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Sommario del 09/05/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Papa Francesco: la Chiesa sia umile e coraggiosa, aperta e in cammino
  • Tweet del Papa: la fiducia nella misericordia di Dio è dono prezioso dello Spirito Santo
  • Brasile: 3.a riunione della Commissione internazionale cattolico-anglicana
  • Oggi in Primo Piano

  • Pakistan, elezioni vicine ma i talebani minacciano attacchi durante il voto
  • Nigeria nella violenza. Il card. Onaiyekan: governo sottovaluta Boko Haram
  • Festa per l'Europa. L’ambasciatrice Ue in Vaticano: in piena crisi riscoprire i valori
  • I vescovi europei: continente cresca aperto all'Assoluto, solidale, attento alla famiglia
  • Tragedia di Genova. Luigi Merlo: porti italiani piccoli e a rischio, serve nuova legge
  • 20 anni fa il grido di Giovanni Paolo II alla mafia: convertitevi, verrà il giudizio di Dio
  • 35 anni fa, l’eccidio Moro: l'omaggio di Napolitano a via Caetani
  • "Bambini senza sbarre": sms per aiutare i minori che visitano i genitori in carcere
  • Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa. Mons. Crepaldi: la fede ha le risposte per l'uomo
  • Presentata la Biennale Venezia 2013: sguardo al futuro e formazione di giovani artisti
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Congo: Onu accusa soldati e ribelli per abusi sui civili
  • Bangladesh: ancora un incendio in una fabbrica tessile. Oltre 800 morti per il crollo del Rana Plaza
  • Padre Hammond ha portato in Nord Corea il messaggio di pace di Papa Francesco
  • Pakistan. Vescovo di Islamabad: elezioni occasione di pace per cristiani e musulmani
  • Roma: celebrazione per invocare la liberazione dei due vescovi rapiti in Siria
  • Venezuela. Il vescovo di Trujillo: "La divisione nel Paese disgrega la società"
  • Angola: siccità nel sud. Centinaia di migliaia a rischio fame
  • Kenya. I vescovi: i cattolici sono “pro-vita”. No alla pubblicità ingannevole “pro-scelta”
  • Zambia. Appello Caritas: stop alle dimissioni dei parlamentari
  • Il Papa e la Santa Sede



    Papa Francesco: la Chiesa sia umile e coraggiosa, aperta e in cammino

    ◊   Mancano pochi giorni al secondo mese dall’elezione di Papa Francesco. Una delle novità più feconde di questo inizio Pontificato sono le Messe che il Papa celebra la mattina alla Casa Santa Marta, le cui omelie vengono riferite in sintesi dalla nostra emittente e dall’Osservatore Romano. Prendendo spesso spunto dai brani degli Atti degli Apostoli, e dunque dalla vita della prima comunità cristiana a Gerusalemme, il Pontefice sta tracciando un affresco sulla Chiesa, sulla sua identità e missione. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Una Chiesa umile e coraggiosa in ascolto dello Spirito Santo. Una Chiesa che esce da se stessa per andare nelle periferie del mondo. Una Chiesa che è madre, non baby sitter, che costruisce ponti e non muri. Una Chiesa dalle porte aperte, che è comunità di amore non una Ong. In meno di due mesi, Papa Francesco ha offerto numerosi spunti di riflessione ai fedeli su cosa vuol dire vivere nella Chiesa, essere Chiesa. Con il suo linguaggio semplice e diretto, ma al tempo stesso profondo, il Papa sta ricordando, innanzitutto, che ogni battezzato ha una “grande responsabilità”: annunciare Cristo e così “portare avanti la Chiesa”. Essere cristiano, infatti, avverte, “non è fare carriera in uno studio per diventare un avvocato”. Essere cristiano è “un dono che ci fa andare avanti con la forza dello Spirito nell’annuncio di Gesù Cristo”. Ecco perché, il cristiano deve essere sempre in cammino, mai fermo:

    “Quando la Chiesa perde il coraggio, entra nella Chiesa l’atmosfera di tepore. I tiepidi, i cristiani tiepidi, senza coraggio… Quello fa tanto male alla Chiesa, perché il tepore ti porta dentro, incominciano i problemi fra noi; non abbiamo orizzonti, non abbiamo coraggio, né il coraggio della preghiera verso il cielo e neppure il coraggio di annunciare il Vangelo”. (Messa, 3 maggio)

    Un coraggio, avverte Francesco, che troviamo solo se sappiamo accogliere la Parola di Dio con cuore umile, se siamo docili e non opponiamo resistenza allo Spirito Santo. Ecco allora che la Chiesa diventa davvero una comunità del “sì” che rimane nell’amore di Cristo:

    “Noi, donne e uomini di Chiesa, siamo in mezzo ad una storia d’amore: ognuno di noi è un anello in questa catena d’amore. E se non capiamo questo, non capiamo nulla di cosa sia la Chiesa”. (Messa, 24 aprile)

    Il Papa mette in guardia dai rischi che corriamo nell’allontanarci da Cristo, quando siamo tentati di voler costruire una Chiesa a nostra misura. La strada di Gesù non è quella delle ideologie e dei moralismi che falsificano il Vangelo. E indica nella “mondanità” il pericolo più grave per la Chiesa:

    “Quando la Chiesa diventa mondana, quando ha dentro sé lo spirito del mondo, quando ha quella pace che non è quella del Signore (…) la Chiesa è una Chiesa debole, una Chiesa che sarà vinta e incapace di portare proprio il Vangelo, il messaggio della Croce, lo scandalo della Croce… Non può portarlo avanti se è mondana”. (Messa, 30 aprile)

    E se è mondana, la Chiesa non va avanti ma torna indietro. Questo, osserva Papa Francesco, lo si vede anche rispetto al Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII. A 50 anni di distanza, si chiede il Santo Padre, “abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel Concilio?”:

    “No. Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore”. (Messa, 16 aprile)

    “Per dirlo chiaramente”, avverte Francesco, “lo Spirito Santo ci dà fastidio, perché ci muove, ci fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti”. Certo, sottolinea, la Chiesa “sempre va tra la Croce e la Risurrezione, tra le persecuzioni e le consolazioni del Signore”. Ma, rassicura, “questo è il cammino, chi va per questa strada non si sbaglia”. La Chiesa, ripete tante volte il Papa, è una storia d’amore, non un’organizzazione burocratica. In definitiva, la Chiesa è madre:

    “Qui ci sono tante mamme, in questa Messa. Che sentite voi se qualcuno dice: ‘Ma…lei è un’organizzatrice della sua casa’? ‘No: io sono la mamma! E la Chiesa è Madre. E noi siamo in mezzo ad una storia d’amore che va avanti con la forza dello Spirito Santo e noi, tutti insieme, siamo una famiglia nella Chiesa che è la nostra Madre”. (Messa, 24 aprile)

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    Tweet del Papa: la fiducia nella misericordia di Dio è dono prezioso dello Spirito Santo

    ◊   Stamani, nel giorno in cui in Vaticano si festeggia la Solennità dell’Ascensione, il Papa ha lanciato un nuovo tweet: “Dono prezioso che lo Spirito Santo porta nei nostri cuori – scrive - è la profonda fiducia nell’amore e nella misericordia di Dio”.

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    Brasile: 3.a riunione della Commissione internazionale cattolico-anglicana

    ◊   Si è concluso martedì, presso il Monastero di San Benedetto a Rio de Janeiro, il terzo incontro dei membri della Commissione internazionale anglicana-cattolica della terza fase di dialogo tra la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana (Arcic III). La sessione, iniziata il 29 aprile, è stata la prima ad essere ospitata in Brasile e in un Paese dell’emisfero sud del mondo. Presieduta dall’arcivescovo cattolico di Birmingham Bernard Longley e dal vescovo anglicano di Guilford Christopher Hill, la Commissione ha proseguito la discussione avviata nel maggio di due anni fa su “La Chiesa come comunione, locale e universale”, e su “Come, nella comunione, la Chiesa locale e universale giunge a discernere il giusto insegnamento etico” in vista della pubblicazione di una nuova dichiarazione comune. In particolare – riporta il comunicato conclusivo - i partecipanti hanno analizzato le implicazioni teologiche e condiviso riflessioni sulla natura della Chiesa e sulle strutture che contribuiscono al discernimento e determinano i processi decisionali al suo interno. Una giornata è stata dedicata poi all’esame di studi preparati dai membri su alcune questioni etiche e alla riflessione sul modo in cui le due Chiese hanno presentato il loro magistero su queste materie. Inoltre, si è portata avanti la preparazione dei documenti della precedente fase di dialogo, l’Arcic II, da presentare alle rispettive Chiese. I membri della Commissione hanno esaminato le risposte ricevute a ciascuna delle cinque dichiarazioni concordate e prepareranno le introduzioni a ciascuna di esse per contestualizzarle nella situazione del cammino ecumenico sinora percorso. L'Arcic III – lo ricordiamo - nasce dall'incontro a Roma tra Benedetto XVI e l’allora Primate anglicano Rowan Williams nel 2006 quando, in una Dichiarazione Comune, entrambi avevano espresso il desiderio di continuare il dialogo ecumenico avviato nel 1970 con l’istituzione dell’Arcic I e proseguito, dal 1983, con l’Arcic II, per superare le divisioni tra le due Chiese lasciate dallo scisma del XVI secolo. Un processo che ha conosciuto alti e bassi: rispetto ai promettenti progressi compiuti dopo il Concilio, con la pubblicazione dei tre documenti sull’Eucaristia (1971), sull’Ufficio e l’Ordinazione (1973), sull’autorità della Chiesa (1976-1981), in questi ultimi anni il dialogo cattolico-anglicano ha segnato il passo. Dal punto di vista teologico le due Chiese si sono allontanate molto da quando, nel 1994, la Chiesa d’Inghilterra ha dato il via all’ordinazione sacerdotale delle donne. Una distanza che si è ulteriormente allargata con l’apertura da parte della Chiesa d’Inghilterra all’ordinazione episcopale femminile nel 2008. Questo non ha impedito, peraltro, la pubblicazione nel 2005 di un altro importante documento comune su “Maria: Grazia e Speranza in Cristo”. Un’altra questione che ha lasciato un segno profondo nei rapporti tra le due comunità è la complessa crisi all’interno della stessa Comunione anglicana aperta dall’ordinazione, nel 2003, di un pastore dichiaratamente omosessuale a vescovo negli Stati Uniti e dal riconoscimento delle unioni omosessuali. Decisioni che, come è noto, hanno creato forti dissensi nel mondo anglicano sottolineando ulteriormente la profonda distanza in materia di teologia morale tra Canterbury e Roma. La pubblicazione nel 2009 della Costituzione apostolica di Benedetto XVI “Anglicanorum Coetibus” che predispone l'accoglienza degli anglicani che hanno deciso di abbandonare la Comunione anglicana per convertirsi al cattolicesimo e la conseguente erezione di tre Ordinariati personali in Inghilterra, Stati Uniti e Australia, ha aperto un nuovo capitolo nei rapporti tra le due Chiese. (A cura di Lisa Zengarini)

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    Oggi in Primo Piano



    Pakistan, elezioni vicine ma i talebani minacciano attacchi durante il voto

    ◊   Pakistan alle urne sabato per le elezioni generali, in un clima di forte tensione. Decine i morti nelle settimane di campagna elettorale, con una lunga serie di attacchi sferrati dai talebani. I combattenti islamici pensano inoltre ad attacchi kamikaze durante le elezioni. La minaccia è contenuta in una lettera del leader del gruppo, in cui si parla di un “sistema di infedeli chiamato democrazia''. A finire nel mirino dei rivoltosi, anche il figlio dell’ex premier Gilani, rapito oggi durante un comizio. Ma quanto è importante questa tornata elettorale per la tenuta del Paese a livello politico-istituzionale? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Massimo Campanini, docente dell’Islam contemporaneo presso l’Università di Trento:

    R. – Secondo me, la tornata è fondamentale perché il Paese deve essere rifondato. Dai tempi di Musharraf, in realtà il Pakistan ha attraversato una fase di estrema instabilità. Quindi, c’è da sperare che le nuove elezioni possano dare al Paese quella stabilità che ha perduto. Naturalmente, le premesse non sono buone perché la scia di sangue sembra preludere a lotte e contrasti interni ancora più forti. Però, la speranza è quella che le nuove elezioni garantiscano una nuova stabilizzazione.

    D. – Secondo lei, non si corre il rischio che le violenze mettano in secondo piano quello che è un passaggio importantissimo per la democratizzazione del Paese?

    R. – Le violenze sono sempre in grado di mettere in difficoltà la democratizzazione, ma penso che all’interno del Paese ci siano delle forze che stanno lavorando positivamente per uscire da una situazione di stallo. Certamente, ci sono altri elementi della vita politica pakistana che preferirebbero una "balcanizzazione" del Pakistan e che vedrebbero favorevolmente una frantumazione religiosa lungo faglie etniche interne al Paese.

    D. – Le tensioni che vive questo Paese sono indissolubilmente legate anche ai rapporti complessi con uno dei suoi vicini, l’Afghanistan, un legame da sempre pieno di criticità…

    R. – È sempre stato pieno di criticità, perché da molti anni il Pakistan ha cercato di controllare l’Afghanistan. In realtà, l’Afghanistan ha costituito sempre una sorta di territorio di profondità strategica per quello che potremmo chiamare “l’espansionismo pakistano” e gli equilibri di potenza regionali che evidentemente coinvolgono anche l’India. Per cui, è evidente che il Pakistan abbia interesse a controllare l’Afghanistan. E dal punto di vista dei talebani – soprattutto delle forze più estremiste che operano all’interno dell’Afghanistan – c’è il tentativo, esattamente al contrario, di mettere in discussione il controllo pakistano sull’Afghanistan. Quindi, evidentemente i due interessi sono contrastanti e questo dà luogo oltre alle divisioni di tipo etnico, settario e religioso, a delle frizioni che sono molto pericolose.

    D. – Insomma, crede che il Pakistan riuscirà a trovare la strada verso quella normalizzazione che lo accrediterebbe pienamente presso le cancellerie internazionali?

    R. – La speranza è quella, perché l’area è molto delicata e ha bisogno di stabilizzazione. I processi democratici dovrebbero favorire potenzialmente questa stabilizzazione. L’importante è che le divisioni e le faglie di tipo etnico e religioso non compromettano quella che ormai sembra da molti anni – dalla caduta di Musharraf e dell’assassinio di Benazir Bhutto – una specie di transizione infinita.

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    Nigeria nella violenza. Il card. Onaiyekan: governo sottovaluta Boko Haram

    ◊   Nigeria in primo piano nelle cronache dei conflitti armati. Negli ultimi giorni, 28 poliziotti sono stati uccisi nello Stato centrale di Nasarawa in un attacco sferrato dalle milizia tribale Ombatse, mentre altre 55 vittime tra civili e forze dell’ordine si contano nello Stato nordorientale di Borno per mano degli estremisti islamici di Boko Haram. La frangia terroristica - cui va imputata anche la decapitazione di due predicatori musulmani contrari alla violenza - persegue il progetto di voler islamizzare l’intero Paese. In evidente difficoltà il presidente cattolico, Goodluck Jonathan, nel pacificare il Paese. Roberta Gisotti ha intervistato il cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja:

    R. – Ciò che mi preoccupa è che sembra stiano crescendo le attività di questo gruppo. Hanno attaccato persino un campo dell’Esercito nigeriano. Questo prova i timori che abbiamo sempre espresso fin dall’inizio, che non si tratta solo di musulmani che uccidono i cristiani, ma piuttosto che nel loro mirino vi sia tutto lo Stato nigeriano: vogliono distruggere lo Stato nigeriano. E adesso si vede che le vittime degli ultimi attacchi non sono i cristiani, ma la povera gente e gli agenti di sicurezza del governo nigeriano. Questo significa che se il governo non cerca un modo migliore per fermare questi attacchi, non si sa che fine farà. Purtroppo, il metodo usato fino adesso, secondo me, è controproducente, specialmente quando i soldati usano misure sicuramente inaccettabili persino nel trattare i Boko Haram e nel rastrellamento generale dei giovani. Tutti sono sospettati di appartenere al gruppo. Questo modo di agire, purtroppo, sembra riempire ancora di più il gruppo di quelli che sostengono Boko Haram, che adesso, dunque, sono arrabbiati anche nei confronti dei nostri soldati.

    D. – Il governo non gode, quindi, di un appoggio totale da parte della popolazione che, a quanto lei mi sta dicendo, è fortemente impaurita, frastornata...

    R. – Io parlo piuttosto della capacità del governo di prendere le decisioni necessarie e di agire di conseguenza. Non mi sembra venga riconosciuta la gravità della situazione. Adesso, forse, con l’attacco alla base militare cominceranno a pensare seriamente in questo senso. Non dico che la risposta debba essere solo militare. Si deve trovare anche un modo per dialogare, se non con il gruppo, almeno con quelli che li capiscono, quelli con i quali possiamo cominciare a cercare una soluzione pacifica, si può anche dire politica, della situazione. Infatti, lo scopo politico che questa gente ha espresso è quello che la Nigeria debba diventare un Paese islamico. Questo non è possibile e si deve trovare qualcuno che possa far capire loro che questo scopo non è raggiungibile.

    D. – E' caduta nel vuoto l’offerta agli inizi di aprile, da parte del presidente nigeriano Jonathan, di un’amnistia?

    R. – E’ stato un grande equivoco. Cosa vuol dire amnistia? E’ caduta nel vuoto non solo per Boko Haram, ma anche per la popolazione nigeriana, specialmente per i tanti cristiani che si chiedono cosa voglia dire amnistia. Questo modo di agire, secondo me, è sbagliato. L’amnistia dovrebbe intendersi come un perdono a qualcuno che è pentito. Ma con chi non è pentito e crede di seguire la strada giusta, allora non ha senso parlare di amnistia. Si può sperare solo che qualcuno di loro, visto che sono tanti in questa avventura, si stanchi e voglia integrarsi nella vita normale nigeriana. In questo caso, si potrebbe offrire l’amnistia, ma non dare soldi, promettere tanti vantaggi, come fossero un premio per ciò che hanno fatto.

    D. – Ci sarebbe forse bisogno di una mediazione internazionale a sostegno di questa opera di pacificazione in Nigeria?

    R. – Si potrebbe parlare di mediazione internazionale, se il nostro governo avesse un piano chiaro, ma io non vedo la chiarezza dei loro piani. C’è un Comitato di amnistia con tanti musulmani, che sta ancora lavorando, ma il loro lavoro sembra non aver fermato l’attività di quelli che sparano.

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    Festa per l'Europa. L’ambasciatrice Ue in Vaticano: in piena crisi riscoprire i valori

    ◊   "Celebrare l'Europa in tempi di grave crisi significa impegnarsi per un cambiamento": così Martin Schulz, presidente del parlamento Europeo, ricorda, la giornata dell'Europa che si celebra oggi 9 maggio. E proprio di crisi e di valori ha parlato Fausta Speranza con la ambasciatrice capo della delegazione dell'Unione Europea presso la Santa Sede, Laurence Argimon-Pistre:

    R. – We have saved Euro, hopefully; the Eu has gone through the storm…
    Abbiamo salvato l’euro – almeno, lo speriamo – l’Unione Europea ha superato la tempesta e ora riusciamo a vedere le cose in modo più tranquillo, se così si può dire. E’ evidente, però, che la crisi colpisce pesantemente i cittadini, spingendo la gente in situazioni molto difficili: disoccupazione, sì, ma anche la perdita di benefici sociali, la difficoltà di pagare l’affitto e situazioni di questo tipo. E’ dunque importante oggi ricordare fondamentalmente quali siano i valori in Europa, per l’edificazione dell’Unione Europea. Non ne va soltanto dell’Europa ma dei valori sui quali l’Unione Europea si fonda. Sono valori di fondamentale importanza, che sono le colonne per la costruzione europea. Questi valori sono la non discriminazione, la solidarietà, la coesione: si è sempre ribadita la necessità di un campo d’azione uguale per tutti, per i popoli, per i Paesi, per le regioni. Assistiamo oggi ad un’ondata di angoscia, che è normale, ma assistiamo anche ad un’ondata di xenofobia, di razzismo, di aggressioni in base a stereotipi, come ad esempio Nord contro Sud, Ovest contro Est, i popoli indigeni contro gli immigranti e cose di questo genere. Tutto questo suona molto male, se ricordiamo le ragioni per le quali l’Europa è stata “creata”.

    D. – Questo è l’anno dei cittadini: secondo lei, quale potrebbe essere il ruolo dei cittadini?

    R. – Well, the year of the citizen purpose is to get the citizens to understand…
    Lo scopo dell’anno del cittadino è far conoscere ai cittadini i loro diritti: infatti, spesso questi diritti non sono ben conosciuti dalla gente. E’ importante, quindi, che essi abbiano consapevolezza di tutti gli strumenti che hanno per reagire alle cose che si stanno verificando. Ad esempio, un ragazzo o una ragazza che non trovino lavoro nel proprio Paese, possono andare in un altro Paese a cercare lavoro: ci sono un certo numero di norme apposite, che sono leggi europee. L’idea è proprio quella di dare a tutti la capacità di comprendere. Ma c’è anche un altro margine di azione. Esiste uno strumento che è veramente interessante e che è stato creato dal Trattato di Lisbona e si chiama “iniziativa del cittadino”. Un po’ come in Svizzera, dove c’è la possibilità di presentare petizioni. In questo caso è molto simile: è necessario che un milione di cittadini uniscano le loro firme, da sette Paesi diversi, ma una volta raggiunto il milione di firme, il testo può essere inviato a Bruxelles e la Commissione deve prendere posizione, deve incontrare le persone. Non è obbligata a prendere una decisione, ma è obbligata a prendere posizione ed a presentare una risposta al Parlamento Europeo: quindi, è molto importante.

    D. – Attualemnte, è in atto un’iniziativa di questo tipo in favore della vita…

    R. – May be Europe has been seen in a very economic kind of way…
    Forse, l’Europa è stata vista da un aspetto sostanzialmente economico, ma noi dobbiamo chiederci quale tipo di Europa noi vogliamo. La risposta non verrà dalle istituzioni, bensì dai cittadini.

    D. – Cosa possiamo pensare guadando ai risultati delle elezioni in Italia, dove è stata forte la protesta antipolitica, o in Islanda che era in procinto di entrare in Europa, mentre il vincitore delle elezioni è un euroscettico?

    R. – The problem is that Europe is not very popular these days…
    Il punto è che l’Europa, in questo momento, non è molto popolare. Questo non ci sorprende molto, soprattutto se pensiamo all’austerità che è percepita fortemente come una sorta di "diktat" da parte dell’Europa. Anche se questo non è propriamente esatto, d’altro canto il modo in cui i governi hanno reagito è stato molto veloce. Credo ci sia una sfiducia generalizzata: la cosa importante è che la gente comprenda che il loro futuro è in Europa. Pensiamo, ad esempio, se la Grecia fosse stata costretta ad uscire dall’Europa, cosa ne sarebbe stato di quella nazione? Anche i Paesi “grandi” hanno poco futuro se lasciati a se stessi, con la globalizzazione, con l’impetuosità della globalizzazione. Anche la Germania o la Francia da soli sarebbero piccoli nel mondo globale… Se sei piccolo, non sei in grado di reagire.

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    I vescovi europei: continente cresca aperto all'Assoluto, solidale, attento alla famiglia

    ◊   Nonostante la crisi economica e le difficoltà non si deve perdere la speranza. L’Europa Unita foriera di pace e solidarietà. Sono in sintesi i messaggi lanciati dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e dalla Commissione degli episcopati della Comunità Europea (Comece), per la Giornata dell'Europa. I vescovi ribadiscono la vicinanza della Chiesa, la centralità della famiglia. E indicando il pensiero di Robert Schuman, tra i padri fondatori dell’Unione Europea, e quello di Papa Giovanni XXIII, sottolineano la sfida di una costruzione di una società europea aperta all’Assoluto e improntata su verità, giustizia, solidarietà e libertà: pilastri della pace. Il servizio di Massimiliano Menichetti:

    Un’Europa unita testimonianza di pace e riconciliazione. I vescovi europei ribadiscono il ruolo del Vecchio continente attingendo allo spirito visionario di uno dei padri fondatori, Robert Schuman, ricordando il documento con il quale, il 9 maggio 1950, la Francia indicò alla Germania “l’apertura di una strada per la pace”. Il Consiglio delle Conferenze episcopali europee e la Commissione degli Episcopati della Comunità europea tracciano le sfide di oggi e di domani. Pace, solidarietà rispetto a fronte di una mera logica economica che, se perseguita, porterebbe – secondo padre Patrick H. Daly, segretario generale della Comece – tutto indietro di “70 anni” e genererebbe “un continente profondamente diviso dall’odio e dal sospetto reciproco”. Sulla stessa linea, il Consiglio delle Conferenze episcopali europee che in messaggio ribadisce la vicinanza della Chiesa a tutti coloro “che si trovano in difficoltà per l’attuale crisi economica, che si sentono sole, che hanno perso o sono in cerca di un lavoro e che, a causa della grave crisi di senso e di fede, fanno fatica a guardare al futuro”. In particolare, i vescovi guardano “ai giovani” e “li invita a non perdere la speranza”. L’impegno per la costruzione di una società giusta, precisano, deve essere “a non lasciare che paure ed egoismi offuschino la carità che ha sempre contraddistinto” il Vecchio continente, “ma a riscoprire invece l’importanza della famiglia, il valore del dono e dell’accoglienza, facendosi prossimo dei più bisognosi”, mostrando quell’amore “affidabile di Dio che in Gesù Cristo si è fatto prossimità a tutti”. I vescovi, inoltre, inviato i cristiani del Continente a cogliere l’occasione della Giornata odierna “per riflettere sul loro impegno nella costruzione di una società europea aperta all’Assoluto e improntata su verità”, “giustizia”, “solidarietà e libertà”: pilastri della pace.

    Sulla "Giornata dell'Europa" Massimiliano Menichetti ha intervistato mons. Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza Bobbio e vicepresidente della Comece:

    R. – Innanzitutto, ricordiamo il motivo per cui si celebra questa Giornata come festa dell’Europa: due mani che prima si erano combattute, finalmente si sono rappacificate. Mi riferisco alla Francia, in modo particolare al ministro degli Esteri, Schuman, che propose alla Germania un cammino di pace, un cammino di riconciliazione dopo la terribile guerra mondiale. Il “sì” del cancelliere tedesco alla mano tesa del ministro francese è il segno di una svolta, di un cambiamento. Così inizia quel cammino di pace, di solidarietà durato più di 70 anni. E’ importante ricordare quell’inizio perché, dopo questi 70 anni di pace e di collaborazione, a causa anche della pesante crisi che attraversa l’Europa, alcuni pensano di tornare indietro rinchiudendosi, in un certo modo, negli egoismi che avevano portato al conflitto mondiale, che avevano portato al sopravvento dell’uno sull’altro. Offuscare quel cammino di pace, pensare che la soluzione del futuro sia tornare indietro, è davvero frutto di una miopia grande.

    D. – Centrale per questa Europa, viene ribadito, è la solidarietà ma anche il legame con il trascendente…

    R. – Solidarietà perché solo insieme possiamo affrontare questi momenti difficili. Gli uomini che hanno firmato il Trattato di pace, tanti anni fa, che hanno dato l’avvio all’Unione Europea come il nostro De Gasperi insieme con Adenuer, tedesco, e a Schuman, francese, erano uomini di fede. Erano uomini che si sentivano interpellati come credenti a costruire quel bene grande che è la pace. Noi dobbiamo riscoprire l’importanza di una visione di Europa aperta: aperta a Dio, aperta all’uomo, aperta alla solidarietà. E ogni cristiano è davvero chiamato a collaborare e a contribuire, con il suo modo di pensare, con il suo modo di agire, al destino del nostro continente, che non può essere un destino di guerra e di violenza ma un destino, invece, di concordia, di pace e di solidarietà.

    D. – Ribadire le radici dell’Europa è un aspetto importante. Eppure, per molti sembra secondario e si continua a parlare prevalentemente di economia…

    R. – E’ veramente fondamentale, perché solo con un grande orizzonte il nostro animo è disposto alla collaborazione, alla pace. Questo grande orizzonte non viene da noi, ci è offerto da Dio che ci chiama a iscrivere nella storia il suo progetto, che è progetto di vita, che è progetto di pace, che è progetto di salvezza. E allora, quando l’Europa perde il grande orizzonte, c’è solo una visione pragmatica, c’è solo una visione anche egoistica. Non c’è l’attenzione all’umanità della civiltà europea, quell’umanesimo che ha fatto grande nella storia la nostra Europa.

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    Tragedia di Genova. Luigi Merlo: porti italiani piccoli e a rischio, serve nuova legge

    ◊   Giornata di lutto cittadino a Genova, oggi, per ricordare le sette vittime dello scontro nel porto, martedì sera. Mentre continuavano le ricerche dei due dispersi, Francesco Cetrola e Giovanni Iocoviello, alle 11 le sirene delle imbarcazioni hanno suonato e i negozi hanno abbassato le saracinesche. Polemiche sono avvenute durante la commemorazione, alcuni addetti portuali hanno contestato sia le autorità che i rappresentanti sindacali. Migliorano intanto le condizioni dei quattro feriti ricoverati in ospedale, mentre proseguono le indagini della magistratura: l'inchiesta è per omicidio colposo plurimo, indagati restano il comandante della nave, la "Jolly Nero", e il pilota che era in plancia con lui. L’ipotesi che prende sempre più forma sembra sia quella dell’avaria propulsiva, all’origine dell’impossibilità di gestire la nave. Francesca Sabatinelli ha intervistato Luigi Merlo, presidente dell'Autorità portuale di Genova:

    R. – Per quel che riguarda il recupero delle due persone, si è deciso di intervenire sulla parte di torre crollata per demolirla in parte e quindi aprire ulteriori varchi ai subacquei per consentire il recupero delle due persone. Questa mattina hanno fatto il punto tutte le autorità competenti per quel che riguarda le operazioni di recupero, che attualmente è l’impegno maggiore. Dal punto di vista, invece, della ricostruzione degli eventi, la magistratura sta indagando. Mi pare stiano emergendo le prime indicazioni. Come già sottolineato sin dal primo momento, era impensabile che durante una manovra – che è abbastanza tipica all’interno del porto – la nave si fosse avvicinata alla torre piloti in quel modo. Mi pare sia già emerso un elemento legato all’avaria Bisogna capire se ci siano altre concause, ma questo la magistratura potrà accertarlo con il suo lavoro e attraverso la lettura della scatola nera di bordo.

    D. – La questione dell’avaria esclude, a suo giudizio, l’errore umano?

    R. – Credo che nessuno possa escluderlo o, ad oggi, confermarlo. Potrebbero anche essere concause. Bisogna capire se nel momento in cui è stato accertato il fatto che la nave non poteva andare in avanti, e che quindi continuava ad andare a marcia indietro, avrebbero potuto essere attivati altri interventi. Questo credo si debba verificare attraverso le testimonianze. Ci sono già le prime, quelle delle registrazioni. Parliamo di frazione di minuti, di alcuni secondi: si tratta veramente di una situazione che si è evoluta in tempi rapidissimi. Quindi, bisognerà capire bene – assolutamente bene – quello che è accaduto.

    D. – Lei sottolineava come Genova sia da considerarsi un porto estremamente sicuro e però, allo stesso tempo, un porto che per quello che deve offrire andrebbe ingrandito…

    R. – E’ così. Le navi crescono sempre più di dimensione, le compagnie decidono in pochi anni di aumentare di 30-40-50 metri la lunghezza delle loro navi. Lo possono fare in tre anni, tanto ci vuole per costruire una nuova nave, invece per costruire un nuovo porto occorrono decenni, perché bisogna pensare a un piano regolatore, farlo approvare – con la burocrazia italiana che è lentissima, – poi occorre prevedere l’opera, finanziarla. Quindi, c’è questo elemento che in Italia si è aggravato perché da anni si è abbandonata una politica portuale. E’ un’economia importante, fondamentale per questo Paese, ma il parlamento se n’è dimenticato: sono otto anni che discute inutilmente su una legge di riforma senza produrre nulla, arenandosi continuamente attraverso veti incrociati o interessi particolari, mentre l’Europa va molto avanti, mentre il sistema internazionale agisce per poter adeguare il sistema portuale alle nuove esigenze. Rischiamo di avere tutti porti per navi piccole, pregiudicando una prospettiva economica fondamentale per il nostro Paese, magari arrivando al paradosso che le merci destinate all’Italia vengano da porti del Nord Europa.

    D. – L’assurdità è che sia una tragedia come questa, adesso, a riproporre il problema…

    R. – E’ esattamente così. Io sono anche presidente dei Porti italiani: abbiamo provato in tutti i modi, in questi anni, a lanciare grida d’allarme senza essere ascoltati. L’ultima volta, quando ci siamo resi conto che non si riusciva a procedere con il governo, abbiamo inviato una lunga lettera al presidente della Repubblica, Napolitano, chiedendogli di intervenire perché questo silenzio del parlamento, della politica rispetto all’economia del mare per noi è veramente inaccettabile. Parliamo di un settore che – solo per i porti – garantisce ogni anno 13 miliardi di euro di entrate all’erario italiano, senza avere il ritorno di un euro, anzi: in questi anni, sono state cancellate anche le risorse per le manutenzioni nei porti. Questa è la risposta rispetto al nostro lavoro.

    D. – La risposta all’assenza e al silenzio è stata anche la rabbia dei lavoratori, questa mattina…

    R. – Sì, di una parte dei lavoratori. C’è stato un momento di non allineamento tra le organizzazioni sindacali e un gruppo di lavoratori. Però, questo fa parte di una situazione, di un clima, legati proprio anche al fatto che, rispetto al lavoro di tante persone – nel porto di Genova operano 30 mila persone, tra lavoratori diretti e lavoratori indiretti – si ha la sensazione che il lavoro emerga solo in situazioni drammatiche come queste, ma che poi nessuno si renda conto del contributo che si dà al sistema-Paese.

    D. – C’è stato subito l’interessamento del premier Letta – ieri era a Genova – così come del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Lupi, mentre oggi attendete quello dell’ambiente Orlando…

    R. – La risposta del governo è stata straordinaria: il presidente Letta è venuto, con lui ci eravamo sentiti ripetutamente per telefono nei giorni scorsi, così come dopo la sua visita. Con il ministro Lupi abbiamo iniziato anche un piano d’azione, oggi ne parlerò anche con il ministro Orlando. Il governo è stato molto vicino, non in maniera formale, ma in maniera concreta, di questo siamo profondamente grati, la loro vicinanza è stata di aiuto, di conforto, di sostegno, e credo che sarà anche parte attiva perché bisogna ripristinare alcuni servizi, dare aiuti soprattutto ad alcune aree come il Corpo piloti che ha perso tutto: ha perso la sede, ha perso imbarcazioni, ha perso uomini. Quindi, ci sono delle realtà che dobbiamo tutti contribuire a fare riattivare.

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    20 anni fa il grido di Giovanni Paolo II alla mafia: convertitevi, verrà il giudizio di Dio

    ◊   Mafiosi “convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio”. Sono passati vent’anni, era il 9 maggio del 1993, quando il beato Giovanni Paolo II pronunciò queste parole nella piana dei templi di Agrigento. Un anno prima gli attentati che stroncarono le vite dei giudici Falcone e Borsellino, mentre, nel 1990, la Stidda uccideva il magistrato Rosario Livatino. Fu anche l’incontro con i genitori di quest’ultimo ad ispirare l’invettiva di Giovanni Paolo II contro la criminalità organizzata. Il servizio di Paolo Ondarza:

    Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”.

    E’ il 9 maggio 1993, ad ascoltare queste parole la cui eco ha varcato la valle dei templi, c’erano migliaia di persone. Un discorso senza esitazioni contro la criminalità organizzata. Ma a vent’anni di distanza, quale seguito ha avuto? Don Luigi Ciotti, presidente dell’Associazione Libera contro le Mafie:

    R. - Credo vada sottolineato quello che è avvenuto pochi giorni dopo, quando, il 19 agosto di quell’anno, in carcere un uomo di Cosa nostra chiama il Magistrato e farà una dichiarazione molto pesante. Credo che questo sottolinei tutto il senso di quel grido forte del Papa. Marino Mannoia dichiarerà che nel passato la Chiesa era considerata sacra ed intoccabile, invece "Cosa nostra" attacca la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Le parole del Papa avevano scosso le coscienze, avevano chiamato in causa la meraviglia del popolo della Sicilia a dover reagire, a fare di più la propria parte. Le parole del Papa avevano creato una risposta forte nei mafiosi, perché non possiamo dimenticare quel 27 luglio, le bombe a Roma in San Giovanni in Laterano e poi a San Giorgio in Velabro. Poi, la morte di don Puglisi, poi quella di don Peppino Diana. La Chiesa invece deve interferire. Non dimenticare. Da quel momento, c’è stato un crescendo in questa direzione. Il Vangelo raccomanda di parlare chiaro e soprattutto parlare con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri comportamenti. Ci sono ancora delle zone d’ombra. Ci sono ancora “troppi”che sono tiepidi e prudenti che stanno in bilico. Devo dire che la Chiesa prima, in tanti momenti, aveva già fatto qualcosa. Ma le parole del Papa sono state parole categoriche, chiare, che Benedetto XVI ha poi ripreso nel 2010 dicendo la mafia è strada di morte.

    D. - Sembra che le parole di Giovanni Paolo II furono se non ispirate, quanto meno incoraggiate dall’incontro che il Papa ebbe con i genitori di Rosario Livatino, definito da Papa Wojtyła “Martire della giustizia ed indirettamente delle fede”. Ecco, anche questa definizione dice molto dell’atteggiamento del Papa…

    R. - Stupendo! Non dimentichiamo l’incontro tra il Papa e i genitori del giudice Livatino, i quali mostrarono il diario di loro figlio dove c’era scritto: “Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti o siamo stati credibili”. È un invito a vivere la radicalità del Vangelo, un invito a una Chiesa che sta prima di tutto dalla parte di chi fa più fatica, una Chiesa più libera da qualunque forma di potere. Il Papa lanciò una grande profezia: quella di trovare la forza di lottare questo male chiamandolo per nome. E fa piacere che Papa Francesco abbia chiamato “puzza e putrefazione” tutto ciò che è corruzione. Dobbiamo avere parole chiare e forti senza sconto, ma soprattutto la riposta è il fare, la concretezza. E per un cristiano, non dimenticarsi di chiedere a Dio che ci dia veramente una bella "pedata" per andare avanti.

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    35 anni fa, l’eccidio Moro: l'omaggio di Napolitano a via Caetani

    ◊   Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha deposto una corona di fiori, in via Caetani a Roma, dove 35 anni fa veniva trovato il cadavere di Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse. Insieme con il capo dello Stato, anche le altre più alte cariche istituzionali. Il 9 maggio, è diventata in Italia la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo che, dopo l'omaggio a Via Caetani, ha visto il Senato ospitare una cerimonia di commemorazione. Il presidente di Palazzo Madama, Pietro Grasso, ha ricordato che “le Brigate Rosse colpirono il perno del sistema politico e istituzionale su cui poggiava la democrazia”. Il servizio di Fausta Speranza:

    Capo del governo per cinque volte, presidente della Democrazia cristiana, nonché accademico: Moro viene rapito il 16 marzo nell’agguato di Via Fani in cui furono barbaramente uccisi tutti gli uomini della scorta. Poi, i 55 giorni prima dell’uccisione: si consumava il fatto storico più grave nella storia repubblicana italiana, che 35 anni dopo ancora presenta lati oscuri. Lo storico Eugenio Capozzi, studioso in particolare di culture politiche, parla di passaggio dalla cronaca alla storia:

    “C’è un legame tra l’aspetto della cronaca e quello della storia, perché l’approfondimento di tutti gli aspetti e i retroscena del caso Moro ci riconducono a un nodo storiografico fondamentale: il significato di quell’evento nel cambiamento del sistema politico e della dialettica politica italiana, la fine di una stagione politica, quella della cosiddetta 'Repubblica dei partiti', l’inizio di una decadenza del sistema politico che ha il suo culmine all’inizio degli Anni 90, con la fine della cosiddetta 'Prima Repubblica'”.

    L’eccidio di Via Fani e l'omicidio Moro: una frattura che apre a una diversa fase politica, con sviluppi che portano alla cosiddetta antipolitica di oggi. L'opinione di delo storico, Michele Affinito, in particolare esperto di storia dei partiti:

    “La peculiarità del caso Moro porta inevitabilmente a una riflessione rispetto a quelli che sono i temi della transizione incompiuta che già allora maturano, e vengono a realizzarsi anche nel dibattito politico. Abbiamo conosciuto, nella fase tra il ’92 e il ’94, la fine e il crollo di quel sistema istituzionale che ha portato di fatto al crollo e alla scomparsa dei partiti tradizionali. Oggi, ci ritroviamo con un nulla di fatto. Alla luce di quanto accaduto sia 35 anni fa, ma soprattutto in questi 20 anni trascorsi, oggi probabilmente per i partiti - considerato anche il recente risultato elettorale - si può dire siano di fronte all’ultima chiamata. Intendo la possibilità di autoriformarsi e di mettere in atto un processo riformatore che porti a compimento quella dinamica che, a partire dall’affare Moro, ha segnato la storia repubblicana degli ultimi 30 anni”.

    Dunque, riflessione storica tra l’oggi e quei giorni in cui Moro è sotto sequestro e l’Italia ha il fiato sospeso, tra comunicati delle Br, discussioni politiche, appelli di Papa Paolo VI: celebre la lettera aperta agli "uomini delle Brigate Rosse" e l’appello inascoltato alla loro umanità.

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    "Bambini senza sbarre": sms per aiutare i minori che visitano i genitori in carcere

    ◊   “Non un mio crimine, ma una mia condanna” è il titolo della campagna di sensibilizzazione sulla condizione dei circa 100 mila bambini in Italia, che visitano i genitori in carcere, promossa dall’Associazione “Bambini senza sbarre”. Fino all’11 maggio sarà possibile inviare messaggi solidali al numero 45507. Con il ricavato, sarà esteso negli istituti penitenziari il modello di accoglienza “Spazio giallo”, di cui parla Lia Sacerdote, presidente dell’Associazione, nell’intervista di Elisa Sartarelli:

    R. – Il modello di accoglienza “Spazio giallo” è diventato un modello negli anni, dopo averlo sperimentato prima a San Vittore, poi nel carcere di Bollate e quest’anno nel carcere di Opera. È stato esteso anche a Piacenza e Modena, poi ci sono altre realtà che si stanno collegando con noi. Il progetto consiste in questo: estendere questo sistema anche nelle altre carceri italiane.

    D. – Lo “Spazio giallo” è quindi lo spazio all’interno del quale si muovono i bambini dentro al carcere...

    R. – Sì, esatto. Loro entrano, fanno un certo percorso e poi arrivano ad aspettare nello “Spazio giallo”, dove disegnano, leggono, c’è una piccola biblioteca, ci sono dei giochi per i più piccoli. Ci sono persone preparate – giovani psicologhe o pedagogiste – che accolgono anche i loro silenzi. Questi bambini non hanno bisogno di grandi cose, hanno bisogno di spazi che riescano ad “accoglierli”. Con questa parola noi intendiamo di aver in qualche modo lavorato con il carcere, con gli operatori penitenziari – gli agenti di polizia penitenziaria – che li accolgono, consapevoli che il loro ruolo non è solo quello di aprire e chiudere, ma di essere degli educatori loro malgrado. Questa è una consapevolezza che sta crescendo. A Bollate abbiamo potuto fare proprio il percorso dall’entrata al luogo dove si svolge il colloquio: all’inizio c’è una mappa con cui loro riescono ad orientarsi – sanno che il percorso è quello – poi c’è lo “Spazio giallo”, poi avviene una perquisizione. Sanno quello che li aspetta.

    D. – Come funziona il messaggio solidale per aiutare questo progetto?

    R. – Il numero “magico” è 45507, che ci permette di estendere questa esperienza degli “Spazi gialli” in altre carceri italiane.

    D. – I figli di detenuti sono esposti al rischio di discriminazione ed esclusione sociale. Come si può rendere meno traumatica e punitiva per un bambino la detenzione di un genitore?

    R. – Sarebbe molto importante che la società esterna non li facesse sentire così diversi. Questi bambini vivono con un segreto, perché hanno capito – anche se nessuno glielo dice chiaramente – che è meglio che non lo dicano e noi dovremmo essere in grado di farglielo dire. Questo vuol dire che la società è cambiata.

    D. – In passato, avete proposto la prima petizione al parlamento europeo sull’impatto della detenzione dei genitori sui figli, per aumentare le ore di incontro ed incrementare la formazione degli operatori penitenziari. Quali frutti ha dato?

    R. – In Italia, devo dire che questo ha avuto delle conseguenze positive: l’amministrazione penitenziaria è molto sensibile a questo tema. Noi in Lombardia, insieme all’amministrazione penitenziaria, abbiamo organizzato e stiamo tuttora portando avanti un programma di sensibilizzazione per gli operatori penitenziari, che dà grandi risultati perché sono persone comunque molto attente. Credo che lavorando, avendo gli strumenti e anche strumenti finanziari per poter fare questi progetti, le cose possano cambiare. La persona detenuta ha fatto una cosa sbagliata, però non dobbiamo identificarla con il reato: e per un bambino, il proprio papà è un papà che ha fatto una cosa sbagliata ma non è un papà cattivo. Ecco, questo è un contenuto molto difficile da accogliere, ma è decisivo per cambiare la mentalità. Noi stiamo vedendo che facciamo fatica a raccogliere fondi, perché ci rendiamo conto che il tema “carcere” è un tema che allontana. Quindi, è importante che invece avvicini, perché fa parte della nostra società.

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    Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa. Mons. Crepaldi: la fede ha le risposte per l'uomo

    ◊   E' stato presentato ieri nella sede della nostra emittente il IV Rapporto sullo stato di salute della Dottrina sociale della Chiesa nel mondo: un testo realizzato dall’Osservatorio internazionale Van Thuân, in collaborazione col Movimento cristiano lavoratori (Mcl), che fa il punto sulle grandi questioni dei valori non negoziabili: la vita, la famiglia, la libertà, la pace, la giustizia sociale. Tra le emergenze individuate quest’anno, la colonizzazione della natura umana, risultato di un’espansione progressiva della cosiddetta “ideologia del gender”. Il servizio di Cecilia Seppia:

    Argentina 2011: il governo approva una legge sulla procreazione artificiale, una sul riconoscimento dell’identità di genere e ancora una modifica del Codice civile, per permettere l’"utero in affitto": in un attimo viene denaturalizzata la famiglia, la genitorialità e anche la secolare tradizione cristiana di questo grande Paese dell’America Latina. E’ il caso eclatante messo in luce dal Rapporto, che evidenzia come dietro l’approvazione di queste leggi ci sia “l’ideologia del gender”, una cultura nichilista che intende superare il concetto di natura umana e che sempre di più è incoraggiata da grandi risorse economiche investite da lobbies internazionali, appoggi politici di Stati e di organismi come l’Ue, principale finanziatrice dell’aborto nel mondo. Mons. Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Van Thuân:

    “Quella che noi chiamiamo l’ideologia del gender, nata in Europa velocemente, si è estesa anche ad altre realtà continentali e ad altre situazioni di Paesi particolari, come per esempio l’Argentina, che nell’arco di un anno ha modificato tutta una serie di leggi, che sono andate tutte nella direzione contraria alla vita, alla famiglia”.

    Dinamiche che distruggono la sessualità, dunque, la persona umana e che rischiano di disumanizzare il nostro continente, ma che possono essere anche una sfida per la Chiesa a riproporre il valore della “legge naturale” come punto di vista e ad osare nella Nuova Evangelizzazione. Ancora mons. Crepaldi:

    “Noi pensiamo che tutte queste realtà, questi processi, che sono culturali, politici, costituiscano una sfida alla fede. Io credo, però, che sia la fede che deve diventare, deve costituire una sfida per questi processi, perché in fin dei conti vanno ad inficiare quello che è l’umano. E’ evidente che la risposta a queste cose sia un risveglio della fede: più la Chiesa riuscirà a recuperare sul fronte della fede, più potrà dare risposte credibili all’umano, anche avvincenti e convincenti”.

    Compito della Dottrina sociale della Chiesa è di difendere pure nello spazio pubblico il Creato e pertanto anche l’uomo e quelli che sono i valori non negoziabili, non trattabili della vita umana. Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano lavoratori:

    “Io credo che la difesa vada portata laddove tutti siamo impegnati, laddove sono portati ad operare. Si può anche in situazioni difficili, in luoghi difficili, portare una testimonianza in difesa dei nostri valori. Credo che questa sia la strada giusta, la testimonianza reale, responsabile, ad alta voce e a testa alta. Dobbiamo evitare una religione da sacrestia, da piccoli gruppi, da catacomba. Noi dobbiamo, pur essendo una minoranza - che poi in alcuni luoghi non siamo - essere forti nella nostra identità e testimoniarlo nei luoghi di lavoro e nella nostra presenza pubblica”.

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    Presentata la Biennale Venezia 2013: sguardo al futuro e formazione di giovani artisti

    ◊   Sono stati presentati dal presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta, e dai rispettivi direttori responsabili di sezione, i prossimi programmi e festival dedicati al teatro e alla musica, che vedranno presenti nella città lagunare artisti e compagnie provenienti da tutto il mondo e giovani impegnati a formarsi nelle loro discipline artistiche. Una Biennale che amplia la sua attività pensando al futuro dell’arte e del suo insegnamento. Il servizio di Luca Pellegrini:

    La Biennale di Venezia si apre al futuro, reimpostando tutta la sua missione e programmazione. Oltre a promuovere la conoscenza tra il pubblico con le mostre e i festival, ha aggiunto infatti una vera e propria linea strategica volta alla formazione dei giovani artisti. Si tratta del Biennale College, teso a promuovere nuovi talenti attraverso il coinvolgimento diretto con i grandi maestri. Risultati e progetti sono stati presentati dai direttori delle diverse sezioni, Àlex Rigola per il teatro e Ivan Fedele per la musica. Hanno entrambi avuto il compito di organizzare sia i loro rispettivi Festival - 42.mo quello internazionale del Teatro il prossimo agosto, 57.mo quello di Musica contemporanea in ottobre - sia i vari e numerosi laboratori di ricerca, incontri e workshop. Per Alex Rigola, il teatro ha alla Biennale un chiaro significato:

    R. - Per me, è sempre stato la parola condividere, conoscimento, ma allo stesso tempo giocare e raccontare. In questo momento di crisi in Italia, in Europa e nel mondo è importante ripensare un po’ tutto: questo lavoro nel teatro è essere specchio del mondo, specchio del Paese, specchio dell’Europa. Penso che questa sia la forma di lavorare.

    D. - Molta attenzione a Shakespeare, rivisto con la sensibilità contemporanea e rielaborato a livello di studio dei personaggi…

    R. - Perché Shakespeare è il drammaturgo più importante del mondo. Una gran parte del suo lavoro ha sempre pensato all’Italia. Questo è anche uno specchio del mondo: se Shakespeare è diventato universale è perché, in fondo, il tempo non è importante, così come i luoghi. La cosa importante è l’azione, la parola, il pensiero di ogni personaggio.

    Ivan Fedele, direttore del settore musica, ha dato al Festival il titolo “Altra voce, altro spazio”. Cosa significa?

    R. - Prendo lo spunto dal pezzo di Luciano Berio “Altra voce” per ricordare il grande maestro che è scomparso 10 anni fa e dà lo spunto per vedere altre differenti declinazioni del concetto di spazio e dell’idea di questo strumento meraviglioso che è la voce, che ci portiamo da quando siamo nati. Quindi avremo cori: cori di bambini, cantanti che vedranno la loro voce distribuita spazialmente in maniera molto interessante piuttosto elaborata… Questo da un punto di vista della musica cantata e suonata nello spazio, perché Venezia è la città dello spazio. Ma poi anche lo spazio inteso, per esempio, come Internet. Un’attenzione ai due collettivi: uno "Noosing" che un collettivo di giovanissimi compositori, ai quali ho delegato il compito di creare e inventarsi un concerto, dove ci saranno immagini, performance dal vivo, musica mista, acustica. E poi anche l’"Imaginer", il cui nucleo è un nucleo di italiani che vivono a Strasburgo. Quindi, ancora una volta diamo voce ai giovani e magari evitiamo esclusivamente di parlare di loro.

    D. - La Biennale e la musica: non si tratta soltanto di eseguire e mostrare, ma di aiutare a creare…

    R. - Significa anzitutto che un numero consistente dei grandi artisti che saranno presenti per il Festival, quindi a mostrare la loro arte: li coinvolgeremo per mostrare la loro tecnica, la loro visione anche estetica dell’arte, ai giovani che saranno stati scelti per i progetti di "Biennale College", che nel corso dell’anno vivranno una fase di formazione, poi di creazione e poi di performance.

    D. - Leone d’Oro alla carriera assegnato il prossimo 4 ottobre a una grandissima musicista russa, Sofija Gubaidulina...

    R. - La musica d’oggi vive di un impulso che non monolitico, ma è monodirezionale: è molteplice, con una ricchezza di spunti e di proposte assolutamente straordinarie. Questo tra i giovani, ma anche - una volta cadute barriere ideologiche di ciò che è giusto, corretto, vero dal punto di vista della contemporaneità e cioè che non lo è - ci fa capire che una autrice come Sofija Gubaidulina, ma ce ne sono anche altre, ormai a 82-83 anni di età abbia rappresentato un esempio di coerenza nella straordinaria poesia, ma anche di coerenza nell’eticità e nel comportamento, che sono un esempio per tutti: un artista non è solo un artista, è anche un uomo e deve dare, in qualche modo, una immagine di sé proprio perché è portatore di un messaggio di creatività, anche nel sociale.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Congo: Onu accusa soldati e ribelli per abusi sui civili

    ◊   Stupri, violenze sessuali, esecuzioni sommarie e saccheggi sistematici: è lungo l’elenco delle violazioni dei diritti umani inflitte alle popolazioni del Nord Kivu nei scorsi mesi, colpite indiscriminatamente sia dei ribelli del Movimento del 23 marzo (M23) che dalle Forze armate regolari (Fardc). La denuncia ad entrambe le parti coinvolte nella crisi in corso nella ricca ed estesa provincia mineraria dell’est del Congo - riferisce l'agenzia Misna - è contenuta in un rapporto stilato dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani e dalla locale missione di pace delle Nazioni Unite (Monusco). Il documento, frutto di un’inchiesta sul terreno, è stato pubblicato ieri a Kinshasa e a New York. Nell’offensiva che lo scorso novembre ha portato l’M23 a prendere il controllo di Goma, il capoluogo regionale, sono stati commessi almeno 200 casi di stupro, di cui 59 vengono attribuiti ai ribelli e 135 ai soldati congolesi in ritirata verso Minova, una località della confinante provincia del Sud Kivu. Tra le vittime ci sono una trentina di bambine e ragazze di un’età compresa tra i sei e i 17 anni. A queste gravi violazioni si è aggiunta una dozzina di esecuzioni arbitrarie di civili, soprattutto da parte dell’M23, ma anche casi di reclutamento di bambini soldato, di lavoro forzato e altri trattamenti “disumani e degradanti” durante l’occupazione di Goma. “Negli ultimi anni la popolazione congolese ha subito un livello intollerabile di violenza. Si è trattato di violazioni spaventose, soprattutto le violenze sessuali documentate dal rapporto, sia per il loro carattere sistematico che per il loro numero” ha denunciato l’Alto commissario per i diritti umani, Navi Pillay. Dietro pressioni internazionali il governo di Kinshasa ha aperto un’inchiesta che finora ha portato alla sospensione di 12 soldati e ufficiali. “Gli sforzi recenti intrapresi dalle autorità congolesi sono una tappa importante ma rimane ancora molto da fare per rendere giustizia alle vittime e per ristabilire la fiducia della popolazione civile nel sistema giudiziario” ha sottolineato la Pillay. Nel 2012 i casi di violazioni dei diritti umani commessi nell’ex colonia belga sono aumentati del 50% rispetto all’anno precedente. Anche quest’anno, nonostante una tregua nei combattimenti e colloqui di pace in corso tra l’M23 e il governo congolese, la situazione sul terreno è rimasta molto instabile. La società civile del Nord Kivu ha denunciato il rapimento di almeno 30 persone dall’inizio di aprile nel territorio di Rutshuru, feudo dell’M23. Oltre a percepire illegalmente tasse e imposte varie, i ricatti chiesti per liberare gli ostaggi finanziano la ribellione nata un anno fa con il sostegno dei governi ruandese e ugandese. L’Ufficio Onu per i rifugiati a Kampala ha riferito che negli ultimi giorni almeno 1.000 congolesi hanno varcato il confine con l’Uganda per evitare di essere reclutati con la forza dall’M23. I ribelli sono sul piede di guerra per il prossimo dispiegamento nella regione di 3.000 militari del Sudafrica, della Tanzania e del Malawi nell’ambito di una brigata speciale voluta dal Consiglio di sicurezza. (R.P.)

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    Bangladesh: ancora un incendio in una fabbrica tessile. Oltre 800 morti per il crollo del Rana Plaza

    ◊   Un incendio è divampato in una fabbrica di indumenti in un distretto industriale di Dhaka. Il bilancio parziale è di 7 morti ma potevano essere molte di più secondo la polizia. L'incendio infatti si è sviluppato dopo l'orario di lavoro, quando quasi tutti i lavoratori erano usciti. La fabbrica appartiene al Gruppo Hai Tung, un grande esportatore di abbigliamento, e non fa turni notturni. Fra le vittime vi sono il proprietario dello stabilimento e altri suoi collaboratori. La tragedia avviene a due settimane dal crollo del Rana Plaza, l’edificio di otto piani alla periferia di Dhaka ceduto all’improvviso il 24 aprile, quando almeno 3.000 operai di sei laboratori tessili per la produzione di abbigliamento a basso costo destinato al mercato occidentale situati nel palazzo, erano al loro posto di lavoro. I corpi recuperati sarebbero più di 800. Secondo fonti ufficiali raccolte dall'agenzia Misna, a 15 giorni dalla più grave tragedia della storia industriale del Bangladesh, solo 580 corpi sono stati identificati e restituiti ai familiari. Non è ancora noto quante persone si trovassero esattamente al Rana Plaza al momento del crollo, ma esercito, pompieri, e Mezzaluna Rossa continuano a cercare ancora fra le macerie nella speranza di trovare superstiti; gli estratti vivi sono stati finora quasi 2.500. Il ministro del settore tessile, Abdul Latif Siddique, ha annunciato intanto la chiusura di 18 fabbriche per motivi di sicurezza, 16 a Dhaka e 2 a Chittagong, seconda città del Paese. Si tratta dei primi provvedimenti del genere dopo il crollo. “Abbiamo constatato che coloro che sostengono di avere le fabbriche più a norma del Bangladesh non hanno affatto rispettato le regole di costruzione” ha detto il ministro. E’ emerso infatti che il proprietario del Rana Plaza, Sohel Rana, finito agli arresti, ha costruito l’edificio oltre i limiti consentiti, aggiungendo almeno tre piani non autorizzati. Il governo ha istituito nel frattempo una nuova commissione d’inchiesta incaricata di ispezionare 4.500 industrie tessili per verificare il rispetto delle norme per l’edificazione. Una commissione analoga era stata annunciata già a novembre, dopo l’incendio che in un’altra fabbrica tessile aveva provocato 111 morti, ma le ispezioni effettuate da allora non hanno portato miglioramenti in merito alla sicurezza. “Ci sono testimonianze di superstiti che sono stati tratti in salvo dalle macerie ma con qualche arto in meno, ed è proprio qui che oltre la sciagura c’è il danno: in Bangladesh le persone con handicap di arti non hanno possibilità di lavorare” scrive la volontaria italiana Maria Cristina Palumbo su ‘L’altra voce dal Bangladesh’, un ‘foglio di collegamento’ dal Paese asiatico, redatto insieme a padre Giovanni Gargano, missionario saveriano. “Nel grande scenario delle tragedie – scrive padre Giovanni – le parole che possono descrivere alcune catastrofi non sono sufficienti, anzi si resta impietriti di fronte a tanta sofferenza che vedi scolpita nel volto delle persone coinvolte in questi eventi così drammatici…senza trovare una risposta se non quella di mostrare la rabbia nei confronti di coloro che invece di pensare alla vita della gente pensano solo di portare avanti il proprio business e tornaconto”. Il Bangladesh è il secondo esportatore di tessili al mondo dopo la Cina: un’industria che assorbe oltre il 40% della manodopera del Paese e rappresenta l’80% delle esportazioni. (R.P.)

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    Padre Hammond ha portato in Nord Corea il messaggio di pace di Papa Francesco

    ◊   La situazione della penisola coreana "è ancora abbastanza tesa, ma i funzionari del Nord hanno accolto la delegazione della Eugene Bell Foundation - che comprende quattro sacerdoti cattolici - con vera gioia. La guerra non la vuole nessuno, e noi abbiamo cercato di essere ponti per la pace sulla scia di Papa Francesco e dei vescovi sudcoreani". A parlare con l'agenzia AsiaNews è padre Gerard Hammond, missionario Maryknoll da decenni in Corea, appena rientrato da una missione umanitaria al Nord. Il gruppo, composto da 20 persone, è arrivato a Pyongyang via Pechino lo scorso 18 aprile. Dopo un lungo giro nella provincia di Phyongan, è rientrato il 4 maggio: "Siamo stati ricevuti molto bene, i nostri ospiti hanno espresso con le parole e con i gesti la gioia per la nostra visita. Abbiamo portato più che altro materiale e medicinali contro la tubercolosi, una vera emergenza sanitaria per la Corea del Nord". Il Paese ha circa 22 milioni di abitanti, di cui la metà sotto la soglia della povertà. La tubercolosi, come spiega padre Hammond, "si propaga per via aerea e colpisce coloro che soffrono di malnutrizione o di generica debolezza organica. Stiamo cercando di fare il possibile per fermare il contagio, e in questo la nostra controparte è molto propositiva. Abbiamo chiesto di poter rientrare nel Paese il prossimo ottobre, speriamo che ci venga dato il permesso". La Eugene Bell Foundation ha una lunga storia di aiuti alla Corea del Nord. Nata nel 1995 per volontà di Stephen Linton, comprende una "delegazione" che due volte l'anno può visitare alcune zone della Corea del Nord. La consegna di medicinali e attrezzature mediche per debellare la tubercolosi è lo scopo delle visite. Il padre Hammond, per 18 anni superiore Maryknoll in Corea e da quest'anno cittadino del Sud, ha compiuto più di 30 viaggi umanitari. La delegazione della Fondazione è riconosciuta ufficialmente come Ong dal governo di Pyongyang. I membri permanenti sono cinque o sei, e tra essi ci sono due sacerdoti cattolici: il padre Hammond e un sacerdote della Missioni Estere di Parigi (Mep). Padre Hammond è considerato il cappellano del gruppo. La permanenza dura da 10 giorni a due settimane. A Pyongyang alloggiano nella Guest House, essendo ospiti del governo, ma la maggior parte del tempo viene spesa fuori della capitale. Nella "guest house" di Kobangsan, dove la delegazione è stata ospitata, "abbiamo celebrato messa ogni giorno. In questa particolare situazione, è per noi molto importante farci promotori degli appelli di papa Francesco per la pace nella penisola coreana. Come hanno detto più volte anche i vescovi della Corea del Sud, la riconciliazione fra i due Paesi passa attraverso il dialogo e l'onestà: facciamo e faremo di tutto per essere i primi messaggeri di questa convinzione". (R.P.)

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    Pakistan. Vescovo di Islamabad: elezioni occasione di pace per cristiani e musulmani

    ◊   La popolazione è in "cerca" di un'occasione di "cambiamento", per mettere fine alla "cultura della corruzione, dell'intolleranza, della deresponsabilizzazione e del terrorismo". Così mons. Rufin Anthony, vescovo di Islamabad-Rawalpindi, inquadra le prossime elezioni politiche in Pakistan, in programma l'11 maggio, che determineranno la formazione del nuovo parlamento e dell'esecutivo chiamato a guidare le sorti di un Paese segnato da crisi economica e violenza islamista. All'agenzia AsiaNews il prelato conferma il desiderio di "pace e rispetto" che prevale nella gente: "Preghiamo per la pace in Pakistan - aggiunge - e speriamo che il nuovo esecutivo sappia affrontare in modo deciso i problemi delle minoranze". L'auspicio del vescovo della capitale, che raccoglie le istanze dei cristiani - cattolici e protestanti - oltre che delle altre minoranze religiose e di una fetta della popolazione civile di religione musulmana, si scontrano però con le cronache quotidiane che raccontano di derive estremiste. Una tendenza confermata da un sondaggio pubblicato nelle scorse settimane, secondo cui oltre la metà dei giovani ritiene che la sharia, la legge islamica basata sui principi del Corano "è meglio della democrazia". Inoltre, l'arresto nei giorni scorsi dell'ex Presidente Pervez Misharraf - rientrato in patria dopo quattro anni di esilio proprio per partecipare alle elezioni - ha contribuito ad alimentare il clima di tensione e incertezze gettando "nuove ombre" sul voto. Alle vicende giudiziarie si sommano eventi di varia natura, che hanno offuscato la campagna elettorale: omicidi, attentati, cui si unisce l'incidente occorso martedì a Imran Khan, ex campione di cricket e leader del Pti (Pakistan Tehrik-Insaaf), rimasto ferito a Lahore nel crollo del montacarichi che lo stava portando sul palco, dove avrebbe dovuto tenere un comizio. I medici gli hanno prescritto 10 giorni di assoluto riposo, ma egli ha già confermato la presenza al comizio pubblico in programma oggi a Islamabad, ricevendo al contempo attestati di solidarietà da quasi tutte gli schieramenti politici. Fra le priorità emerse in queste settimane di campagna elettorale la crisi economica, lo sviluppo futuro del Paese, le carenze nel sistema educativo e nel settore dell'energia, in un quadro generale che varia dalla richiesta di partecipazione in massa, all'appello per l'astensionismo. E per i cristiani resta prioritaria la tutela delle minoranze, spesso vittime di persecuzioni e abusi. Il parlamentare e candidato cattolico del Partito popolare pakistano (Ppp) Pervaiz Rafique rivendica gli sforzi compiuti dall'esecutivo uscente, a guida popolare, in tema di diritti e contro la "talebanizzazione" del Pakistan. Tuttavia, padre Anwar Patras - parroco a Rawalpindi - chiede ancora maggiore impegno "per risolvere i problemi delle minoranze" e auspica una maggiore presenza "di candidati cristiani" in un'ottica di "reale cambiamento". (R.P.)

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    Roma: celebrazione per invocare la liberazione dei due vescovi rapiti in Siria

    ◊   "Seguendo l'esempio di mons. Yohanna Ibrahim e mons. Paul Yazigi e degli altri sacerdoti sequestrati, i cristiani di Siria desiderano continuare il dialogo quotidiano con i musulmani, vivere con loro, non emigrare per colpa della guerra e del dilagare dell'estremismo islamico". È quanto afferma all'agenzia AsiaNews padre Mtanious Hadad, apocrisario patriarcale di Gregorio III Laham, patriarca della Chiesa greco cattolico melchita. Secondo il sacerdote "i cristiani di Siria non sono una Chiesa, o una minoranza da difendere, essi sono un elemento costitutivo del popolo siriano, non hanno bisogno della protezione degli Stati Uniti o dell'Europa". Per domani sera la comunità greco-melchita di Roma ha organizzato una messa solenne per il rilascio di mons. Yohanna Ibrahim e mons. Paul Yazigi, i due vescovi ortodossi rapiti lo scorso 22 aprile. Le celebrazioni si terranno alle 19.00 nella basilica di Santa Maria in Cosmedin. Insieme a padre Hadad saranno presenti anche mons. Ilarion Capucci, vescovo emerito di Gerusalemme per i melchiti e mons. Matteo Maria Zuppi, vescovo ausiliare di Roma per il centro storico. Durante la messa saranno letti alcuni passi delle omelie dei due vescovi ortodossi e un messaggio per la pace del patriarca Gregorio III. Il sacerdote spiega che la celebrazione eucaristica serve non solo per pregare "per i vescovi ancora nelle mani dei rapitori, come altre centinaia di persone, ma anche per porre l'attenzione sulla tragedia del conflitto siriano ormai del tutto fuori controllo". "Noi - afferma - abbiamo organizzato questa iniziativa per richiamare la comunità internazionale e riflettere sugli effetti del conflitto siriano iniziato con la teoria della Primavera araba, ma che ora ha condotto migliaia di combattenti stranieri ad entrare nel nostro Paese e compiere atti indiscriminati che nulla hanno a che fare con la nostra cultura. Quello che i siriani si chiedono è 'dove stiamo andando?'". Secondo il sacerdote, mons. Yohanna Ibrahim, della Chiesa siro-ortodossa, e mons. Paul Yazigi, vescovo greco-ortodosso, così come gli altri prelati rimasti in Siria nonostante il rischio di violenze e sequestri, sono una testimonianza del valore della presenza cristiana nel Paese. (R.P.)

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    Venezuela. Il vescovo di Trujillo: "La divisione nel Paese disgrega la società"

    ◊   «In Venezuela la libertà è appesa a un filo»: è la denuncia di mons. Oswaldo Azuaje, vescovo di Trujillo, in visita al quartier generale di Aiuto alla Chiesa che Soffre a Königstein in Germania. Il presule carmelitano descrive il momento drammatico vissuto dal suo Paese, aggravatosi in seguito alle elezioni presidenziali del 14 aprile scorso. «Il Venezuela è spaccato a metà e questa separazione ha provocato ulteriori divisioni all’interno della società e una grave scissione in seno alla classe politica. Purtroppo non è una novità per noi. La politica venezuelana degli ultimi anni è stata caratterizzata da contrasti e discussioni: non solo alterchi, ma vere e proprie ostilità». Per mons. Azuaje l’attuale tensione ha conseguenze su gran parte della popolazione e, seminando rancore e discordia, mina i rapporti interpersonali e familiari. È quindi prioritaria la ricerca di un dialogo per la pace. «La democrazia – aggiunge il vescovo – non comporta esclusivamente indire delle consultazioni per eleggere un leader politico. È anche la capacità di convivere con chi è diverso da noi, di rispettare e saper ascoltare chi ha un’opinione differente dalla nostra». Il presule ricorda la dichiarazione della Conferenza episcopale venezuelana del 2 maggio scorso. L’episcopato aveva già emesso un comunicato il 17 aprile, a pochi giorni dai risultati elettorali, ma ha sentito il bisogno di rivolgersi nuovamente alla popolazione, dopo i numerosi episodi di violenza registrati in tutto il Paese e in seno al Parlamento. Il 30 aprile, infatti, la decisione del presidente dell’Assemblea Nazionale, Diosdado Cabello, di togliere il diritto di parola a chiunque non riconoscesse come legittima la vittoria del neopresidente Nicolas Maduro, ha scatenato l’aspra condanna dell’opposizione, poi degenerata in una rissa tra parlamentari. «L’aggressione fisica di alcuni deputati – scrivono i vescovi – è un atto che provoca in noi tristezza e vergogna. Il Venezuela non merita uno spettacolo tanto degradante». Mons. Azuaje si rivolge ai venezuelani per invocare la necessaria e ferma volontà di ognuno nel costruire una nazione migliore per tutti, «a prescindere da chi sia al governo». «Benedetto chi sa ascoltare. Perché spesso ci limitiamo a parlare e le nostre parole servono solo a ferire gli altri. Per questo chiedo ai miei compatrioti e a chiunque ami il Venezuela, di pregare per la pace e la riconciliazione». (R.P.)

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    Angola: siccità nel sud. Centinaia di migliaia a rischio fame

    ◊   Più di 300.000 persone sono a rischio fame nella provincia di Cunene e in altre regioni del Sud a causa di una siccità prolungata: lo ha riferito il quotidiano statale Jornal de Angola, secondo il quale per far fronte all’emergenza si stanno mobilitando sia le autorità locali che il governo di Luanda. “La situazione – ha detto António Didalelwa il governatore di Cunene – è preoccupante: praticamente non piove da due anni e ora mancano sia il cibo per le persone che il foraggio per gli animali”. In questa provincia - riferisce l'agenzia Misna - situata al confine con la Namibia, è stata avviata una distribuzione di acqua, cibo e “kit di sopravvivenza” con coperte, utensili da cucina, bombole a gas e altro materiale di uso quotidiano. Secondo Jornal de Angola, l’emergenza riguarda anche le province di Namibe e Benguela. Le regioni del Sud sono le più aride del Paese. La stagione delle piogge, di norma, comincia a febbraio e si conclude già ad aprile. (R.P.)

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    Kenya. I vescovi: i cattolici sono “pro-vita”. No alla pubblicità ingannevole “pro-scelta”

    ◊   “I cattolici sono a favore della vita”: è netta la dichiarazione dei vescovi del Kenya che smentisce una pubblicità ingannevole diffusa in questi giorni nel Paese. Su manifesti e giornali, infatti, sono comparsi numerosi annunci che promuovono l’uso del profilattico con lo slogan “Cattolici per scelta”. Un’affissione è stata posta anche nei pressi del Santuario della Consolata di Nairobi. “Questo tipo di pubblicità – afferma il card. John Njue, presidente della Conferenza episcopale (Kec), in una nota ufficiale – ridicolizza deliberatamente la dottrina cattolica sul comportamento sessuale responsabile”. “I cattolici per scelta non sono cattolici – ribadiscono i vescovi – perché la Chiesa cattolica insegna che la sessualità è un bene ed è sacra nel contesto del matrimonio; è per questo che le coppie sposate sono esortate a rimanere fedeli ed i giovani sono incoraggiati a conservare la castità fino alle nozze”. In “comunione con la comunità cattolica universale”, quindi, la Kec si “dissocia totalmente da questo falso tipo di propaganda” ed invita “tutti i cattolici e tutti coloro che credono nella sacralità della vita e nella dignità della persona ad ignorare questa campagna pubblicitaria”. Infine, i vescovi del Kenya rassicurano i fedeli “e tutti gli uomini di buona volontà: la posizione della Chiesa universale sull’uso del profilattico non è cambiata”. Gli autori della pubblicità sono, quindi, “anonimi e non appartengono alla Chiesa cattolica”, la quale per diffondere informazioni utilizza solo “organismi ufficiali”. (I.P.)

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    Zambia. Appello Caritas: stop alle dimissioni dei parlamentari

    ◊   Un atto “immorale”, uno “scandalo”, un segno “dell’incoerenza di un governo che ha proclamato l’opzione preferenziale per i poveri come punto di riferimento per il suo operato”. Questa la severa nota della Caritas Zambia relativamente alle numerose dimissioni di alcuni membri del Parlamento, avvenute in questi giorni. Un gesto che, dopo le elezioni generali del 2011, ha portato il Paese ad una fase di stallo, implicando anche la spesa di ulteriori fondi pubblici per l’indizione di nuove votazioni, “a scapito dei bisogni più urgenti della società”. Per questo, la Caritas ricorda “i bambini che muoiono di fame negli ospedali, il prezzo del carburante che sale e i progetti sociali fermi a causa della mancanza di fondi”: una vera e propria “lista di condizioni umane disperate – sottolinea ancora la nota – di cui il governo non si occupa, con la scusa di avere risorse finanziarie limitate”. Di qui, la domanda che si pone l’organismo caritativo: “Come possono i parlamentari essere così spietati da ignorare le sofferenze che infliggono alla popolazione del Paese attraverso le loro dimissioni e l’indizione di nuove elezioni?”. Infine, si chiede ai membri delle Caritas diocesane di non lasciarsi coinvolgere, in veste di osservatori, nel monitoraggio delle nuove votazioni: “Abbiamo giustamente e con forza condannato l’abuso di fondi pubblici per le elezioni – conclude la nota – Non lasciamoci coinvolgere nel monitoraggio, poiché si tratta di uno spreco delle nostre limitate risorse e una minaccia per la democrazia per la quale abbiamo lottato a lungo e che abbiamo giurato di proteggere”. (I.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 129

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