui tassi di mortalità infantile, uniti ai tanti altri dati, si riescono a capire meglio le tendenze, perché dare dei numeri assoluti con una popolazione del pianeta che cambia, non ci aiuta a capire se le cose stanno andando meglio o peggio. Le cose sono andate malissimo in questi ultimi anni. Finalmente, qualche segno di speranza c’è, anche se la situazione continua a restare grave.
D. – Dunque, i risultati ottenuti cosa ci dicono della situazione della fame e della denutrizione nel mondo?
R. - Che le due grandi aree del mondo dove si concentrano gli affamati sono l’Asia e l’Africa. L’Asia meridionale è in cima alla classifica di questo indice, dove ancora la fame è più forte. E purtroppo c’è uno zoccolo duro di questa fame a causa delle condizioni delle donne (diseguaglianze ndr), causa fondamentale della malnutrizione dei bambini e quindi della malnutrizione di tutta la società. Anche se l’Asia, grazie alle sue crescite economiche, sta riducendo il fenomeno in maniera consistente. L’Africa sub-sahariana continua ad essere la regione del mondo dove i problemi sono più spessi, dove la popolazione adulta è più affamata. Anche qui ci sono dei segni di miglioramento.
D. – Non è certo una novità che questo discorso chiami in causa i Paesi industrializzati, i grandi del mondo…
R. - Sì. E’ ovvio che questo indice raccomanda anche gli interventi nelle politiche, delle politiche internazionali e delle politiche dei singoli Paesi, proprio perché assumano un approccio multidisciplinare al tema della fame. Però, dà anche a noi coraggio e speranza nel fare il nostro lavoro. Noi lavoriamo sulla crescita delle capacità, attraverso la cooperazione delle comunità locali, non solo di essere autosufficienti, ma anche di essere capaci di affrontare il mercato e tutte queste variabili e tutti questi shock.
D. – Il Cesvi è attivo in molte parti del mondo, quali possono essere esempi concreti di resilienza comunitaria?
R. - Abbiamo un caso specifico che è quello del Myanmar. E’ un Paese di cui non si hanno i dati, è uno dei quei Paesi, come il Congo, in cui mancano ancora le informazioni e che quindi si presume sia in una situazione grave, se non allarmante. In questo Paese, lavoriamo in un migliaio di villaggi, dando consapevolezza a questo migliaio di comunità del loro ruolo, costruendo la capacità di essere all’altezza di queste sfide, del benessere, della lotta alla povertà.
D. – L’Indice ha preso in esame anche il caso di Haiti, Paese in tre anni devastato prima da un terremoto, era il 2010, poi da piogge torrenziali…
R. - Sì, Haiti è uno dei quei casi che l’indice ha preso in esame. Lavorare sull’agricoltura ad Haiti è un modo per garantire lo sviluppo. Fare la ricostruzione di Port-au-Prince è molto difficile: quella città nasce da una distruzione dei territori circostanti, dal fatto che quei terreni erano stati distrutti, disboscati e questo disboscamento è poi anche una delle concause della gravità del terremoto che ha colpito la città e dei danni che le piogge hanno provocato. Lavorare, come abbiamo fatto noi, per decongestionare la città, riportando o trattenendo la gente nelle campagne, è stato un modo per combattere la fame, ma anche per ridisegnare con quella comunità una speranza per il futuro.
◊ La Corte d’Appello della Malaysia ha stabilito che i non-musulmani non possono usare la parola “Allah” per riferirsi a Dio, rovesciando una precedente sentenza del 31 dicembre che aveva dato ragione ai cristiani. L’arcivescovo di Kuala Lumpur, mons. Murphy Pakiam, ha detto – all’agenzia Fides – che “il caso è stato fin troppo politicizzato” ed ha annunciato il ricorso alla Corte Federale “per ottenere giustizia”. I vescovi, ha proseguito il presule, “hanno puntualizzato che nelle chiese e nelle liturgie si continuerà a usare il termine Allah”, mentre la sentenza riguarda solo il settimanale cattolico Herald Malaysia che aveva impugnato la questione. Proprio al direttore dell’Herald, padre Lawrence Andrew, Charles Collins ha chiesto un commento sulla sentenza:
R. - The kind of argument judges put forward ….
Il tipo di dibattito che i giudici hanno proposto sembra essere debole, certamente. Ma cosa dobbiamo fare? Andiamo al secondo livello di giudizio presso la Corte suprema, la cosiddetta corte federale, dove contesteremo questa decisione. Per il momento la sentenza dice che l’utilizzo del nome “Allah” non è parte integrante della fede e della pratica cristiana. Ma non è come la vediamo noi. Non possiamo dire che Dio non sia una parte integrante della fede e della pratica cristiana; questo è invece quello che vogliono dire loro. Se noi non abbiamo Dio, cos’altro può significare la religione? Ma loro sentono che questo “Allah”, nel loro intendere sia un nome proprio, solo per i musulmani. Quindi è una parola esclusiva per i musulmani, nessun’altra religione o gruppo può utilizzarla, come per dire: “E’ solo per noi!”
D. - In ambito linguistico, la parola “Allah” è utilizzata per indicare Dio nella lingua malese. Dove è stata utilizzata?
R. – Allah in the malay language...
“Allah”, nella lingua malese, è stato utilizzato per centinaia di anni con il significato di Dio. Ma ora vogliono che utilizziamo la parola “Tuhan”, che in malese significa “Signore”. Quindi, usare la parola “Signore” al posto di “Dio”. Cosa facciamo? Dobbiamo dire “Tuhan, Tuhan”. Non possiamo usare più la parola “Dio” e dovremmo usare “Signore”.
D. - Come hanno reagito le altre comunità cristiane?
R. – There’s one thing that has come out …
È uscita fuori una cosa molto interessante da questo caso: c’è grande interesse da parte di altri gruppi religiosi di unirsi a noi e di essere al nostro fianco ora. E’ un po’ tardi, avrebbero dovuto unirsi a noi fin dall’inizio. Ma a quel tempo questi gruppi non erano abbastanza convinti nel darci sostegno. Abbiamo fatto appello al governo, abbiamo chiesto il loro supporto, ma non ce lo hanno dato. Ora che la situazione è un caso d’appello, tutti loro dicono: “Nessuno di noi vi abbandonerà!”. Ma ora è troppo tardi. Tuttavia, gli indigeni del Borneo levano alta la loro voce. Quando il Borneo - ex colonia inglese - entrò a far parte della Malesia, c’era un accordo che diceva che l’islam non era la religione dominante. Tutto questo è cambiato ora. La situazione è diversa. Il Paese è cambiato. Se andiamo alla stessa velocità con cui sta avvenendo questo cambiamento, diventeremo presto un Paese musulmano e la sharia diventerà la legge di Stato.
Calabria. A Rosarno il calcio è contro la discriminazione, nasce la prima squadra di migranti
◊ Giocare a calcio per eliminare le barriere sociali è quanto sta avvenendo nella città calabrese di Rosarno, tristemente famosa per le rivolte dei migranti del 2010 che accesero il dibattito sulle condizioni di questi esseri umani ghettizzati nelle tendopoli e costretti a lavorare in nero. L’iniziativa è partita da don Roberto Meduri, che ha voluto risolvere questa situazione creando il Koa Bosco, una squadra di calcio autorizzata dal Coni, completamente gestita dai migranti, Davide Pagnanelli lo ha intervistato chiedendogli come sia nata l’idea di una squadra di calcio:
R. - Perché volevamo dare un’opportunità nuova a questi ragazzi africani, una risposta diversa rispetto a quelli che erano gli aiuti che avevamo saputo dargli. Abbiamo pensato di creare intorno a loro un’opportunità che li vedesse, li riscattasse in un certo senso da quello che era accaduto nel 2010, in quel momento si era creata una spaccatura nella società, nei giovani, nei ragazzi che già prima non li vedevano di buon occhio. Poi hanno iniziato a sentire una certa ferita, ma non voglio parlare di razzismo, per quello che era successo.
D. - Che impatto ha avuto questa iniziativa sugli abitanti di Rosarno?
R. - Inizialmente li hanno boicottati, hanno fatto anche dei danni, quello che hanno potuto, per far sentire il loro rifiuto. C’era questa volontà di lasciarli in quello stato; hanno creato un ghetto con la tendopoli. Gli abitanti dicevano: ”Stanno lì, noi gli diamo del lavoro in nero, ma riconoscergli i diritti, no”. E non parliamo di diritti particolari, ma anche solo quello di poter passeggiare oppure fare una squadra di calcio.
D. - In cosa consiste il progetto “Uniti contro le frontiere”?
R. - All’interno del campo profughi, tra francofoni, anglofoni, ci sono delle spaccature di clan, e delle frontiere che loro si portano dalla stessa Africa. E allora lì, creare una squadra che li faccia giocare insieme, ha un obbiettivo diverso: la prima barriera è la loro, poi c’erano quelle dei giovani che non riuscivamo a coinvolgere in nessuna attività, per non parlare delle barriere sociali, culturali della Calabria rispetto a questi ragazzi.
D. - Il calcio in Italia vuol dire anche cori razzisti e discriminazione. Qual è la vostra esperienza?
R. - Quando facevamo gli allenamenti abbiamo subito dei cori razzisti e delle ingiurie. Pensavano forse che loro potevano essere una minaccia. Questo, almeno a Rosarno è durato poco. È stato bello vederli insieme, proprio spalla a spalla, i giovani di Rosarno ripulire il campo e la zona intorno e fare di quel campo, che era ormai diventato una discarica a cielo aperto, un luogo dove potevano giocare un calcio pulito, almeno per quanto riguarda le scorie che erano rimaste lì e pulito anche nel senso che non era più aggressivo. Poi dopo alcuni piccoli attentati abbiamo dovuto spostarci con gli allenamenti a Polistena e poi siamo finiti a Palmi. A Palmi è stato bellissimo perché ci hanno accolto bene, e loro stanno bene. Anche se vivono nella tendopoli, disputeremo le partite di campionato a Rosarno perché c’è tanta gente che li aspetta e che fa il tifo per loro.
◊ Si è conclusa felicemente la settimana scorsa con la firma di un’intesa con la Regione Lazio, la vicenda della Casa di "Peter Pan", la struttura che a Roma ospita i bambini malati di cancro e le loro famiglie per tutto il periodo delle cure. Alla scadenza del contratto, la società proprietaria dell’immobile, che fa capo alla Regione, aveva chiesto l’adeguamento dell’affitto a un prezzo di mercato: una cifra impossibile da pagare per un’associazione che non riceve aiuti pubblici. Al microfono di Roberta Barbi, il presidente onorario di Peter Pan, Maria Teresa Barracano Fasanelli, ripercorre le ultime tappe di questa vicenda:
R. – Abbiamo avuto questa intimazione di sfratto a febbraio e naturalmente c’è stata una sollevazione popolare e l’eco di questa sollevazione popolare è arrivata anche all’orecchio del presidente della Regione Lazio, Zingaretti. Siamo arrivati finalmente a un accordo, anche se questo accordo è limitato a cinque anni.
D. – La vostra missione è l’accoglienza e la deospedalizzazione dei bambini malati di cancro: cosa significa esattamente?
R. – Significa che i nostri bambini, se non ci fosse la Casa di "Peter Pan", sarebbero in una corsia per tutto il tempo delle terapie; che i loro genitori dovrebbero pagarsi il soggiorno in una città cara come Roma: cosa impossibile visto che le cure durano da un minimo di sei mesi in poi; e che i fratellini che noi accogliamo - perché vogliamo che la famiglia rimanga unita in questa circostanza - sarebbero stati affidati a dei bravi nonni, ma avrebbero sofferto doppiamente. A questa famiglia un po’ disastrata "Peter Pan" offre la possibilità di vivere il periodo delle cure come se fosse a casa loro. Il bambino rimane un bambino "a tutti gli effetti", non un piccolo paziente, ma un bambino che ha un problema.
D. – Se una struttura è al sicuro per cinque anni, sulle altre due che l’associazione ha messo in piedi continua a gravare il caro affitti, oltre alle spese di gestione corrente che sono a carico vostro. Quali sono le prospettive per il futuro?
R. – Le prospettive per il futuro? Non ce ne sono! C’è da rimboccarsi le maniche e lavorare sodo sempre per permettere all’associazione di funzionare, grazie alla generosità degli italiani che è molto, molto grande. Il nostro sgomento è che, pur avendo inaugurato una nuova struttura che porta a 33 unità abitative la nostra accoglienza, ogni giorno dobbiamo rifiutare qualche famiglia perché non bastano, anche per il fatto che quelle famiglie che fino a ieri forse potevano permettersi di soggiornare a Roma per un lungo periodo, pagandosi un affitto, anche quelle soffrono della crisi e quindi si rivolgono a Peter Pan, mentre in passato erano un tipo di famiglie che risolveva per conto proprio il problema.
D. – Nel concedervi il comodato d’uso gratuito la Regione ha definito la Casa di "Peter Pan" un esempio “d’integrazione sociosanitaria” e “protagonista di un nuovo modello di sanità”. Un riconoscimento che, in qualche modo, avevate già avuto nel 2004, ricevendo la Medaglia d’oro al merito della sanità pubblica…
R. – L’essere vincente del il nostro modello è che permette allo Stato di risparmiare un sacco di soldi, perché è evidente che un bambino ospedalizzato costa di più di un bambino trattato in day hospital. E poi c’è tutto il benessere di una famiglia che vive e ritrova nelle nostre case quella normalità che la diagnosi infrange.
Spagna: primo sì del parlamento all’ora di religione obbligatoria. Accolta richiesta dei vescovi
◊ In Spagna, l’ora di religione, resa facoltativa dal precedente Governo socialista di José Luis Zapatero insieme all’introduzione della nuova ora alternativa di educazione civica, dovrebbe tornare a breve ad essere "materia ordinaria e obbligatoria” in tutte le scuole statali o non statali. E’ uno dei punti salienti del progetto di Legge organica per il miglioramento della qualità educativa (Lomce) presentato dal Governo conservatore di Mariano Rajoy e approvato in questi giorni dalla Camera bassa del Parlamento, dove la coalizione di governo guidata dal Partito Popolare ha la maggioranza assoluta. Se approvata in via definitiva, la religione tornerà quindi a essere una materia curricolare come le altre, che conterà "a tutti gli effetti" per la valutazione annuale dell'impegno dello studente. Alla base del progetto di riforma vi è il documento dei vescovi “Orientamenti pastorali per il coordinamento della famiglia, della parrocchia e della scuola nella trasmissione della fede” pubblicato il 20 maggio scorso , dopo la loro plenaria primaverile. Nel documento, che accoglieva le indicazioni del Papa emerito Benedetto sulla cosiddetta "emergenza educativa", si affermava che la materia "religione cattolica" non può essere ridotta a un mero trattato di religione o di scienze della religione, come auspicato da alcuni, ma deve conservare la sua autentica dimensione evangelizzatrice di trasmissione e di testimonianza della fede. La riforma, alla quale ha dato battaglia l’opposizione, si propone, nelle intenzioni del Governo, di elevare la qualità dell’insegnamento e di ridurre il tasso di abbandono scolastico (oggi al 25 per cento in Spagna) e prevede drastici tagli e una forte spinta alla privatizzazione della scuola. Il testo deve ora passare al Senato dove il partito di Governo detiene la maggioranza assoluta. (L.Z.)
Ecuador: legalizzare l’aborto, il Presidente minaccia le dimissioni. La Chiesa lo elogia
◊ Mons. Antonio Arregui, arcivescovo di Guayaquil e presidente della Conferenza episcopale ecuadoriana (Cee), ha definito “pregevole” la posizione del Presidente del Paese, Rafael Correa, di fronte alla questione di una possibile legalizzazione dell'aborto. Correa ha infatti minacciato di dimettersi se il suo partito, "Alianza País", continuerà a fare pressioni per approvare una riforma che legalizzi l’interruzione volontaria della gravidanza. In una nota inviata all'agenzia Fides, mons. Arregui si dice “impressionato dal coraggio, dalla qualità con cui il Presidente ha parlato. Penso che sia una posizione davvero notevole”. Mons. Arregui afferma anche che la posizione della Chiesa su questo tema è risaputa: “Crediamo che la vita umana è sacra e che non possa essere eliminata”. Come riferisce la nota inviata a Fides, questa settimana ci sarà una dichiarazione ufficiale della Chiesa cattolica. Rafael Correa, parlando in TV, ha stigmatizzato in particolare i parlamentari del suo Partito che sostengono la proposta di legge per la depenalizzazione dell'aborto, pratica che attualmente il Codice Penale vieta severamente. Secondo quanto riferisce la stampa locale, Correa avrebbe parlato anche di “vero tradimento e grave slealtà”, ricordando di aver sempre detto con chiarezza di essere contrario a qualsiasi forma di legalizzazione dell'aborto. Correa si definisce “uomo di sinistra, umanista e cattolico”. (R.P.)
Olocausto: a Madre Biviglia di Assisi il titolo "Giusto fra le nazioni"
◊ A madre Giuseppina Biviglia, abbadessa del monastero di San Quirico di Assisi durante la Seconda guerra mondiale, sarà conferito il titolo di “Giusto tra le nazioni” dal museo dell’Olocausto di Gerusalemme “Yad-Vashem”. Il riconoscimento arriva per aver salvato numerosi ebrei anche mettendo a repentaglio la propria vita, a partire dal 1943. La cerimonia di consegna - riporta l'agenzia Sir - avverrà nei prossimi mesi probabilmente presso il museo della Memoria di Assisi. Nata a Serrone di Foligno, in provincia di Perugia, nel 1897, madre Giuseppina ha guidato la comunità di Assisi dal 1942. Quello che avvenne nel monastero di San Quirico negli anni del secondo conflitto mondiale fu appuntato dalla religiosa in un libro di memorie. “Mentre in patria rincrudivano persecuzioni politiche, vendette personali e ordini odiosi venivano spiccati contro ebrei e soldati - si legge in alcuni scritti - i nostri istituti divenivano luogo di rifugio agli sbandati, ai perseguitati politici, ai fuggitivi, agli ebrei, agli evasi dai campi di concentramento”. Madre Biviglia si è spenta a 94 anni nel 1991. Le vicende del monastero di San Quirico in quegli anni, come quelle di altri conventi di Assisi, sono state raccontate anche nel film “Assisi underground”, del 1985. (R.P.)
India: costa devastata ed estese alluvioni per il ciclone Phailin
◊ 23 morti finora registrati e un milione di sfollati, un numero crescente di senzatetto mentre il ciclone Phailin che ha colpito la costa orientale dell’India nella notte di sabato si porta con venti ancora sostenuti e piogge intense verso l’interno del Paese. A subire le conseguenze più gravi dell’evento che è arrivato sulla terraferma con venti ancora di 200 chilometri orari, soprattutto lo Stato orientale di Orissa e, con il passare delle ore, nelle contigue regioni degli Stati di Andhra Pradesh, Jharkhand, Chhattisgarh, Madhya Pradesh e Bengala occidentale. Ancora più all’interno l’allarme è stato lanciato per 28 distretti del Bihar, dopo che le acque dei fiumi Kosi e Gandhak hanno cominciato a superare gli argini. Nelle aree devastate a ridosso della costa ma anche nell’entroterra per decine di chilometri, le squadre di soccorso e i volontari sono al lavoro per ripristinare linee elettriche e telefoniche, strade, ponti e ferrovie, mentre è già in corso il controesodo degli evacuati che cercano di recuperare e proteggere quel poco che il ciclone potrebbe avere risparmiato. Ovunque uno spettacolo di devastazione ricorda la forza di un evento che non si verificava da 14 anni. Allora, il 27 ottobre 1999 era stato Paradeep a colpire queste aree, impreparate, facendo 15.000 vittime. Nel caso di Phailin ha funzionato certamente meglio l’azione di prevenzione, che ha drasticamente limitato il numero delle vittime. Le parti settentrionale e occidentale dell’Orissa sono ora minacciate non solo da vasti allagamenti dovuti alla pioggia intensa, ma dallo straripamento dei fiumi Budhabalang, Baitarani e Rusikulya in diversi distretti, come quelli di Mayurbhanj e Baripada. Molte aree sono irraggiungibili e i soccorsi per i casi più gravi avvengono con gli elicotteri, che distribuiscono anche razioni d’emergenza. L’azione di soccorso è stata già avviata, anche sulla base dell’esperienza accumulata negli anni dal Paese – inclusa la grave alluvione delle regioni pre-himalayane nello scorso giugno con 6.000 vittime stimate -. Le conseguenze del disastro, per aree che hanno addirittura cambiato la loro fisionomia geografica, saranno però durature. (R.P.)
Onu: a causa dei conflitti circa 29 milioni di bambini nel mondo non vanno a scuola
◊ Si è da poco concluso l’incontro “L’istruzione non può aspettare”, un evento realizzato per il secondo anno consecutivo nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Secondo le cifre diffuse dall’organizzazione, 28 milioni e mezzo di bambini che vivono in Paesi colpiti dai conflitti non hanno possibilità di andare a scuola. I leader dei governi e quelli delle organizzazioni internazionali riuniti - riferisce l'agenzia Fides - hanno sollecitato un intervento immediato per sanare il problema. Oltre la metà dei 57 milioni di bambini in età scolare privi di accesso all’istruzione vivono in Paesi dove ci sono in corso guerra e distruzione. I conflitti, gli scontri e gli sfollamenti in Paesi come Siria, Repubblica Centroafricana, Mali e Repubblica Democratica del Congo, hanno contribuito notevolmente ad aggravare il fenomeno. Attualmente, sono circa un milione i piccoli siriani rifugiati. “L’istruzione non può aspettare che finiscano le guerre o che si risolvano i disastri nè che ci siano fondi disponibili”, ha dichiarato il direttore esecutivo del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef), che ha sollecitato tutti ad un intervento immediato per aiutare i minori che non hanno opportunità di essere istruiti. Una educazione di qualità richiede investimenti e pianificazione che diano ai piccoli che vivono nelle parti più difficili del mondo una esperanza e una opportunità per futuro migliore. (R.P.)
◊ “Svuotare il Mashrek (il Medio Oriente) della sua civiltà cristiano-islamica” e “mantenere uno stato di guerra permanente nella regione per fini politici ed economici”: è questo “l’obiettivo ipocrita” della guerra in Siria. E’ la dura accusa rivolta dal patriarca maronita Bechara Raï, che ha ricevuto una delegazione di rappresentanti di undici associazioni cristiane e musulmane francesi, giunta in Libano per esprimere solidarietà al Paese, da mesi in prima linea nell'emergenza umanitaria causata dal conflitto siriano. Una situazione, ha sottolineato il card. Rai, che, con l’approssimarsi dell’inverno, rischia di diventare una catastrofe umanitaria. Più di un milione e mezzo di profughi siriani sono infatti senza un alloggio decente, senza scuole e assistenza sanitaria. Di qui l’appello alla comunità internazionale affinché non risparmi alcuno sforzo per aiutare queste persone. Il card. Rai, citato dal quotidiano locale “L’Orien-le-Jour, si è quindi rivolto in particolare ai Paesi occidentali: “L’Occidente che fino a poco tempo fa invocava l’invio di armi in Siria deve levare la sua voce e chiedere adesso che la pace venga ristabilita”. Egli ha inoltre ribadito il fermo rifiuto della proposta avanzata da alcuni Paesi di accogliere quote di profughi: che, ha detto, significa volere “sradicare un popolo, distruggere una civiltà islamo-cristiana costruita in 13-14 secoli di coesistenza”. Della delegazione francese guidata dal vescovo di Troyes mons. Marc Stenger, facevano parte, tra gli altri rappresentanti di Pax-Christi France; della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia; del Secours islamique France (la Mezzaluna Rossa francese); del Secours catholique-Caritas France e l’Œuvre d’Orient,. Prima di rientrare la delegazione ha lanciato, da parte sua, un appello a tutte le organizzazioni religiose e ong francesi “ad unirsi per portare al popolo siriano un messaggio di solidarietà e speranza”. (A cura di Lisa Zengarini)
◊ Il patriarca di Babilonia dei caldei Louis Raphael I Sako ha istituito il Consiglio pastorale per la diocesi caldea di Baghdad, coinvolgendo insieme al vescovo ausiliare Shlemon Warduni e ai venti parroci di Baghdad anche quaranta laici (20 uomini e 20 donne) nella gestione concreta delle strutture diocesane e nella programmazione delle attività pastorali. L'incontro inaugurale dell'inedito organismo si è tenuto venerdì scorso presso il Centro culturale della chiesa di san Giuseppe. La riunione successiva è stata fissata per il prossimo 15 novembre. Nell'intervento svolto durante l'incontro, inviato all'agenzia Fides, il patriarca Sako ha indicato tra i compiti del Consiglio la rivitalizzazione delle parrocchie dal punto di vista spirituale, con l'affidamento a gruppi di parrocchiani della cura della preghiera quotidiana. Il cristiano “deve camminare a testa alta” ha detto il patriarca, augurandosi che proprio dalle preghere quotidiane possano fiorire anche “la fiducia in Dio e il non avere paura di nulla”. In particolare, il card. Sako ha sottolineato l'urgenza di affidare ai laici la gestione delle risorse finanziarie e di consultarli in merito a tutte le questioni amministrative, valorizzando il lavoro di squadra. Il Patriarca a voluto ribadire a chiare lettere che nella Chiesa “non c'è più una mentalità per la quale il potere appartiene a un certo gruppo ristretto e tutti gli altri devono solo obbedire all'istante”. All'interno del Consiglio pastorale sono stati creati quattro sotto-comitati: quello per le attività culturali, il comitato per le questioni sociali, quello per la gestione delle proprietà della Chiesa e quello per le emergenze, chiamato a farsi carico anche dei credenti che subiscono minacce per la propria vita o i propri beni. Ieri, il patriarca Sako ha fatto diffondere anche una lettera in cui invita tutti i cristiani caldei che hanno lasciato l'Iraq a far ritorno nella loro Patria. “Voi parlate di 'Grande Babilonia' e di 'Assiria Potente' scrive il patriarca Sako rivolto in particolare a gruppi di cristiani della diaspora che più coltivano la memoria delle proprie tradizioni nazionali “ma qual è il contenuto dei vostri discorsi? Non si tratta forse soltanto di sentimentalismo?” “Se voi tornate”, conclude il patriarca “noi potremo valorizzare i vostri talenti e le vostre conoscenze. Se voi non tornate, noi diventeremo una minoranza insignificante. In ogni caso, noi rimarremo qui e non ce ne andremo, accettando di mangiare pane e cipolle pur di permettere alla nostra eredità e testimonianza cristiana di perpetuarsi e continuare". (R.P.)
Germania: a Rottenburg-Stoccarda un monastero per accogliere profughi siriani
◊ Mons. Gebhard Fürst, vescovo di Rottenburg-Stoccarda, intende mettere a disposizione dei profughi siriani gli spazi disponibili del monastero benedettino di Weingarten. In un’intervista pubblicata oggi dal quotidiano “Schwäbische Zeitung”, mons. Fürst ha definito l’iniziativa un appello ad altre istituzioni “a reagire rapidamente all’emergenza sempre più grande”. Il vescovo - riferisce l'agenzia Sir - ha annunciato di voler “rendere prioritario il problema dei profughi nei prossimi mesi”. Tuttavia, “non esiste un piano definito”. Più volte, il vescovo aveva espresso la disponibilità della sua diocesi ad accogliere e assistere i profughi. “Durante un congresso a Weingarten, dedicato a San Martino, ho maturato finalmente la decisione di agire. San Martino ha condiviso il proprio mantello con un mendicante: da un punto di vista simbolico, ciò vale anche per gli spazi”, ha spiegato. “Dobbiamo occuparci di questa gente che ha perso tutto. È un comandamento dell’amore cristiano per il prossimo”. “È una proposta molto buona, un ottimo obiettivo”, ha commentato il parroco Ekkehard Schmid della parrocchia di Sankt Martin, adiacente al monastero a cui appartiene la basilica. “L’idea di predisporre l’accoglienza dei profughi è stata spesso ponderata. Ora occorre verificare gli spazi e preparare l’integrazione dei profughi nella vita quotidiana di Weingarten”, ha concluso. (R.P.)
Nicosia: dialogo interreligioso su fedi e pace nel Mediterraneo
◊ “Le religioni nel processo di costruzione della pace e di risoluzione dei conflitti nella regione mediterranea”: è il tema del sedicesimo Dialogo interreligioso promosso dal gruppo del Partito popolare europeo al Parlamento Ue in calendario il 17 e 18 ottobre a Nicosia. Sull’isola di Cipro, ritenuta un “ponte” tra Occidente e Levante - riferisce l'agenzia Sir - arriveranno eurodeputati, ministri, rappresentanti delle grandi religioni monoteiste, esponenti di associazioni internazionali ed esperti di geopolitica. Cinque le sessioni in programma: Il dialogo tra cristiani, musulmani ed ebrei per la pace nel Mediterraneo; Il fondamentalismo come fattore di destabilizzazione politica; La tutela delle eredità religiose come segno di civilizzazione; Coesistenza delle religioni e stabilità politica; Sfide future. I lavori saranno aperti dal capogruppo Ppe all’Assemblea di Strasburgo, Joseph Daul. Fra i numerosi leader religiosi interverranno: l’arcivescovo ortodosso Chrysostomos II, metropolita di Cipro; il metropolita Emmanuel, arcivescovo di Francia; Ahmad Badreddin Hassoun, gran muftì di Siria; Arie Zeev Raskin, rabbino capo di Cipro; l’arcivescovo Youssef Soueif, dell’eparchia maronita di Cipro; mons. Giuseppe Lazzarotto, nunzio apostolico di Cipro e Israele. (R.P.)
Unione Africana: chiesta l'immunità al Cpi per i Capi di Stato in carica
◊ Una richiesta di immunità per i Capi di Stato e di governo in carica, ma non la rottura auspicata dal presidente keniano Uhuru Kenyatta: quotidiani e portali di informazione sub-sahariani riassumono in questi termini l’esito di un vertice dell’Unione Africana dedicato ai rapporti con la Corte penale internazionale (Cpi). “Durante il summit di Addis Abeba – sottolinea AllAfrica – è stato chiesto che i capi di Stato e di governo in carica non siano processati e che i casi di Kenyatta e del suo vice William Ruto siano rinviati”. Nella capitale etiopica, però, non è stato raggiunto il quorum dei due terzi necessario perché l’Unione Africana nel suo complesso denunciasse il trattato istitutivo del tribunale con sede all’Aja. “Non c’è stato in alcun segno – evidenzia AllAfrica – di quel ritiro africano in massa nel quale Kenyatta sperava”. Sul piano formale, le decisioni assunte tra venerdì e sabato sono state due. Da un lato, una risoluzione nella quale si chiede di sospendere i procedimenti nei confronti dei presidenti in carica, non solo Kenyatta ma anche il suo omologo sudanese Omar Hassan Al Bashir. Da un altro, l’invito al governo di Nairobi di chiedere al Consiglio di sicurezza dell’Onu il rinvio del processo a Kenyatta, in programma già il mese prossimo. Nel corso del vertice a rilasciare dichiarazioni sono stati diversi capi di Stato e di governo. Hailemariam Desalegn, primo ministro dell’Etiopia e presidente di turno dell’Unione Africana, è tornato ad accusare la Cpi di prendere di mira solo i dirigenti del continente. Una posizione espressa anche da Kenyatta, che ha addirittura parlato di “razzismo” e definito il tribunale dell’Aja “un giocattolo nelle mani di potenze imperiali in declino”. Secondo il presidente sudafricano Jacob Zuma, il continente non vuole l’impunità per i suoi dirigenti ma che si aspetti la fine del loro mandato per l’avvio dei processi. Critiche nei confronti della posizione emersa ad Addis Abeba sono state invece espresse da organizzazioni non governative, intellettuali, attivisti per i diritti umani. “Ad Addis Abeba è passato il messaggio sbagliato – ha detto Tawanda Hondora, di Amnesty International – e cioè che i politici del continente mettono i loro interessi al di sopra di quelli delle vittime di crimini di guerra, di crimini contro l’umanità e di genocidio”. (R.P.)
Centrafrica: sale la tensione. Parigi si impegna a inviare nuove truppe
◊ La grave situazione della Repubblica Centrafricana ha spinto la Francia ad impegnarsi a inviare nuove truppe nel Paese per cercare di ridare un minino di sicurezza alle popolazioni locali. Durante la sua visita nella capitale Bangui il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha annunciato infatti il rafforzamento entro la fine dell’anno del contingente francese già dispiegato in Centrafrica, che conta circa 400 uomini. Parigi ha però chiesto alle nuove autorità stabilite dai ribelli Seleka di indire nuove elezioni all’inizio del 2015. Nonostante che il Presidente Michel Djotodia abbia annunciato lo scioglimento della coalizione ribelle Seleka - riferisce l'agenzia Fides - gruppi di miliziani che si reclamano appartenere questa sigla continuano a spadroneggiare nel Paese, aggravando le condizioni di insicurezza. Come riferisce sul suo blog padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano che opera a Bozoum, “la situazione si fa sempre più pesante: in questi giorni ci sono stati degli scontri in un villaggio, Garga, che si trova a circa 150 km da Bozoum. In questo centro ci sono delle miniere d’oro, ed i ribelli della Seleka sono presenti da mesi, con le loro azioni violente, furti e saccheggi. Sfiniti da questa lunga storia di soprusi, alcuni abitanti hanno reagito uccidendo alcuni musulmani e alcuni ribelli. La reazione da parte dei ribelli è stata immediata, con l’uccisione di decine di persone”. "In molte zone del Centrafrica la tensione sta salendo, proprio come reazione a questo ciclo infernale ed infinito di violenze da parte dei ribelli. Ed aumentano anche le tensioni tra musulmani e cristiani” avverte il missionario. (R.P.)
Arabia Saudita: quasi 2 milioni di musulmani al pellegrinaggio della Mecca
◊ Quasi due milioni di pellegrini sono giunti da ieri alla Mecca per il pellegrinaggio annuale (Hajj), che secondo i musulmani ogni islamico dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Il loro numero è minore degli altri anni dovuto a timori di diffusione del coronavirus e a riduzioni causate da problemi di sicurezza. Da ieri Mina, che prima sembrava una città fantasma, è ormai abitata da folle giunte da tuto il mondo islamico. Per tutti questi giorni vivranno in 45mila tende, gli uomini vestendo lo ihram (due teli bianchi senza cuciture), le donne tutte coperte eccetto il volto e le mani. Oggi - riferisce l'agenzia AsiaNews - la massa dei pellegrini si è mossa verso il monte Arafat, dove avviene la confessione dei peccati e il rifiuto del diavolo. Il caldo torrido è smorzato qua e là da spruzzi di acqua vaporizzata lungo il cammino. Il principe Mohammed Bin Naif, ministro degli interni. Ha dichiarato che quest'anno i pellegrini dall'estero sono circa 1,37 milioni, il 21% in meno rispetto all'anno scorso. Egli ha spiegato che ciò è dovuto agli imponenti lavori in corso alla Mecca e alla decisa politica di non far entrare nessuno senza documenti. Almeno 70mila persone hanno cercato di entrare nei luoghi sacri senza permessi e la polizia ha fermato 138mila veicoli. Il principe ha anche sminuito il pericolo di infezioni da coronavirus, anche se quest'anno i morti di questa malattia, simile alla Sars, ha colpito 60 persone nel mondo di cui 51 dell'Arabia saudita. La sicurezza è al massimo: vi sono 100mila soldati che garantiscono non vi siano dimostrazioni o disturbi. Tutti i luoghi sacri sono controllati da oltre 42mila telecamere ad alta tecnologia, capaci di coprire anche distanze fino a 60 km. Negli anni passati vi sono stati talvolta scontri fra pellegrini sciiti dall'Iran e le forze di polizia saudita. Quest'anno, agli inizi di ottobre alcune voci davano per certo l'invito delle autorità saudite al nuovo presidente iraniano Hassan Rouhani. Ma il ministero degli esteri di Teheran ha negato che vi sia stato alcun invito e ha escluso la partecipazione di Rouhani all'Hajj di quest'anno, a causa dei molti suoi impegni. Altre personalità iraniane hanno suggerito che forse Rouhani andrà in Arabia saudita subito dopo il pellegrinaggio. Al suo insediamento come presidente, Rouhani aveva espresso il desiderio di iniziare un periodo di distensione con i "fratelli" sauditi. Iran e Arabia Saudita appoggiano parti avverse nel conflitto siriano. L'Arabia sostiene e arma i ribelli; l'Iran è uno strenuo difensore di Assad. (R.P.)
Qatar: i cattolici si preparano alla chiusura dell’Anno della fede
◊ Parte domani a Doha la National Faith Convention 2013 (15-17 ottobre), iniziativa lanciata da Nostra Signora del Rosario, l'unica chiesa cattolica del Qatar, per prepararsi alla conclusione dell'Anno della fede, indetto da Benedetto XVI nel 2011. Tre giorni di dibattiti e iniziative nel cuore del Medio oriente, che coinvolgeranno anche i più giovani. Tra i relatori vi sarà anche padre Steven Fernandes, segretario esecutivo della Commissione per la teologia e la dottrina della Conferenza episcopale dell'India (Cbci). "È la più grande iniziativa della Chiesa cattolica - spiega il sacerdote all'agenzia AsiaNews - mai organizzata in Qatar". Padre Fernandes sottolinea alcuni aspetti significativi del convegno: "Esso simboleggia molte cose: un passo in avanti per un rapido sviluppo del Qatar; un gradino verso il rispetto e la tolleranza [dell'altro]; un raggio di speranza per il travagliato Medio Oriente; una spinta a far sentire le minoranze religiose ben accolte nel Paese". In Qatar la comunità cattolica si concentra per lo più nella capitale Doha, dove si contano 150mila fedeli. Questi sono per lo più lavoratori migranti, originari dell'Asia del sud e delle Filippine. La chiesa Nostra Signora del Rosario è stata inaugurata nel febbraio del 2008. (R.P.)
Perù: messaggio dei vescovi per la Giornata del migrante
◊ Nell'Anno della Fede e in occasione del "Mes Morado" (mese viola perché i fedeli portano questo colore in segno di penitenza), mese dedicato al Signore dei Miracoli, si terrà il 18 ottobre la "Giornata del migrante peruviano". I vescovi del Perù hanno inviato un messaggio di saluto e di incoraggiamento agli oltre 3 milioni di peruviani che si trovano all’estero, dal titolo: "Il Signore dei Miracoli: luce della fede che guida il cammino dei migranti peruviani". Nel messaggio si ricorda che nel 2005 i vescovi peruviani, hanno proclamato il "Cristo Moreno" (come è conosciuto il Signor dei Miracoli) "Patrono dei migranti peruviani", affinché "la sua presenza amorevole guidi il nostro cammino". Il messaggio, come riferisce la nota inviata a Fides dalla Conferenza episcopale, ricorda quanto ha detto Papa Francesco nella sua enciclica sulla fede: 'Lumen Fidei', che "l'Anno della fede è un tempo di grazia che ci aiuta a sentire la grande gioia di credere". Pertanto i vescovi peruviani evidenziano che il Signore dei Miracoli è "questa presenza, questa luce della fede che guida tutti gli emigrati peruviani, li incoraggia, e conforta e, allo stesso tempo, li rafforza nella loro vita quotidiana". "Noi vescovi del Perù - conclude la nota - insieme con le vostre famiglie vogliamo ribadire il nostro affetto, e ricordarvi che, pur essendo fuori dal Paese, fate sempre parte di esso, che nessuno dovrebbe sentirsi escluso della nostra storia, né dall'affetto materno della Chiesa, che vi ama e vi tiene sempre presenti". (R.P.)
Regno Unito: preoccupazione dei vescovi per la nuova legge sull’immigrazione
◊ I vescovi del Regno Unito sono preoccupati dal progetto di riforma dell’immigrazione presentato dal Governo Cameron che prevede un giro di vite contro gli immigrati irregolari escludendoli dall’accesso ai benefit sociali. Tra le norme più controverse contenute nel provvedimento l’obbligo per i proprietari di immobili di verificare lo status di immigrati dei futuri locatari. In una nota diffusa questi giorni il responsabile per i migranti della Conferenza episcopale inglese e gallese, mons. Patrick Lynch, evidenzia che queste misure penalizzano i soggetti più vulnerabili: il provvedimento proposto non solo rifiuterà l’accesso ai servizi sanitari, ma accentuerà le disuguaglianze sociali e avrà un impatto sproporzionato su sugli immigrati più vulnerabili, segnatamente sulle donne e i bambini”. I vescovi inglesi avevano già espresso le loro perplessità sui contribuiti e l’accesso degli immigrati al Servizio Santario nazionale lo scorso mese di agosto. (L.Z.)
Spagna: 5 milioni di persone a rischio di esclusione, assistite dalla Caritas
◊ 70mila volontari e oltre 4mila lavoratori della Caritas spagnola assistono cinque milioni di persone a rischio di esclusione sociale a causa della crisi economica che ha colpito il Paese. Le cifre emergono dalla 'Memoria 2012', il riassunto dei dati e delle attività della Caritas spagnola relativi all’anno passato, presentato nei giorni scorsi insieme all’ottavo Rapporto dell’Osservatorio della realtà sociale (ORS). Dal rapporto emerge una realtà fatta di luci e ombre che vede, da una parte, una continua e consistente crescita del numero dei volontari (del 9,3% in più del 2011) con 70.229 persone che partecipano ai progetti di lotta contro la povertà avviate dalle 70 Caritas diocesane e dalle oltre 6mila Caritas parrocchiali in tutto il Paese. Per altro verso, lo studio della Caritas conferma il crescente impoverimento della società spagnola e la minaccia di una disgregazione sociale che lascerebbe un ampi settori sociali esposti al rischio esclusione. La risposta dei cittadini spagnoli a questo incremento della disuguaglianza è stata positiva, considerato l’incremento in un 10% (circa 27 milioni di euro) delle risorse provenienti soprattutto dalle donazioni private, rispetto al 2011. Dei 276 milioni di euro ricavati nel 2012, i maggiori sforzi per ridurre l’impatto della precarietà sono stati spesi in programmi di impiego o inserimento lavorativo (25 milioni); di edilizia sociale (5, 8 milioni) e accoglienza (60 milioni). Inoltre, sono stati rafforzati gli aiuti ai settori più vulnerabili: anziani (32 milioni); persone senza tetto (22,4 milioni); infanzia (12 milioni); famiglia (10,7 milioni) e immigrati (7,2 milioni). Le risorse destinate a progetti di cooperazione internazionale hanno raggiunto i 29,4 milioni di euro. Secondo i responsabili i risultati raggiunti si devono in gran parte al lavoro gratuito dei volontari che hanno accompagnato circa cinque milioni di persone in situazioni di maggiore esclusione sociale in Spagna e nei paesi del sud del mondo, ma anche permesso di ridurre i costi gestionali dell’attività della Caritas che hanno speso solo 6,7 centesimi per ogni euro investito nei progetti. A fronte di ciò il panorama sociale complessivo che emerge dal VII Rapporto dell’Osservatorio della Realtà Sociale è piuttosto sconsolante a causa di un modello economico che tende ad aumentare le disuguaglianze: l'abbassamento del reddito medio pro-capite; l’aumento della povertà “assoluta” (meno di 307 euro al mese) che colpisce a 3 milioni de persone; la cronicizzazione della di disoccupazione, in particolare per gli ultra-cinquantenni; la perdita del potere di acquisto e la diminuita incisività delle politiche sociali. Infine, Caritas ribadisce che sono le donne il volto più visibile della crisi e delle situazioni di povertà ed esclusione alle quali incominciano ad affacciarsi le coppie giovani con figli e le donne sole con familiari a carico. (A cura di Alina Tufani)
Università Gregoriana su Sant’Alberto Hurtado, gesuita cileno protagonista nell’azione sociale
◊ “Il lascito di Sant’Alberto Hurtado e la sua proiezione nella società universale”. Se ne parlerà in un Seminario a Roma, dedicato all’eminente figura del sacerdote gesuita cileno, ad 8 anni dalla sua canonizzazione, nell’ottobre del 2005. L’incontro è promosso dalla Pontifica Commissione per l’America Latina, in collaborazione l’Ambasciata del Cile e l’Università gregoriana, che ospiterà l’evento giovedì pomeriggio 17 ottobre. La fama di padre Hurtado, nato nel 1901 e scomparso a soli 51 anni, ha travalicato i confini del suo Paese per avere dedicato la sua vita all’apostolato, alla formazione dei giovani e all’aiuto dei più bisognosi, dei poveri, degli anziani, degli indifesi. “La sua azione sociale” – sottolinea una nota stampa - è stata “ispirata dai concetti cristiani della dignità dell’uomo, sospingendo una società che promuova uno sviluppo umano basato sui principi della giustizia, della carità e dell’equità. In un’epoca di relativismi, il padre Hurtado – prosegue la nota - considerava il bene comune e la Giustizia come ideali sui quali dovevano organizzarsi la società e tutte le strutture che la sostengono: la famiglia, lo Stato, l’economia, le associazioni aziendali e sindacali, la Chiesa”. Il suo nome resta ancora oggi legato all’ “Hogar de Cristo”, struttura di accoglienza per gli emarginati, di cui è stato il fondatore. Ad inaugurare i lavori del Seminario sarà il cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontifica Commissione per l’America Latina; seguiranno gli interventi del rettore della Gregoriana, padre Francois-Xavier Dumortier e dall’ambasciatore cileno Fernando Zegers, allievo e testimone diretto della santità di padre Hurtado. Tra i relatori il biografo del santo e rettore del Pontificio Collegio Pio Latino Americano, padre Jaime Castellón ed il cappellano del “Hogar de Cristo”, padre Pablo Walker. In chiusura le parole del cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, già Segretario di Stato e già Nunzio in Cile. (A cura di Roberta Gisotti)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 287