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Sommario del 03/05/2013
Il Papa: la Chiesa deve essere coraggiosa, no ai cristiani tiepidi
◊ Tutti i cristiani hanno il dovere di trasmettere la fede con coraggio. E’ l’esortazione che Papa Francesco ha rivolto, stamani, ai fedeli presenti alla Messa nella Cappella della Casa Santa Marta. Il Papa ha sottolineato che Gesù ci invita ad avere coraggio anche nella preghiera ed ha esortato i cristiani a non essere “tiepidi”. Alla Messa - concelebrata con l’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del dicastero delle Comunicazioni Socali - hanno preso parte le Guardie Svizzere Pontificie con il loro comandante Daniel Rudolf Anrig. Al termine della celebrazione, il Papa ha rivolto loro un particolare saluto. La vostra, ha detto, “è una bella testimonianza di fedeltà alla Chiesa” e di “amore per il Papa”. Il servizio di Alessandro Gisotti:
“Che il Signore ci dia a tutti noi” la “grazia del coraggio” e la "perseveranza" nella preghiera. E’ quanto affermato da Papa Francesco che ha incentrato la sua omelia proprio sul tema del coraggio nell’annuncio del Vangelo. Tutti noi cristiani che abbiamo ricevuto la fede, ha detto, “dobbiamo trasmetterla”, “dobbiamo proclamarla con la nostra vita, con la nostra parola”. Ma qual è dunque questa fede fondamentale? E’, ha sottolineato il Papa, la “fede in Gesù Risorto, in Gesù che ci ha perdonato i peccati con la sua morte e ci ha riconciliato con il Padre”:
“E trasmettere questo chiede a noi di essere coraggiosi: il coraggio del trasmettere la fede. Un coraggio, alcune volte, semplice. Io ricordo - scusatemi - una storia personale: da bambino mia nonna ogni Venerdì Santo ci portava alla Processione delle Candele e alla fine della processione arrivava il Cristo giacente e la nonna ci faceva inginocchiare e ci diceva, a noi bambini: ‘Guardate è morto, ma domani sarà risorto!’. La fede è entrata così: la fede in Cristo morto e risorto. Nella storia della Chiesa sono stati tanti, tanti che hanno voluto come un po’ sfumare questa certezza forte e parlano di una resurrezione spirituale. No, Cristo è vivo!”.
“Cristo è vivo” ed è “anche vivo fra noi!”, ha ribadito Papa Francesco che ha esortato i cristiani ad avere il coraggio di annunciare la sua Risurrezione, la Buona Notizia. Ma, ha proseguito, c’è anche un altro coraggio che ci chiede Gesù:
“Gesù - per dirlo un po’ fortemente - ci sfida alla preghiera e dice cosi: ‘Qualunque cosa chiederete nel mio nome la farò perché il Padre sia glorificato nel Figlio’. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò… Ma è forte questo! Abbiamo il coraggio di andare da Gesù e chiedergli così: ‘Ma tu hai detto questo, fallo! Fa che la fede vada avanti, fa che la evangelizzazione vada avanti, fa che questo problema che ho venga risolto…’. Abbiamo questo coraggio nella preghiera? O preghiamo un po’ così, come si può, spendendo un po’ di tempo nella preghiera? Ma quel coraggio, quella parresia anche nella preghiera…”.
Il Papa ha così ricordato come nella Bibbia leggiamo che Abramo e Mosè hanno il coraggio di “negoziare col Signore”. Un coraggio “in favore degli altri, in favore della Chiesa” che serve anche oggi:
“Quando la Chiesa perde il coraggio, entra nella Chiesa l’atmosfera di tepore. I tiepidi, i cristiani tiepidi, senza coraggio… Quello fa tanto male alla Chiesa, perché il tepore ti porta dentro, incominciano i problemi fra noi; non abbiamo orizzonti, non abbiamo coraggio, né il coraggio della preghiera verso il cielo e neppure il coraggio di annunziare il Vangelo. Siamo tiepidi… E noi abbiamo il coraggio di immischiarci nelle nostre piccole cose, nelle nostre gelosie, nelle nostre invidie, nel carrierismo, nell’andare avanti egoisticamente… In tutte queste cose, ma questo non fa bene alla Chiesa: la Chiesa deve essere coraggiosa! Noi tutti dobbiamo essere coraggiosi nella preghiera, sfidando Gesù".
◊ Stamani, il Papa ha ricevuto nel Palazzo Apostolico in Vaticano, il presidente della Repubblica del Libano, Michel Sleiman, che poi ha incontrato il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e mons. Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati. “Nel corso dei cordiali colloqui – riferisce un comunicato della Sala Stampa vaticana - si è parlato della situazione nel Paese, sottolineando l’importanza del dialogo e della collaborazione tra i membri delle diversità comunità etniche e religiose, che compongono la società e ne costituiscono la ricchezza, in favore del bene comune, dello sviluppo e della stabilità della Nazione. A tale riguardo sono stati espressi i migliori voti per la formazione del nuovo Governo, che dovrà affrontare importanti sfide a livello nazionale e internazionale. Ci si è soffermati anche – prosegue il comunicato - sulla situazione regionale, con speciale riferimento al conflitto siriano. Particolare preoccupazione desta l’ingente numero di profughi siriani che hanno cercato rifugio in Libano e nei Paesi vicini e per i quali, come per tutta la popolazione sofferente, si è invocata una maggiore assistenza umanitaria, con il sostegno della Comunità internazionale. Si è auspicata anche una pronta e proficua ripresa dei negoziati tra Israeliani e Palestinesi, sempre più necessaria per la pace e la stabilità della Regione. Non si è mancato, infine, di ricordare la delicata situazione dei Cristiani in tutto il Medio Oriente ed il significativo contributo che essi possono offrire alla luce dell’Esortazione Apostolica post-sinodale ‘Ecclesia in Medio Oriente’, che costituisce – conclude il comunicato - un importante punto di riferimento per le comunità cattoliche e per le società della Regione”.
Il Papa ai vescovi delle Marche: attenzione a giovani, famiglia e lavoro
◊ Il Papa ha ricevuto oggi il primo gruppo di vescovi della Conferenza episcopale delle Marche, in visita "ad Limina". Tra di essi c’era anche mons. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo. Sergio Centofanti gli ha chiesto di parlarci dell’incontro con Papa Francesco:
R. – E’ stato un incontro molto bello, familiare, un dialogo molto aperto. Le cose principali sulle quali il Santo Padre si è soffermato con noi sono state: i giovani, ai quali va offerta una proposta cristiana seria, un accompagnamento, perché siano aperti alla missionarietà, alla formazione spirituale, e, altra preoccupazione è l’attenzione pastorale sulla famiglia.
D. – C’è qualcosa che l’ha colpita di questo incontro col il Papa?
R. – La prima cosa è questo suo desiderio profondo di conoscere, di star vicino e l’altra cosa è che parla con la sua esperienza pastorale. In ogni sua parola, in ogni suo gesto c’è un vissuto e questo ha confortato molto me e gli altri confratelli vescovi, che erano insieme a me.
D. – In questo momento di crisi anche per il Paese, quali sono le vostre preoccupazioni come vescovi e anche quelle del Papa?
R. – Noi abbiamo presentato al Santo Padre anche quest’aspetto, perché la nostra terra, che era segnata da un benessere piuttosto diffuso, vive una stagione di difficoltà. Allora è necessaria questa attenzione particolare alla povertà e soprattutto questo desiderio profondo e forte di ridare dignità alle persone. La dignità si ridà attraverso l’offerta di lavoro.
D. – Il Papa vi ha parlato di questa sua attenzione alla povertà e al lavoro…
R. – Sì, richiamando anche quello che aveva detto qualche giorno fa, il 1° maggio, nel discorso durante l’udienza generale.
D. – Quale appello lancerebbe ai responsabili della cosa pubblica in questo momento così difficile per il Paese?
R. – Dico una cosa molto personale, quella di guardare più il bene comune che l’interesse di parte. E’ necessario riscoprire una comune appartenenza e far valere il fatto che il bene individuale debba essere a vantaggio di tutti. Non si può costruire una società dove alcuni stanno bene e altri non stanno bene. E’ necessario fare questo passo coraggioso, che si fonda sulla dignità della persona e, per quanto riguarda noi cristiani, sul rispetto di tutti e sulla buona volontà di tutti.
◊ Papa Francesco ha ricevuto in udienza in Vaticano i presuli della Conferenza Episcopale delle Marche, in Visita "ad Limina Apostolorum". Oggi pomeriggio incontrerà Mons. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e, successivamente, il card. Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
Negli Usa, Papa Francesco ha nominato Vescovo di Oakland il Rev.do P. Michael C. Barber, S.I., finora Direttore della Formazione Spirituale presso il Saint John’s Seminary a Brighton nell’arcidiocesi di Boston (Massachusetts).
Papa Francesco accoglie Benedetto XVI al suo rientro in Vaticano
◊ Da ieri pomeriggio Benedetto XVI è di nuovo in Vaticano dopo il soggiorno di due mesi a Castel Gandolfo. Al suo arrivo nel convento “Mater Ecclesiae”, è stato accolto da Papa Francesco, poi insieme hanno pregato nella cappella del monastero. Benedetta Capelli:
La foto dell’Osservatore Romano è una posa che resterà ben impressa. C’è il sorriso di Papa Francesco che accoglie sulla porta del Monastero “Mater Ecclesiae” in Vaticano Benedetto XVI. Anche sul volto del Papa emerito c’è il sorriso ma a colpire sono soprattutto le mani dei due che si stringono forte. Un’istantanea che rimanda ad una “grande e fraterna cordialità”, già espressa in passato nell’incontro a Castel Gandolfo il 23 marzo. Insieme – riferisce un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede – si sono recati nella Cappella del Monastero per un breve momento di preghiera. Benedetto XVI – si legge ancora – è lieto di rientrare in Vaticano, nel luogo in cui intende dedicarsi al servizio della Chiesa anzitutto con la preghiera: intenzione espressa già lo scorso 11 febbraio, giorno della rinuncia al Ministero petrino. Il Monastero, recentemente ristrutturato, è una casa accogliente – ha detto il Papa emerito - qui si può lavorare bene. Benedetto XVI è giunto in elicottero da Castel Gandolfo, la sua residenza per due mesi, dopo le 16.45 accompagnato da mons. Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia. Ad accoglierlo all’eliporto, una folta delegazione vaticana guidata dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Poi il trasferimento al Monastero “Mater Ecclesiae” dove risiederà insieme a mons. Gänswein e alle Memores Domini che hanno già fatto parte della Famiglia pontificia negli ultimi anni.
La compresenza di Benedetto XVI e di Papa Francesco in Vaticano è anche un invito a riflettere sul profondo legame, nella vita cristiana, tra la dimensione contemplativa e quella dell’azione pastorale. E’ quanto sottolinea, al microfono di Antonella Palermo, il priore generale della Congregazione camaldolese, padre Alessandro Barban:
R. – Noi abbiamo due grandi figure di Pontefici. Da un lato, il Papa emerito, Benedetto, con la sua grande testimonianza di fede, il suo servizio alla Chiesa, con la presenza contemplativa, con lo sguardo oltre l’odierno. Poi abbiamo Papa Francesco, un figlio di Sant’Ignazio, un gesuita. Anche lì, quindi, la preghiera e la contemplazione è molto forte. La Chiesa nella sua presenza nella storia del mondo, in mezzo agli uomini, fa risaltare sia con Papa Benedetto che con Papa Francesco questa dimensione della presenza, del servizio attivo, ma sempre anche questo rimando profondo alla vita di preghiera, di meditazione, alla dimensione contemplativa della vita cristiana.
D. – Mi sembra che quanto Sant’Ignazio di Loyola diceva a proposito della contemplazione in azione, che poi ogni cristiano dovrebbe vivere in prima persona, in questo momento storico, sia particolarmente esaltata...
R. – Sant’Ignazio di Loyola è stato veramente grande nell’aver intuito che la vita cristiana è una cosa sola. Noi venivamo da una separazione tra vita attiva e vita contemplativa, tra un impegno più apostolico e una dimensione – potremmo dire - più claustrale. Invece, Ignazio ci ha fatto capire quanto sia importante vedere la vita cristiana nel suo complesso, sia nella dimensione della presenza dell’apostolicità del servizio, ma anche ad esempio in quel rimando al senso ultimo, in questa dimensione più profonda della contemplazione.
Tweet del Papa: recitate il Rosario in famiglia, rende più salda la vita familiare
◊ Anche oggi Papa Francesco ha lanciato un tweet sul suo account @Pontifex: “Sarebbe bello, nel mese di maggio – si legge – recitare assieme in famiglia il Santo Rosario. La preghiera rende ancora più salda la vita familiare”. Il tweet richiama un analogo invito che il Papa aveva espresso all’udienza generale di mercoledì scorso.
Presto Beate la regina Maria Cristina di Savoia e la mistica Maria Bolognesi
◊ Una regina che predilesse i poveri e una mistica che patì sul suo corpo le sofferenze di Gesù, offrendole per i malati. Maria Cristina di Savoia e Maria Bolognesi sono le due prossime Beate delle quali la Chiesa ha riconosciuto il miracolo che le innalzerà agli altari. I Decreti che riguardano loro e le virtù eroiche di altri due Servi di Dio – il sacerdote Gioacchino Rossellò i Ferrà, fondatore della Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, e suor Maria Teresa di San Giuseppe, fondatrice della Congregazione delle Suore Carmelitane del Bambino Gesù – sono stati promulgati oggi dalla Congregazione delle Cause dei Santi, dopo l’autorizzazione concessa ieri da Papa Francesco al cardinale Angelo Amato. Un ritratto delle due future Beate nel servizio di Alessandro De Carolis:
Una carrozza transita per le strade sterrate della Napoli dei primi anni Trenta dell’800. A un tratto si blocca e con grazia scende e si inginocchia fino a terra, incurante anche del fango, la regina in persona. Dal finestrino ha visto passare un prete con il Viatico, l’Ostia per gli ammalati, ma in quel gesto immediato di devozione cristiana in Maria Cristina di Savoia non c'è niente di sorprendente. Anche perché, poco tempo prima, andata in sposa al re di Napoli, Ferdinando II, quella stessa regina aveva stabilito, d’accordo col marito, che una parte del denaro per la festa nuziale servisse da dote per 240 spose povere e a riscattare un buon numero di pegni depositati al Monte di Pietà. Nel 1832, appena ventenne e fresca sposa, Maria Cristina è dunque una donna di solida fede cristiana, che ha nutrito con una solida formazione fin dall’infanzia assieme alle sue sorelle. Nel suo cuore, in particolare, il Vangelo produce un’eco spirituale profonda che la porta a desiderare di ritirarsi in clausura. La ragion di Stato la vuole invece sul trono e moglie di un re. Lei accetta ma con il suo atteggiamento improntato ai valori cristiani modella anche l’ambiente di corte che la circonda: come quando fa in modo che per tutti sia possibile nei giorni festivi partecipare alla Messa. La sua giornata, fatti salvi i suoi doveri, è per i poveri. Per meglio dire, sono i poveri il suo “dovere”. Del suo direttore spirituale si dice avesse un baule pieno di ricevute delle persone da lei beneficate. E a lei devono la vita anche tutti quei condannati alla pena di morte che, per intervento di Maria Cristina, videro commutata in grazia l'esecuzione capitale. La vita di Maria Cristina di Savoia si spezza col parto del primogenito, che nasce il 16 gennaio 1836. Il 29, a un passo dall’agonia, prende in braccio il bambino, lo porge al re suo marito e gli dice: “Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui”. Si spegne il 31 gennaio 1836 tra il dolore di una città che in soli tre anni ha imparato ad amare colei che da quel momento verrà ricordata come la “Regina santa”.
Di circa cento anni dopo, in tempi molto vicino a noi, è la vicenda umana e soprannaturale di Maria Bolognesi, originaria della provincia di Rovigo, dove nasce il 21 ottobre 1924. All’opposto della regina di Napoli, Maria nasce in un ambiente di miseria estrema, al punto che talvolta si ciba delle bucce di patate che le sue amiche hanno gettato sullo sterco di vacca e che lei pulisce con un po’ d’acqua prima di mangiarle. Arriva a completare le prime due classi della scuola elementare, poi la sua penna diventa la zappa e l’aula i campi dove è costretta a lavorare per aiutare la famiglia. Fa da mamma ai fratelli e intanto, nei silenzi della campagna, cresce in lei un bisogno di preghiera insopprimibile. È Dio che la sta preparando per una particolarissima esperienza, rivivere i dolori della Passione di Gesù. Ma prima per la mistica, appena sedicenne, comincia un periodo di possessione demoniaca, che va dal giugno 1940 al primo aprile del ’42. In quei mesi, durissimi, la preghiera le risulta impossibile e violento è il senso di repulsa che le provoca la vicinanza di una chiesa. Poi, da quel primo aprile vede il primo dei tre anelli che Cristo le darà – che reca incastonati cinque rubini segno delle cinque piaghe di Gesù – e da quel momento il suo corpo diventa ciò che per Cristo è stato il Calvario. Maria patisce sudorazioni sanguigne e numerose patologie di vario tipo, che lei offre per i malati, ai quali si sente profondamente unita. Il primo anello viene sostituito dapprima con uno più prezioso (l’anello dell’Ecce Homo), quindi con uno di oro massiccio. Ciò che è davvero straordinario è che tutto ciò non frena l’impegno della mistica nell’Azione Cattolica, né come catechista parrocchiale, né soprattutto come assistente ospedaliera. Anzi, è solo la morte, sopravvenuta il 30 giugno 1980, a non permetterle di vedere completato il suo sogno di una casa per convalescenti. Ma per la gente delle sue parti lei è e resta la “donna silenziosa della carità”.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Benedetto XVI nel monastero Mater Ecclesiae: accolto fraternamente in Vaticano da Papa Francesco.
Sfidando Gesù: Messa del Papa a Santa Marta.
Washington valuta il sostegno ai ribelli siriani: in rilievo, nell’informazione internazionale, l’annuncio del segretario alla Difesa statunitense.
Oralità e scrittura: in cultura, anticipazione dell’articolo di Paul A. Soukup - in uscita sul primo numero di maggio di “Civiltà Cattolica” - dedicato al gesuita statunitense, antropologo e storico, Walter Jackson Ong e i modi di comunicazione della cultura.
Notizie consegnate all’immagine: Gaetano Vallini recensice la mostra, all’Auditorium Parco della Musica, sugli scatti della rivista “Life” che rivoluzionarono il modo di fare informazione (e fu una donna a firmare la prima copertina).
Il risorto e le lusinghe del serpente: Inos Biffi su come le Scritture parlano del demonio.
Quelle scale che separano dal mondo: Luca Pellegrini a colloquio con il regista Nakamura Yoshihiro, che ha presentato al Far East Film Festival di Udine “Minasan, Sayonara”.
Un’iniziativa deludente e irresponsabile: nell’informazione religiosa, i vescovi degli Stati Uniti sulla libera commercializzazione della pillola del giorno dopo.
Una deriva dell’intelligenza e della cultura: il cardinale Vallini a proposito del concerto del primo maggio.
Pakistan: ucciso il procuratore che indagava sull'omicidio di Benazir Bhutto
◊ Pakistan nel caos: Chaudhry Zulfiqar, procuratore capo nel processo per l'omicidio, nel 2007, dell'ex premier e allora capo dell'opposizione Benazir Bhutto, è stato assassinato di primo mattino nel centro di Islamabad. Si tratta della 70.ma vittima di una lunga serie di attentati – oltre 40 – che hanno insanguinato la campagna elettorale in corso, in vista del voto dell'11 maggio. Elezioni, dunque, che rischiano di mettere ulteriormente in ginocchio un Paese già piagato dalle violenze e dalle divisioni interne. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Elisa Giunchi, docente di Storia e Istituzioni dei Paesi Islamici presso l’Università Statale di Milano:
R. - Questa è la campagna elettorale più sanguinosa della storia pachistana e questo proprio in una campagna elettorale che si appresta, per la prima volta nella storia del Pakistan, a vedere un governo eletto democraticamente finire il suo mandato. Sarebbe anche questa la prima volta nella storia del Paese. Quindi è un momento molto particolare che potrebbe segnare il consolidamento del sistema democratico, almeno a livello procedurale, o al contrario il suo stravolgimento in una situazione di semi-implosione del Paese.
D. - Il procuratore ucciso, stamattina, sosteneva la pubblica accusa nei confronti dell’ex presidente Musharraf. Nonostante le ultime vicende politiche e giudizarie, Musharraf può essere considerato ancora una personalità forte?
R. - Non credo, perché - al di là di quello che succederà sul piano giudiziario - non sembra che sia una figura molto popolare nel Paese, addirittura all’interno delle stesse forze armate. Quindi, anche se fosse libero di partecipare alle elezioni e non avesse problemi giudiziari, non credo che attirerebbe molti voti.
D. - I talebani hanno prima minacciato e poi messo in atto una campagna di attentati contro i partiti laici, considerati anti-islamici. Tutto questo, ovviamente, alza ulteriormente la tensione…
R. - Sì, anche perché tanti attentati sono avvenuti in province in cui vi sono i partiti - appunto l’Mqm, la Np, il partito popolare pachistano - che hanno invece accusato il partito di Noor Sharif di non essere sufficientemente sensibile ai loro problemi e a questi attacchi. La situazione è estremamente grave, perché nel Paese si sommano tensioni di varia natura: quindi sicuramente c’è anche un coinvolgimento esterno di natura afghana, nel senso che la linea di confine è sempre rimasta porosa e quindi c’è un passaggio continuo di militanti, che potrebbero anche provenire dall’Afghanistan, ma che con ogni probabilità sono di nazionalità pachistana. Poi vi sono, forse, interferenze esterne anche di altro tipo, perché il finanziamento di queste forze estremiste viene anche dall’esterno del sub-continente della regione in senso stretto; poi ci sono tensioni etniche che il Paese si porta da quando è nato, dal 1947, e che sono legati a disequilibri etnici nelle istituzioni dello Stato e al disequilibrio all’interno delle forze armate. Quindi una situazione veramente molto complessa.
D. - Il Pakistan nonostante tutto è un Paese strategico dal punto di vista internazionale per il mantenimento degli equilibri in tutta l’area. Come mai, secondo lei, la comunità internazionale non riesce a contenere tutte queste tensioni e queste violenze?
R. - Proprio perché l’origine delle violenze è in parte interna - disequilibri etnici nelle istituzioni, a cui facevo riferimento prima - e quindi la comunità internazionale può fare poco su questi aspetti decisionali, che riguardano degli elementi di politica - diciamo - quasi dinastica che caratterizzano il panorama politico pachistano.
Tour di Obama in Messico e Costa Rica: impegno a lotta contro narcotraffico
◊ E’ atteso in Costa Rica il presidente americano Obama dove prenderà parte al vertice del Sica, Sistema di Integrazione centramericana, in programma fino a domani a San Josè. Un summit che è stato preceduto dalla tappa messicana di Obama nella quale ha portato all’attenzione del suo omologo Nieto i temi dell’immigrazione clandestina e la lotta ai cartelli della droga. Al centro dei colloqui con il suo omologo Nieto i temi dell’immigrazione clandestina e la lotta ai cartelli della droga. Secondo recenti studi, dal Centramerica arriverebbe il 90% della cocaina distribuita negli Stati Uniti. In proposito, Benedetta Capelli ha intervistato Andrea Amato, ed autore del libro: “L'impero della cocaina. Dalla Colombia all'Italia fino agli Stati Uniti: viaggio in presa diretta nel traffico dell'oro bianco”, edito da Newton Compton:
R. - Negli ultimi 12 anni di governi di destra, in Messico, le frontiere sono state abbastanza dei colabrodo - dal mio punta di vista - sia in entrata che in uscita per traffici illeciti ma anche per traffici regolari. Con l’elezione di Nieto, cioè di un nazionalista, questa tendenza dovrebbe cambiare ed è per questo motivo che Obama si è recato subito in Messico per incontrarlo e per stipulare degli accordi bilaterali. Il tema del narcotraffico è ovviamente centrale per gli Stati Uniti: si parla di investimenti per la lotta al narcotraffico, da parte di Obama, per un miliardo di dollari.
D. - Tra l’altro il Messico è il terzo partner commerciale degli Stati Uniti, con scambi che ammontano addirittura a 500 miliardi di dollari l’anno…
R. - C’è un legame politico molto forte tra Barack Obama e il Messico: Obama, sia nella prima ma soprattutto in questa seconda rielezione, ce l’ha fatta soprattutto grazie ai voti degli immigrati messicani negli Stati Uniti. Negli Stati del Sud, tradizionalmente conservatori e repubblicani come New Mexico, Texas e California, Obama ce l'ha fatta soprattutto grazie ai voti messicani. Questi incontri bilaterali tendono soprattutto a implementare uno sviluppo economico nel Messico: fino ad oggi il Messico è stato quasi un Stato satellite statunitense, dove gli Stati Uniti hanno principalmente preso risorse. Questo incontro ha messo invece le basi per un rapporto più alla pari tra Messico e Stati Uniti, quindi si è puntato sullo sviluppo economico ma anche e soprattutto culturale, con un occhio di riguardo all’istruzione, allo sviluppo educativo del Messico per poter così dare futuro al Paese.
D. - Uno degli obiettivi di questo tour di Obama in America centrale è anche quello di capire un po’ meglio qual è la collaborazione sul fronte dell’immigrazione, perché gli Stati Uniti sono pronti a varare la riforma, che riguarderà addirittura 11 milioni di “latinos”…
R. - Obama ha ben chiaro il peso dei voti degli immigrati messicani, ma soprattutto ha anche ben chiara la loro forza produttiva. Inoltre, gli Stati Uniti hanno ancora delle politiche di integrazione e di sviluppo sugli immigrati e quindi il tema dell’immigrazione è ben chiaro a Obama sia politicamente che economicamente.
D. - Ma le misure di contrasto all’immigrazione clandestina sono state efficaci fino ad oggi oppure no?
R. - No, fino ad oggi tutto era molto, molto blando. Anche il muro eretto al confine con Texas era più simbolico che non effettivo ed efficace. Per questo negli ultraconservatori degli Stati del Sud, sono nate le famigerate ronde e gli squadroni della morte che si facevano giustizia da soli. La novità della politica di Obama in questo secondo mandato è sull’integrazione e quindi prendere atto che fermare il flusso immigratorio da Sud verso Nord è impossibile: si può controllarlo dal punto di vista della criminalità, ma deve poi essere integrato sul suolo americano.
Dacca, salgono a 500 i morti del crollo. La testimonianza di un missionario
◊ A nove giorni dal crollo della fabbrica alla periferia di Dacca in Bangladesh, sale a 500 il bilancio delle vittime rimaste sotto le macerie, i feriti ammontano ad oltre un migliaio e decine di persone risultano ancora disperse. Ma questo tragico incidente rappresenta solo la miccia che ha fatto esplodere tensioni sotterranee che toccano la sfera politica e sociale oltre che le questioni attinenti alla sicurezza e alle garanzie dei lavoratori. Gea Finelli ha intervistato padre Silvano Garello, missionario Saveriano che vive da 40 anni a Dacca:
R. – Si stanno arroventando tanti problemi: problemi politici, economici, sociali, religiosi. Il Bangladesh, quindi, non vede un facile sbocco a questi problemi. Una soluzione, nelle nostre solite parole, sarebbe una riconciliazione. Si può dire che i vari gruppi restino troppo sulle loro posizioni e non ci sia dialogo. Questo dispiace, perché effettivamente i problemi sono gravi, ma bisogna trovare soluzioni comuni. Per me la domanda è: “Chi potrebbe fare da mediatore in questa situazione?”. Non si vede una personalità saggia e anche capace di esercitare questo ruolo.
D. – A otto giorni dal crollo, montano le polemiche sulla sicurezza delle centinaia di edifici-fabbrica presenti in Bangladesh e anche sui salari bassissimi dei lavoratori, che si aggirano intorno ai 40 dollari al mese...
R. – Anche il Papa ha richiamato l’attenzione e parlava addirittura di 38 dollari. Questi operai vivono in condizione di schiavitù. Il Bangladesh è così povero che accetta le più basse proposte possibili per poter competere, altrimenti si rivolgono al Vietnam, alla Cina e così via. Sono ricattati da tutte le parti. L’altro aspetto è che bisognerebbe che anche quelli che vengono a fare dei contratti considerino non solo questa facilità di avere lavoro a basso prezzo, ma considerino anche la responsabilità di dare una mano per risolvere i problemi sociali.
D. – Le vittime del crollo producevano abiti per le grandi marche mondiali, da Benetton a Gap...
R. – Sì, e penso che sia stato anche una buona cosa sentire che alcune compagnie si siano offerte per aiutare specialmente le persone ferite, che hanno bisogno di riabilitazione. Molti di loro, forse, non potranno più lavorare: hanno perso gli arti, le gambe, le mani...
R. – Tutte queste aziende occidentali erano pronte a delegare la loro produzione a fabbriche in Paesi in via di sviluppo. Cosa potrebbero fare le multinazionali occidentali per migliorare la situazione in Bangladesh?
R. – Le multinazionali devono arrivare al punto di considerare il prezzo umano di tutti i loro interventi. Dare lavoro, pagare chi lavora, guardare le condizioni di chi lavora, penso che faccia parte della loro responsabilità.
D. – Il Papa qualche giorno fa ha rivolto una preghiera per le vittime del crollo della fabbrica in Bangladesh. Che tipo di azione svolgete voi padri saveriani in questo Paese per aiutare la popolazione in difficoltà?
R. – Noi, come Missionari saveriani, abbiamo non solo un compito generico di evangelizzazione, ma abbiamo anche alcune iniziative che toccano i problemi vivi dell’uomo. Per esempio, qualcuno di noi si dedica ai bambini di strada. Padre Giovanni Abbiati nel passato ha avviato una collaborazione internazionale per dare lavoro alle donne attraverso l’handicraft, un tipo di artigianato molto semplice, e ciò ha portato dei frutti. Il Papa, giustamente, ha detto: “Bisogna stare attenti, la Chiesa non è un’ong benevola”. Allora, però, questo insegnamento sociale della Chiesa, in concreto, noi come lo possiamo applicare? Per mio conto, ci tocca prima di tutto personalmente ed è chiaro che non possiamo permetterci di vivere da ricchi in un Paese povero.
Siria, l'opposizione: 150 massacrati a Bayda. Testimonianza dai rifugiati in Giordania
◊ Sono almeno 150 i morti nel "massacro su larga scala" di civili perpetrato lunedì scorso dalle forze del regime siriano a Bayda, nella provincia occidentale di Tartus: a denunciarlo è la Coalizione nazionale siriana, principale cartello delle forze di opposizione. L'eccidio è stato compiuto dalle forze regolari con il sostegno degli “shabbiha”, i miliziani alleati del regime, nel villaggio costiero sunnita. La notizia è una delle tante che ogni giorno rendono più cruento il resoconto della crisi in Siria, come ogni giorno più duro dievnta il drmma dei profughi. L’Ospedale italiano di Karak, in Giordania, offre rifugio ai siriani che scappano dalla guerra e dai campi profughi al confine. Fondato nel 1939, questo ospedale cattolico, sostenuto dalla "Catholic Near East Welfare Association", speciale agenzia vaticana per l’aiuto alle Chiese cattoliche e alle popolazioni del Medio Oriente, è l’unica clinica attrezzata della regione e rappresenta il punto di riferimento per la parte meridionale della Giordania. Racconta il dramma di chi è in fuga suor Adele Brambilla, religiosa comboniana, al microfono di Elisa Sartarelli:
R. – Il grande flusso dei siriani è notevolmente aumentato e adesso è diventato un’emergenza. L’Onu dice che c’è stato un grande flusso nelle ultime settimane, maggiore di quello che avevano previsto qui per la Giordania. Si parla già di 100 mila rifugiati.
D. – Com’è la situazione nei campi profughi?
R. – La situazione nei campi sta diventando tragica e le agenzie assistenziali, come l’Onu e tutte le altre agenzie – Save the Children Fund, Medecin sans frontieres – parlano anche di mancanza di cose necessarie come docce, toilette e spazio per i bambini. Anche in Amman si vedono per le strade numerosi bambini, c’è l’accattonaggio, perché ci sono bambini che purtroppo a causa di questa guerra sono stati abbandonati a sé e c’è il rischio che vengano aperti anche altri campi: i rifugiati dicono che sono già il 10% della popolazione giordana e i profughi hanno già superato il mezzo milione. La gente nei campi profughi vive in grande precarietà, l’inverno è stato freddo e adesso arriva il caldo. Le agenzie umanitarie dicono che fra poco faranno fatica a provvedere ai rifornimenti d’acqua, igienico-sanitari e all’assistenza medica. Proprio per il grande sovraffollamento, alcuni gruppi di rifugiati sono arrivati al sud: qui nella nostra provincia di Kerak sono arrivate diverse famiglie e il nostro ospedale ha aperto le sue porte. Ogni giorno arrivano in media dai quattro ai dieci rifugiati che cercano soprattutto assistenza per bambini e donne in gravidanza. Abbiamo avuto diverse mamme che sono scappate dalla Siria per venire a partorire in una situazione più sicura. Qui nel Sud alcune hanno trovato dei piccoli appartamenti, ma magari in un appartamento di tre stanze ci sono tre famiglie che vivono insieme. Noi collaboriamo con la Caritas giordana e diamo l’assistenza di emergenza soprattutto a donne e bambini: adesso stanno arrivando i bambini soprattutto con febbre alta, gastroenteriti, broncopolmoniti, oppure varie infezioni dovute anche alla situazione di grande precarietà che c’è.
D. – La situazione è tragica, il numero di profughi siriani in Giordania continua ad aumentare. Questo ha portato anche a proteste sociali?
R. – La gente ha avuto delle reazioni – l’abbiamo letto sui giornali – ma qui si sente molto poco perché siamo al sud. Ci sono state delle reazioni perché qui c’è carenza d’acqua, carenza di tante cose, quindi la gente si sente investita di un peso che forse non può neanche portare. Abbiamo sentito che in giro ci sono state proteste, ma generalmente la gente è accogliente: abbiamo visto anche qui nei villaggi che sono stati accolti tutti quelli in arrivo. Anche noi, i nostri medici, i nostri infermieri, collaboriamo in pieno a questa missione di accoglienza e di cura. Possiamo dire che non abbiamo sentito internamente, qui da noi, una ribellione. Ci sono però domande perché la gente si interroga su come tutto questo andrà a finire.
Viterbo, feto in un cassonetto. Cav: tutele a chi partorisce in anonimato
◊ Shock e rammarico per l’abbandono di un feto di sette mesi a Viterbo. Il corpo della piccola è stato ritrovato senza vita ieri sera in un cassonetto del centro storico. Fermata la madre, una giovane rumena di 24 anni, che si era presentata all'ospedale di Belcolle con un'emorragia in atto. Si tratta dell’ennesima tragedia che poteva essere evitata, anche grazie alle leggi che tutelano il parto in anonimato. Marco Guerra ne ha parlato con la dott.ssa Maria Fanti, responsabile del Centro di aiuto alla vita di Viterbo:
R. – Il brivido che mi è corso nelle membra è perché ci ritroviamo, ancora una volta, con una creatura gettata tra i rifiuti. C’è un senso d’impotenza nel non poter raggiungere queste mamme, spesso nella paura, nella solitudine, nell’ignoranza, che non sanno che esistono realtà che potrebbero aiutarle, tutelarle, sotto ogni punto di vista, anche per quanto riguarda i servizi sanitari. Pare che questa bimba sia nata con un parto prematuro: bastava andare in ospedale e la donna sarebbe stata accudita e forse la bimba si sarebbe anche salvata. Quindi, si ignora che esistono delle leggi in Italia che permettono l’assistenza anche a chi è clandestino.
D. – Dunque, era una tragedia evitabile. Che difficoltà affrontate sul terreno a raggiungere certe categorie di persone?
R. – Ogni volta l’approccio con una donna, con una mamma è sempre nel pieno rispetto di chi abbiamo davanti. Braccia aperte e massima accoglienza, ascolto e proposte di aiuti concreti a favore di queste donne, che hanno difficoltà. Le difficoltà le troviamo eventualmente nel raggiungerle. Per esempio, molte da noi arrivano con il passaparola: chi è stato aiutato, chi ha ricevuto accoglienza – un ascolto, un abbraccio – indirizza a noi l’amica che si trova in difficoltà, la persona che potrebbe avere bisogno. Il fatto, però, è avvenuto, fuori Porta del Carmine, il quartiere del centro storico a pochi passi dalla Casa di accoglienza, nata 12 anni fa proprio per aiutare le mamme in difficoltà. Per la Giornata per la vita, ad esempio, noi distribuiamo più di 10 mila volantini. Quello che lamentiamo è che comunque, sia nei reparti dell’ospedale, dove è possibile per queste donne poter accedere e trovare i numeri di telefono, ma anche nello stesso consultorio, il nostro materiale viene gettato via, eliminato.
D. – E’ come se fosse diventato politicamente scorretto parlare del dramma dell’aborto e della possibilità di scegliere per la vita...
R. – Esatto. Sono state fatte delle considerazioni recentemente sul fatto che dovrebbero nascere meno figli a causa della crisi economica. Ma economisti di fama mondiale hanno riconosciuto che la crisi economica nasce da una crisi demografica, per cui il tema dell’ultima Giornata per la vita è proprio “generare la vita, riduce la crisi, supera la crisi”. C’è un disprezzo diffuso per la vita, tanto che il cucciolo dell’uomo vale ancor meno di un cucciolo d’animale. Mi vengono i brividi al pensiero che quanto accaduto a Viterbo sia stato scoperto, ma chissà quanti altri bambini finiscono nell’inceneritore con il beneplacito di tutti: perché l’importante è non vedere. Vorrei ci fosse una maggiore pubblicità al parto in anonimato, che si facciano conoscere le nostre associazioni di volontariato, che ci sia una degna sepoltura per le vittime dell’aborto e che le donne proprio per questo non vengano lasciate sole.
Il cardinale Bagnasco: più sostegno alla scuola, serve vera parità
◊ Il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, mette in guardia: basta tagli alla scuola, serve più sostegno dalle istituzioni. Intervenendo in un convegno a Roma, il cardinale afferma che in Italia manca un effettivo riconoscimento sul piano economico alle scuole paritarie, "nonostante le disposizioni in questa direzione della stessa Comunità Europea''. Il servizio di Alessandro Guarasci:
Per il cardinale Bagnasco, il sistema formativo deve rimanere al centro di ogni politica. Parlando al convegno ''La Chiesa per la scuola'', il presidente della Cei afferma che “una società che non investa energie economiche e umane nella scuola finisce per subordinare l'uomo al lavoro e al denaro, come appare in modo drammatico nella finanziarizzazione dell'economia”. Dunque, servono più finanziamenti e vanno evitati nuovi tagli. Forte poi il suo rammarico perché, dice, “a fronte del conclamato diritto alla scelta educativa, in Italia non è dato un effettivo e concreto riconoscimento sul piano economico alle scuole paritarie, nonostante le disposizioni in questa direzione della stessa Comunità Europea''. Una preoccupazione raccolta anche da don Francesco Macrì, presidente della Fidae, la Federazione che raccoglie la maggior delle scuole d’ispirazione cattolica:
R. - Il finanziamento pubblico previsto sembra che non raggiunga un risultato positivo, nel senso che ci sono stati degli accantonamenti che noi interpretiamo come tagli veri e propri. In più, c’è tutta la crisi economica del contesto, per cui moltissime famiglie non si possono assolutamente permettere il lusso di mandare il proprio figlio in una scuola a pagamento. Siamo di fronte a un’emergenza gravissima Molte nostre scuole stanno già chiudendo e aspettiamo - ce lo auguriam - che questo nuovo governo dimostri un certo interesse verso un ambito così importante, a servizio del pubblico e nell’interesse collettivo della nazione.
D. - Lei come risponde a chi dice se si danno soldi per la scuola privata, si tolgono finanziamenti alla scuola pubblica?
R. - Non interessa la natura giuridica dell’ente erogatore del servizio, ma ci s’interessa del servizio, o meglio della qualità del servizio. Per cui, un eventuale finanziamento alla scuola paritaria è un finanziamento che va nella direzione della garanzia di un servizio che risponde a questo diritto fondamentale dell’alunno di avere un’istruzione e un’educazione adeguata ai suoi interessi e ai suoi diritti. Quindi, non è un finanziamento che si contrappone al finanziamento della scuola statale, perché entrambe svolgono la stessa identica funzione: quella di essere un servizio nell’interesse del bene pubblico.
Giornata per la libertà di stampa. L'Onu: verità diritto dovere di tutti
◊ “Tutti i governi devono proteggere la sicurezza dei giornalisti”. E’ uno degli auspici più forti presenti nel messaggio del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, per l’odierna Giornata mondiale per la libertà di stampa. La ricerca della verità – afferma ancora – è un dovere e un diritto, tutti devono essere messi in condizione di parlare liberamente. Un appello particolarmente significativo di fronte ai recenti sequestri di giornalisti in aree calde del mondo e di fronte ai numeri drammatici riportati dall’Onu: negli ultimi dieci anni, in 600 hanno perso la vita sul lavoro. Quanto è importante oggi la tutela di un diritto come la libertà di stampa? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Mimmo Candito, presidente di Reporter Senza Frontiere Italia:
R. – E’ importante, perché la libertà di stampa è uno dei fondamenti di ogni società democratica aperta. Non vi è una società democratica, se non vi è conoscenza reale di ciò che passa all’interno della storia e della vita di questa società. E questo passaggio inevitabilmente viene veicolato dai mezzi di comunicazione di massa: da giornali, radio, televisione, Internet, anche il telefonino arrivano notizie e, sulla base della conoscenza, si crea la consapevolezza dell’opinione pubblica. E non esiste società democratica, se non c’è un’opinione pubblica.
D. – La comunicazione della verità fa paura a molti regimi: lo testimoniano la vicenda di Domenico Quirico, ma anche di tanti altri giornalisti che in posti di frontiera, come in Africa, rischiano la vita per questo…
R. – La verità fa male sempre, a tutti i governi, sia dittatoriali o autoritari, anche democratici. Sembra un paradosso, però anche la democrazia ha delle realtà riservate, nelle quali esercita la propria attività. E comunque non dovrebbe temere il giudizio sul disvelamento della sua azione. Invece, talvolta è accaduto che lo svolgimento di questa attività non sia stato sempre volto all’interesse generale, ma condizionato da mille ragioni, di ogni tipo. E allora, occorre che proprio lì intervenga l’azione disvelatrice dei mezzi di comunicazione di massa. Questa azione di disvelamento dovrebbe essere non soltanto protetta, ma anche rafforzata quanto più possibile, perché è in essa che si realizza poi autenticamente il processo democratico di un Paese.
D. – La libertà di stampa, dunque, come stimolo ai governi per tutelare altri diritti fondamentali della persona: questo è un obiettivo facilmente raggiungibile, oggi?
R. – "Facilmente" è un avverbio che io non userei nemmeno alla lontana. Per i regimi dittatoriali, il motivo si capisce bene: non c'è dubbio che si faccia di tutto per nascondere. Il problema più complesso riguarda le società democratiche, dove tra contrapposizione tra l’interesse generale e gli interessi di parte si muove il processo alla conoscenza, che è attivato dai mezzi di comunicazione di massa.
D. – C’è anche l’altro lato della medaglia: la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione porta ad eccessi. Lo ha denunciato recentemente la presidente italiana della Camera, Laura Boldrini, che è stata oggetto di minacce proprio attraverso mezzi di comunicazione che invece dovrebbero servire ad altro…
R. – Quando i mezzi di comunicazione di massa tradiscono il loro compito di essere al servizio della conoscenza della realtà, non v’è dubbio che sia Internet, sia un giornale o una televisione o una radio producano con violenza. Certamente, il web ha reso ancora più penetrante questo pericolo. Il giornalismo, quando è vero giornalismo – si diceva una volta "è il cane da guardia della società" – dovrebbe essere sempre il controllore del potere, per evitare che questo eserciti le proprie funzioni in termini di non rispetto degli interessi generali. Però, questo comportamento può essere rovesciato e diventare una forma di aggressione proprio attraverso la Rete: questo è ancora più facile che accada e quindi su questo occorre, ovviamente, ancora maggiore attenzione.
A Urbino il primo Festival del Giornalismo culturale
◊ Al via oggi a Urbino il primo Festival del giornalismo culturale. Due giorni di lectio, dibattiti e confronti in cui giornalisti, scrittori e accademici saranno chiamati a discutere di informazione e cultura. L’evento è curato dal Dipartimento di scienze della comunicazione e discipline umanistiche dell’Università di Urbino "Carlo Bo". Salvatore Sabatino ne ha parlato con Lella Mazzoli, direttore del Dipartimento, nonché direttore della scuola di Giornalismo di Urbino:
R. – E’ la prima volta che tanti giornalisti che fanno cultura, che promuovono la cultura nel nostro Paese – e non solo nel nostro Paese, perché ci saranno anche gli stranieri – discutono di come sarà l’informazione culturale nel presente, ma anche nel futuro.
D. – Numerosi saranno gli ospiti, così come numerosi saranno gli argomenti affrontati durante questo Festival, con un’attenzione particolare alle nuove tecnologie…
R. – Sì, perché ormai lo sappiamo: dobbiamo fare i conti con una trasformazione di un’informazione che passa sempre più per la carta stampata, o per quello che io chiamo il main stream – radio e televisione – verso un contenitore che è sempre più forte: il web. La questione che noi ci poniamo, in questi dibattiti, è se c’è questa evoluzione, questo passaggio dal main stream al web anche per l’informazione culturale. Noi, per esempio, ci accorgiamo che molto spesso le persone vanno a cercare informazioni sugli scrittori e le loro opere, ma anche sul dibattito culturale vero e proprio, e vanno a cercarle nella rete. Ora, vorremmo sapere da questi professionisti dell’informazione culturale se ciò è vero e se ciò produce qualche trasformazione, nel modo di informarsi ma anche nel modo di formare la nostra struttura culturale.
D. – Verrà analizzato anche il rapporto tra il giornalismo culturale italiano e quello internazionale. Come si può definire questa relazione?
R. – Noi abbiamo dedicato uno spazio con un titolo curioso, “Cosa succede al di là delle Alpi?”, invitando i giornalisti delle testate internazionali più prestigiose – come “Le Monde” o “El País” o “El Mundo” – per chiedere loro se questa evoluzione che noi vediamo nel nostro Paese è presente anche da loro, ma soprattutto per capire come loro raccontano il nostro Paese – la cultura del nostro Paese – dalle loro terre. C’è un’interazione tra mondi altri rispetto alla nostra terra Italia? E che tipo di relazione c’è? Raccontiamo la cultura allo stesso modo o Oltralpe la cultura ha uno spazio diverso, una connotazione diversa? Questo è un quesito che in uno dei nostri panel verrà, mi auguro, sviscerato davvero.
D. – In un Paese come l’Itali,a che è la culla della cultura – pensiamo solo all’arte, alla letteratura – può il giornalismo culturale far ripartire il Paese creando un circolo virtuoso tra cultura e crescita economica?
R. – Assolutamente si. Questo davvero è il mio obiettivo. Tant’è che, curiosamente, assieme a Giorgio Zanchini, che è con me direttore del Festival – ma anche nel confronto con Piero Dorfles nel periodo in cui abbiamo organizzato il Festival – abbiamo inventato un Premio, già assegnato a dei giovani giornalisti e a ragazzi delle scuole, dal titolo “Con la cultura si mangia”. Non volevamo soltanto dire che anche il cibo è cultura, perché noi non vogliamo parlare soltanto della cultura accademica, ma delle culture, se io potessi usare un termine al plurale. Perché la cultura si mangia? Si mangia perché produce economia. In tanti Paesi questo l’hanno capito. In Italia, ho la sensazione che questo sia un po’ lontano a venire.
D. – In epoca di tagli, il settore culturale è stato fortemente penalizzato nel nostro Paese. Da cosa si può ripartire?
R. – Si dovrebbe partire con una riflessione sul fatto culturale e sulla produzione industriale legata alla cultura. Non è un caso che noi abbiamo invitato Giuseppe Roma, direttore del Censis, che dovrebbe raccontarci proprio dell’industria culturale, intesa anche come strumento per produrre economia. Io credo che questo sia il nostro leit-motiv, nel senso che non possiamo pensare che la cultura rimanga ancorata alle accademie, a quei luoghi paludati dove si discute ma dove non si riesce a fare emergere strategie economiche vere e proprie. Dobbiamo sempre di più aprire l’accademia al mondo della produzione, perché solo quello produce davvero cultura e produce davvero benessere per un Paese.
D. – Un invito a chi volesse venire ad Urbino?
R. – Vi aspettiamo davvero tutti in questi spazi meravigliosi di una città che di per sé è la culla della cultura e che per tanti versi potrebbe essere il punto di avvio di una produzione economica a partire proprio dalla cultura.
Il priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi: Dio non delude mai
◊ Presentato ieri a Torino, alla presenza di padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, e del filosofo Massimo Cacciari il libro “La sapienza del cuore”, volume con cui Einaudi festeggia i 70 anni di Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose. Una vita segnata, sin dalla gioventù, da scelte radicali come sottolinea lo stesso Enzo Bianchi, intervistato da Amedeo Lomonaco:
R. – Dopo aver fatto un’esperienza presso l’Abbé Pierre a Rouen n Francia, insieme con questi straccioni, ex legionari, alcolizzati con cui viveva e prendendosi cura di loro, io ho capito che il cristianesimo – per me, almeno – non doveva essere tanto un’impresa di far grandi cose in politica o nell’Università, dove ero ormai diretto, ma che poteva essere qualcosa di molto più semplice, anche nascosto. Pensai alla vita monastica e con tutte le forze l’ho perseguita.
D. – Un’altra decisione che ha scandito la sua vita è stata proprio quella di restare monaco, di non diventare sacerdote …
R. – Io sentivo dentro di me di dover restare un semplice fedele. Io credo che abbiamo bisogno di mostrare che anche uno che non fa parte dell’ordine clericale possa tentare di condurre una vita evangelica, una vita cristiana. Ho voluto seguire questa via controcorrente perché il monachesimo è tutto "clericalizzato" e oggi resta essenzialmente seguito da monaci-preti. Ma io volevo tornasse alle origini, a quelle di Pacomio, di Basilio, di Benedetto, quando erano semplici laici che rendevano questo servizio al cuore della Chiesa e per tutta la Chiesa, senza per questo far parte della gerarchia.
D. – E seguendo questa direzione, nel 1965, al termine del Concilio Vaticano II, comincia l’esperienza della Comunità di Bose. Inizialmente, il cammino della comunità ha incontrato ostacoli e resistenze, poi è arrivato il pieno riconoscimento…
R. – Sì, quando all’inizio un ragazzo che si mette a vivere insieme con altri, in campagna, che fa una Liturgia delle Ore già da subito, destava dei sospetti soprattutto perché uno di noi era protestante. Allora, c’è stata una vera incomprensione da parte del vescovo locale nei nostri confronti. Ma la grazia del Signore ha voluto che il cardinale Pellegrino, che veniva dal Concilio e che era un uomo aperto all’ecumenismo e con un’esperienza ecumenica, diventasse egli stesso responsabile della nostra Comunità, permettendoci di crescere, di approfondire le nostre radici. Devo dire che quelle contraddizioni subite per me sono state una grazia: ci hanno insegnato a restare semplici, a restare umili e questo è molto importante. La Chiesa non deve subito approvare nuove forme, deve lasciar passare non solo anni, ma decenni – come nel nostro caso – perché il discernimento va fatto con il tempo, vedendo la perseveranza, la fedeltà di chi apre nuove strade. Non c’è altra via.
D. – E la Comunità di Bose è oggi un affresco orante, incastonato proprio nella vita della Chiesa. Quale modello di Chiesa auspicare, partendo dagli insegnamenti di Papa Francesco?
R. – Io credo che Papa Francesco stia dicendo cose che sono l’essenziale del cristianesimo: una Chiesa più povera, una Chiesa in cui i poveri abbiano il posto, una Chiesa in cui i peccatori si sentano accolti; le periferie del mondo si vedono guardate e amate… Noi abbiamo bisogno di questo cristianesimo semplice, che è quello che ci ha insegnato Gesù nella sua forma di vivere, incontrando tutti per le strade della Galilea, esposto, senza garanzie, senza protezioni, annunciando la buona notizia e spargendo dovunque la fiducia, la fede, la speranza nella vita eterna in Dio. Di questo abbiamo bisogno, e credo che Papa Francesco ci stia dando tutti questi segni e questo ci rallegra il cuore.
D. – Possiamo dire che dopo la "primavera" del Concilio stia aprendo un’altra primavera nella Chiesa?
R. – Sì, io dico questo: sono un cristiano particolarmente fortunato, perché all’inizio avevo 20 anni quando Papa Giovanni e il Concilio hanno aperto una primavera nella Chiesa. Poi c’è stato il momento significativo della traversata del deserto, tormentato, faticoso, in cui si sono approfondite delle cose. Anche questa è stata grazia del Signore. E poi, però, vedere alla fine della mia vita, ormai anziano, un’altra primavera mi fa cantare al Signore un “Magnificat”. Arrivo a dire che muoio con meno tristezza rispetto al non vedere una primavera. Vedere una primavera che si abbozza mi fa morire con meno tristezza, con meno dolore.
D. – Alcuni ideali, sempre più imperanti nella società attuale, possono a volte trasfigurare la vera identità umana. Cosa significa, in realtà, essere uomini?
R. – Essere uomini significa camminare sempre di più con gli altri, in armonia con gli altri, nella giustizia, nella fiducia reciproca. Essere umani significa, alla fin fine, essere cristiani ed essere cristiani significa essere umanissimi. La via cristiana è una via di umanizzazione, anzi, oserei dire la vita sulla quale – anche la storia lo dimostra – l’uomo si è umanizzato di più e ha mostrato la sua capacità di amare. Perché nel cristianesimo l’amore è al centro, perché Dio è amore.
D. – Quale patrimonio si scopre aggiungendo questa sapienza del cuore agli anni che passano?
R. – Si scopre che Dio è fedele, che Dio è fedele e non delude mai, che noi dobbiamo mettere tutta la nostra fiducia in Lui. Da Lui solo possiamo sperare davvero di andare al di là della morte. Questa è la mia speranza ora: al di là della morte, ci sarà Lui che mi abbraccia e abbraccerà tutti quelli che sono stati con me, che hanno attraversato la mia vita. Questo lo spero. Per questo prego.
Siria: cristiani addolorati e preoccupati per la sorte dei vescovi rapiti
◊ "Tutta la comunità cristiana di Aleppo è addolorata e preoccupata" per la sorte di mons. Yohanna Ibrahim e mons. Boulos Yaziji, i due vescovi ortodossi rapiti lo scorso 22 aprile nella provincia di Aleppo al confine con la Turchia. Lo afferma all'agenzia AsiaNews mons. Jean Clement Jeanbart, vescovo della Chiesa greco-melchita. "Cerchiamo di incoraggiare e dare speranza ai nostri fedeli - racconta - che sono confusi dalle notizie contrastanti riguardo alla situazione dei due prelati". Secondo mons. Jeanbart il sequestro e le sue dinamiche restano un mistero difficile da districare, dopo la falsa notizia della loro liberazione, data pochi giorni dopo il rapimento. Voci non confermate parlerebbero di un loro rilascio imminente, ma per il vescovo non si sa più a chi credere: "La nostra speranza è che possano ritornare fra le loro comunità nei prossimi giorni per festeggiare la Pasqua ortodossa. In tutte le chiese, cattoliche e ortodosse, si prega ogni giorno per il loro ritorno e per la loro salvezza". Dopo gli appelli di papa Francesco, si moltiplicano le richieste per il rilascio da parte dei leader religiosi cristiani e musulmani. Il patriarca cattolico maronita libanese Beshara Rai, impegnato in una visita in Brasile, ha affermato che "la comunità internazionale deve impegnarsi per la liberazione dei due vescovi", sottolineando che "nel Paese arabo sono in corso crimini contro l'umanità". Quattro giorni fa, sempre dal Brasile, il card. Rai aveva sottolineato che "i due vescovi non hanno nulla a che vedere con la crisi siriana" e per questo "vanno rilasciati, in nome dell'umanità". E all'agenzia Fides il metropolita siro-ortodosso Jean Kawak, incaricato dell'Ufficio patriarcale a Damasco invoca l'intervento della Turchia per la liberazione dei due vescovi di Aleppo rapiti. "Tutto il nord della Siria ora è in qualche modo sotto il controllo turco - afferma - quindi è fondamentale parlare con loro. Ogni iniziativa diplomatica e umanitaria dovrebbe puntare in quella direzione, coinvolgendo anche i governanti turchi”. Il metropolita Kawak riferisce che “non ci sono novità sulla sorte dei rapiti e sulla identità certa del gruppo dei sequestratori. C'è chi assicura che i due vescovi stanno ancora bene e che si è riusciti a far arrivare a Mar Gregorios le medicine di cui ha bisogno ogni giorno. Ma sono voci che provengono in maniera indiretta da fonti diverse, e che è impossibile verificare. (R.P.)
Centrafrica. Continuano i saccheggi dei ribelli: profanata un’altra chiesa
◊ “I saccheggi sono un po’ diminuiti e si cerca di riportare la calma ma fino a 10 giorni fa la situazione era terribile” riferiscono all’agenzia Fides fonti locali dalla Repubblica Centrafricana, dove bande legate ai ribelli della coalizione Seleka imperversano su tutto il territorio, dopo aver conquistato a fine marzo la capitale Bangui, costringendo alla fuga l’ex Presidente François Bozizé. Secondo quanto risulta all’agenzia Fides nel villaggio di Ouango (sul fiume Oubangui al confine con la Repubblica Democratica del Congo) qualche giorno fa i ribelli hanno bruciato 400 case, ucciso 9 persone a colpi di armi da fuoco e di machete, hanno saccheggiato la chiesa cattolica e profanato il tabernacolo. “La popolazione non ama di certo i ribelli, che continuano a tormentarla. Molti di questi non sono neppure centrafricani, provengono dal Ciad o da altri Paesi, non parlano la lingua locale né il francese o l’inglese, solo l’arabo”, dicono le fonti Fides. “I ribelli colpiscono soprattutto i cristiani e alcuni commercianti musulmani approfittano della situazione e rivendono nei loro negozi gli oggetti saccheggiati dai guerriglieri”. “Ma attenzione a non generalizzare - avvertono le stesse fonti - diversi musulmani sono veramente dispiaciuti della situazione e tentano di mediare per far cessare le violenze e i saccheggi”. “I leader di Seleka si sono resi conto che con il terrore non si governa un Paese e stanno prendendo provvedimenti per controllare le loro stesse truppe e smettere di saccheggiare sistematicamente i civili, spesso sulla base di semplici voci e maldicenze, del tipo “quella persona ha in casa la cassa dell’ospedale”. Basta questo perché il malcapitato si veda piombare in casa di notte una banda armata alla ricerca del denaro. Così non si può andare avanti”. A Brazzaville (Gabon) è in corso il vertice dei Paesi dell’Africa centrale per trovare una soluzione alla crisi centrafricana. Uno dei punti in discussione è l’incremento della consistenza delle truppe della Fomac (la missione militare africana nel Paese) da 500 a 2mila uomini. “Duemila soldati della Fomac possono aiutare a riportare un minimo di sicurezza nel Paese. L’Unione Europea deve finanziare la missione per aiutare la popolazione centrafricana ha ritrovare un po’ di serenità” concludono le fonti di Fides. (R.P.)
Venezuela: nel clima di scontro politico la Chiesa pronta a mediare
◊ La Conferenza episcopale del Venezuela (Cev) ha espresso la sua disponibilità a facilitare il dialogo tra il governo e l'opposizione per superare il momento di polarizzazione politica nel Paese dopo le elezioni del 14 aprile. "Crediamo che sia la nostra missione aiutare il dialogo e la riconciliazione, per trovare le vie per la pace, per cui siamo disposti a contribuire a facilitare il dialogo tra le due parti", ha detto il presidente della Cev, mons. Diego Padron. In una nota inviata a Fides, i vescovi hanno anche parlato dello scontro di martedì scorso nell'Assemblea nazionale tra i deputati dell'opposizione e i membri del governo, dopo che il presidente della Camera aveva ancora negato la facoltà di parlare ai membri dell'opposizione. "L’aggressione fisica di alcuni deputati dell'Assemblea nazionale è un atto di violenza che provoca tristezza e vergogna, il Venezuela non merita queste scene deplorevoli", si legge nel comunicato dei vescovi. "I gravi problemi del Paese devono essere risolti nella comprensione tra le parti, perché nessuno è autosufficiente per risolvere i problemi del Paese", continua il documento. Bisogna abbandonare "l'arroganza, il pregiudizio e le accuse infondate, perché nella popolazione un linguaggio offensivo può causare reazioni sociali deplorevoli". "Noi sosteniamo la richiesta della maggioranza dei venezuelani, di cessare la repressione, le molestie e il licenziamento senza giusta causa dei dipendenti pubblici, oltre alla violenza per motivi politici", hanno scritto i vescovi. (R.P.)
Darfur: anche i soccorritori tra i dispersi nel crollo della miniera d'oro
◊ Sarebbero più di un centinaio i minatori intrappolati sottoterra nel crollo della miniera d’oro di Jebel Amer, nel nord del Darfur, la regione occidentale del Sudan già in passato teatro di un conflitto e una grave crisi umanitaria. Lo riferiscono fonti locali secondo cui oltre ai minatori, bloccati a 40 metri dalla superficie, si contano nove soccorritori tra i dispersi. La miniera d’oro, illegale e al centro di un contenzioso tra tribù locali che in gennaio ha causato scontri armati con un centinaio di vittime, si trova a circa 200 chilometri a nord-ovest di El Fasher, capoluogo del Nord Darfur. La notizia dell’incidente, avvenuto lunedì, è stata diffusa solo ieri dal commissario locale Haroun al Hassan secondo cui le operazioni di soccorso sono ancora in corso. Non è ancora chiaro se al momento ci siano ancora speranze di ritrovare superstiti. (R.P.)
Myanmar: appello dei vescovi dopo le violenze interreligiose
◊ “Come comunità cristiana possiamo solo pregare: la nostra speranza è che la violenza contro le minoranze religiose si fermi e il nostro appello è quello di tutelare vita di ogni uomo”: è quanto dichiara all’agenzia Fides mons. Raymond Saw Po Ray, vescovo di Mawlamyine e presidente della “Commissione Giustizia e Pace” della Conferenza episcopale del Myanmar, esprimendo la preoccupazione dei vescovi dopo le violenze di gruppi buddisti radicali contro le minoranze musulmane nel Paese. Nei giorni scorsi, almeno 10 fedeli musulmani sono rimasti feriti a Okkan, città nel centro del Paese, dove oltre 400 buddisti hanno attaccato e bruciato moschee e case. Le famiglie musulmane sono fuggite terrorizzate. I disordini seguono quelli verificatisi alla fine di marzo, quando simile violenza buddista ha colpito la città di Meikthila, più a nord, uccidendo almeno 43 persone. Al governo del presidente Thein Sein sono giunti forti appelli, dall’interno e dal fuori del Paese, a frenare gli attacchi. Secondo gli osservatori, le radici della violenza stanno nella delicata situazione esistente nello stato di Rakhine, dove si sono registrati i primi scontri fra buddisti radicali e minoranze musulmane di etnia Rohingya. Secondo un rapporto inviato a Fides dall’Ong “Human Rights Watch”, nello stato di Rakhine “monaci buddisti, politici locali e forze di sicurezza hanno fomentato una campagna organizzata di pulizia etnica contro le minoranze musulmane Rohingya, che ha fatto centinaia di vittime e oltre 125.000 sfollati, perlopiù musulmani”. Il vescovo Raymond Saw Po Ray spiega a Fides: “Seguiamo le notizie con apprensione, vi sono alcuni gruppi non inquadrabili che agiscono in modo violento. Le autorità cercano di fermarli. Rigettiamo ogni forma di violenza. Da parte nostra il dialogo interreligioso va avanti ma con i gruppi violenti spesso è impossibile dialogare”. “Nel Paese – nota – è anche importante la pace con le minoranze etniche, ma attualmente non vi sono grandi progressi. Come cristiani ci sforziamo, nel nostro piccolo, di costruire un Paese pacifico e armonioso, soprattutto sensibilizzando le coscienze”. Questi temi saranno all’ordine del giorno anche nella prossima assemblea dei vescovi del Myanmar che si terrà nel giugno prossimo. Anche il Dalai Lama, dalla sua casa in esilio a Dharamsala, in India, ha apertamente condannato la violenza di gruppi buddisti in Myanmar, ricordando che “le grandi religioni insegnano amore, compassione e perdono”, e appellandosi accoratamente ai monaci perché fermino ogni tipo di violenza. (R.P.)
Indonesia: a Giakarta, islamisti preparavano un attentato contro l'ambasciata birmana
◊ I reparti speciali dell'antiterrorismo in Indonesia hanno arrestato due uomini, sospettati di preparare un attentato contro l'ambasciata birmana a Jakarta. L'attacco pianificato dai due, legati a frange estremiste islamiche, sarebbe una risposta alle recenti violenze contro la minoranza musulmana in Myanmar, perpetrati da gruppi buddisti fondamentalisti con l'avallo di una parte dell'ordine monastico. Il fermo è avvenuto nella tarda serata di ieri: il 28enne Sefa Riano e il 21enne Achmad Taufiq sono stati intercettati a bordo di una motocicletta, in una zona residenziale a sud della capitale, mentre trasportavano cinque bombe artigianali pronte a esplodere. Il capo dei reparti speciali dell'antiterrorismo ha spiegato che l'attacco era previsto per la giornata di oggi; obiettivo la rappresentanza diplomatica del Myanmar (situata a West Jakarta), attorno alla quale sono state aumentate le misure di sicurezza. Rafforzati i controlli anche nei pressi della residenza dell'ambasciatore a Menteng (Central Jakarta), altro potenziale obiettivo dei gruppi islamisti. Dalle prime ricostruzioni sembra che gli attentatori preparassero da qualche tempo l'attacco contro le rappresentanze birmane in Indonesia; del resto è prassi comune per cellule estremiste e singoli militanti colpire luoghi simbolo, in risposta a presunte violenze contro musulmani o simboli religiosi islamici. Gli ordigni erano pronti a esplodere; una fonte della polizia conferma il proposito di colpire "se non fossimo intervenuti in tempo, le loro intenzioni erano molto chiare". Esperti collegano questo tentativo di attacco all'ambasciata birmana all'appello lanciato nei giorni scorsi dal leader radicale Abu Bakar Bashir, l'ispiratore della strage di Bali del 2002 che ha provocato oltre 200 morti, che invita al jihad contro il Myanmar. Il leader islamico punta il dito contro il governo di Naypyidaw, colpevole di "genocidio" nei confronti della minoranza musulmana. Nei giorni scorsi le autorità birmane hanno proposto il controllo delle nascite, per limitarne la crescita, mentre esercito e nazionalismo religioso buddista sfruttano il clima di tensione (decine i morti negli ultimi mesi) per mettere a rischio il processo di democratizzazione avviato dal presidente riformista Thein Sein. (R.P.)
Sri Lanka. Il vescovo di Galle: “Dialogo con i buddisti, no a ogni forma di violenza"
◊ Accorata preoccupazione per gli episodi di violenza che si registrano in Sri Lanka; rinnovato appello al dialogo e disponibilità a “costruire l’armonia sociale religiosa nel Paese”; “un grazie per le parole del Papa ai buddisti in occasione della festa del Vesakh”: è questo l’atteggiamento della Chiesa cattolica in Sri Lanka, in un delicata fase storica, in cui si registrano episodi di violenza, computi da alcune frange buddiste radicali, come il “Bodu Bala Sena” (Bbs, “Forza di potere buddista”). A spiegarlo all’agenzia Fides è il vescovo di Galle, mons. Raymond Wickramasinghe: “Siamo preoccupati e guardiamo con attenzione quanto accade: come leader religiosi ci stanno a cuore la pace e l’armonia”. Il vescovo – precisando di non aver mai usato l’espressione “buddisti talebani”, usata da alcuni organi di stampa – ribadisce a Fides “di apprezzare il buddismo, e tutti coloro che seguono quella filosofia, vivendo in pace”. “Siamo pronti a costruire l’armonia nel nostro Paese – insiste – lavorando insieme con i buddisti e con tutti gli uomini di buona volontà. In questo momento ribadiamo l’urgenza della pace fra comunità religiose in Sri Lanka”. Il vescovo Wickramasinghe coglie l’occasione per commentare il Messaggio inviato dalla Santa Sede al mondo buddista per la festa del Vesakh (“la festa del risveglio”): “Siamo molto felici che la Chiesa e il Santo Padre guardino con affetto e benevolenza verso i buddisti. È un passo incoraggiante per noi: siamo con lui e continuiamo la nostra missione in questa direzione. I buddisti sono nostri fratelli. Abbiamo sempre avuto un proficuo dialogo e una profonda alleanza con loro. Nella mia diocesi abbiamo anche costruito alcuni piccoli monasteri nei templi buddisti e costruito relazioni spirituali molto profonde. Le parole del Santo Padre ci incoraggiano e ci confortano”. Il vescovo ribadisce la condanna verso “ogni forma di violenza, in Sri Lnaka e in altre parti del mondo, e verso ogni atto contro l’uomo, incluso quello contro il bambino non nato. La Chiesa insegna a rispettare la dignità di ogni essere umano. Vogliamo vivere in Sri Lanka in pace e armonia e difendere la dignità di ogni uomo, senza alcuna differenza di religione o etnia. Le religioni, diciamo da sempre, hanno la vocazione di essere uno strumento di pace fra i popoli: La violenza è un tradimento della vera religione”. (R.P.)
India: nel Karnataka i timori dei cristiani per i nazionalisti indù al governo
◊ "Da quando il Bharatiya Janata Party (Bjp, partito nazionalista indù) è salito al potere in Karnataka, gli attacchi contro i cristiani sono aumentati e tutte le minoranze religiose dello Stato si sentono minacciate". Lo afferma all'agenzia AsiaNews Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), a due giorni dalle nuove elezioni in Karnataka. Il prossimo 5 maggio lo Stato indiano andrà al voto per eleggere il nuovo chief minister, e il Bjp sta conducendo una campagna elettorale basata proprio sul suo presunto sostegno alle minoranze. Tuttavia il partito - che guida il Karnataka dal 2008 - sostiene in modo aperto gruppi appartenenti al movimento ultranazionalista indù Sangh Parivar, autori di violenze e persecuzione contro cristiani e altre comunità di minoranza. "Nel 2012 - ricorda il leader cristiano - il Gcic ha registrato 41 casi di attacchi anticristiani, e nel 2013 siamo già a 7. Tuttavia, sono solo dati statistici che indicano chiese distrutte, cristiani imprigionati o aggrediti. Se dovessimo registrare tutti gli episodi di intimidazione, persecuzione, insulti o arresti temporanei, il numero sarebbe molto più alto". "La loro agenda nascosta - nota Sajan George - mira a ottenere sostegno politico dai militanti dell'hindutva (ideologia che considera l'induismo un'identità etnica, culturale, politica ed esclusiva) ed è il motivo principale dietro gli attacchi contro i cristiani e le altre minoranze dello Stato". Al tempo stesso, sottolinea, "queste frange estremiste si sentono forti della protezione politica e attaccano e perseguitano le vulnerabili minoranze del Karnataka. Spesso, la responsabilità principale di queste violenze risiede proprio nella polizia, che garantisce immunità a queste forze". Un esempio eclatante è il caso della commissione di giustizia guidata dal giudice in pensione Bk Somashekhar, creata dal Bjp per indagare sulle violenze anticristiane avvenute nel 2008. "Nel suo rapporto - sottolinea il presidente del Gcic - la commissione ha scagionato polizia, governo e fondamentalisti indù da ogni accusa, ignorando le decine di testimoni che affermavano il contrario. Inoltre, ha chiesto di istituire un registro per segnalare le proprietà della Chiesa e controllare parrocchie, pastori e donazioni". (R.P.)
◊ Alla vigilia delle elezioni politiche in Malaysia, che si terranno la prossima domenica 5 maggio, si riaccendono nel Paese le polemiche tra il partito al potere, il Barisan Nasional (Bn), e la comunità cristiana. A rinfocolare le tensioni – riporta l’agenzia Ucan - alcuni manifesti elettorali del Bn che accusano ancora una volta i cristiani di usurpare il termine “Allah” il quale, secondo alcuni, deve essere esclusivo dell’Islam. Per il reverendo Eu Hong Seng, presidente della Federazione Cristiana della Malaysia (Cfm) alla quale aderisce anche la Chiesa cattolica, la campagna è “disdicevole e odiosa” e rischia di essere interpretata come un’istigazione alla violenza contro i cristiani. I manifesti in questione presentano le fotografie di due chiese con sotto il nome “Rumah Allah” (Casa di Allah) e chiedono agli elettori se vorrebbero vedere i propri figli o nipoti pregare in simili luoghi. Segue quindi il commento: “Se consentiamo che la parola Allah sia usata nelle chiese, venderemo la nostra religione, razza e nazione” e lo slogan: “Vota Barisan Nasional perché può proteggere la tua religione, razza e religione”. Per diversi anni le autorità malesi hanno cercato di vietare ai cristiani l’uso del termine “Allah”, nonostante esso sia presente nelle Bibbie di lingua malese da oltre 400 anni, come ampiamente documentato. E nonostante una sentenza del 2009 abbia riconosciuto ai cristiani il “diritto costituzionale” di chiamare il loro Dio con questo termine, alcuni gruppi islamisti continuano a reclamare il divieto, minacciando azioni dimostrative come il rogo delle Bibbie. In questo clima era quindi prevedibile che alcune forze politiche, per conquistare il voto musulmano, scegliessero di riaprire strumentalmente la polemica. In una recente intervista ad Al Jazeera il Primo Ministro Najib Razak aveva difeso a spada tratta il divieto. Più morbida la posizione dell’opposizione il cui leader Anwar Ibrahim ha assicurato ripetutamente ai cristiani che potranno continuare ad usare liberamente il termine Allah nelle loro pubblicazioni. (L.Z.)
Yemen: rapimenti e torture dei migranti liberati dai raid militari
◊ L’esercito yemenita ha avviato un giro di vite sui traffici illegali nel nord del Paese dove i migranti, i profughi e i rifugiati in cerca di asilo provenienti dal Corno d’Africa sono spesso tenuti prigionieri e torturati dalle bande criminali in cerca di riscatto. Nelle ultime quattro settimane, nella città settentrionale di Haradh, vicina al confine con l’Arabia Saudita, grazie ad una incursione militare sono stati liberati 1.620 migranti, comprese donne e bambini. La maggior parte, vittime di tratta umana, lavori forzati e schiavitù, si trovano presso l’ospedale Al-Mazraq gestito dall’ong Medici Senza Frontiere. I medici di Msf hanno riferito gravi segni di violenza su queste persone, unghie strappate e percosse. Nel 2012 hanno raggiunto lo Yemen circa 107 mila persone, prevalentemente dall’Etiopia e, fino ad oggi, ne sono arrivate già almeno 30 mila. (R.P.)
Il Nepal apre i confini con la Cina e si scatena la tratta delle schiave
◊ La nuova politica sui confini fra Kathmandu e Pechino, volta a favorire il commercio e gli spostamenti di persone fra i due Paesi, "ha aggravato il problema del traffico di vite umane", che colpisce in particolare le donne nepalesi. È quanto denuncia l'attivista Anuradha Koirala, presidente e fondatrice di Maiti Nepal, organizzazione che si batte per i diritti umani e vincitrice nel 2012 del Premio Cnn-Hero. Ragazze di età diversa sono sempre più invischiate nel mercato della prostituzione o vendute in spose a uomini cinesi per denaro; un fenomeno acuito dalla aberrante politica del figlio unico voluta dalle autorità comuniste cinesi, che ha portato a una progressiva diminuzione della popolazione femminile locale. L'Ong nepalese conferma che, nei mesi scorsi, almeno 56 donne nepalesi sono state strappate al commercio di vite umane; tuttavia, centinaia di altre restano ancora oggi nelle mani di trafficanti senza scrupoli, aguzzini o uomini che le sfruttano per denaro in territorio cinese. A difesa delle donne vi è anche un'altra associazione, la Santi Punarsthapana Griha - Casa per il ritorno alla pace - secondo cui le giovani vengono (in alcuni casi) vendute per denaro dalle stesse famiglie di origine, per finire in ristoranti, night club, hotel lungo l'area di confine di Khasa. "Dato che le donne nepalesi non capiscono il cinese - aggiunge l'attivista Koirala - speso gli uomini hanno un comportamento brutale nei loro confronti, finendo per picchiarle in modo selvaggio se non ubbidiscono". Secondo le ultime stime emerge che il commercio di vite umane negli ultimi anni è raddoppiato; in un solo anno, le due organizzazioni hanno salvato almeno 150 donne dalla schiavitù. Di queste almeno sei erano occupare in bar e locali sexy, 20 in ristoranti, 10 fra hotel e alberghi, 20 altre sparse in varie aree dei distretti a luci rosse che proliferano lungo la frontiera sino-nepalese. "La maggior parte delle donne - conclude la presidentessa di Maiti Nepal - ottiene un permesso di un giorno per varcare il confine, ma raramente fanno ritorno. I trafficanti le spostano ogni due, tre mesi in luoghi diversi per evitare di venire scoperti". (R.P.)
Honduras: si cerca una tregua tra bande sull’esempio di El Salvador
◊ "Siamo in un processo di recupero del rispetto della vita, stiamo ascoltando entrambe le bande, ma il governo non ha ancora dato una risposta", ha detto mons. Rómulo Emiliani Sánchez, vescovo ausiliare di San Pedro Sula a una stazione di radio locale, annunciando l’avvio di un dialogo con le principali bande criminali dell’Honduras, per giungere ad una tregua simile a quella in vigore ad El Salvador. Mons. Emiliani lavora nella città settentrionale di San Pedro Sula, la seconda del Paese dove la realtà delle carceri è molto dura. Le due bande sono la Mara Salvatrucha (Ms) e la banda "18", che, grazie agli sforzi di mediazione finora effettuati, hanno riconosciuto che le persone che commettono reati, devono pagare con sanzioni pronunciate dalle corti di giustizia. Il Vescovo ha ammesso che il governo è riluttante a parlare con le bande, ma "abbiamo l'esempio di Paesi come El Salvador, Guatemala e Colombia", dove le autorità hanno negoziato con la guerriglia per favorire la pacificazione. Mons. Emiliani ha sottolineato che gli sforzi di pace, appena iniziati, dureranno a lungo perché “si tratta di un percorso difficile, i cui risultati saranno visti fra due generazioni. Stiamo seminando, ma saranno altri a raccogliere”. Fra i gesti che le bande hanno offerto per dimostrare l'interesse alla tregua, c'è il dono di sessanta banchi di legno, costruiti da loro membri in carcere, a una scuola in un quartiere povero di San Pedro Sula. Le due bande sono formate soprattutto da giovani estremamente poveri, senza accesso a un lavoro dignitoso, all'istruzione e ad altri benefici della società. (R.P.)
Australia-Nuova Zelanda: la visita del patriarca caldeo mons. Sako
◊ Il nuovo patriarca di Babilonia dei Caldei Mar Louis Raphaël I Sako è giunto a Sydney per la sua prima visita pastorale in Australia e Nuova Zelanda dalla sua elezione a capo della Chiesa caldea, il 31 gennaio scorso. Mons. Sako resterà nei due Paesi per una decina di giorni. Durante la visita il presule incontrerà le comunità caldee australiane di Sydney e Mebourne e quelle neo-zelandesi di Auckland, Wellington e Hamilton. In tutto sono circa 31mila i fedeli caldei della diaspora in Oceania. Essi sono riuniti dal 21 ottobre 2006 nell’eparchia "San Tommaso Apostolo di Sydney dei caldei" guidata da mons. Djibrail Kassab. Intanto, il patriarca Sako si sta preparando a celebrare il suo primo Sinodo convocato per il 5 giugno prossimo. All’ordine del giorno: le nomine di vescovi nelle numerose sedi episcopali caldee rimaste vacanti in Iraq, in Medio Oriente e nei Paesi occidentali; la formazione dei sacerdoti; la stesura definitiva di un “Diritto proprio” della Chiesa caldea da sottoporre al consenso della Sede apostolica; l'aggiornamento e l'armonizzazione dei riti liturgici celebrati in maniera non uniforme nelle varie diocesi; lo studio di misure concrete per arginare il fenomeno della migrazione e incoraggiare i cristiani a rimanere nella propria terra d'origine o a farvi ritorno. Per invocare il buon esito dell’assemblea il Patriarca ha chiesto alle diocesi, alle parrocchie e ai monasteri caldei di tutto il mondo di recitare una apposita preghiera durante la messa domenicale, dopo le preghiere dei fedeli. (L.Z.)
Arabia Saudita: morti e dispersi per un’alluvione
◊ Ammonta a 16 morti e 3 dispersi il bilancio dell'alluvione che ha colpito l'Arabia Saudita nei giorni scorsi. Le piogge torrenziali, che da venerdì 26 aprile si abbattono su gran parte del Regno, hanno provocato gravi danni nelle aree di Baha, Aqiq e Asir. Re Abdullah ha dato disposizione ai dipartimenti locali di garantire sostegno economico e materiale alla popolazione colpita. La televisione saudita - riporta l'agenzia AsiaNews - ha mostrato immagini di villaggi inondati in più parti del Paese e le autorità locali hanno chiesto alla popolazione di evitare le valli e le aree più interessate dalle piogge. I corpi senza vita di due uomini, una donna e un bambino, sono stati rinvenuti nei giorni scorsi nella zona di Baha. Nella provincia di Asir, il collasso di una diga provvisoria ha invece costretto le autorità ad evacuare i vicini paesi di Tabalah, Thnyah, Shedaiq e Subaihi. Il principe Muhammad bin Naif, in qualità di Ministro degli interni, ha dichiarato che "re Abdullah sta seguendo la situazione dall'inizio delle alluvioni, coordinando l'azione di ministeri e autorità locali al fine di garantire la necessaria assistenza". Nel 2011 il Pil dell'Arabia Saudita ha registrato una crescita del 4,8%, raggiungendo i 572 miliardi di dollari e assestando il Paese al 20mo posto nell'economia mondiale. A dispetto dell'enorme ricchezza e dei massicci investimenti a livello di infrastrutture, calamità di questo tipo continuano a causare vittime in molte parti del regno. La regione arabica che si affaccia sul Mar Rosso è già stata vittima più volte di violente alluvioni. Nel 2009, a Jeddah, persero la vita 123 persone e le autorità locali furono accusate di non aver progettato e mantenuto le infrastrutture in modo adeguato. Nel 2011, nella stessa città, 10 persone sono morte in circostanze analoghe. La perturbazione dei giorni scorsi, definita dagli esperti come la peggiore degli ultimi 25 anni, ha risollevato il dibattito sull'impreparazione delle autorità alle calamità naturali. A dispetto delle numerose promesse fatte da Re Abdullah alla popolazione, la gente accusa lui e i suoi ministri di disinteressarsi del problema. (R.P.)
Diocesi di Roma condanna il gesto blasfemo al concerto del primo maggio
◊ “La diocesi di Roma condanna fermamente il gesto blasfemo compiuto durante il concerto del 1° maggio, l’iniziativa promossa dai sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil nel piazzale antistante la basilica di San Giovanni in Laterano (cattedrale di Roma). L’elevazione di un profilattico a mo’ di ostia con parole che ricordano quelle della consacrazione durante la Santa Messa, da parte di uno dei protagonisti del concerto, rivela una pochezza culturale senza eguali e manifesta la deriva dell’intelligenza cui la crisi morale in atto sta conducendo”. È quanto si legge in una nota diffusa dall’Ufficio stampa del Vicariato di Roma, ripresa dall'agenzia Sir. Il cardinale vicario Agostino Vallini, riferisce la nota, “facendosi anche eco dell’amarezza dei credenti”, “deplora fortemente l’accaduto” ed esprime “dolore per il fatto che simili esibizioni, animate da un’ostilità contro la religione e i sentimenti più vivi nel popolo, si inseriscano - afferma il cardinale - in una manifestazione musicale che da anni intende celebrare la festa dei lavoratori. È forse questo il modo di porgere la propria solidarietà a disoccupati e cassintegrati e di sottolineare la necessità di un rilancio delle politiche del lavoro nel nostro Paese?”. “Spiace constatare con amarezza - aggiunge il card. Vallini - questa nota stonata che sale dal palcoscenico di una manifestazione musicale, chiamata ad offrire soltanto esibizioni che elevano verso ciò che è nobile, nella consapevolezza che anche nella musica amata dai giovani si esprime l’anelito alla bellezza e all’assoluto. Così come addolora il fatto che ancora una volta la religione cristiana sia presa di mira con facilità, utilizzando le manifestazioni pubbliche e gli schermi televisivi”. Per il cardinale, “è intollerabile assistere a gesti che offendono la sensibilità di milioni di credenti, in ciò che hanno di più prezioso e caro, e che feriscono il senso più autentico del vivere comune. Ed è doloroso assistere al silenzio di conduttori e promotori delle manifestazioni che fanno da cornice a tale scempio dell’intelligenza, del buon gusto e del rispetto delle persone”. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 123