![]() | ![]() |

Sommario del 26/06/2013
◊ Nella Chiesa siamo tutti importanti, nessuno è inutile. E’ uno dei passaggi più significativi della catechesi di Papa Francesco, all’udienza generale di oggi in Piazza San Pietro, gremita di fedeli. Il Papa ha ribadito che agli occhi di Dio siamo tutti uguali, anche il Papa. Quindi, ha esortato tutti a portare nella Chiesa la propria vita, il proprio cuore, tutti insieme. Il servizio di Alessandro Gisotti:
Siamo tutti necessari nella Chiesa, nessuno è inutile. E’ il messaggio forte che arriva da Papa Francesco che, in una piazza San Pietro gremita di fedeli come ogni mercoledì, dialoga con il Popolo di Dio. La sua diventa una catechesi partecipata. Del resto, il tema su cui si sofferma il Pontefice è proprio la Chiesa come Tempio dello Spirito Santo. L’antico Tempio, ha detto, “era edificato dalle mani degli uomini” perché “si voleva ‘dare una casa’ a Dio”. Ma con l’Incarnazione del Figlio di Dio “è Dio stesso che “costruisce la sua casa”, “Cristo è il Tempio vivente”. E noi, ha detto ancora, “siamo le pietre vive dell’edificio di Dio, unite profondamente a Cristo”. “Noi – ha avvertito – non siamo isolati, noi siamo popolo di Dio, e questo è la Chiesa: Popolo di Dio”. La Chiesa, ha poi osservato, “non è un intreccio di cose e interessi, ma il Tempio dello Spirito Santo”, in cui “ognuno di noi, con il dono del Battesimo è pietra viva”. E questo, ha detto, “ci dice che nessuno è inutile nella Chiesa”:
“Nessuno è inutile nella Chiesa! E se qualcuno, a volte, dice ad un altro: 'Vai a casa tu sei inutile!’, quello non è vero! Nessuno è inutile nella Chiesa: tutti siamo necessari, per costruire questo Tempio!”
Nessuno, ha aggiunto, “è secondario”. Ed ha avvertito: nessuno può dire di essere “il più importante, nella Chiesa!”:
“Tutti siamo uguali agli occhi di Dio, tutti, tutti! Ma qualcuno di voi può dire: 'Senta, Signor Papa, Lei non è uguale a noi'. Sì, sono come ognuno di voi, tutti siamo uguali, tutti siamo fratelli! Nessuno è anonimo: tutti formiamo e costruiamo la Chiesa”.
E questo, ha proseguito, “ci invita anche a riflettere sul fatto che se manca il mattone della nostra vita cristiana, manca qualcosa alla bellezza della Chiesa”:
“E anche alcuni dicono: ‘Io con la Chiesa non c’entro!’. Ma manca il mattone della tua vita, in questo bel Tempio! Nessuno può andarsene, eh? Tutti dobbiamo portare alla Chiesa la nostra vita, il nostro cuore, il nostro amore, il nostro pensiero, il nostro lavoro … Tutti insieme!”.
Ecco allora, ha detto il Papa che dobbiamo aprirci all’azione dello Spirito Santo “per essere parte attiva nelle nostre comunità”, dobbiamo essere “pietre vive”, non “pietre stanche, annoiate e indifferenti”:
“Ma, avete visto voi che cosa brutta è un cristiano stanco, annoiato, indifferente? E’ brutto, un cristiano così, non va! Il cristiano dev’essere vivo, gioioso di essere cristiano! Deve vivere questa bellezza di fare un popolo di Dio, che è la Chiesa”.
Al momento dei saluti ai pellegrini, il Papa ha rivolto un particolare saluto, colmo di affetto, al cardinale Salvatore De Giorgi e quanti gli sono vicini in occasione del suo 60.mo anniversario di ordinazione presbiterale e quarantesimo di vescovo:
“Pensate che bel servizio alla Chiesa: sessanta anni di sacerdozio e quaranta di episcopato! E’ un bel servizio che lui ha fatto con cuore di padre, con bontà di padre, e con questo cuore di padre ha fatto tanto bene alla Chiesa. Questa mattina abbiamo celebrato la Messa e c’era un piccolo gruppo di preti che sono stati ordinati da lui. Era piccolo il gruppo: ce n’erano più di ottanta! Immaginatevi quanti ne ha ordinati: ringraziamolo per tutto quello che ha fatto per la Chiesa”.
Il Papa: i preti abbiano la grazia della paternità spirituale. Gli auguri al card. De Giorgi
◊ Dio vuole che i sacerdoti vivano con pienezza una speciale grazia di “paternità”: quella spirituale nei riguardi delle persone loro affidate. Lo ha affermato Papa Francesco nella Messa di questa mattina, presieduta nella cappella di Casa S. Marta. Con il Pontefice erano presenti prelati e sacerdoti che accompagnavano il cardinale arcivescovo emerito di Palermo, Salvatore De Giorgi, che oggi celebra il 60.mo anniversario di ordinazione sacerdotale, circostanza alla quale il Papa ha fatto cenno con parole di grande stima all’omelia, per poi ritornarvi più tardi all'udienza generale. Il servizio di Alessandro De Carolis:
La “voglia di paternità” è iscritta nelle fibre più profonde di un uomo. E un sacerdote, ha affermato Papa Francesco, non fa eccezione, pur essendo il suo desiderio orientato e vissuto in modo particolare:
“Quando un uomo non ha questa voglia, qualcosa manca, in quest’uomo. Qualcosa non va. Tutti noi, per essere, per diventare pieni, per essere maturi, dobbiamo sentire la gioia della paternità: anche noi celibi. La paternità è dare vita agli altri, dare vita, dare vita… Per noi, sarà la paternità pastorale, la paternità spirituale: ma è dare vita, diventare padri”.
Lo spunto di riflessione è offerto a Papa Francesco dal brano della Genesi di oggi, nel quale Dio promette al vecchio Abramo la gioia di un figlio, assieme a una discendenza fitta come le stelle del cielo. Per suggellare questo patto, Abramo segue le indicazioni di Dio e allestisce un sacrificio di animali che poi difende dall’assalto di uccelli rapaci. “Mi commuove – commenta il Papa – guardare questo novantenne con il bastone in mano”, che difende il suo sacrificio. “Mi fa pensare a un padre, quando difende la famiglia, i figli”:
“Un padre che sa cosa significa difendere i figli. E questa è una grazia che noi preti dobbiamo chiedere: essere padri, essere padri. La grazia della paternità, della paternità pastorale, della paternità spirituale. Peccati ne avremo tanti, ma questo è di commune sanctorum: tutti abbiamo peccati. Ma non avere figli, non diventare padre, è come se la vita non arrivasse alla fine: si ferma a metà cammino. E perciò dobbiamo essere padri. Ma è una grazia che il Signore dà. La gente ci dice così: ‘Padre, padre, padre…’. Ci vuole così, padri, con la grazia della paternità pastorale”.
A questo punto, lo sguardo di Papa Francesco si posa con affetto sul cardinale De Giorgi, giunto al traguardo del 60.mo anniversario di sacerdozio. “Io non so cosa ha fatto il caro Salvatore”, ma “sono sicuro che è stato padre”. “E questo è un segno”, prosegue rivolto ai tanti sacerdoti che hanno accompagnato il porporato. Ora tocca a voi, è l’esortazione finale di Papa Francesco, che osserva: ogni albero “dà il frutto da sé e se lui è buono, i frutti devono essere buoni, no?”. Dunque, soggiunge con simpatia, “non fategli fare brutta figura…”:
“Ringraziamo il Signore per questa grazia della paternità nella Chiesa, che va di padre in figlio, e così… E io penso, per finire, a queste due icone e a una in più: l’icona di Abramo che chiede un figlio, l’icona di Abramo con il bastone in mano, difendendo la famiglia, e l’icona dell’anziano Simeone nel Tempio, quando riceve la vita nuova: fa una liturgia spontanea, la liturgia della gioia, a Lui. E a voi, il Signore oggi vi dia tanta gioia”.
Il Papa istituisce la Pontificia Commissione Referente sullo Ior
◊ Un organismo che consenta di conoscere in modo più approfondito la posizione giuridica dello Ior e permettere una sua migliore “armonizzazione” con “la missione universale della Sede Apostolica”. È questa la natura e lo scopo della “Pontificia Commissione Referente sull’Istituto per le Opere di Religione”, istituita da Papa Francesco con un Chirografo che reca la data del 24 giugno 2013. Sull’organigramma e le competenze della struttura, esposti in un comunicato della Segreteria di Stato, riferisce in questo servizio Alessandro De Carolis:
“Consentire ai principi del Vangelo di permeare anche le attività di natura economica e finanziaria”. Sta in questa affermazione la sorgente ispiratrice del lavoro che dovrà svolgere la nuovo Pontificia Commissione Referente sullo Ior. Questo intendimento spicca nelle prime righe del Chirografo di Papa Francesco e si rifà – viene detto esplicitamente – a un “invito” di Benedetto XVI, prima del quale il Pontefice ricorda come lo Ior abbia ricevuto l’attuale personalità giuridica nel 1990 dal Beato Giovanni Paolo II. Ora, scrive il Papa, “alla luce della necessità di introdurre riforme nelle Istituzioni che danno ausilio alla Sede Apostolica” – e dopo aver “sentito il parere di diversi Cardinali e altri fratelli nell'Episcopato, nonché di altri collaboratori” – “Noi abbiamo deciso di istituire una Commissione Referente sull’Istituto per le Opere di Religione che raccolga puntuali informazioni sulla posizione giuridica e sulle varie attività dell’Istituto al fine di consentire, qualora necessario, una migliore armonizzazione del medesimo con la missione universale della Sede Apostolica”. Il mandato di cui godrà questo nuovo organismo sarà “ampio”, ha spiegato ai giornalisti il direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi. Lo scopo della Commissione – precisa il comunicato della Segreteria di Stato – è di raccogliere informazioni sull’andamento dell’Istituto e di presentare i risultati al Santo Padre” in modo tempestivo. Nel frattempo, si chiarisce ulteriormente, lo Ior “continua ad operare secondo il Chirografo del 1990 che lo erige, salvo disposizioni diverse del Santo Padre”.
La Pontificia Commissione Referente sullo Ior – che come si legge nella nota ufficiale “comincia il lavoro proprio in questi giorni” – è composta da cinque personalità. In qualità di presidente, Papa Francesco ha nominato il cardinale Raffaele Farina, mentre membri sono il cardinale Jean-Louis Tauran e la prof.ssa Mary Ann Glendon. Il segretario è mons. Peter Bryan Wells e il coordinatore mons. Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru. Il Chirografo stabilisce in 9 punti gli ambiti operativi della Commissione. La dimostrazione dell’ampia facoltà di intervento si evince, ad esempio, a punto 2 dove si afferma, fra l’altro, che “il segreto d’ufficio e le altre eventuali restrizioni stabilite dall’ordinamento giuridico non inibiscono o limitano l’accesso della Commissione a documenti, dati e informazioni”, ad eccezione delle norme che tutelano “l’autonomia e l’indipendenza delle Autorità che svolgono attività di vigilanza e regolamentazione dell’Istituto”. L’attività della Commissione – si afferma al punto 8 – “decorre dalla data del presente Chirografo”. Mentre lo scioglimento della Commissione (punto 9) “sarà reso noto”.
Nomina episcopale di Papa Francesco in Brasile
◊ In Brasile, Papa Francesco ha nominato vescovo di Toled omons. João Carlos Seneme, C.S.S., finora Vescovo titolare di Albule ed Ausiliare di Curitiba.
Tweet del Papa: carità, pazienza e tenerezza sono bellissimi tesori da condividere
◊ Tweet di Papa Francesco, lanciato oggi dal suo account, in 9 lingue, @Pontifex: “La carità, la pazienza e la tenerezza sono tesori bellissimi. E quando li hai, vuoi condividerli con gli altri”.
Cattolici e musulmani a una voce: basta spargimento di sangue in Siria
◊ Porre fine allo “spargimento di sangue” e all’“uccisione di molte persone innocenti” in Siria. Lo chiedono a una voce cattolici e musulmani nel comunicato finale della 19.ma riunione della Commissione di Collegamento Islamico-Cattolica, svoltasi a Roma nei giorni scorsi sul tema “Credenti a confronto con il materialismo e il secolarismo nella società”. Di seguito i sei punti del comunicato, che recano la firma del cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, e del prof. Hamid bin Ahmad Al-Rifaie, presidente del Forum Islamico Internazionale per il Dialogo:
“Cristianesimo e Islam affermano l'inseparabilità e la complementarità tra gli ambiti materiali e quelli spirituali. La nostra responsabilità di credenti è quella di conciliare queste dimensioni della vita.
Molte persone oggi soffrono per la perdita delle radici spirituali e religiose; questo fenomeno indebolisce entrambe le dimensioni interiori e morali degli individui e delle società.
Il mondo si trova ad affrontare oggi molti tipi di crisi. Noi riconosciamo la nostra comune responsabilità come credenti in Dio facendo tutto il possibile per proteggere le persone più vulnerabili in questa fase.
I partecipanti sono stati onorati e lieti di essere stato ricevuti in udienza da Sua Santità Papa Francesco, che li ha incoraggiati a proseguire i loro sforzi sulla via del dialogo rispettoso e fecondo tra credenti per la pace e la prosperità del nostro mondo.
Condanniamo con forza in particolare ciò che sta accadendo in Siria: l'uccisione di molte persone innocenti, l’aggressione contro il carattere sacro della vita umana e contro la dignità delle persone; invitiamo quindi le organizzazioni regionali e internazionali a fare ciò che è possibile per fermare la spargimento di sangue, secondo il diritto internazionale.
Il comitato terrà la sua prossima riunione a Tatwan (Marocco), che sarà preceduta da un evento preparatorio. La parte musulmana si impegnerà a organizzarla”.
Il card. Vallini: no alla disinformazione calunniosa per infangare i sacerdoti
◊ “Disinformazione calunniosa”: così, il cardinale vicario Agostino Vallini definisce la diffusione, in un servizio del Tg di La7 trasmesso ieri, di parte del verbale di denuncia contenente i nomi di sacerdoti accusati dall’ex prete Patrizio Poggi. Il dottor Pignatone, procuratore capo della Repubblica di Roma, nel telegiornale delle 20 della rete La7 di martedì 25 giugno, "ha smentito categoricamente – afferma in una nota il cardinale Vallini – che sacerdoti della diocesi di Roma siano indagati per pedofilia sulla base della denunzia dell’ex-prete Patrizio Poggi, dimesso nel 2007 dallo stato clericale per reati di natura sessuale su minori e che ha scontato la condanna nel carcere di Rebibbia". La diffusione di parte del verbale di denuncia contenente i nomi di sacerdoti da lui accusati, prosegue la nota del Vicariato di Roma, “ha suscitato sconcerto e indignazione in Vicariato”. Il cardinale vicario Agostino Vallini esprime profonda amarezza per la diffusione di simili notizie calunniose che sparano nel mucchio in maniera generalizzata senza distinguere tra chi ha sbagliato, che deve pagare, e chi è calunniato. Egli, prosegue il comunicato, rinnova ai sacerdoti vicinanza, stima e affetto per il loro generoso ministero. Condanna vivamente il fatto che organi di informazione si facciano megafono di notizie delittuose prive di riscontri oggettivi, violando le più elementari norme della deontologia giornalistica e del rispetto della privacy. “A chi giova - si domanda il cardinale - creare un nuovo caso scandalistico e infangare le persone e il ministero di sacerdoti? È questo il modo di fare informazione? È un modo per screditare la Chiesa e i suoi ministri. Ognuno darà conto a Dio del suo operato”. Il cardinale Vallini, che nel suo ministero episcopale si è impegnato da sempre per combattere i casi di eventuale immoralità del clero, informa ancora il Vicariato, all’inizio del suo mandato visitò il Poggi detenuto nel carcere di Rebibbia e non si spiega un comportamento simile. “Come mai – aggiunge il porporato – in quella circostanza e nei colloqui successivi in Vicariato il Poggi non ha sentito il bisogno di denunziare al vescovo i suoi ex confratelli?”. Il cardinale Vallini esprime piena fiducia nella magistratura e si dice pienamente convinto che sarà smantellato il piano calunnioso, dimostrando non veritiere le affermazioni del Poggi, mosso forse da spirito di rivalsa o da risentimento personale. (A.G.)
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ All’udienza generale il Papa parla della Chiesa come tempio dello Spirito.
Istituita una commissione referente sullo Ior.
Nel servizio internazionale, in primo piano la Siria: nessuna decisione sulla conferenza di pace.
Per un trattato che faciliti alle persone ipovedenti l’accesso alle opere pubblicate: intervento della Santa Sede a Marrakech.
I due vessilli: in cultura uno stralcio dagli esercizi spirituali tenuti nel gennaio del 2006 dal cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, ai vescovi spagnoli.
Il nuovo immaginario biblico di Chagall: Alfredo Tradigo su una mostra alla Pinacoteca Ambrosiana.
Spiritualità delle geometrie e mistica del silenzio: Sandra Isetta sulle retrospettive in Belgio dedicate al pittore Giorgio Morandi.
Se la normalità diventa l’eccezione: Emilio Ranzato ricorda lo scrittore Richard Matheson.
Quel maccartismo all’italiana che non c’è mai stato: Eugenio Capozzi su De Gasperi e la difesa della democrazia.
Oltre 100 mila morti in Siria dall'inizio del conflitto. Nuovo allarme Unicef per i bambini
◊ Si aggrava drammaticamente il bilancio della guerra siriana. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani in Siria, sono più di 100 mila le vittime dall'inizio della rivolta, nel marzo 2011. E sul terreno proseguono le battaglie. L’ultima in ordine di tempo si è svolta a Talkalakh, al confine con il Libano. Secondo la Tv di Stato, la cittadina è finita in mano alle truppe lealiste. Inquietante episodio, invece, a Beirut, dove almeno 20 civili siriani sono stati feriti a coltellate da un gruppo di sconosciuti. Nel frattempo, secondo l’Unicef 72 bambini nascono ogni settimana e la maggior parte delle donne attraversa il confine siriano per andare a partorire nel campo profughi di Za’atari, in Giordania. Per le donne, ma soprattutto per i neonati, serve tutto, a partire dai pannolini. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Giacomo Guerrera, presidente di Unicef Italia:
R. – E’ proprio una situazione drammatica, che del resto noi facciamo presente da due anni, dall’inizio, da quando è scoppiata la crisi in Siria, prevedendo questi numeri già circa un anno fa. Adesso, siamo nel momento proprio culminante della crisi, dove c’è bisogno di aiuto, c’è bisogno di tanto aiuto e di essere presenti sul posto con i mezzi necessari con gli aiuti necessari.
D. – Il campo di Za’atari, con le sue 120 mila persone, è diventato il secondo campo profughi più grande al mondo. Cosa manca in generale?
R. – Il campo di Za’atari, per avere un’idea, non è altro che una città italiana di media dimensione di oltre 120 mila abitanti. In questa città non c’è nulla: non ci sono palazzi, non ci sono case, ci sono soltanto tende, rifugi di emergenza, roulotte o container. In questa città manca tutto e tutto deve essere portato in in modo da poter soddisfare le esigenze di tutta la popolazione: dall’acqua ai generi di prima necessità, agli alimenti. Poi, manca naturalmente l’istruzione. L’Unicef, a questo punto, non chiede qualcosa di preciso, chiede un aiuto economico. perché noi come Unicef dobbiamo avere la possibilità di disporre di aiuti.
D. - C’è un altro problema che riguarda anche l’impennata delle temperature estive. Questo determina seri rischi anche per i bambini, perché ricordiamo che le condizioni igieniche sono abbastanza precarie…
R. – Certo, questo determina sicuramente un’aggravarsi della crisi per via delle vaccinazioni che per noi restano comunque uno dei primi interventi che effettuiamo per quanto riguarda il settore sanitario. Ma, in questo momento, l’aumento della temperatura crea maggiore attenzione al problema dei contagi delle epidemie e quindi è necessario intervenire, ma intervenire in maniera programmata attraverso la collaborazione di tutti gli operatori che sono presenti nel settore. Quello che noi facciamo come Unicef è coordinare gli interventi per l’infanzia. Lo facciamo e ci viene riconosciuto questo ruolo. L’Unicef aveva programmato a suo tempo 470 milioni di dollari necessari per un intervento concreto e che potesse modificare la realtà. Abbiamo raccolto soltanto 300 milioni. Ne mancano parecchi all’appello.
D. - Per far capire l’importanza e la grandezza del vostro intervento è bene sottolineare che dall’inizio dell’anno sono quasi nove milioni le persone che voi avete aiutato. Purtroppo, c’è bisogno di interventi ancora maggiori...
R. – C’è bisogno di interventi ancora maggiori. Questi campi profughi realizzati nei Paesi limitrofi alla Siria dove la gente è costretta a scappare – non dobbiamo dimenticare che all’interno della Siria ci sono anche gli sfollati che hanno bisogno di aiuto – sono destinati ad aumentare sempre di più, perché i siriani vedono in questo la possibilità di trovare un rifugio sicuro. E’ necessario quindi intervenire in questi campi con urgenza, ma in maniera appropriata. Quello che si verifica in queste realtà è facilmente comprensibile: poter organizzare tutta la logistica all’interno del campo, che non è certamente una cosa semplice. Con gli operatori che abbiamo, cerchiamo di realizzare anche centri per i bambini, centri a misura di bambino, dove i bambini vengono seguiti per cercare di distoglierli dalla guerra e dal dramma che hanno vissuto.
Obama annuncia la svolta “verde” e impegna 8 miliardi di dollari
◊ “Gli Stati Uniti vogliono essere il Paese leader globale nella lotta al cambio climatico”: è quanto ha affermato il presidente statunitense, Barack Obama, presentando ieri alla Georgetown University di Washington l’ambizioso piano per la riduzione delle emissioni inquinanti. Obama propone una riduzione entro il 2020 del 20% dell'energia elettrica consumata dal governo federale, che sarà compensata da fonti rinnovabili. Obama assicura che sono pronti otto miliardi di dollari in garanzie sui prestiti per i progetti finalizzati a ridurre le emissioni da carbone e da altre materie prime fossili. Fausta Speranza ne ha parlato con Dennis Redmont, già direttore dell’agenzia Associated Press Italia:
R. – È una promessa che Obama aveva fatto durante la campagna elettorale: quella di avere una “agenda verde”, ecologica. Aveva promesso di abbassare la proporzione dell’emissione di gas sotto i livelli del 2005 prima dell’anno 2020. Ha scelto questo momento perché è in pratica un presidente che non ha più bisogno di essere eletto perché già al secondo mandato, perciò deve prima fare fede alle sue promesse elettorali, poi deve avere quella che viene chiamata “legacy” - cioè un’eredità - dove possano dire che Obama ha fatto il massimo. Poi, se questo sarà approvato o no, è ancora tutto da vedere perché in America c’è una grande lobby dell’industria del carbone e quando si parla di questo vuol dire abbassare la produzione di carbone, cosa che per l’America potrebbe rappresentare un punto in meno del prodotto nazionale lordo.
D. – A livello politico, chi potrebbe dare voce a questa lobby contraria ad un’evoluzione in senso ecologista?
R. – In generale, sono certamente i repubblicani, ma anche una “lobby delle energie” che tenta di essere un po’ trasversale e che adesso, per esempio, si lamenta del fatto che gli Stati Uniti non approvano un gasdotto che verrebbe dal Canada - chiamato "Keystone pipeline" - che potrebbe portare dal Canada nuove risorse energetiche. L’America si trova tra la sua indipendenza energetica con vecchi mezzi e il fatto che non vuole dipendere dall’estero. Perciò, vorrebbe ribilanciare le sue provvigioni dal Medio Oriente per essere più autosufficiente. Insieme con questo, c’è tutta un’altra industria che bisogna incentivare, ma anche tutta una serie di misure di efficienza – per esempio abbassare il carbone delle macchine, riscaldare le case più efficientemente – e l’America ha più strade da percorrere paradossalmente che l’Europa.
D. – Potrebbe significare l’adozione del Protocollo di Kyoto dopo l’apertura di Clinton e lo stop di Bush?
R. – Diciamo che il Protocollo di Kyoto tutti lo considerano morto, però gli Stati Uniti sono impegnati con la promessa di abbassare i gas dal 17%, sotto i livelli del 2005 prima del 2020. Obama ha fatto questa promessa alle Nazioni Unite, durante la Conferenza sul clima a Copenaghen, nel 2009, e vuol mostrare che è un uomo di parola.
D. – Però, dell’adozione di Kyoto non se ne parla…
R. – Diciamo che il problema è che tutti hanno dato voce a buoni propositi, ma dall’Italia ai Paesi europei, dagli Stati Uniti e soprattutto i Paesi in via di sviluppo, quando si è trattato di realizzare non c’è stata una corrispondenza con i fatti.
D. – Bisogna dire che dopo l’adesione della Russia in realtà poteva diventare concretamente operativo proprio con l’adesione da parte anche degli Stati Uniti…
R. – Sì ma l’adesione della Russia è stata un po’ come per altri Paesi: la Russia è un Paese ad alta concentrazione di produzione energetica e non ha adottato concretamente gli standard imposti dal trattato di Kyoto, dopo averli forse votati ma non tradotti poi in azioni.
Libia: eletto il nuovo presidente del Congresso, nuovo passo verso una maggiore unità
◊ Libia. Il Congresso generale nazionale ha eletto il nuovo presidente dell’assemblea dei deputati. Si tratta di Nuri Abu Sahmain, della minoranza berbera. Prende il posto di Mohamed Magarief, che si era dimesso in virtù del divieto agli ex membri del regime di Gheddafi di ricoprire incarichi pubblici. Tra i primi a commentare l’elezione, il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. “Il suo impegno e il suo equilibrio – ha detto il capo dello Stato – saranno cruciali per guidare la Libia sulla via della pace e della stabilità. 'In questo compito – ha concluso – troverà al suo fianco un’Italia amica”. Sulla scelta di Abu Sahmain, Giancarlo La Vella ha intervistato Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto di Studi Politici Internazionali:
R. – Questo è sicuramente un passo molto buono e utile, che va in direzione di una maggiore partecipazione politica di tutti i gruppi e minoranze del Paese. D’altra parte, però, ci sono anche diversi aspetti che fanno pensare che la Libia invece non abbia ancora intrapreso la via giusta verso la democrazia, ma che ci siano ancora tanti ostacoli. Ad esempio, le difficoltà che sta attraversando adesso il governo di Zeidan sono molto evidenti, con pressioni da parte dei salafiti e della Fratellanza Musulmana per far cadere il governo e per la sua sostituzione con un esecutivo più vicino a queste forme di islam politico.
D. – Come a dire che la Libia rimane un aggregato d’interessi diversi...
R. – Certamente, interessi diversi, di localismi e regionalismi, che sono molto influenti anche all’interno dello stesso parlamento, che stanno in una certa maniera rendendo molto difficile l’identificazione della Libia come Nazione. Questo è un processo molto faticoso e si sta vedendo in questi mesi quante siano le difficoltà. In questa situazione caotica, in cui ancora il governo non controlla tutto il territorio del Paese e non c’è il monopolio dell’uso della forza, naturalmente abbiamo visto le milizie che non si vogliono ancora disarmare e hanno imposto di fatto una sorta di loro piccola dittatura, ricattando il governo e l’autorità centrale. Tra queste milizie, però, ci sono anche milizie che sono molto vicine allo jihad internazionale.
D. – A quali Paesi interessa oggi che vi sia una Libia stabile e perché?
R. – Dovrebbe essere interesse fondamentale innanzitutto dei Paesi dell’Europa e in particolare dell’Europa del Sud, come l’Italia e la Francia soprattutto. L’Italia ha sempre avuto una sorta di relazione privilegiata con Tripoli e dovrebbe avere sicuramente una capacità di investire nel Paese nord-africano, in termini politici ed economici, maggiore di quella che ha attualmente. Il primo ministro Zeidan dovrebbe essere la settimana prossima a Roma e questo potrebbe essere un primo passo verso un rilancio del ruolo italiano in Libia; rilancio, che è stato anche chiesto negli ultimi incontri tra il presidente americano, Obama, e il premier italiano, Letta. Quindi, in qualche modo, Roma dovrebbe giocare la carta di questo accreditamento fatto dagli Stati Uniti.
◊ Gli italiani – oltre 60% - chiedono dai media maggiori informazioni sulle emergenze e sulle organizzazioni umanitarie, e quasi l’80 per cento desidera meno gossip. Da qui la Lettera aperta di Medici senza Frontiere Italia rivolta a editori e vertici della stampa, in occasione della presentazione stamane a Roma del “9° Rapporto sulle crisi umanitarie dimenticate dai media”, arricchito da due ricerche dell’Osservatorio di Pavia e dell’Eurisko. Il servizio di Roberta Gisotti:
Si potrebbe dire che tra le crisi dimenticate in Italia vi sia proprio quella della stampa. Nel 2012 i telegiornali di prima serata, nelle sette reti generaliste Rai, Mediaset e La sette, hanno infatti dedicato a crisi ed emergenze umanitarie e sanitarie appena il 4 per cento dei loro servizi contro il 10 per cento registrato nel 2006. E laddove si parla di crisi, per due terzi si riportano notizie di guerre e conflitti. In un anno solo 7 servizi sull’Aids, di cui 4 coinvolgevano personaggi di spettacolo, 11 sulla fame nel mondo. Quasi invisibili i conflitti interni della Repubblica democratica del Congo: 3 notizie, cosi anche la malnutrizione in Niger: 4 notizie, e i bisogni della popolazione di Haiti: 2 notizie. Va meglio con le calamità naturali più spettacolari: 26 servizi. Come reagire a questa emergenza informativa? Loris de Filippi presidente di Medici senza frontiere Italia.
R. - Ad oggi c’è stato un calo preoccupante. Siamo al minimo storico rispetto le notizie, quelle internazionali, di un certo peso. Quest’anno nel nostro rapporto ci sono Paesi come il Sud Sudan, come la Repubblica democratica del Congo, il Ciad, la Repubblica centrafricana, situazioni gravissime che pochissimi media hanno avuto il coraggio di mettere in onda forse perché l’audience sarebbe calata in maniera preoccupante o forse no...
D. - Secondo lei è un problema che riguarda i media o davvero, come loro dicono, queste notizie non interessano i cittadini, oppure si vuole far sì che i cittadini non siano informati?
R. - Dalla ricerca Eurisko sappiamo che i cittadini invece vogliono essere informati e segnalano questo disequilibrio pericoloso tra notizie di costume e notizie molto importanti che non vengono date. Facciamo un esempio. La situazione nella Repubblica centrafricana è stata veramente incredibile: un colpo di Stato sanguinoso, tre quattro mesi fa, non ha ricevuto la minima attenzione, mentre nello stesso periodo, o poco prima, si prestava moltissima attenzione a questa fine del mondo predetta dai Maya, che fortunatamente non ha avuto nessun tipo di riscontro ma oggettivamente le due notizie non potevano stare in equilibrio. E’ invece importantissimo sottolineare quello che sta succedendo nei Paesi. Un altro esempio è quello della Siria. Sebbene ci siano state parecchie notizie in questo periodo, queste riguardano quasi esclusivamente i tentativi di accordi di pace e pochissime descrivono la situazione umanitaria gravissima in cui questo Paese giace. Per cui il nostro accorato appello va in questa direzione.
D. - Una lettera aperta che richiama i giornalisti in qualche modo fare il loro mestiere con professionalità…
R. - La cosa importantissima è che i giornalisti l’hanno sottoscritta. Molto spesso sono gli editori, sono i capi delle testate che dovrebbero essere sufficientemente sensibili. La giornata di oggi la dedichiamo a loro.
“Ich bin ein Berliner”: 50 anni fa lo storico discorso di Kennedy a Berlino
◊ Ich bin ein Berliner, “Io sono un berlinese”. Il 26 giugno di 50 anni fa, John F. Kennedy pronunciava il suo storico discorso a Berlino, città divisa in due dopo l’innalzamento di un muro da parte dei sovietici. Le parole del presidente americano, che sarebbe stato ucciso pochi mesi dopo a Dallas, restano tuttora un esempio di oratoria e soprattutto un appello vibrante in favore della libertà. Il servizio di Alessandro Gisotti:
“All free men, wherever they may live…”
“Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire: 'Ich bin ein Berliner'”.
Ci sono discorsi che il tempo non intacca, perché il messaggio che portano è superiore alla forza delle parole. Uno di questi casi è certamente il discorso che John F. Kennedy pronunciò 50 anni fa alla Porta di Brandeburgo di Berlino. In piena Guerra Fredda, con la crisi missilistica di Cuba affrontata pochi mesi prima, Kennedy sottolineò che “la libertà è indivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero”. Sulle ragioni che hanno reso memorabile questo discorso, il commento dell’americanista dell’Università di Genova, Ferdinando Fasce:
“Credo che la forza principale di questo discorso consista nella capacità di Kennedy di superarsi. Ci sono tre grandi iniziative kennediane, nello stesso periodo: il discorso che tenne all’American University, il 10 giugno del '63, in cui parlò per la prima volta di pace e avviò il primo progetto di limitazione agli esperimenti nucleari; il discorso di Berlino, con il richiamo ad un valore universale come la libertà; e poi il fatto che di lì a poco Kennedy avrebbe messo mano per la prima volta al progetto per la riforma sui diritti civili, che sarebbe poi diventata legge con Johnson. Si trattò di un modo di immaginare il possibile, di andare al di là dei limiti posti dalla situazione internazionale dell’epoca e anche dei limiti dello stesso Kennedy”.
Pochi mesi dopo il discorso a Berlino, il 22 novembre del 1963, JFK veniva ucciso a Dallas. Cinquant’anni dopo, il giudizio sulla sua presidenza è ancora dibattuto da parte degli storici. Ma per l’opinione pubblica mondiale, Kennedy resta un’icona, un esempio di leadership coraggiosa. In un qualche modo, il suo mito vince dunque il limite di una vita e di una esperienza politica incompiuta. Ancora il prof. Fasce:
“E’ uno di quei casi, in cui c’è una profonda divaricazione fra l’opinione degli studiosi e degli specialisti e l’opinione degli osservatori in generale, l’opinione pubblica, anche nel corso del tempo. La tragica, la drammatica conclusione della sua vita, ha automaticamente trasferito Kennedy nel mito del possibile”.
◊ Via libera del Consiglio dei Ministri al pacchetto di misure per il rilancio dell’occupazione, stanziato un milione e mezzo di euro. Deciso poi per tre mesi il rinvio dell’Iva al 22%; approvato il decreto sulle carceri. Soddisfazione è stata espressa dalla Cgil mentre all’interno del Pdl si registrano voci discordi sui provvedimenti, considerati “troppo timidi”. Ce ne parla Benedetta Capelli:
Le decisioni prese permetteranno l'assunzione di 200mila giovani in particolare nel centro-sud. A dirlo è il premier Letta al termine del Consiglio dei Ministri di oggi. Al centro della riunione soprattutto l’emergenza lavoro e la disoccupazione giovanile.Con lo stanziamento di un miliardo e mezzo di euro – trovato senza creare ulteriore debito: ha assicurato il ministro dell'Economia Saccomanni – sono previsti incentivi per un massimo di 650 euro mensili per ogni lavoratore assunto a tempo indeterminato. Incentivo sperimentale rivolto ai giovani tra i 18 ed i 29 anni: gli sgravi saranno di 18 mesi per le nuove assunzioni e di 12 per chi trasforma i contratti a tempo indeterminato. Agevolazioni anche per chi assume i lavoratori con più di 50 anni, disoccupati da almeno 12 mesi. Sostegno ai lavoratori disabili con 22 milioni di euro. Prorogata la social card per 425mila persone, nel 2014 i più indigenti – 170mila – usufruiranno della carta per l’inclusione sociale. Confermato anche, per tre mesi, lo stop dell'aumento dell'Iva, che dal prossimo 1 luglio sarebbe dovuta passare al 22% anche se in sede di conversione del decreto, non è escluso un ulteriore rinvio a dicembre. Approvato il decreto sul sovraffollamento carcerario: "non solo posti in più – ha detto il ministro della Giustizia Cancellieri – ma una nuova cultura di espiazione della pena". Il testo apre l'accesso ai lavori socialmente utili anche ai recidivi. Sono quasi 30mila – ha aggiunto - i prigionieri in più nelle carceri italiane.
Sempre meno nascite in Italia: il commento ai dati Istat del sociologo Donati
◊ E’ un’ Italia in cui le nascite sono sempre di meno quella fotografata dall’Istat che ieri ha diffuso il Bilancio demografico nazionale dell'anno 2012. Alla fine dello scorso anno, la popolazione italiana era di 59,6 milioni di persone, di cui 4 milioni e 300 mila di cittadinanza straniera. L’aumento dei nuovi nati stranieri – che in valori assoluti passano da quasi 30 mila nel 2000 a quasi 80 mila nel 2012 – non riesce a compensare il calo dei neonati italiani, 12 mila in meno rispetto al 2011, per un totale di 534.186. Negativo, pertanto, per 78.697 unità, il saldo naturale dato dalla differenza tra nascite e decessi. Infine, le famiglie italiane sono 25 milioni e 873 mila e il numero medio di componenti per famiglia è pari a 2,3. Ma che cosa succede in un Paese che vede costantemente calare le nascite della propria popolazione? Adriana Masotti l’ha chiesto a Pierpaolo Donati, docente di Sociologia della famiglia all’Università di Bologna:
R. – Quello che succede è una depressione demografica che sfiora un po’ il suicidio, nel senso che la popolazione invecchia, aumentano i tassi di mortalità, non è rimpiazzata dai giovani e quindi è una popolazione che nel lungo periodo, pian piano, non dico che si estingua, ma quasi. Certamente, questo è abbastanza diverso nelle varie regioni italiane. L’area che maggiormente riesce a rigenerarsi è quella del Trentino Alto Adige e, relativamente, anche il Veneto. Le altre regioni sono tutte molto sotto. Per quanto riguarda il tasso di rimpiazzo della popolazione, ci sono regioni in deciso declino che sono la Liguria, il Molise, la Sardegna… Ma certamente, l’Italia nel complesso va verso questa sorta di mancanza di nuove generazioni che produce indubbiamente un impoverimento generale del tessuto sociale e anche dell’economia.
D. – Quali le cause della denatalità? Forse la crisi economica, o c’è dell’altro?
R. – Io direi che quelle strutturali, cioè di fondo, di lungo periodo, sono demografiche e politiche. Quelle demografiche perché da 40 anni c’è depressione della natalità e quindi le donne in età feconda diminuiscono e quindi diminuisce anche il tasso di natalità. La seconda ragione strutturale è la politica, cioè il fatto che manchi completamente una politica di sostegno alle famiglie. Anzi, le famiglie con i figli sono penalizzate sotto molti aspetti, perché pagano di più in termini di tassazione, in termini di mancanza di risorse adeguate… Poi, ci sono le ragioni congiunturali che sono quelle certamente della crisi economica che crea anche una depressione psicologica, cioè il fatto che le coppie non si sentano di avere figli perché avere figli vuol dire non solo rischio di povertà economica, ma significa anche mettere al mondo una generazione che non si sa se avrà un lavoro, una casa, una pensione… Naturalmente, ci sono tante specificazioni di queste cause che fanno sì che se non si fa una politica per la famiglia molto attiva e molto specifica, l’Italia continuerà questo declino.
D. – Negli ultimi anni, a compensare il calo delle nascite in Italia erano le famiglie immigrate. Adesso, non bastano più neanche i neonati stranieri…
R. – Negli anni passati, sì, c’è stato un tasso di fecondità delle donne immigrate più alto delle italiane che ha sostenuto un po’ il tasso di natalità. Però, anche quello direi che è stato un fenomeno congiunturale che si può ripetere ma sul quale non si può contare in maniera strutturale nel lungo periodo. Cioè, non si può dire: ci saranno i figli degli immigrati che rimpiazzeranno la popolazione italiana. Il primo motivo è che solamente una parte degli immigrati ha un progetto migratorio di stanzialità in Italia, cioè solo un 40-50% degli immigrati pensa di rimanere in Italia. Quindi, sulle immigrazioni non c’è tantissimo da sperare, anche perché le seconde generazioni di immigrati cominciano ad avere un tasso di natalità più o meno pari a quello degli italiani. Dunque, l’immigrazione non è il toccasana. Quello che io voglio sostenere è che se non c’è una politica familiare, demografica specifica e attiva per la popolazione autoctona, il declino continuerà. Io ho fatto un "Piano nazionale per la famiglia", quando ero direttore dell’Osservatorio nazionale famiglia: questo piano, molto ricco, molto articolato negli interventi, è stato approvato dal Governo Monti nel luglio del 2012, però è rimasto lettera morta, mentre invece contiene una serie di misure, non tutte costose, molte anche che riguardano solo norme, dei fatti promozionali – sia in politiche attive per la sensibilizzazione degli orari, per i congedi dei genitori, per i servizi alla prima infanzia, per la conciliazione famiglia-lavoro e così via – che sono tutte misure assolutamente necessarie se vogliamo invertire la rotta. E mi augurerei che i governi – sia quello attuale, sia i prossimi – prendano seriamente in considerazione questo Piano nazionale per la famiglia.
D. – C’è una correlazione tra le nascite e il sentimento religioso di un popolo? Succede così, nelle società?
R. – Dipende un po’ da Paese a Paese. Per esempio, non so, la Svezia, che è molto secolarizzata, ha un tasso di natalità superiore all'Italia semplicemente perché le misure per la maternità e l’infanzia sono di molto superiori a quelle italiane: a Stoccolma nascono più bambini che a Napoli, insomma. Il fatto religioso incide molto poco. C’è una piccola correlazione positiva, nel senso che quanto più si è religiosi, tanti più figli si hanno, però è molto bassa.
Il cardinale Bertone alle coop: la vostra esperienza importante per l'uscita dalla crisi
◊ Il Papa ribadisce che l’esperienza delle cooperative riveste una grande attualità per l’uscita dalla profonda crisi occidentale. Lo scrive il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, in una lettera all’assemblea delle cooperative che si è svolta oggi a Roma. Nel suo video intervento il premier Letta ha detto che il governo lavora per dare speranza a giovani e famiglie. Il servizio di Alessandro Guarasci:
La Chiesa è vicina al mondo delle cooperative e ricorda come la crisi attuale sia soprattutto una crisi di valori. Per il cardinale Bertone “occorre avere una concezione del profitto non limitata solo all'aspetto individualista-egoistico del guadagno di denaro”. E le cooperative hanno le caratteristiche per una buona economia: 43 mila aziende che rappresentano l’8% del Pil, un milione e 200 mila occupati, +8% di lavoratori negli ultimi cinque anni. Il premier Enrico Letta, in un intervento registrato chiede più attenzione ai giovani:
“Il problema della fiducia oggi nasce soprattutto perché in Italia è cresciuta, all’improvviso, in cinque anni, la disoccupazione giovanile. Ecco perché oggi ripartiamo dai giovani con un piano nazionale per tutto il Paese”.
E appunto il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, aggiunge che col pacchetto approvato dal governo centomila giovani troveranno lavoro. Le coop giudicano positivo il rinvio dell’aumento dell'IIva, ma bisogna fare di più. Il presidente dell'Alleanza Giuliano Poletti:
“Noi chiediamo anche che si intervenga sull’Iva, sui servizi sociali e assistenziali, che dovrebbe passare dal 4 al 10 per cento, e che punirebbe pesantemente i cittadini, che avrebbero meno servizi”.
La recessione è arrivata anche per queste imprese. Nei primi mesi del 2013 hanno smesso di assumere.
Convegno sulle violenze di genere: cultura del rispetto si impara dalla scuola
◊ Un confronto tra istituzioni, associazioni e strutture ospedaliere contro la diffusa piaga della violenza di genere, fenomeno che vede le donne spesso vittime silenziose. Durante una tavola rotonda organizzata nei giorni scorsi presso il Policlinico Umberto 1 di Roma, Federica Baioni ha raccolto le testimonianze di Flaminia Ferri specializzanda in gastroenterologia e del Prof. Vincenzo Mastronardi medico psichiatra:
Violenza, aggressione e tentativi di stupro, le donne le più colpite. Esperienze che lasciano il segno e che vengono definite da una trentenne un vero e proprio handicap. Sentiamo Flaminia Ferri e la sua storia:
“Un anno fa, nei sotterranei del Policlinico, ho subito un’aggressione da parte di un ragazzo che girava da tempo all’interno del dipartimento: un tentativo di stupro. Fortunatamente, sono riuscita a difendermi. E’ rimasto un segno importante nella mia vita. Io lo definirei un handicap: sono una donna di 30 anni che non riesce a svolgere le sue attività in maniera indipendente, sono costretta spesso a dipendere da famigliari o amici. Vorrei dire innanzitutto che denunciare è un aspetto fondamentale della lotta contro la violenza, perché se non c’è la denuncia, non si può dare neanche una risposta a questo problema”.
Spesso, la violenza inizia sui banchi di scuola e bisogna intervenire con programmi di educazione sin dall’età minorile, colpevole di violenza spesso il marito o compagno, su cui bisogna intervenire con interventi e cure psicologiche. Il prof. Vincenzo Mastronardi:
“Abbiamo la possibilità non solo di tutelare la famiglia, di tutelare la donna, ma anche di tutelare eventuali recidive. Quindi, di fare in modo che non venga soltanto penalizzato l’uomo, ma che venga curato. E’ importante che la scuola si sensibilizzi a divulgare, già nei primi anni di scuola elementare, la cultura del rispetto della donna”.
Giornata contro la tortura: si pratica in oltre 110 Paesi
◊ In oltre 100 Paesi si pratica la tortura. E’ quanto si denuncia oggi per l'odierna Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, indetta in occasione dell’anniversario della ratifica della Convenzione Onu entrata in vigore il 26 giugno 1987. Servizio di Francesca Sabatinelli:
Mettiamo la parola fine alla tortura nel mondo, sosteniamo e assistiamo tutti coloro che l’hanno subita e sollecitiamo affinché i paesi provvedano a riparare quanto sopportato dalle vittime. E’ la sintesi del messaggio che il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha inviato in occasione dell’odierna Giornata a sostegno delle vittime di tortura, aberrante pratica distribuita ad oggi in 112 Paesi del mondo, ben 11 in più dello scorso anno, come indicato da Amnesty International. Le vittime, chiunque esse siano, bambini donne o uomini, restano marchiate da ferite e traumi indelebili, annichilite dalla perdita della loro identità sociale, politica e culturale.
La tortura si pratica in molti Paesi preda di conflitti, ma si insinua anche nelle pieghe più nascoste delle nazioni più democratiche. Si pensi all’Italia che non ha ancora introdotto la tortura come reato specifico del suo codice penale, una grave mancanza giuridica che continua da tempo ad essere denunciata dalle associazioni che si battono per la difesa dei diritti umani. Tra queste vi è il Cir, Consiglio Italiano per i Rifugiati, che dal 1996 gestisce progetti mirati alla riabilitazione dei sopravvissuti alla tortura. Un rifugiato su tre di coloro che arrivano in Italia ha subito esperienza di tortura. E fino ad oggi il Cir ha assistito circa tremila persone. Fiorella Rathaus, responsabile dei progetti Cir diretti alle vittime di tortura:
R. – La tortura non avviene soltanto in Paesi lontani, non colpisce soltanto persone che poi arrivano qui, in fuga, ma è un fenomeno molto vicino a tutti noi, che ci riguarda profondamente e contro il quale dobbiamo lottare. Purtroppo, ci troviamo davanti a cifre che sono addirittura superiori rispetto al passato, cifre di Paesi che a tutt’oggi praticano la tortura. E questo è davvero una considerazione drammatica.
D. – Anche in considerazione dei numerosi conflitti che si stanno drammatizzando sempre di più? Penso alla Siria…
R. – Non direi che necessariamente sia collegata. Sicuramente, poi, in queste situazioni, si esaspera. Credo che per cogliere il senso profondo della tortura bisogna pensare a qualcosa di più banale, nel senso che può intromettersi nella quotidianità e nella vita delle carceri, nella vita del potere, in modo anche meno eclatante, ed è per questo che non dobbiamo guardare solo alla guerra per crearci gli anticorpi. Per crearci anticorpi che funzionino per davvero, bisogna guardarla nella sua mostruosità e nella sua banalità e nel suo essere, in qualche modo, a portata di mano di tantissime situazioni di potere. Ed è così che ne cogliamo la pericolosità e il senso profondo. In sé, la tortura è espressione di un male endemico della società, e solo questo ci aiuta poi a capirla, a coglierla, e a prevenirla davvero.
D. – Partendo da questo, è opportuno puntualizzare ciò che non solo il Cir, ma tantissime associazioni ormai da anni denunciano: il fatto che in Italia non esista il reato di tortura.
R. – Questo, evidentemente, è un’inadempienza gravissima dello Stato italiano: l’assenza di un reato di tortura, di una fattispecie specifica giuridica, compromette la possibilità di colpire davvero quello che succede in queste circostanze.
D. – Il Cir da sempre si occupa in vari modi della riabilitazione delle persone che arrivano in Italia e che hanno subito la tortura e che spessissimo hanno ricadute estremamente gravi a livello psicologico, sviluppano delle patologie … Voi con cosa vi confrontate? Quanto successo, se così si può definire, ha avuto questo tipo di approccio adottata dal Cir?
R. – La tortura non mira a far parlar le persone, la tortura mira soprattutto a distruggere l’identità profonda della persona: l’identità morale, l’identità culturale, l’identità sociale. Le persone che sopravvivono alla tortura devono essere guardate come persone piene di risorse, anche se qualcuno ha tentato di devitalizzare queste risorse. E noi, in quella prospettiva dobbiamo lavorare – e lo facciamo – ad esempio con un intervento legale che serve a far sì che queste persone siano credute, nelle loro storie difficili da credere, perché sono storie inconcepibili e indicibili. Però, ecco, se li aiutiamo ad essere creduti, se li aiutiamo a ricostruire un tessuto sociale – e questo è un altro aspetto importante – se li aiutiamo a ricostruire e a ricomporre i frammenti della loro psiche devastata da queste esperienze, se riusciamo a restituire una continuità alle loro esistenze, lì possiamo senz’altro fare un lavoro significativo. L’idea della tortura è distruggere, porre fine alla capacità di queste persone di un pensiero indipendente, di un pensiero vitale, di un pensiero che possa essere critico e portatore, anche – in alcuni casi – di verità.
D. – Chi sono le vittime di tortura che ad oggi arrivano in Italia, da dove provengono e cosa presentano, soprattutto?
R. – Lavoriamo moltissimo, come Cir, con persone provenienti dall’Afghanistan, dall’Eritrea, dalla Repubblica Democratica del Congo, e poi Costa d’Avorio, alcune persone dalla Nigeria, quest’anno abbiamo avuto anche alcune persone dal Senegal. Le persone arrivano spesso davvero in condizioni drammatiche, e per noi è veramente molto difficile pensare che queste cose siano successe il mese prima. Per esempio, per ragioni familiari io ho incontrato molti reduci dai campi di sterminio. Però, queste storie emergono normalmente molto tempo dopo. C’è questa distanza tra il momento in cui le storie vengono raccontate e il momento in cui sono avvenute. Spesso, con i rifugiati, non c’è distanza: la persona che hai davanti è una persona che davvero ha ancora sulla carne, reale o metaforica, stampata una vicenda recente, in cui davvero hanno visto il carnefice faccia a faccia due settimane prima, tre settimane prima. E questo è ancora più forte. E anche il modo in cui queste cose vengono raccontate, laddove la persona riesce a farlo – il che non è per niente ovvio – arriva veramente come un pugno nello stomaco.
Rapporto Onu: droghe psicoattive in aumento, un'emergenza globale
◊ E' boom delle droghe psicoattive che in tre anni sono aumentate del 50% e in molti casi sono considerate legali, mentre stabile è il consumo di droghe tradizionali salvo in Europa dove cala l’uso di cocaina. Drammatica la situazione in Africa. Questi i dati principali del rapporto 2013 dell'Unodc l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, presentato oggi a Vienna nella giornata internazionale contro l’abuso e il traffico di stupefacenti. Il servizio di Gabriella Ceraso:
Si chiamano Nps ovvero nuove sostanze psicoattive, ma su internet, che le vende, hanno nomi accattivanti, per sembrare un 'passatempo divertente', non rischioso e soprattutto legale. 251 i tipi classificati nel 2012, erano 166 tre anni prima: per le Nazioni Unite è un’emergenza globale. Angela Me, responsabile del rapporto Onu, a Vienna.
“In realtà sono estremamente pericolose. Molte sono sintetiche, altre vengono invece da piante naturali. Producono effetti stimolanti ed effetti allucinogeni in alcuni casi, dipende in che dose vengono utilizzate. Si sono verificati ad esempio suicidi. Lo vediamo emergere in tutti i Paesi del mondo e in tutte le regioni, ovviamente a diversi gradi. Negli Stati Uniti, ad esempio, questo è veramente un fenomeno che sta colpendo molti giovani. Giusto per darle un’idea, siamo sull’11 per cento di giovani che hanno utilizzato in un anno il cannabis sintetico. In Europa, questo fenomeno è meno acuto, però è sempre molto preoccupante: si parla, infatti, di un uso del 4, 5 per cento tra i giovani. Dal punto di vista delle Nazioni Unite, stiamo cercando, innanzitutto, di allertare i Paesi sulla pericolosità di queste sostanze, ma anche di promuovere un sistema di monitoraggio globale”.
Secondo l'Onu,sono circa 240 milioni le persone che, almeno una volta, hanno consumato droga nell’ultimo anno: in lieve aumento, e non solo per la crescita demografica. La cannabis è la droga più diffusa – coinvolge 180 milioni di persone -, seguita da oppioidi e poi dal boom delle droghe sintetiche, prodotte ovunque al contrario di cocaina, eroina e oppio, che sono in mano ancora alle tradizionali regioni andine, all’Afghanistan, alla Birmania e al Messico. A preoccupare l’Onu in questo Rapporto è l’impennata asiatica del consumo di cocaina:
“In Asia non avevamo mai visto cocaina fino a due o tre anni fa. E’ preoccupante, perché – come sappiamo – l’Asia è il continente più popoloso del mondo, in cui anche un piccolo aumento nella percentuale di persone che usano cocaina può portare veramente ad un aumento forte in termini di numeri”.
Dati allarmanti riguardano anche l’Africa, nuova via dei trafficanti, non solo nella più nota regione dell’Ovest. Ancora Angela Me:
“Questo è un traffico, vogliamo dire consolidato, di cocaina che attraversa l’oceano dalla regione andina all’Africa dell’Ovest per raggiungere l’Europa. Adesso, però, vediamo che si sta aprendo un canale molto ampio invece dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iran e da lì, via mare, raggiunge l’Africa dell’Est. Per queste ragioni l'Africa sta emergendo come Paese, dove sta aumentando l’uso di queste droghe. Come Nazioni Unite, stiamo cercando di promuovere, di invitare gli Stati ad investire molto nell’aspetto della prevenzione e del trattamento, in modo che gli utenti di droga non vengano considerati criminali, ma pazienti”.
Dati positivi nel Rapporto mostrano una diminuzione delle persone affette da Hiv, che consumano droga – sono la metà rispetto al 2008 – e il calo anche del numero di tossicodipendenti per endovena: frutto, dice l’Onu, di attente campagne di prevenzione.
Festa degli Oratori estivi romani: 5.000 bambini e le loro famiglie presenti alla 2.a edizione
◊ 5.000 bambini riuniti, oggi insieme alle loro famiglie per la seconda edizione della Festa degli Oratori Estivi Romani al Parco Rainbow Magicland di Valmontone in provincia di Roma. L’organizzazione dell’evento, ideato dall’Ufficio di Pastorale Giovanile della Diocesi di Roma, è stata affidata al Centro Oratori Romani. Al microfono di Elisa Sartarelli, il direttore della Pastorale Giovanile di Roma don Maurizio Mirilli:
R. – Ormai gli oratori estivi a Roma sono una realtà importante, perché quasi 150 parrocchie offrono questo servizio alle famiglie di Roma e i numeri stanno crescendo. Era bello, allora, mettere insieme tutti questi bambini. Quest’anno saranno quasi 5000 a partecipare e riempire gli oratori, per stare insieme e fare festa insieme.
D. – Gli oratori accolgono migliaia di ragazzi nel periodo scolastico. Durante la pausa estiva, considerando anche la crisi economica, presentano proposte interessanti, senza gravare troppo sul bilancio familiare...
R. – Esattamente. Noi diamo la possibilità, in questo periodo di crisi, di accogliere i bambini delle famiglie che non hanno grandi possibilità economiche, per una o due settimane o anche per uno o due mesi, a seconda delle capacità di accoglienza delle parrocchie, a bassi costi. Però soprattutto offrendo un percorso educativo a questi bambini, che non vengono semplicemente parcheggiati per farli giocare e basta, ma ai quali si offre anche la possibilità di fare un percorso a tappe, settimana dopo settimana, di ispirazione cristiana, ovviamente, puntando sui valori importanti della vita. E’ un’educazione, diciamo, a tutto tondo delle nuove generazioni.
D. – Dopo la prima edizione a Villa Pamphili, come mai quest’anno la scelta di tenere la festa degli oratori estivi al parco dei divertimenti Rainbow Magicland?
R. – Beh, perché c’è stato l’accordo per far partecipare, in questo parco divertimenti, a prezzo ridotto, i bambini con le famiglie. E’ uno spazio molto grande, dove poter accogliere migliaia di bambini, ed è anche bello sottolineare che c’è tanta gioia. E’ bello aiutare gli animatori, gli adolescenti e i giovani insieme ai loro i bambini, a vivere un’esperienza gioiosa.
India. La Caritas: grave la situazione in Uttarkhand. Si rischia un’epidemia di colera
◊ "Ci sono danni di grave entità ovunque. La maggior parte delle case è stata spazzata via, i terreni continuano a franare e non è ancora possibile piantare tende per dare ospitalità ai sopravvissuti. Ci vorrà almeno un'altra settimana e mezza prima che la situazione inizi a migliorare". Babita Alick, responsabile progetti per il Disaster Management della Caritas India, presenta all'agenzia AsiaNews la situazione in Uttarkhand, Stato settentrionale dell'India, colpito da oltre una settimana da copiose alluvioni. Accanto agli operatori di governo ed esercito, la Chiesa indiana e la Caritas sono in prima linea nelle operazioni di soccorso e assistenza delle vittime: almeno 1.000 sono le morti certe, ma i dispersi sarebbero decine di migliaia. "Come Caritas - spiega Babita - abbiamo appena concluso il primo ciclo di interventi e sta per partire il secondo. Al momento si tratta di operazioni di soccorso, è ancora troppo presto per avviare programmi di riabilitazione delle vittime. Ci vorrà del tempo prima che la gente possa tornare alla normalità". Intanto si teme possa esplodere un'epidemia di colera: da qualche giorno sono in aumento i casi di dissenteria, febbre e vomito, a causa delle condizioni terribili in cui vive la gente. La pioggia battente rende difficile le operazioni di soccorso e molti sopravvissuti sono intrappolati nel fango, spesso feriti, con poco cibo, acqua sporca e vicino a cadaveri. Per questo la Caritas si avvale dell'aiuto della Catholic Health Association of India. Contattato da AsiaNews padre Sebastian Ousepparampil, uno dei direttori dell'organizzazione, spiega: "Stiamo formando un'unità di soccorso con medici, infermieri e assistenti sociali, in aiuto ai volontari già sul posto. Attueremo misure preventive per cercare di contenere l'emergenza salute. Tra stasera e domattina sapremo come equipaggiarci per raggiungere le zone colpite: le continue piogge torrenziali causano ancora frane e smottamenti, rendendo molto difficile la mobilità". (R.P.)
Cina: nello Xinjiang vittime in scontri tra polizia e rivoltosi
◊ Duri scontri hanno provocato almeno 27 morti a Lukqun, un sobborgo di Turfan, città della provincia nord-occidentale cinese dello Xinjiang. Secondo i media ufficiali cinesi, stamattina le Forze dell’ordine sarebbero intervenute sparando contro una folla armata di coltelli che aveva attaccato un posto di polizia e un edificio governativo, ferendo alcune persone e incendiando automezzi pubblici. Le vittime sarebbero dieci assalitori, otto civili e nove membri delle forze di sicurezza. Altre tre persone sarebbero ricoverate in ospedale. Le fonti cinesi non indicano le ragioni degli scontri o l’etnia dei “rivoltosi”, limitandosi anche questa volta – come pure nell’ultimo grave episodio di violenza dello scorso aprile, quando in scontri tra polizia e manifestanti morirono 21 persone – a parlare di “terroristi”. Per i fatti di aprile, nove persone sono state condannate a pene detentive per “estremismo religioso”. Una terminologia che identifica abitualmente l’appartenenza all’etnia uighura di fede islamica, maggioritaria sebbene di poco nella provincia – che confina con Paesi musulmani – con nove milioni di abitanti. Da decenni un movimento indipendentista, che ha la sua massima espressione politica nel Congresso mondiale uighuro, è in lotta per ottenere la separazione di questa vasta regione turcofona e di tradizione musulmana dalla Repubblica popolare cinese. Il Congresso è guidato dalla signora Rebiya Kadir, in esilio negli Usa, la più attiva espressione militante nel Movimento per la liberazione del Turkestan orientale, che lamenta persecuzioni e abusi, oltre che la perdita di identità incoraggiata dalle autorità tramite la massiccia immigrazione di cinesi di etnia Han nella provincia dello Xinjiang. La maggiore rivolta dall’annessione cinese nel 1949 dell’autoproclamato Turkestan orientale si è registrata nel luglio 2009: quasi 200 persone, in maggioranza Han, rimasero uccise in scontri interetnici che durarono settimane, con l'intervento della polizia. (R.P.)
Russia: raccolta fondi del Patriarca ortodosso Kirill per i cristiani in Siria
◊ Una raccolta straordinaria di denaro in tutte le chiese del patriarcato di Mosca, da destinare al popolo siriano martoriato dalla guerra civile. L'iniziativa è stata lanciata ieri dallo stesso patriarca Kirill con una dichiarazione diffusa dal dipartimento sinodale per l'informazione del patriarcato di Mosca. “In quella terra biblica, dove cristiani e musulmani hanno vissuto fianco a fianco” ha sottolineato il Capo della Chiesa ortodossa russa “adesso le reliquie vengono dissacrate, le chiese violate, i cristiani sono costretti a abbandonare le loro case, vengono perseguitati e spesso torturati e uccisi”. Nel suo intervento, Kirill ha tracciato un parallelo tra la tragedia attuale del popolo siriano e le prove attraversate dai russi e dal patriarcato di Mosca nel secolo scorso: “Il nostro popolo” ha ricordato il patriarca “ha vissuto qualcosa di simile. Migliaia dei nostri concittadini furono uccisi durante la Rivoluzione, la guerra civile e le persecuzioni contro la Chiesa. Non si può rimanere indifferenti davanti al sangue innocente che ora scorre di nuovo. Noi non possiamo porre fine a questa guerra, ma possiamo pregare affinché essa si fermi al più presto e possiamo aiutare quelli che si trovano in difficoltà, compresi i nostri fratelli cristiani”. I fondi raccolti nelle chiese russe domenica prossima saranno inviati dagli organismi caritativi della Chiesa ortodossa russa direttamente al patriarcato greco-ortodosso di Antiochia, che ha sede a Damasco. “Adesso il sangue umano che sta scorrendo nelle strade di quella città” ha sottolineato il patriarca Kirill “ci ricorda l'Apostolo Paolo e le opere e le sofferenze dei Santi dei tempi antichi”. (R.P.)
Egitto: i rapporti ecumenici copto-ortodossi e anglicani nell'incontro Tawadros-Welby
◊ L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate della Comunione anglicana, ha incontrato al Cairo il patriarca copto-ortodosso Tawadros II. La visita si è svolta nella residenza del patriarca. Ad accogliere Welby c’erano anche il metropolita Bishoy, co-presidente della Commissione internazionale anglicano-ortodossa, i vescovi copti Thomas e Youannes e Sua Grazia Angaelos, vescovo della Chiesa copto-ortodossa del Regno Unito e membro della stessa Commissione. L’arcivescovo di Canterbury era invece accompagnato dai reverendi Mounir Hanna, primate della Chiesa episcopaliana d’Egitto e del Corno d’Africa, Michael Lewis, vescovo anglicano di Cipro e dei Paesi del Golfo e Grant LeMarquand, vescovo anglicano della regione del Corno d’Africa, e da diversi membri degli uffici per il dialogo ecumenico e interreligioso della Comunione anglicana. Al centro dei colloqui, svoltisi in un clima molto cordiale, la ripresa nei prossimi mesi dei lavori della Commissione anglicano-ortodossa e le relazioni della Chiesa copto-ortodossa e di tutta la famiglia ortodossa con la Chiesa d’Inghilterra e la Comunione Anglicana. L’incontro è stato anche un’occasione per esprimere la solidarietà della Chiesa anglicana con tutti i cristiani in Medio Oriente e per discutere come fare crescere le due Chiese “nella preghiera, nell’amore reciproco e nell’insegnamento delle Scritture alla società contemporanea”. “E’ importante - ha osservato al termine del colloquio il reverendo Welby – trovare un modo per trasformare i nostri reciproci sentimenti di affetto in una testimonianza condivisa efficace”. Dello stesso tenore il giudizio del vescovo Angaelos, che ha sottolineato la felice coincidenza tra la recente elezione dei due nuovi capi della Comunione anglicana e della Chiesa copto-ortodossa con la ripresa dei lavori della Commissione internazionale anglicano-copta ortodossa dopo dieci anni di sospensione. Il vescovo copto-ortodosso si è detto convinto che essi saranno la premessa per “una migliore comprensione reciproca che sarà una testimonianza di solidarietà non solo per le due Chiese, ma anche per tutte le altre Chiese cristiane nel mondo”. Quello di lunedì – lo ricordiamo – segue lo storico incontro in Vaticano di Papa Francesco con Tawadros II avvenuto il 10 maggio e con il rev. Welby svoltosi il 14 giugno. Papa Tawadros II è stato eletto alla guida della Chiesa copto-ortodossa, una comunità che conta tra i 10 e i 15 milioni di fedeli, il 4 novembre 2012 succedendo a Papa Shenouda III scomparso poco più di un anno fa. Un’elezione avvenuta nel nuovo scenario politico egiziano del post-Mubarak, che vede i Fratelli Musulmani al governo. (A cura di Lisa Zengarini)
Pakistan: paura dei cristiani in Punjab per la violenza religiosa
◊ Tensione interreligiose a Rahim Yar Khan, cittadina del Punjab. Un episodio di conflitto fra cristiani e musulmani ha generato proteste di massa dei cristiani e potrebbe degenerare in aperta violenza religiosa anticristiana, anche perchè alcuni vorrebbero tramutarlo in un caso di blasfemia. Come racconta all’Agenzia Fides Gulshan Barkat, sacerdote e missionario pakistano degli Oblati di Maria Immacolata, “la situazione resta tesa e incerta” nel quartiere di Bheel Nagar, chiamata dai cristiani “Nazareth Colony”, a Rahim Yar Khan, dove vivono 250 famiglie cristiane, 70 famiglie indù, 200 famiglie musulmane. Il 21 giugno scorso un ragazzo cattolico di nome Sam, 8 anni, è stato accusato da un uomo musulmano di aver insultato sua figlia. Il musulmano ha parenti nel gruppo estremista “Sipah-e-Sahaba” (bandito dal governo per terrorismo) che si sono recati a casa di Patras Sadeeq, padre di Sam, protestando. L’accesa conversazione è degenerata in una colluttazione. I musulmani hanno chiamato la polizia che ha arrestato il fratello di Sam, Ashley, di 12 anni. In seguito a tale atto immotivato, la comunità cristiana della zona ha bloccato la principale strada della città. Con l’interessamento dell’avvocato cattolico Qamar Iqbal, Ashley è stato rilasciato. A quel punto i cristiani hanno deciso di denunciare i musulmani per le aggressioni subite, prima che “questi trasformassero l’incidente in un falso caso di blasfemia”. Intanto, gli estremisti del gruppo “Sipa-e-Sahaba”, circa 100 uomini armati, sono scesi in piazza, per fare pressioni sulla polizia. Due fedeli, Maqsood Barkat e Illyas Masih, mentre si stavano recando dalla polizia, sono stati circondati da 40 uomini armati, percossi e gravemente feriti. Dopo il pestaggio, i cristiani sono scesi un’altra volta in strada, bloccando il traffico e liberando la circolazione solo dopo aver ricevuto garanzie di protezione dalla polizia. Anche padre Francis Akuve, parroco cattolico della Chiesa di Santa Croce a Rahim Yar Khan, ha incontrato il capo della polizia locale, presentandogli una lettera e chiedendo l’impegno formale delle forze dell’ordine, per garantire la sicurezza ai cristiani di Bheel Nagar. Il giorno successivo si è tenuto un incontro fra rappresentanti cristiani e musulmani della comunità per cercare di pacificare la situazione. Secondo fonti locali di Fides, si temono reazioni violente o azioni dimostrative da parte degli estremisti del gruppo “Sipah-e-Sahaba” contro i cristiani. (R.P.)
Mali: la missione Onu sarà dispiegata dal primo luglio
◊ Sarà dispiegata a partire dal prossimo 1 luglio la nuova missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Mali: lo ha stabilito il Consiglio di sicurezza secondo cui la Minusma prenderà il testimone dalla missione africana (Misma) attualmente sul terreno. La nuova missione dovrà assicurare anche il corretto svolgimento delle elezioni presidenziali, previste il 28 luglio su tutto il territorio nazionale. Dopo l’incontro a porte chiuse - riferisce l'agenzia Misna - l’ambasciatore britannico all’Onu, Mark Lyall Grant, ha detto ai giornalisti che il Consiglio ha deciso all’unanimità che il dispiegamento dovrebbe procedere secondo il programma nonostante le gravi condizioni logistiche e il caldo estremo in Mali. A metà aprile il Consiglio aveva autorizzato la nuova Forza di stabilizzazione e mantenimento della pace, di cui faranno parte 11.200 soldati e 1.440 agenti della polizia internazionale. La forza Onu, ha detto Lyall Grant, comprenderà inizialmente gran parte dei soldati africani che sono già nel Paese, i quali avranno quattro mesi di tempo per adattarsi agli standard delle Nazioni Unite per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e gli equipaggiamenti. (R.P.)
Kenya: 15 morti e una ventina di feriti in un assalto di un gruppo armato proveniente dall’Etiopia
◊ Almeno 15 morti (tra cui 6 donne e 5 bambini) ed una ventina di feriti. È questo il bilancio di un assalto commesso il 23 giugno da una banda armata a Choroko, nella Contea di Mandera, al confine tra Kenya, Etiopia e Somalia. Secondo quanto riferisce l’agenzia cattolica Cisa di Nairobi ripresa dalla Fides, un gruppo di uomini armati ha assalito con bombe a mano un campo di persone sfollate a causa degli scontri nell’area tra le comunità Garre e Degodia. Diverse tende sono state bruciate. Fonti di sicurezza locali affermano che responsabile dell’assalto è una banda di una cinquantina di elementi provenienti dalla confinante Etiopia che si sospetta riceva supporto da alcuni politici locali. Il 21 giugno nuovi scontri tra le due comunità avevano causato 9 morti ed un centinaio di sfollati. Per risolvere il contenzioso tra Garre e Degodia la Commissione per coesione nazionale e l’integrazione ha organizzato una serie di incontri a Nairobi tra i leader delle due comunità. Ad accrescere l’insicurezza a Mandera si aggiungono le frequenti incursioni contro le Forze di sicurezza da parte degli Shabaab somali, in rappresaglia per la presenza di truppe keniane in Somalia. (R.P.)
Nel 2021 l'Asia-Pacifico spenderà per le armi più di Stati Uniti e Canada
◊ Entro il 2012 i bilanci relativi alle spese militari di difesa nella regione Asia-Pacifico saranno superiori a quelli di Stati Uniti e Canada messi insieme. È quanto emerge da un recente studio pubblicato da esperti e analisti di Ihs Jane's, secondo cui gli acquisti di armi in Cina e nelle altre nazioni del continente cresceranno del 35% e toccheranno un volume di affari superiore ai 500 miliardi di dollari. Lo scorso anno - riferisce l'agenzia AsiaNews - Washington ha mantenuto la vetta fra i Paesi esportatori di armi, con un volume totale di 28,5 miliardi di dollari ben superiore ai 20,1 miliardi registrati nel 2008. Di contro, fra gli importatori è la "pacifista" India a conquistare il primato nel 2012, con una crescita del 70% rispetto a cinque anni fa (da 3,1 miliardi nel 2008 a 5,3 miliardi del 2012). A dispetto della crisi economia mondiale che ha segnato le finanze e i commerci internazionali degli ultimi cinque anni, l'industria bellica non conosce perdite e i bilanci registrano sempre un saldo attivo. In particolare, nel quinquennio 2008-2012 la spesa è aumentata del 30% passando a un totale di 73,5 miliardi grazie alle esportazioni cinesi in continua crescita e alla domanda proveniente da New Delhi. Per gli esperti nel 2021 il budget di spesa militare delle nazioni dell'area Asia-Pacifico sarà del 31% sul totale, un dato di poco superiore a Stati Uniti e Canada che si fermeranno al 30%. Cina, India e Indonesia traineranno la crescita e finiranno per alimentare le tensioni in zone quali i mar Cinese meridionale e orientale dove si consumano conflitti irrisolti con Vietnam, Giappone, Filippine e Taiwan per lo sfruttamento del petrolio e dei gas naturali racchiusi nel sottosuolo, oltre che per il controllo delle principali rotte commerciali. Per quanto concerne i singoli Paesi, Pechino aumenterà le spese militari di difesa del 64% entro il 2021, con un investimento pari a 207 miliardi di dollari. Le previsioni per India e Indonesia parlano rispettivamente di crescite pari al 54 e al 113%. Vi è poi il caso di Israele, che il prossimo anno venderà il doppio dei droni - gli aerei senza pilota - rispetto agli Stati Uniti; a dispetto del rifiuto opposto da numerose nazioni islamiche, secondo gli analisti Tel Aviv è il "più efficace esportatore di armi al mondo" e il suo mercato "è in continua espansione". (R.P.)
Usa: i vescovi chiedono la chiusura di Guantanamo e la liberazione di 86 detenuti
◊ I vescovi statunitensi chiedono “di rivedere attentamente le condizioni dei detenuti di Guantanamo”, di “rilasciare gli 86 sui quali è stato fatta chiarezza” e “chiudere questa struttura divenuta il simbolo della detenzione a tempo indeterminato senza processo”. Lo fanno in una lettera firmata da mons. Richard E.Pates, presidente del Comitato sulla giustizia internazionale e la pace della Conferenza dei vescovi Usa e indirizzata al segretario della difesa americano Chuck Hagel. “I detenuti - scrive il vescovo Pates - hanno diritto ad un giusto ed equo processo da svolgere in modi tempestivi. La detenzione a tempo indeterminato dei detenuti non è solamente ingiurioso nei confronti dei singoli ma ferisce anche la reputazione morale della nostra nazione, compromette il nostro impegno per il rispetto della legge e la nostra lotta contro il terrorismo”. Mons. Pates - riporta l'agenzia Sir - cita con preoccupazione alcuni rapporti che documentano la nutrizione forzata di detenuti in sciopero della fame. (R.P.)
Colombia: trovato morto il sacerdote sparito giorni fa
◊ Il corpo senza vita di don Néstor Darío Buendía Martínez, scomparso qualche giorno fa, è stato ritrovato in una zona isolata del comune di Los Cordobas. Benché il sacerdote non aveva mai segnalato di avere ricevuto minacce, secondo quanto riporta la stampa locale, don Buendía Martínez aveva condannato pubblicamente le bande criminali della zona di Cereté. Don Néstor Darío Buendía Martínez, di 35 anni, era vice parroco presso la parrocchia di San Antonio de Padua di Cereté. Il vescovo di Monteria, mons. Ramón Alberto Rolón, proprio l’altro ieri aveva espresso alla stampa la sua preoccupazione per la scomparsa del sacerdote. Secondo l’elenco realizzato annualmente dall’agenzia Fides, nel 2012, per la quarta volta consecutiva, l’America ha registrato il numero più alto di operatori pastorali uccisi rispetto agli altri continenti. In Colombia nel 2012 è stato ucciso un sacerdote; nel 2011 sono stati uccisi 6 sacerdoti e 1 laico; nel 2010 sono stati assassinati 3 sacerdoti ed un religioso; nel 2009 5 sacerdoti ed 1 laico. Solo nel 2013 ad oggi, se viene confermata la tragica morte di padre Néstor Darío Buendía Martínez, sono già 5 i sacerdoti colombiani uccisi. (R.P.)
Nicaragua: la Chiesa condanna l’assalto agli anziani che chiedono una pensione
◊ "Come non alzare la voce contro un atto ingiusto nei confronti degli anziani che sono un esempio per noi e per il nostro futuro", ha detto il vescovo ausiliare dell'arcidiocesi di Managua, mons. Silvio Baez. Il vescovo ha qualificato come "plebaglia volgare e violenta" i sospetti sostenitori del presidente Daniel Ortega, che il 22 giugno hanno assalito con mazze da baseball gli anziani e gli studenti universitari che li accompagnavano in un bivacco di fortuna, installato davanti alla sede del Inss (Istituto Nazionale di Providenza Sociale). Gli aggressori, incappucciati con indosso magliette del Fsln (Fronte Sandinista), il partito del governo, hanno distrutto l'accampamento e hanno derubato il cibo degli anziani. Da giorni gli anziani e i loro sostenitori sostavano nell’area per chiedere una pensione per coloro che sono privi di altre fonti di sostentamento. Una nota inviata all'agenzia Fides, riferisce che mons. Silvio Baez Ortega, ha ricordato questa situazione durante la Messa di domenica scorsa nella cattedrale metropolitana di Managua, dove duemila persone hanno cercato rifugio per paura di rappresaglie. Alla fine della Messa, nell'atrio della cattedrale sono arrivati decine di persone con cibo, acqua e medicine per sostenere la lotta degli anziani. Gli anziani riuniti nell’associazione Unidad Nacional del Adulto Mayor, hanno chiesto una pensione di vecchiaia malgrado i contribuiti da loro versati siano inferiori a quanto previsto dalla legge. Il presidente dell'Istituto Nicaraguense di Previdenza Sociale (Inss), Roberto Lopez, aveva dichiarato che il suo Istituto non ha fondi per pagare una pensione minima a queste persone. (R.P.)
Bruxelles: alla Settimana della speranza la testimonianza dei monaci di Tibhirine
◊ L’amore per l’Algeria vissuto fino alla morte dei monaci di Tibhirine “sono un segno dato al nostro tempo alle società europee. Invitano a progredire con fiducia sull’esperienza dell’alterità tra i popoli europei, tra religioni differenti, tra credenti e umanisti, tra uomini e donne per costruire un’Europa che non sia solo un mercato economico ma soprattutto un’arte del vivere insieme”. Con queste parole padre Christian Salenson, dell’Istituto cattolico del Mediterraneo di Marsiglia, ha presentato questa mattina a Bruxelles la figura di Christian de Cherge, priore dei monaci di Tibhirine rapiti e uccisi da un gruppo di terroristi islamici nel maggio del 1996. A questa testimonianza di “dialogo e comunione” vissuta fino allo spargimento del sangue è stata dedicata la terza giornata di riflessione e preghiera della Settimana della speranza: un vero e proprio pellegrinaggio nel cuore dell’Europa alla ricerca dei segni di speranza seminati dalla presenza cristiana in questo continente. Promossa dai vescovi della Comunità europea (Comece), la Settimana si conclude domani con una messa nella Chiesa di Notre-Dame au Sablon celebrata dal nunzio apostolico presso l’Unione europea, monsignor Alain Lebeaupin. “Le nostre costruzioni politiche - ha detto il professore di Marsiglia - possono sembrare in questi tempi laboriose ma non dobbiamo mai cessare di credere che si iscrivono in un disegno misterioso del Padre che è un disegno di unità e riconciliazione: non l’unità di Babele che livella e schiaccia le culture ma l’unità della Pentecoste che coltiva e si arricchisce del rispetto di tutte le differenze”. Era stato questo sogno di riconciliazione a guidare la vita di Christian de Cherge fino a fargli decidere di non lasciare l’Algeria nonostante minacce e pericoli perché “i fiori dei campi non cambiano posto per cercare i raggi del sole. Dio si prende cura di loro facendoli fecondare laddove sono”. Christian de Cherge credeva nell’Algeria, anche se l’Algeria dubitava di se stessa. E questa fiducia vale anche per l’Europa di oggi: “I popoli europei dubitano di se stessi - ha aggiunto Salenson -, si ripiegano su se stessi, si chiudono nelle loro particolarità, si dividono al loro interno. Questi popoli hanno allora bisogno di uomini e donne che segretamente nella preghiera e pubblicamente nell’amore disinteressato li conducano ad avere fiducia in se stessi e ad aprirsi agli altri, sapendo che ogni popolo ha un posto unico nel cuore di Dio”. (R.P.)
Varsavia: i segretari delle Conferenze episcopali su Vangelo e fede in Europa
◊ “Dibattere sulla missione evangelizzatrice della Chiesa nel contesto odierno dell’Anno della fede”: è l’obiettivo dell’appuntamento fra i segretari generali delle Conferenze episcopali d’Europa, promosso dal Ccee, che si riuniscono a Varsavia (Polonia) da domani al 30 giugno. Il tema dell’incontro è: “Dalla 'Ecclesia in Europa’ all’anno della fede. Dieci anni di nuova evangelizzazione”. Il Ccee ricorda che “il 28 giugno 2003 veniva consegnata alla Chiesa in Europa l’esortazione apostolica post-sinodale, 'Ecclesia in Europa’, il documento che tracciava le priorità del rinnovo dell’annuncio del vangelo nel vecchio continente”. Da qui l’argomento che fa da filo conduttore alla quattro-giorni, che sarà aperta dal presidente della Conferenza episcopale polacca e vice presidente Ccee, mons. Józef Michalik. “Un primo bilancio dei dieci anni di nuova evangelizzazione dall’Ecclesia in Europa all’anno della fede sarà affidato al vice presidente della Comece” (Commissione degli episcopati della Comunità europea), mons. Virgil Bercea, che ha partecipato all’Assemblea speciale sull’Europa (1999) e al sinodo sulla Nuova evangelizzazione (2012). “Successivamente nella giornata di venerdì, i segretari si soffermeranno sul contesto attuale segnato da varie forme di crisi (economica, di valori), ma anche da segni di speranza”. Un confronto su “una comprensione radicale della nuova evangelizzazione” arricchirà il lavoro dei segretari delle Conferenze episcopali riuniti in Polonia. Il 28 giugno si terrà una veglia di preghiera pubblica per l’Europa, con la partecipazione dei giovani della Fondazione Giovanni Paolo II. I lavori si concluderanno domenica 30 giugno con la messa celebrata nella cattedrale della capitale polacca e alla presenza del nunzio apostolico, mons. Celestino Migliore e del card. Kazimierz Nycz. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 177