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Sommario del 31/07/2013
Festa di Sant’Ignazio. Il Papa: un gesuita ha Cristo al centro del suo cuore
◊ Uomini “radicati della Chiesa”, che si lasciano “conquistare da Cristo” offrendo a Lui tutto se stessi, e capaci del “nobile sentimento” della vergogna, che li pone in “sintonia col cuore di Cristo”. Con queste tre espressioni, nel giorno della festa liturgica di Sant’Ignazio di Loyola, Papa Francesco ha delineato i tratti che distinguono i Gesuiti. Il Papa ha presieduto la Messa, iniziata alle 8.15, nella Chiesa del Gesù davanti a circa oltre 200 suoi confratelli. Con lui sull’altare, il preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Adolfo Nicolás, i membri del suo Consiglio e mons. Luis Ladaria, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il servizio di Alessandro De Carolis:
Lo spirito di Sant’Ignazio secondo lo spirito del primo Papa gesuita della storia. È stato certamente un 31 luglio fuori da comune quello che ha visto riempirsi stamattina presto la Chiesa del Gesù a Roma. Un paio d’ore, dalle 8 alle 10 – prima con la concelebrazione eucaristica, poi con un breve incontro fraterno con il preposito generale e alcuni confratelli – per condividere la familiarità che nasce da un carisma che arricchisce la Chiesa da 500 anni. Un carisma che Papa Francesco ha riconsiderato nella sua totalità, tracciando l’identikit del gesuita oggi. Primo, ha detto, il gesuita è un uomo che ha Cristo “al centro” e a questa centralità corrisponde quella della Chiesa. “Sono due fuochi che non si possono separare”, ha affermato. “Non posso seguire Cristo se non nella e con la Chiesa”:
“Essere uomini radicati e fondati nella Chiesa: così ci vuole Gesù. Non ci possono essere cammini paralleli o isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì, questo è importante: andare verso le periferie, le tante periferie. Per questo ci vuole creatività, ma sempre in comunità, nella Chiesa, con questa appartenenza che ci dà coraggio per andare avanti. Servire Cristo è amare questa Chiesa concreta, e servirla con generosità e spirito di obbedienza”.
Seconda caratteristica: un gesuita cerca Gesù sapendo che Lui lo ha “cercato prima” e lo ha “conquistato”. Questo, ha detto, “è il cuore della nostra esperienza”:
“Essere conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica; dire al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà. Ma penso al nostro fratello in Siria in questo momento. Lasciarsi conquistare da Cristo significa essere sempre protesi verso ciò che mi sta di fronte, verso la meta di Cristo e chiedesi con verità e sincerità: Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”.
Il terzo punto è quello che Papa Francesco ha chiamato “la vergogna del gesuita”. “Noi – ha osservato – sentiamo quel sentimento tanto umano e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e alla nostra cattiveria”:
“Chiedere la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo; vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci accompagna nella sequela quotidiana del 'mio Signore'. E questo ci porta sempre, come singoli e come Compagnia, all’umiltà, a vivere questa grande virtù. Umiltà che ci rende consapevoli ogni giorno che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, ma è sempre la grazia del Signore che agisce in noi; umiltà che ci spinge a mettere tutto noi stessi non a servizio nostro o delle nostre idee, ma a servizio di Cristo e della Chiesa, come vasi d’argilla, fragili, inadeguati, insufficienti, ma nei quali c’è un tesoro immenso che portiamo e che comunichiamo”.
E dai tratti distintivi di un gesuita a due figure di gesuiti, una antica e una contemporanea, accomunate – ha ricordato Papa Francesco – da una simile icona, quella del “tramonto”. Il tramonto con cui l’arte ha tante volte rappresentato San Francesco Saverio, guardando la Cina. E l’altra icona del tramonto…
“…quella di padre Arrupe nell’ultimo colloquio nel campo dei rifugiati, quando ci aveva detto – cosa che lui stesso diceva – 'questo lo dico come se fosse il mio canto del cigno: pregate'. La preghiera, l’unione con Gesù. E, dopo aver detto questo, ha preso l’aereo, è arrivato a Roma con l’ictus, che ha dato inizio a quel tramonto tanto lungo e tanto esemplare. Due tramonti, due icone che a tutti noi farà bene guardare, e tornare a queste due. E chiedere la grazia che il nostro tramonto sia come il loro".
Al termine della Messa, il Papa si è recato a rendere omaggio e a sostare in preghiera davanti agli altari di Sant’Ignazio e di San Francesco Saverio, alla Cappella della Madonna della Strada e alla tomba del padre Pedro Arrupe.
◊ “Fraternità, fondamento e via per la pace”. E’ il tema scelto da Papa Francesco per la sua prima Giornata Mondiale per la Pace, la 47.ma da quando è stata istituita nel 1968 da Paolo VI, ricorrenza che viene celebrata ogni primo giorno dell’anno. Il messaggio di Papa Francesco, si legge in una nota vaticana, propone a tutti la via della fraternità, per dare un volto più umano al mondo. Servizio di Francesca Sabatinelli:
La fraternità come strumento per superare la “cultura dello scarto” e promuovere la “cultura dell’incontro”, la fraternità per realizzare un mondo più giusto e pacifico. Nel comunicato vaticano si spiega così la scelta di Francesco di dare alla sua prima Giornata mondiale per la pace il tema “Fraternità, fondamento e via per la pace”. “La fraternità – si legge nel testo - è una dote che ogni uomo e donna reca con sé in quanto essere umano, figlio di uno stesso Padre. Davanti ai molteplici drammi che colpiscono la famiglia dei popoli – povertà, fame, sottosviluppo, conflitti, migrazioni, inquinamenti, disuguaglianza, ingiustizia, criminalità organizzata, fondamentalismi - la fraternità è fondamento e via per la pace.”
Il comunicato ci ricorda cosa accade quando poveri e bisognosi vengono guardati attraverso la lente della cultura del benessere: vengono trasformati in “fardello” o in “impedimento allo sviluppo”, possono divenire oggetto di “aiuto assistenzialistico o compassionevole”, ma non fratelli, “con i quali dividere i doni del creato, i beni del progresso e della cultura”. Il benessere “fa perdere il senso della responsabilità e della relazione fraterna. E gli altri “anziché nostri «simili», appaiono antagonisti o nemici e sono spesso «cosificati»”.
La fraternità, quale dono proveniente da Dio, “sollecita all’impegno di essere solidali contro le diseguaglianze e la povertà che indeboliscono il vivere sociale, a prendersi cura di ogni persona, specie del più piccolo ed indifeso, ad amarla come se stessi, con il cuore stesso di Gesù Cristo”.
Il bene della fraternità vince il diffondersi della globalizzazione dell’indifferenza alla quale il Papa ha più volte fatto riferimento. Dunque, conclude la nota vaticana, “la fraternità impronti tutti gli aspetti della vita, compresi l’economia, la finanza, la società civile, la politica, la ricerca, lo sviluppo, le istituzioni pubbliche e culturali”.
La conversazione del Papa con i giornalisti: il commento di padre Lombardi
◊ Continua ad avere vasta eco nel mondo, la lunga chiacchierata di Papa Francesco con i giornalisti presenti con lui sul volo che rientrava a Roma da Rio de Janeiro domenica notte. Umorismo , schiettezza e libertà hanno colpito la stampa, l’opinione pubblica e non solo: Gabriella Ceraso ha chiesto un commento al portavoce vaticano padre Federico Lombardi che traccia anche un bilancio complessivo dell’esperienza vissuta in Brasile:
R. – Diciamo che la prima cosa che mi ha colpito della conversazione è stata la lunghezza, anche perché un viaggio di ritorno, dopo una settimana così intensa, uno non sa mai come ci trova: se ci trova vivi, se ci trova in forze, oppure se ci trova molto stanchi…. La disponibilità del Papa si è dimostrata veramente fino in fondo, nonostante avesse detto che era un po’ stanco- lo aveva detto lui dall’inizio- ha voluto però che non ci fossero limiti posti alle domande, anche qualora fossero state domande difficili o domande impertinenti. La sua disponibilità è stata dunque totale e la chiave del suo atteggiamento era quella della sincerità e della spontaneità completa, che è una chiave molto convincente, molto credibile e di cui anche i giornalisti – come ognuno di noi – si rende conto perfettamente. Non c’è nulla da nascondere, non c’è nulla di cui uno non debba dire la verità, naturalmente parlando nel modo adatto per essere capito e per essere costruttivo.
D. – Andando proprio ai contenuti di questo lungo colloquio con la stampa: soprattutto su alcuni temi etici, qualcuno ha gridato alla novità più assoluta rispetto al magistero precedente. E’ così? Che ne pensa?
R. – Non direi. Mi pare anzi che proprio sui punti – diciamo - cruciali, lui abbia richiamato con molta nettezza la tradizione della Chiesa e il suo magistero. “Io sono un figlio della Chiesa” – ha detto - quindi sono in continuità con quello che la Chiesa ha sempre sostenuto e continua a dire. Sul tema dell’ordinazione delle donne è stato anche molto chiaro, dicendo che è una porta chiusa e per quanto riguarda l’omosessualità ha richiamato il Catechismo della Chiesa Cattolica. Quello che, diciamo, è chiaro nell’atteggiamento di Papa Francesco - e probabilmente è quello che colpisce e che, in un certo senso, attrae anche verso di lui molte persone - è una grande efficacia nel far capire il tema dell’amore di Dio per tutti. Il fatto che nessuno si debba sentire escluso dall’amore di Dio, dalla sua misericordia, che viene incontro a lenire, a curare le ferite dell’umanità. Papa Francesco si sente veramente mandato ad annunciare questo amore e questa misericordia di Dio. In fondo, anche il suo comportamento tende a manifestare questa prossimità e quest’amore di Dio per tutti. In questo Francesco è un annunciatore che ha un vero carisma di forza, di efficacia e quindi di attrazione, perché tutti noi sappiamo di avere bisogno dell’amore di Dio. Questo – a mio avviso - è forse l’aspetto più caratteristico del suo Pontificato. Nella conversazione con la stampa poi, ha aggiunto un tema – su cui credo che certamente tornerà - che è quello del perdono del peccato: ha ricordato che Dio perdona i peccati e quando perdona i peccati - con la Confessione e con il suo amore - se ne dimentica. E quindi anche noi dobbiamo imitare il Signore nel suo atteggiamento del perdono- sono parabole evangeliche note, ma che vanno però ritrovate, perché penso che il Papa si renda conto molto bene, che nella società attuale c’è - a volte - anche un certo accanimento nel rimproverare le colpe degli altri, senza un senso di misericordia o di comprensione. Questo è molto importante anche per ritrovare il senso – per esempio – del Sacramento della Confessione e della Penitenza, di cui il Papa parla più volte.
D. – Il Papa ne discoprso di congedo da Rio ha affermato che “Cristo sta preparando una nuova primavera in tutto il mondo, grazie ai giovani”. Lei come la intende questa frase? C’è qualcosa quasi di profetico…
R. – Sì, ma inserendo queste parole in un contesto più ampio. Perchè se c’è una primavera o un cambiamento da aspettare grazie ai giovani, è perché loro ti danno quell’impulso, quella spinta di fare cose nuove, anche più belle, di quelle che finora siamo stati capaci di fare. Però non è il senso di una idealizzazione della gioventù, come se avesse in sé e da sola tutte le risorse per fare un mondo nuovo… No! Il Papa ci ha parlato molto chiaramente di una Chiesa comunità e di una società che, insieme con la responsabilità di tutti, cammina verso il compimento del piano di Dio e un futuro migliore più giusto per tutti. Quindi diciamo che la gioventù è un po’ come il motore del cambiamento: quando dice “fate rumore, fate chiasso”, nel senso di mettere in movimento quello che è irrigidito. Però questo dialogo, questa integrazione fra le generazioni, più ampiamente fra le diverse componenti della società, mi sembra che non vada assolutamente dimenticato da questa Giornata della gioventù, che comunque è un grande segno di speranza a camminare in avanti per la comunità umana, per la Chiesa, per la Chiesa in Brasile, ma anche per la Chiesa nel mondo.
D. – Nei vari discorsi alla Chiesa del Brasile, alla Chiesa latinoamericana, alla Chiesa del mondo, il Papa ha anche dato una cornice più ampia a quelli che erano stati gli spunti che venivano della Messe a Santa Marta, illuminando ancor di più il cammino della Chiesa. Quali sono le tappe di questo cammino che si aprono secondo lei, dopo l'esperienza in Brasile?
R. – Credo che non sia tutto compiuto con questo viaggio, anche se certamente è stato estremamente significativo in questo avvio di Pontificato. Il Papa ha parlato tanto di una Chiesa non autoreferenziale, ma aperta sul mondo e missionaria. Questa è stata un’occasione di dirlo, ma con la concretezza propria di un rapporto con i giovani e con i responsabili della comunità, come i vescovi. In più c’è stata anche, in modo molto efficace, la serie di incontri con le diverse dimensioni dell’emarginazione e della sofferenza: prospettiva da cui si deve vedere la realtà del mondo di oggi. La prospettiva dei poveri - la Chiesa per i poveri e dei poveri – è entrata molto chiaramente in questo viaggio. E, per un ultimo tocco, direi anche l’aspetto mariano, della devozione mariana, di cui lui è estremamente partecipe e che sente così feconda e così fondamentale per la Chiesa di oggi e di sempre. Ha detto: “La Chiesa che non riconosce la posizione della donna nella Chiesa e che quindi non capisce la presenza di Maria, insieme agli Apostoli, nel Cenacolo è una Chiesa che si condanna alla sterilità”. Quindi anche questo inizio mariano del viaggio è stato molto significativo di una prospettiva di speranza e di fecondità dell’impegno della Chiesa nel mondo.
L'arcivescovo di Rio: dalla Gmg uno spirito di unità e fratellanza per tutto il mondo
◊ La Giornata mondiale della gioventù continua a far parlare i mass media di tutto il mondo. Un evento che ha visto una grande partecipazione nella gioia e nella fraternità. In particolare, nella Messa conclusiva a Copacabana, erano presenti oltre 3 milioni di giovani. Ascoltia mo la riflessione dell’arcivescovo di Rio de Janeiro, mons. Orani João Tempesta, al microfono di Silvonei Protz:
R. – Dicono tre milioni e mezzo. E’ difficile sapere il numero esatto. Più che il numero, però, è importante lo spirito di questi giovani: uno spirito di gioia, di speranza per il futuro di un mondo migliore, più giusto, più fraterno. Questo è stato bello nelle persone, che hanno dato una bellissima testimonianza di vita, di un raduno fatto in pace e di bellezza della preghiera.
D. – Che Rio lascia il Santo Padre?
R. – Una Rio con il cuore gioioso, per aver vissuto questo bellissimo momento nella sua storia. Credo che sia stato il più grande evento vissuto a Rio de Janeiro.
D. – Non solo i cattolici hanno ricevuto il Santo Padre, anche i membri di altre religioni sono stati presenti agli eventi...
R. – Sì, come volontari e anche come partecipazione agli eventi della Gmg. Tanti i cristiani di altre denominazioni ed anche altre religioni che hanno partecipato. Il messaggio del Santo Padre, infatti, era rivolto a tutti, a tutte le persone di buona volontà. Quando c’è la fame, quando ci sono i problemi, ognuno deve fare la sua parte a qualunque religione appartenga. Credo che questo sia un momento di unità, di partecipazione, per vedere come si possa fare di questo mondo, un mondo più giusto.
D. – Quale momento le è rimasto più nel cuore?
R. - Credo quel bambino che ha abbracciato il Santo Padre, vicino al palazzo arcivescovile, a San Joaquin, che, piangendo, ha detto al Papa, con tutto il cuore: “Santo Padre, io ti voglio bene”.
Il card. Ouellet: Papa Francesco, Papa dei poveri, speranza di rinnovamento
◊ E’ in corso, a Rio de Janeiro, la riunione del Comitato di Coordinamento del Celam, il Consiglio Episcopale Latino Americano, che domenica scorsa ha incontrato Papa Francesco al termine del suo viaggio apostolico in Brasile. Sulle prospettive di questo incontro ecclesiale, che viene subito dopo il grande evento della Gmg di Rio, Silvonei Protz ha sentito il cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontificia Commissione per l'America Latina:
R. - Nutro la speranza di un rinnovamento della Chiesa cattolica in tutto il continente latinoamericano. Credo che sarà un momento che permetterà una svolta: un impegno più decisivo dei cattolici e una fierezza dell’appartenenza alla Chiesa. Credo che questo porterà frutto anche nella vita sociale, nella fraternità, nella ricerca della giustizia, in tanti altri settori e non solo nella nuova evangelizzazione. L’America Latina si trova in un momento chiave della sua storia per diventare più protagonista del Vangelo e non solo in America Latina, ma per tutto il mondo. L’elezione di Papa Francesco significa questo: è un momento di grazia. E’ un grande momento per l’America Latina il fatto che il Papa sia il primo Papa latinoamericano, che sia il Papa dei poveri, già è definito Papa dei poveri. Credo che dall’America Latina doveva venire questa aspirazione. Questo ci riporta al Vangelo e fa riflettere tutti - dai cardinali ai vescovi, ai preti, ai laici, a tutti - su cosa sia essere Chiesa e quale sia la missione della Chiesa nel mondo. Quindi c’è un futuro di speranza, c’è un entusiasmo rinnovato, che ci viene da questa missione continentale e dall’esperienza di Aparecida, dalla convinzione che ci sia una effusione dello Spirito Santo, che ci porta novità e ci dà coraggio davanti al futuro.
◊ Nella memoria di Sant'Ignazio di Loyola, a tre giorni dalla conclusione della Giornata mondiale della gioventù, Papa Francesco ha lanciato un nuovo tweet: "Cari giovani - scrive - vale la pena scommettere su Cristo e sul Vangelo, rischiare tutto per grandi ideali!".
◊ In Slovenia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Maribor, presentata da mons. Marjan Turnšek, e la rinuncia di mons. Anton Stres, arcivescovo di Ljubljana, per entrambi in conformità al can. 401 § 2 del Codice di Diritto Canonico. La decisione – ha riferito la nunziatura apostolica in Slovenia – è stata presa “a causa della grave situazione economica nella quale si trova l’arcidiocesi di Maribor e nella speranza che le loro rinunce contribuiscano al rinnovamento della vita della Chiesa in Slovenia”. Per assicurare un governo regolare alle due diocesi – prosegue la nunziatura - il Papa ha nominato il vescovo di Novo Mesto, mons. Andrej Glavan, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Lubiana, e il vescovo di Celje, mons. Stanislav Lipovšek, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Maribor.
Nomina episcopale negli Stati Uniti
◊ Negli Stati Uniti, Papa Francesco ha nominato vescovo di Bridgeport mons. Frank J. Caggiano, finora ausiliare della diocesi di Brooklyn. Mons. Caggiano è nato il 29 marzo 1959 a Brooklyn. Dopo aver frequentato la scuola elementare “Saints Simon and Jude” e la scuola secondaria “Regis High School” a Manhattan, passò al “Cathedral College” a Douglaston. Seguì gli studi teologici presso il Seminario “Immaculate Conception” in Huntington, ottenendo il “Master of Divinity”. Fu ordinato sacerdote per la diocesi di Brooklyn il 16 maggio 1987. Ha svolto i seguenti incarichi: vicario nelle parrocchie, “Saint Agatha” (1987-1989), “Saint Athanasius” (1989-1992) e “Saint Jude” (1996-1998) a Brooklyn. Dal 1992 al 1996 ha studiato a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana, dove ha ottenuto il Dottorato in Sacra Teologia. È stato Parroco della parrocchia “Saint Dominic” a Brooklyn (1998-2003) e, dal 2003-2007, Vicario per l’Evangelizzazione e la Vita Pastorale della diocesi di Brooklyn (2003-2007). Dal 2007 è Vicario Generale della diocesi di Brooklyn. Nominato Vescovo titolare di Inis Cathaig ed Ausiliare di Brooklyn il 6 giugno 2006, fu consacrato il 22 agosto successivo. In seno alla Conferenza Episcopale è Membro del “Subcommittee on the Catechism”. Oltre l’inglese parla l’italiano.
Ior, inaugurato il sito. Von Freyberg: sul web per la trasparenza
◊ Lo Ior, Istituto per le Opere di Religione, ha inaugurato oggi un suo sito internet, www.ior.va con l’obiettivo di proseguire sulla via della trasparenza. Ascoltiamo il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, al microfono di Bernd Hagenkord:
R. – Wir haben im Mai dieses Jahres gesagt, wir werden uns in den nächsten …
Nel maggio scorso abbiamo detto che nei mesi successivi ci saremmo concentrati soprattutto a concludere con successo il processo Moneyval, e quindi l’adempimento di tutte quelle regole che riguardano il riciclaggio di denaro, e che avremmo creato trasparenza. Il sito web ha lo scopo di informare i nostri collaboratori, i nostri clienti, la Chiesa e l’opinione pubblica che sia interessata, sul nostro Istituto, sui nostri obiettivi, sulla nostra riforma e su quello che facciamo nel mondo e su come sosteniamo la Chiesa nella sua missione e nelle sue opere caritative.
D. – Quale sarà il prossimo passo?
R. – Das Ior hat seit vielen Jahren einen testierten Jahresabschluss; dieses Jahr …
Da molti anni lo Ior ha un bilancio annuale di chiusura certificato: quest’anno, per la prima volta, lo pubblicheremo.
D. – Se io apro la pagina del sito, che cosa ci trovo?
R. – Sie finden eine Vorstellung der Dienstleistung die wir anbieten, eine Erläuterung …
Ci troverà la presentazione dei servizi che rendiamo, l’illustrazione dei nostri clienti, le tappe storiche più importanti dello Ior, il lavoro di riforma che stiamo portando avanti attualmente e le persone che vi lavorano. Il nostro compito consiste nel condurre lo Ior in modo tale, che esso possa rispondere a tutte le norme internazionali, che sia un Istituto “pulito”, che sia un Istituto di servizio, per offrire al Papa l’opzione di decidere, per quanto riguarda il futuro, la forma giusta dello Ior stesso. Invito tutte le persone interessate a cliccare su www.ior.va per prendere informazioni su di noi.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ La fraternità, fondamento e via per la pace: il tema della Giornata mondiale del primo gennaio 2014.
Un articolo di Andrea Possieri dal titolo “Rivoluzionari nelle periferie dell’esistenza”: come Papa Francesco ribalta il concetto novecentesco di marginalità.
A cavallo per Costantino: Antonio Francesco Spada sul culto dell’imperatore romano in Sardegna.
Un articolo di Giancarlo Rocca dal titolo “Gesuiti e gesuitesse”: l’influenza delle idee di sant’Ignazio nella nascita di istituti religiosi in Europa e in America latina.
Viaggio tra gli immortali: sui lavori di ristrutturazione del Museo Egizio di Torino intervista di Alessia Amenta al direttore Eleni Vassilika.
Nove mesi per trovare un accordo: in rilievo, nell’informazione internazionale, l’agenda dei negoziati israelo-palestinesi.
Israeliani e palestinesi, prove di pace. L'analista: Usa e Ue più decisi rispetto a prima
◊ Sono cominciati ieri a Washington i negoziati tra i rappresentanti israeliani e palestinesi, sotto l'egida degli Stati Uniti. Le parti hanno accettato di portare avanti negoziati per nove mesi in vista di un’intesa di pace che definisce i due Stati distinti, israeliano e palestinese. Per il direttore di Caritas Jerusalem, padre Raed Abusahliah, i colloqui “sono un fatto positivo, perché l’unico modo di risolvere i problemi è negoziare” e spera che un eventuale accordo tuteli “la libertà di movimento e di accesso ai Luoghi Santi”. Sulle prospettive di questi incontri, ripresi dopo tre anni di stop, Michele Raviart ha intervistato Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera:
R. – La vera novità di questi incontri, cominciati negli Stati Uniti, è proprio nella determinazione. Netanyahu comprende – forse per la prima volta – che dall’altra parte gli Stati Uniti e l’Europa sono più determinati di prima: Obama perché ha già fatto capire a Netanyahu qual è la sua voglia – mentre Kerry, il suo segretario di Stato, la sta esplicitando in maniera molto evidente – l’Unione Europea perché ha mostrato i denti, forse per la prima volta in Israele. quando ha detto: benissimo, se non si va avanti con il processo di pace, si congelano immediatamente i prodotti che arrivano da parte dei coloni. Comunque, le parti dovranno fare dei grossi sacrifici.
D. – La prima fase di questi negoziati è la definizione dei confini e della sicurezza. Stiamo sempre parlando della possibilità quindi di due Stati indipendenti?
R. – Sicuramente, un’alternativa a questo non conviene a Israele, e Israele forse lo sta cominciando a realizzare. Non c’è più un grande ritorno in Israele da parte di ebrei, mentre c’è una crescita naturale da parte palestinese, che nell’arco di qualche decennio potrebbe capovolgere quelli che sono gli equilibri di un unico Stato. Allora, i palestinesi dicono: volete un unico Stato? Attenzione, perché tra un po’ diventeremo noi, la maggioranza... Quindi, uno Stato ebraico a maggioranza araba sarebbe un nonsense. Ecco perché la soluzione dei due Stati è la soluzione più logica e più razionale. Netanyahu sa bene che nel suo Paese, negli ultimi anni, la maggioranza della popolazione israeliana è favorevole ad un accordo di pace.
D. – Questo richiamo all’opinione pubblica, poi, assume una rilevanza se un eventuale accordo di pace venga sottoposto a referendum …
R. – Sì. È una prova. Forse, Netanyahu lo ha anche detto proprio per convincere i suoi ministri più riottosi ad accettare il fatto di di compiere questi sacrifici necessari, proprio perché il referendum potrebbe far certificare dalla gente quello che la classe politica non vuole certificare.
D. – Da parte palestinese, invece, qual è la situazione, considerando anche che c’è di fatto una doppia leadership, Al Fatah in Cisgiordania e Hamas a Gaza?
R. – Questo è uno dei punti fragili del mondo palestinese. Ora, pensare a un “Hamas – stan” come era stato detto, e all’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania mi sembra una forzatura che indebolisce quella che è la lotta palestinese. Ripeto: i sacrifici devono affrontarli tutti. Per i palestinesi, uno dei sacrifici è la rinuncia ai confini del ’67. La rinuncia al pieno diritto al ritorno per stabilirsi in Israele è però un punto irrinunciabile per i palestinesi, ma credo che persino nella destra israeliana ci sia qualcuno che ci sta seriamente ripensando, ed è proprio Gerusalemme. Il diritto dei palestinesi ad avere in qualche modo una propria presenza nella Città santa sarebbe un obiettivo, credo, non difficilmente raggiungibile.
Siria. Ancora nessuna notizia ufficiale di padre Paolo Dall'Oglio
◊ Resta forte l’apprensione per la sorte del gesuita, padre Paolo Dall’Oglio, ricordato anche dal Papa qusta mattina nella Messa della festa di Sant'Ignazio di Loyola. Secondo alcune fonti, il religioso gesuita sarebbe stato rapito in Siria. La Chiesa è anche preoccupata per i due vescovi ortodossi sequestrati lo scorso 22 aprile ad Aleppo e che, stando ad alcune informazioni, sarebbero morti. Ce ne parla Benedetta Capelli:
Si rincorrono le voci sul padre gesuita Paolo Dall’Oglio, ma le autorità vaticane ed italiane invitano alla prudenza. Il ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, ha affermato che si stanno facendo tutte le verifiche del caso e che al momento non ci sono novità. L’agenzia Ansa, riportando la voce di alcuni attivisti siriani, riferisce che il religioso non è stato rapito “ma ha sospeso ogni contatto con l'esterno nell'ambito dei negoziati” con esponenti jihadisti. Questi ultimi avrebbero nelle loro mani una troupe televisiva, fermata alcuni giorni fa vicino ad Aleppo. Dall'Oglio sarebbe dunque impegnato in prima linea per il loro rilascio. A preoccupare sono anche le parole di mons. Giuseppe Nazzaro, vicario apostolico di Aleppo dal 2002 fino a metà di quest’anno. In un’intervista a "Tempi", il presule ha ricostruito gli ultimi appuntamenti dei due vescovi ortodossi sequestrati lo scorso 22 aprile ad Aleppo. “Da tempo non si parla più di loro – ha dichiarato mons. Nazzaro – temo che siano morti: non ho più speranze in questo senso”. Intanto, in Siria prosegue la scia di violenza. Secondo i ribelli, in diversi raid aerei ad Homs e nella regione di Aleppo, teatro in questo periodo di aspri combattimenti, sarebbero morti almeno 11 bambini.
Egitto. Nuovo colloquio per Morsi che incontra l’Ua
◊ L’ex presidente egiziano Morsi ha incontrato stanotte una delegazione dell’Unione Africana. Intanto, è ripartita la responsabile della politica estera e della sicurezza europea, Catherine Ashton, che tornerà presto nel Paese. Il servizio di Roberta Barbi:
Seconda visita nel giro di 24 ore, per il deposto presidente Morsi, che nella notte ha ha avuto un colloquio di un’ora nella consueta località mantenuta segreta, con una delegazione dell’Unione Africana guidata da Alpha Oumar Konaré, già presidente del Mali. In giornata, poi, la delegazione incontrerà al Cairo il segretario della Lega araba, al-Araby, mentre ieri è stata ricevuta dal generale El Sissi e dal presidente ad interim, Mansour. Intanto, è ripartita Catherine Ashton, capo della diplomazia dell’Unione Europea, con la promessa di tornare presto e la consapevolezza di essere l’unico interlocutore internazionale bene accetto da entrambe le parti. Ieri, nella conferenza stampa congiunta con il vicepresidente, el Baradei, la Ashton ha ribadito l’urgenza di fermare le violenze nel Paese. El Baradei, dal canto suo, si è detto ottimista sulla possibilità che il dialogo riprenda, ma ha escluso un ritorno sulla scena politica di Morsi: condizione imprescindibile, questa, invece, per la Fratellanza, che non farà passi indietro. Un nuovo appello alla moderazione nel gestire le manifestazioni, infine, è giunto all’esercito dal ministro della Difesa americano, Chuck Hagel.
Elezioni Zimbabwe, nuova sfida Mugabe-Tsvangirai. P. Tresoldi
◊ Elezioni presidenziali oggi in Zimbabwe, in un clima carico tensioni e di incognite politiche. Si ripete per la terza volta la sfida tra l’anziano e controverso capo di Stato uscente, Robert Mugabe, 89 anni, al potere dal 1980, e il premier in carica Morgan Tsvangirai, 61 anni, che già nelle precedenti elezioni aveva ritirato la sua candidatura al ballottaggio dopo lo scoppio di violente contestazioni con numerose vittime. All'agenzia Misna, l’arcivescovo di Bulawayo, Alexander Thomas Kaliyanil, ha riferito che partecipazione ed entusiasmo hanno caratterizzato a livello popolare questa tornata. Sulla sfida elettorale, Roberta Gisotti ha intervistato padre Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia, il mensile dei Comboniani:
Sei milioni e mezzo gli elettori. Entro cinque giorni i risultati e, se necessario, l’11 settembre vi sarà il ballottaggio. Ma niente è certo soprattutto la correttezza del voto. Il Partito per il cambiamento democratico di opposizione al regime di Mugabe ha già denunciato frodi nelle liste elettorali. Del resto, non sono stati ammessi osservatori occidentali. Ma qual è la posta in gioco? Padre Tresoldi:
R. - La posta in gioco è molto alta e ci sono grandi tensioni. Sappiamo come questo percorso, così affrettato per volontà di Mugabe, per arrivare a queste elezioni di oggi sia stato caratterizzato da intimidazioni, arresti dei candidati del movimento dell’opposizione. E la cosa anche più sconcertante – che è uno dei motivi di grande preoccupazione da parte degli osservatori internazionali – è che il registro dei votanti sia stato reso disponibile pubblicamente soltanto il giorno prima delle elezioni. Questo registro deve essere verificato almeno settimane prima per sapere se ci sono errori, per potersi eventualmente appellare. Questo è già un grande abuso. L’altro fattore preoccupante è che, già da tempo, è stata fatta richiesta da parte dell’opposizione, ma anche dalla comunità internazionale, affinché le norme elettorali venissero armonizzate secondo la nuova Costituzione. Ci sono ancora quelle legate alla vecchia Costituzione. Quindi, ecco, si prevede veramente ci sia la possibilità di brogli e di irregolarità proprio a causa di questa mancanza di trasparenza voluta dal regime e che quindi può inficiare l’esito di queste elezioni presidenziali.
D. – Ma è pensabile che Mugabe, 89 anni, resti al potere dopo 33 anni e dopo tante contestazioni interne e denunce internazionali per il mancato rispetto dei diritti umani? Il popolo dello Zimbabwe – di cui si sente poco parlare, a dire il vero – come vive? Con quali aspirazioni?
R. – Il popolo dello Zimbabwe vuole un cambiamento, vuole arrivare a cambiare le cose. Il problema è che si trova proprio imbavagliato, impossibilitato da tante restrizioni a partire dalla libertà di espressione, di associazione… Sono proibite anche le manifestazioni pubbliche dell’opposizione. Quindi, speriamo che, nonostante queste grosse limitazioni, la popolazione possa veramente raggiungere quello a cui aspira da tanto tempo, cioè un vero cambiamento della leadership. Anche se, dobbiamo dire, il governo di unità nazionale che ha retto abbastanza bene dal 2009 adoggi – periodo durante il quale c’è stata questa convivenza tra Morgan Tsvangirai e Mugabe – ha dimostrato un po’ la debolezza del leader dell’opposizione, Morgan Tsvangirai. Tuttavia, fino ad oggi è stata l’unica persona che ha avuto il coraggio di sfidare la leadership di Mugabe, nonostante sia stato arrestato, minacciato di morte, e il tentativo di eliminarlo fisicamente. Rimane quindi una garanzia, se dovesse vincere, di una speranza di cambiamento in questo sistema così ingessato nelle mani di quest’uomo, che per 33 anni ha governato il suo Paese.
D. – Certo, i timori di violenze sono molto alti. Proprio in tal senso, arriva oggi una lettera aperta del Concilio ecumenico delle chiese dello Zimbabwe per scongiurare spargimenti di sangue, già avvenuti nelle precedenti elezioni del 2008…
R. – Direi che la paura è proprio questa: che ci sia una ripetizione di ciò che è avvenuto nel 2008, quando al primo turno delle elezioni presidenziali Morgan Tsvangirai aveva ottenuto, mi sembra, il 47% dei voti contro il 43 di Mugabe. Pur non avendo ottenuto il 50% più uno, avrebbero dovuto ricorrere al secondo turno. Ma, ci sono tante gravi contestazioni da parte di Mugabe che non ha accettato la sconfitta e da lì sono partite azioni di violenza, di repressione; tante persone sono state uccise, detenute, torturate… Quindi, a quel tempo, Morgan Tsvangirai aveva rinunciato al secondo turno per evitare che ci fossero nuove violenze. C’è da augurarsi che ci sia un senso civico che possa sopraffare qualunque spinta di distruzione, di violenza che ha tanto impaurito e traumatizzato il Paese cinque anni fa.
Incidente del bus, iniziati gli interrogatori. De Vita: carenti i controlli sui guard rail
◊ Le condizioni del tratto autostradale, lo stato d’uso dell’autobus, l’esame autoptico sul corpo dell’autista. Sono questi i tre filoni dell’inchiesta, avviata dalla Procura di Avellino, per accertare le dinamiche dell’incidente, avvenuto domenica scorsa lungo l’autostrada Napoli – Canosa e costato la vita a 39 persone. Oggi, sono cominciati gli interrogatori per individuare eventuali responsabilità e appurare le dinamiche dell’incidente. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
L’attenzione degli inquirenti si concentra sull’autostrada, costruita oltre 40 anni fa, che richiede costanti interventi di manutenzione. L’altro aspetto riguarda il guard rail, una barriera in calcestruzzo e acciaio concepita per ammortizzare gli urti delle auto e, solo entro certi limiti, in grado di assorbire l’impatto con mezzi pesanti. In base alle prime ricostruzioni, la barriera avrebbe ceduto quando ormai la velocità del veicolo, caduto quasi verticalmente, era molto bassa. L’ingegnere Enrico De Vita, esperto di sicurezza stradale:
“In termini europei, un’autostrada deve avere una protezione ai veicoli pesanti e soprattutto a quelli con molti passeggeri tale da non frantumarsi in briciole. Addirittura io dico briciole, ma quella non si è sbriciolata, perché erano tratti di cemento e acciaio appoggiati per terra con un legame al viadotto così labile, che l’ultimo colpo ha fatto precipitare un pezzo di guardrail integro. Quindi vuol dire che proprio era agganciato soltanto in teoria, al viadotto! Il problema nostro – italiano – è che mancano i controlli sulle costruzioni, sui manufatti. Il collaudo finale non è un dato che tutti noi conosciamo e di cui possiamo fidarci, perché se quella autostrada è stata costruita 40 anni fa, vorrei sapere chi ha ricontrollato successivamente. In quel viadotto, nel quale erano state addirittura rifatti due tronconi, due dei ponti, chi ha agganciato e come ha agganciato quel guardrail? Una barriera che era di cemento nella parte esterna e d’acciaio nella parte interna!”.
Sono dunque da appurare eventuali carenze nella resistenza e, soprattutto, nell’installazione e nella collocazione delle barriere lungo il tratto autostradale teatro della tragedia:
“Normalmente si fa al contrario: si mettono barriere ‘New Jersey’ sul lato che divide le due carreggiate, per evitare lo scavalcamento, mentre sull’esterno, specie in un viadotto, è obbligatorio mettere una barriera che protegga i veicoli pesanti, specie se – come in questo caso – è stato colpito con un piccolo angolo. Le barriere di prova nuove che si fanno adesso resistono a urti di Tir di 44 tonnellate, con angoli di 15°! L’angolo di impatto visto in televisione era decisamente un angolo inferiore ai 15° e un bus di quel tipo pesa meno di 20 tonnellate! Quindi, avrebbe dovuto resistere, quel guardrail! Nelle immagini si vede che, invece ,per tratti di 200 metri circa è crollato giù, si è disintegrato, si è staccato ed è precipitato di sotto. Questo è inconcepibile, al giorno d’oggi!”.
L’autobus aveva 18 anni e aveva percorso oltre 900 mila chilometri. In base ai primi accertamenti, la rottura della trasmissione avrebbe messo fuori uso i freni, trasformando l’autobus, in un tratto in discesa, in un mezzo senza controllo nonostante il disperato tentativo dell’autista. Una dinamica che però presenterebbe delle incongruenze:
“Dal punto di vista tecnico e come ingegnere, non riesco a comprendere come possa un differenziale – si dice che si sia rotto un differenziale – rompersi e coinvolgere contemporaneamente anche l’impianto freni, tutto l’impianto freni. C’è qualcosa che non funziona, e probabilmente nei prossimi giorni questo aspetto verrà chiarito. Anche l’impianto freni non può cedere tutto di colpo: c’è sempre un circuito incrociato che mantiene, specie nei freni anteriori, almeno il 40 per cento dell’efficienza frenante. E un differenziale non si può rompere in discesa. Si può rompere un giunto, ma non tutto. C’è qualcosa che non funziona in questa ricostruzione, anche perché l’appoggio che l’autista ha tentato sul fianco destro, non può avergli aumentato la velocità! Il tamponamento e la deformazione delle 14-15 vetture prima del salto nel vuoto hanno provocato un ulteriore rallentamento! Alla fine, è corretto dire che quando il pullman è precipitato, la sua velocità era prossima a 0. Lo dimostra anche la parabola che ha compiuto nel vuoto. L’atterraggio, poi dal viadotto, sicuramente, è stato di nuovo ad alta velocità, perché a quel punto da 0, con una caduta di 30 metri, l’impatto a terra è avvenuto sicuramente tra gli 80 e gli 85 chilometri orari”.
Il bus precipitato dal viadotto era stato revisionato a mazzo. La vicenda solleva dubbi e perplessità su come vengano svolti i controlli durante le revisioni periodiche:
“Ci sono in Italia – lo sappiamo – e ci sono a tutti i livelli; ci sono sia a livello delle vetture private, sia a livello di mezzi pubblici. Ci sono delle complicità che vanno appurate. Sappiamo che è carente, in Italia, sia il controllo dei mezzi, sia il controllo dei controllori e quindi siamo doppiamente lontani dal poter garantire che una vettura che abbia una certificazione – una vettura o un veicolo – sia poi coerente con tutti i suoi requisiti. Da questo a dire che in quel caso c’erano state delle manchevolezze, senza le prove non si può fare. Accerterei, ma quando ci sono delle crocette sulle varie voci - controllo impianto freni e si mette una crocetta - questo è ben lontano dal dire se l’impianto freni aveva dimostrato delle lacune, delle perdite. E sappiamo che c’è un invecchiamento: in 18 anni ci possono essere invecchiamenti ma sono sempre di natura progressiva. E comunque, chi ha fatto la manutenzione di quel mezzo prima, conosce quali fossero le carenze di quel veicolo; carenze non totali, ma parziali”.
E’ stato inoltre disposto l’esame autoptico per l’autista del mezzo per capire se il conducente abbia avuto un malore improvviso o, se precedentemente, abbia fatto uso di alcool o sostanze stupefacenti. Ancora l’ingegnere Enrico De Vita:
“Penso che tutto dipenda dalla perdita dei pezzi della trasmissione. Se è accertato che questi pezzi appartengono al veicolo e sono un semiasse, allora l’autista era cosciente. Se invece sono pezzi che non hanno nulla a che fare con la trasmissione o con quel veicolo, allora la traiettoria potrebbe anche essere conseguente ad un malore. Dico questo perché se l’autista si è accorto che per 200 metri ha buttato giù la barriera – e lo si è visto nelle immagini, camminava sul ciglio del burrone - a questo punto, lo sterzo almeno doveva essere funzionante. Avrebbe dovuto tentare di correggere la traiettoria buttandosi verso l’interno, anche perché la velocità dell’autobus diminuiva costantemente. Quindi questo doveva consentirgli di deviare all’interno e di buttarsi contro la parte robusta della barriera metallica. Non so perché questo non sia avvenuto”.
Il Comune di Pozzuoli, dove erano residenti almeno 29 delle 39 vittime - si costituirà parte civile. Lo ha reso noto il sindaco del comune campano, Vincenzo Figliolia, che ha anche sottolineato come non si debba “spegnere la luce quando i riflettori sulla strage di persone incolpevoli si saranno allontanati”. Restano critiche le condizioni di una ragazza di 16 anni. Si avviano verso la guarigione due dei tre bambini, ricoverati in condizioni meno gravi, nell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli. Sono stati dimessi, infine, due dei sei superstiti portati nell'ospedale ‘Moscati’ di Avellino.
Razzismo, al via un piano nazionale d’azione per combatterlo
◊ Lotta al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza. Sono i temi centrali del Piano nazionale d’azione promosso dal ministro dell’Integrazione, Cecile Kienge, con la collaborazione dell’Unar, l'Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali, e il Ministero del lavoro e politiche sociali italiano. A margine della conferenza di presentazione, ieri a Roma in Presidenza del Consiglio dei ministri, Federica Baioni ha intervistato il viceministro del Lavoro e politiche sociali con delega alle pari opportunità, Maria Cecilia Guerra:
R. – Bisogna, prima di tutto, conoscere meglio il fenomeno, capirne la rilevanza e i punti dove colpisce di più e quali sono gli ostacoli che ci impediscono di superarlo. Possono essere ostacoli di tipo normativo, perché spesso, anche se non ce ne accorgiamo sono le norme che discriminano. Un altro aspetto molto importante è quello che viene chiamato il razzismo istituzionale, cioè la poca preparazione e formazione di chi, pur senza cattiva volontà, non è però preparato a gestire questo fenomeno.
D. – Pianificare per un biennio o comunque cercare di mettere dei punti e delle linee guida a questo argomento molto importante in questo periodo: ce ne vuole parlare?
R. – Sì, sicuramente. L’idea è proprio quella di pianificare e soprattutto chiamare a concorrere sia alla progettazione e poi – e sarà ancora più importante – alla pianificazione un insieme ampio di soggetti. In primo luogo, i soggetti istituzionali: le competenze che possono essere rilevanti per la lotta al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza sono ovviamente divise fra varie amministrazioni – pensi alla scuola, pensi al lavoro, per fare gli esempi più banali, ma anche allo sport e alla comunicazione – quindi bisogna che tutti concorrano in azioni che sono coordinate. Gli enti territoriali ovviamente sono spesso quelli più coinvolti, proprio perché sono collocati sul fronte, con loro le associazioni e le parti sociali. Questa è un po’ la struttura dei soggetti che verranno coinvolti. Può essere l’insegnante a scuola lui stesso razzista o incapace di gestire un fenomeno di discriminazione che si verifica nella sua classe. Può essere in campo sanitario, come le Forze dell’ordine che molto lavoro su questo profilo sono chiamate a fare e stanno facendo anche in termini di formazione al loro interno. Quindi, bisogna capire dove sono gli snodi su cui poter intervenire, individuare degli obiettivi che siano, appunto, praticabili nell’arco di tempo che ci stiamo dando, definire delle azioni che possono anche essere monitorate. Ovviamente, il piano potrebbe avere maggior forza e potrà aver maggior forza anche se ci si mettono più risorse, ma non è solo un problema di risorse. Ci sono tantissime cose che si possono fare anche a costi ridotti, se non addirittura a costo zero. Importante è capire quali siano le vie migliori per intervenire.
Il cambiamento dell'immigrazione asiatica in Italia in una ricerca Idos
◊ Sono oltre 70 mila in Italia i permessi di soggiorno intestati a cittadini di origine asiatica scaduti nel corso del 2011 senza essere stati rinnovati. E' quanto emerso dalla ricerca "L'immigrazione asiatica in Italia - Presenze, lavoro, rimesse", presentata recentemente a Roma e curata dal Centro studi Idos. Lo studio ha analizzato soprattutto le comunità indiane e filippine in tutta la penisola. Daniel Ienciu ha intervistato la dott.ssa Maria Paola Nanni, dell'Idos:
R. – Come Centro studi e ricerche dedicato specificamente ai temi dell’immigrazione in Italia, abbiamo scelto di focalizzare l’attenzione sull’immigrazione asiatica nel nostro Paese a partire dalla consapevolezza della crescita di un andamento economico, che ha caratterizzato e continua a caratterizzare gran parte del continente asiatico in questo momento, che è opposto rispetto a quello che si sperimenta in Europa e in Italia in modo del tutto particolare.
D. – Ci sono ritorni nel proprio Paese?
R. – Non siamo statisticamente in grado ancora di rilevarli. Varie indagini condotte, in particolare a livello europeo, sembrano mettere in evidenza che, soprattutto i lavoratori non comunitari, come gli asiatici, preferiscano tentare di rimanere nei Paesi europei in cui si sono insediati nella consapevolezza delle grandi difficoltà che incontrerebbero nel tentativo di rientrare, una volta tornati nei propri Paesi. Sembrerebbe quindi che si tende a mandare a casa i familiari ricongiunti, quindi mogli e figli. Invece il lavoratore, il capofamiglia, tende a rimanere nel Paese di insediamento.
D. - Per quanto riguarda la situazione attuale delle comunità asiatiche in Italia, cosa ci può raccontare?
R. – Che in qualche modo soffrono la crisi, anche se – grazie alle nicchie occupazionali che si sono ritagliate nel corso degli anni – riescono a resistere un po’ meglio degli italiani. E’ una presenza che cresce, cresce in modo sicuramente ridotto rispetto a quanto si osservava prima dell'affermarsi della crisi, ovvero fino al 2007. Ma tuttora continua a crescere. Consideriamo che negli ultimi anni, tra il 2010 e il 2011, sono stati oltre 90 mila i nuovi permessi di soggiorno, rilasciati e intestati a un cittadino di un Paese dell’Asia.
D. – Quando arrivano in Italia, vengono con l’idea di rimanere per due o tre generazioni o desiderano il ritorno?
R. - I migranti asiatici tendono ad avere un progetto migratorio a lungo termine, ma non definitivo. L’idea è quella di arrivare, anche di rimanere per diversi anni, 5-10-15-20 anni, e poi rientrare nel proprio Paese per passare lì la vecchiaia. Sono molto forti i legami che si mantengono con la madrepatria, con le famiglie rimaste in Patria.
Perdono di Assisi: da domani al via le celebrazioni con la Veglia dedicata alle famiglie
◊ L’Umbria si prepara con particolare entusiasmo quest’anno alle celebrazioni francescane del prossimo 4 ottobre, giorno in cui anche il Papa sarà ad Assisi. La Conferenza episcopale ha infatti organizzato una serie di momenti di incontro, riflessione e preghiera fino a quella data e sulle orme del Santo patrono d’Italia. Il primo appuntamento, domani primo agosto, in occasione dell’inizio della festa del Perdono, sarà una Veglia con le famiglie sul tema ”Il perdono è la tenerezza di Dio”. A organizzarla, mons. Mario Ceccobelli, vescovo di Gubbio, che ne spiega il significato al microfono di Gabriella Ceraso:
R. – Ho organizzato questo momento di preghiera, di verifica e di richiesta di aiuto a Francesco, per vivere l’esperienza del perdono nell’ambito della famiglia.
D. – Perché aiutare le famiglie a vivere con particolare intensità l’esperienza del perdono?
R. – Perché credo che la famiglia sia la prima cellula della nostra società, dove si formano i cittadini di domani ed anche i cittadini del Regno di Dio, i cristiani. E’ dunque fondamentale per un bambino avere fin dall’inizio della sua vita umana questa esperienza. Riteniamo che la famiglia abbia, quindi, anche questo compito: di educare i bambini alla dimensione del perdono. Esortiamo, dunque, la famiglia a prendere coscienza di questo compito e cerchiamo di aiutare le famiglie a vivere all’interno della loro relazione – marito, moglie, figli, nonni – l’esperienza del perdono e della riconciliazione.
D. – Durante questa particolare celebrazione, ci sarà anche il rinnovo delle promesse matrimoniali e si ascolteranno alcune testimonianze...
R. – Alcune testimonianze di riconciliazione, di perdono donato e accolto. Credo che dobbiamo aiutare le famiglie anche a far ricorso alla grazia sacramentale, perché il Sacramento che hanno ricevuto ha la possibilità di dare delle energie spirituali agli sposi, per vivere l’esperienza del perdono e per essere educatori al perdono.
D. – E’ anche bella questa disponibilità, durante le celebrazioni delle famiglie stesse, a chiedere perdono per le proprie mancanze a Dio. Come il Papa ci ricorda spesso: Dio non si stanca mai di darci perdono, siamo noi spesso ci stanchiamo di chiedere...
R. – E’ vero. E la Chiesa invita le persone che vogliono entrare in un dialogo, in relazione con Dio, a partire sempre dal perdono, perché è denominatore comune di ogni creatura di essere peccatore e avere bisogno di perdono, chiesto a Dio, ma poi donato e scambiato con i fratelli.
D. – Quindi, non stancarci di chiedere perdono, ma sempre – come dice Papa Francesco – imparare da Dio a dare questo perdono...
R. – Del resto, nell’unica preghiera che ci ha insegnato, Gesù ci fa chiedere: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Chiedere perdono significa anche accettare l’impegno di concedere perdono. Questo non è riservato solamente alle energie umane, ma abbiamo bisogno di un supplemento di energia, che è la grazia che viene da Dio, che ci aiuta a perdonare. Da soli andremmo poco lontano.
D. – Tutto questo cammino verso il 4 ottobre vi vede probabilmente con uno spirito diverso quest’anno dato che ci sarà anche il Papa in quella data. Le chiedo quali sono i vostri sentimenti?
R. – Ci stiamo attrezzando per poterla vivere al meglio, per non sciupare niente del dono che il Santo Padre ci fa e che c’è consentito quest’anno. Papa Francesco, poi, non finisce di stupire e siamo in attesa anche di quello che ci dirà, del messaggio che vorrà consegnare alle nostre chiese umbre.
Irlanda: l’aborto diventa legale ma solo in caso di rischio di salute per la madre
◊ Da oggi, l’aborto è legale in Irlanda, ma solo nel caso in cui ci sia un evidente rischio per la salute della madre. Il presidente Higgins ha firmato questa mattina la nuova normativa, approvata con una schiacciante maggioranza in parlamento, sulla scia emotiva del caso della donna morta in ospedale perché le era stata rifiutata una pratica d’aborto. A scatenare le maggiori perplessità sulla legge, era stata la cosiddetta “clausola del suicidio”, che inserisce anche la tendenza al suicidio tra le cause di rischio per la salute della madre. La Chiesa d’Irlanda si è molto battuta contro questo provvedimento: il primate e arcivescovo di Armagh, il cardinale Seán Brady, aveva tuonato contro l’introduzione di un sistema “molto più liberale di quello previsto dalla Costituzione”, evidenziando anche la mancanza della clausola sull’obiezione di coscienza dei sanitari, mentre a Limerick era stata organizzata una veglia di preghiera per la vita in cui è stato ricordato come il nascituro sia “un essere umano con delle potenzialità”. Fino a oggi, essendo illegale in Irlanda, ogni anno erano circa quattromila le donne irlandesi che si recavano nel Regno Unito per abortire. (R.B.)
Unicef, campagna "Endviolence": 223 milioni di bambini vittime di abusi nel mondo
◊ Sono 223 milioni i bambini vittime di abusi nel mondo. Questo il triste bilancio che l'Unicef raccoglie, lanciando l'allarme attraverso una nuova campagna: "Endviolence against children". La campagna è rivolta alle persone di tutto il mondo, affinché riconoscano la violenza contro i bambini, prendano parte ad azioni globali, nazionali o locali per porvi fine e per dare vita insieme a nuove idee per sconfiggerla. L'iniziativa è volta a canalizzare la crescente indignazione che suscitano le orribili aggressioni commesse contro i bambini, come gli spari contro l'allora 14.enne Malala Yousafzai in Pakistan, la sparatoria di Newtown in Connecticut nel dicembre 2012, durante la quale persero la vita 26 persone tra bambini e insegnanti, e ancora gli stupri subiti da ragazze in India e in Sud Africa nel 2013. "Solo perché non la vedi, non significa che la violenza contro i bambini non c'è", dice durante lo spot video Liam Neeson, attore e ambasciatore Unicef ,che ripete nelle sequenze che corredano la campagna di Unicef: “Rendi visibile quello che è invisibile. Aiutaci, perché la violenza contro i bambini deve scomparire". Circa 150 milioni di bambine e 73 milioni di bambini sotto i 18 anni hanno sperimentato violenza e sfruttamento sessuale, secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), e si stima che 1,2 milioni di bambini ogni anno siano vittime di traffico e sfruttamento. Secondo quanto ricorda l’Unicef, inoltre, la violenza non solo infligge ferite fisiche, ma lascia cicatrici psichiche sui bambini, colpisce la loro salute mentale e fisica, compromette le loro capacità di apprendere e socializzare e mina il loro sviluppo. Un sito e una campagna sui social media spiegano come i bambini, i genitori e le comunità possono agire, come farsi coinvolgere, essere informati, organizzare eventi e dibattiti pubblici, sostenere i bambini vittime di violenza e lavorare con i partner dell'Unicef, globali e locali. Proteggere i bambini è il cuore del mandato dell'Unicef. La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, inoltre, specifica che ogni bambino, dovunque esso sia, ha il diritto di essere protetto da ogni forma di violenza. (F.B.)
In Giappone oltre 60 mila casi all’anno di abusi sui minori
◊ Un rapporto dell’agenzia Kyodo citato dalla Fides lancia l’allarme sul fenomeno degli abusi sui minori in Giappone: un trend relativamente recente (si è iniziato a registrarli intorno al 1990), ma che nel 2012 ha toccato un drammatico picco, con oltre 66 mila casi. Negli anni, inoltre, il fenomeno si è sempre mantenuto stabile e mai al di sotto dei 60 mila. Certo, precisa il Rapporto, negli ultimi anni c’è stata una presa di coscienza in merito che ha portato a un maggior numero di denunce e a una migliore collaborazione tra polizia e centri infantili di sostegno. Ma nel 2012, a fronte dei casi denunciati, solo 27 sono state le richieste giudiziali di sospensione dei diritti dei genitori avanzate, e di queste appena 15 adempiute. Si registra, inoltre, la morte di almeno 58 minori (25 con meno di un anno di età) probabilmente figli di adolescenti o comunque non desiderati. (R.B.)
Afghanistan, Rapporto dell’Onu: nel 2013 vittime civili in aumento del 23%
◊ Nei primi sei mesi del 2013, l’Afghanistan registra un incremento di vittime civili che, dopo la flessione del 2012, riporta il Paese ai livelli drammatici del 2011. Lo afferma il rapporto presentato oggi a Kabul dalla Missione d’assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), che concretizza questo aumento in un +23%: dato che, sciolto, si traduce in 1.319 morti e 2.533 feriti in sei mesi. “L’elemento particolarmente preoccupante – sostiene il direttore dell’Unama, Georgette Gagnon – riguarda l’incremento di perdite di vite umane e ferimenti tra donne e bambini: +38%”, cioè 337 morti e 770 feriti". Secondo il Rapporto, questo aumento è dovuto a una recrudescenza di attentati ad opera di elementi antigovernativi (74%) e filogovernativi (9%), a una crescita degli scontri sul terreno (12%) e a ordigni esplosivi abbandonati (5%). Infine, James Dobbins, inviato speciale degli Stati Uniti in Afghanistan, oggi incontrerà il presidente Karzai per discutere con lui dello stallo del processo di pace. Ma in agenda ci sono anche il tema della sicurezza e le prospettive dell’accordo di cooperazione decennale tra Usa e Afghanistan, che sarà attuato dopo il ritiro delle truppe statunitensi dal Paese. (R.B.)
Pakistan, ancora violenze. Bhatti al neopresidente: minoranze importanti per creare pace
◊ Almeno diecipersone sono rimaste uccise nell’attacco di un commando armato, composto da una sessantina di uomini, al chekpoint nell’area di Surghar, nel distretto di Kohat, provincia pakistana di Khyber Pakhtunkhwa. Nell’attentato, che le forze di sicurezza sono riuscite a respingere dopo violenti combattimenti nei pressi del fiume Bara, avvenuto in una zona cruciale di confine con l’Afghanistan, sono morti otto miliziani e due militari, ma si registrano anche quattro feriti. E sull’escalation di violenza nel Paese, che ieri ha eletto Mamnoon Hussain come nuovo capo di Stato, è tornato a parlare con AsiaNews Paul Bhatti, ex ministro per l’Armonia nazionale e presidente di "All Pakistan minorities alliance". Bhatti, di fede cristiana, chiede al neopresidente “un maggiore coinvolgimento delle minoranze in futuro”. “Siamo una parte importante del Paese e vogliamo essere consultati – ha detto esprimendo preoccupazioni per il moltiplicarsi dei fatti di sangue – senza la pace non sarà possibile risolvere altri problemi tra cui il terrorismo e la crisi economica che attanagliano il Paese”. (R.B.)
RD Congo. Ultimatum Onu all’M23: “Consegnate le armi o useremo la forza”
◊ “I ribelli dell’M23 portino le loro armi nella nostra base. Se ciò non avverrà, considerata l’imminente minaccia fisica per i civili, prenderemo tutte le misure necessarie per disarmarli, anche l’uso della forza”. Questo l’ultimatum di 48 ore lanciato dalla missione Onu nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco) ai ribelli del movimento M23, che dall’anno scorso hanno ripreso i combattimenti contro l’esercito governativo nella regione del Kivu saccheggiando villaggi, stuprando le donne e rapendo bambini per farne soldati. Di recente, le Nazioni Unite hanno inviato nell’area altri tremila soldati a sostegno dei militari per creare una zona di sicurezza intorno a Goma, la principale città del Kivu al confine con il Rwanda. E proprio il Rwanda è stato accusato dall’Onu di spalleggiare questi ribelli per poter assumere il controllo della regione, ricca di risorse minerarie, ma il Paese respinge queste accuse. (R.B.)
Repubblica Centrafricana: leader religiosi chiedono rispetto per la vita
◊ In un incontro tra leader religiosi svoltosi il 19 luglio scorso a Bouar, nella Repubblica Centrafricana, è stata decisa una giornata di preghiera per il Paese che sarà celebrata il prossimo 12 agosto. Lo riferisce alla Fides padre Aurelio Gazzera, missionario Carmelitano da anni in Centrafrica, Paese sprofondato nuovamente nella violenza dopo la cacciata del presidente Bozizé da parte dei ribelli del gruppo Seleka. “Nessuna fede permette la violenza – ha dichiarato – invitiamo tutti alla fedeltà a Dio, alla sua legge, e a una grande coerenza: se tutti rispettassero la legge di Dio non ci sarebbe alcuna guerra!”. I capi religiosi lanciano, infine, un appello ai ribelli di Seleka, affinché si convertano e interrompano “la lunga serie di crimini, omicidi, stupri e saccheggi”, e chiedono loro “il rispetto per la persona umana, per lo Stato e per tutti, in particolare donne, malati e bambini”. L’ultimo appello è poi rivolto ai giovani, “che non scelgano la via della violenza”. Nel frattempo, però, gli episodi cruenti si sono moltiplicati nel Paese: quattro diocesi centrafricane sono state recentemente assalite e derubate da un gruppo di estremisti islamici provenienti da Ciad e Sudan. Nella regione di Bangassou, è la testimonianza del vescovo mons. Juan José Aguirre, il 50% dei beni della Chiesa è stato saccheggiato e la popolazione è oggetto di continui soprusi: le vittime sono già più di 400. (R.B.)
La Chiesa in Giordania: no a proselitismo religioso sfruttando le iniziative umanitarie
◊ Ha suscitato polemiche, e causato la presa di distanze da parte dei responsabili della Chiesa cattolica, il video nel web che vede alcuni cristiani legati a gruppi evangelici, filmati mentre distribuivano copie del Vangelo e opuscoli di riflessioni spirituali nel campo profughi di Zaatari, in Giordania, maggior sito di accoglienza dei rifugiati in fuga dalla guerra civile siriana presente sul territorio. Secondo quanto riferito dall’agenzia Fides, la Chiesa locale ha ribadito che non si può andare a portare viveri e approfittare di quella situazione. Sul fatto si è pronunciato in particolare l'arcivescovo Maroun Lahham, vicario patriarcale per la Giordania del Patriarcato latino di Gerusalemme, sottolineando come in quel modo si strumentalizzino le iniziative umanitarie per realizzare forme di proselitismo che non hanno nulla a che fare con le autentiche dinamiche della testimonianza cristiana. Il campo profughi di Zaatari ha iniziato a funzionare esattamente un anno fa, il 29 luglio 2012, con duemila tende in grado di ospitare diecimila persone. Adesso nell'area del campo sono concentrati 120 mila profughi, che rappresentano il quarto insediamento più grande dell'intero regno hashemita. (F.B.)
I vescovi degli Stati Uniti preoccupati per la riforma della legge sull'immigrazione
◊ Se verrà approvata la riforma dell'immigrazione negli Stati Uniti, un immigrato su quattro di coloro che vivono nel Paese e sono privi di documenti non sarà in grado di regolarizzare la propria situazione, perché mancherà di qualche requisito o perché non riuscirà a finire le pratiche. A segnalarlo, un rapporto dell'Ufficio del budget del congresso degli Stati Uniti, pubblicato in data 29 luglio. In questo modo, degli oltre 11 milioni di immigrati illegali che, secondo le stime, vivono negli Usa, saranno circa otto milioni a cercare di ottenere la cittadinanza. Qualche settimana fa, il Senato americano ha approvato una legge di riforma che prevede un percorso di legalizzazione per gli immigrati senza documenti. L’approvazione del progetto si è complicata per l’opposizione di molti legislatori repubblicani che, tra l’altro, non vogliono che per mezzo della riforma sia concessa la cittadinanza statunitense agli immigrati senza documenti che riusciranno a legalizzare la loro situazione. Secondo le dichiarazioni sarrivate all’agenzia Fides dall'arcivescovo di Los Angeles, José H. Gómez, presidente della commissione per i Migranti della Conferenza episcopale locale, alla Chiesa cattolica interessa il dibattito sull'immigrazione in quanto questione centrale per il futuro della Chiesa e del popolo cattolico. Al centro di questa polemica, ha evidenziato il presule, ci sono cittadini messicani e latinoamericani: milioni di persone i cui destini vengono decisi dai politici, che sono in gran parte fedeli cattolici. La Chiesa, ha ribadito, non tiene conto della provenienza dei suoi fedeli, ma calcola questa cifra attraverso il numero di Battesimi dei bambini. Los Angeles ha una media di circa 84 mila neonati e bambini all'anno, la maggior parte di questi sono ispanici. (F.B.)
Sri Lanka, un sacerdote: “Sarebbe una gioia per il Paese accogliere il Papa”
◊ “Accogliere il Papa sarebbe una grande gioia”: così padre Benedict Joseph, direttore del Centro per le Comunicazioni sociali dell’episcopato dello Sri Lanka, commenta con AsiaNews le parole di Papa Francesco che, di ritorno dal Brasile, ha affermato che “in Asia si deve andare perché Papa Benedetto non ha avuto tempo di farlo, ed è importante”. “Durante il suo Pontificato, Benedetto XVI aveva espresso il desiderio di avere in Sri Lanka un centro internazionale di studi per gli studenti di teologia – ricorda il sacerdote – e di voler essere presente per la cerimonia d’apertura. Ora, la costruzione dell’edificio è quasi conclusa e ciò ci sembra una coincidenza favorevole, se Papa Francesco vorrà venire anche per presenziare all’inaugurazione non vediamo l’ora di accoglierlo”. “Al momento la volontà di ospitare il Papa c’è – ha concluso – ma i vescovi devono ancora consultarsi con il governo. Questo Paese è uscito da una lunga guerra e una visita del Santo Padre sarebbe molto importante per il nostro popolo e per tutta l’Asia”. (R.B.)
Cina: ondata di caldo record, dieci morti a Shanghai
◊ La Cina è alle prese con la peggiore ondata di caldo degli ultimi 140 anni: il termometro ha superato i 40 gradi a Shanghai, capitale economica del Paese, dove almeno dieci persone sono morte d’infarto, ma il bilancio risale a qualche giorno fa e le vittime nel frattempo potrebbero essere aumentate. La stampa locale, inoltre, riferisce di decessi anche a Nanchino e Chansha. L’Ufficio meteorologico, per la prima volta nella sua storia, ha dichiarato un’emergenza di livello 2 in sette province del Paese, tutte nella parte centrale e orientale, in particolare per l’area intorno a Shanghai e Chongqing, dove sono attese temperature oltre i 41 gradi. (R.B.)
Guatemala. Stato di emergenza per la dengue, morti 2 bambini
◊ Tenere pulite le grondaie, distruggere i vasi di plastica o di vetro e gli pneumatici, svuotare l’acqua nelle fioriere. Sono solo alcuni dei piccoli accorgimenti rivolti alla popolazione, che le autorità del Guatemala invitano ad adottare nel tentativo disperato di frenare la moltiplicazione delle zanzare che ha causato una terribile epidemia di dengue in tutto il Centro e Sudamerica. Nel Paese, in particolare, sono morti due bambini per la forma emorragica della malattia e circa 3.700 sono i casi di contagio accertati, numero che ha indotto a lanciare l’emergenza nazionale. La Fides riferisce anche la situazione nei Paesi limitrofi: in Honduras, il più colpito, le vittime sono finora 15. Cinque in Nicaragua, tre in Costa Rica e una in El Salvador. (R.B.)
Brasile. Cappuccini della Provincia di Bahia e Sergipe celebrano 30 anni di missione
◊ I Frati minori cappuccini della Provincia di Bahia e Sergipe, nel Nordest brasiliano, hanno ricordato ieri 30 anni della fondazione della loro circoscrizione religiosa, che abbraccia un territorio di 582.652, 2 kmq, con una popolazione di oltre 16 milioni di abitanti. La Provincia è composta da 88 Religiosi professi (due dei quali sono vescovi), tre novizi e 9 postulanti, distribuiti in 13 conventi. Oltre alla predicazione nelle missioni popolari, all’assistenza agli infermi negli ospedali e nei due dispensari aperti a fianco dei loro conventi e alle confessioni nei santuari, tutte attività peculiari dell’ordine, sono impegnati nei mezzi della comunicazione sociale e nella scuola. Si deve a loro, infatti, la fondazione della Rede de Rádio Capuchinhos, di cui fanno parte tre emittenti, due di Feira de Santana e una do Nosso Senhor do Bonfim, fondate dai loro religiosi nel corso degli anni, nonché la direzione di due collegi in cui studiano più di duemila ragazzi, provenienti soprattutto da famiglie povere e disagiate. Sensibili all’attività evangelizzatrice, collaborano da anni con la missione dell’Alto Solimões e dell’Alto Rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, assistendo gli indios che stanno attraversando un periodo particolarmente difficile della loro storia millenaria. (A cura di padre Egidio Picucci)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 212