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Sommario del 05/06/2013
◊ Nel mondo domina il denaro e la “cultura dello scarto”, che svilisce il rispetto dovuto tanto alla vita umana quanto al creato. Papa Francesco lo ha affermato con forza, all’udienza generale di stamattina in Piazza San Pietro, ispirata dai temi dell’odierna Giornata mondiale dell’ambiente. Duro il monito del Papa sugli sprechi di cibo: ciò che “si butta – ha detto – è come se fosse rubato dalla mensa di chi è povero”. Il servizio di Alessandro De Carolis:
“Buttare” un povero, un bimbo non nato, o una persona anziana o disabile – che per alcuni è come se fossero morti – in quell’immondizia in cui specie gli ambienti ricchi si disfano delle cose inutili – e che siano esseri umani è relativo – è il frutto di un mondo dove si è perso lo “stupore” e “l’ascolto della creazione” e dove, viceversa, a essere minuziosamente accolto è, per esempio, l’andamento dei mercati. Con una catechesi incalzante, Papa Francesco richiama le coscienze, dei cristiani per primi, sulle assurdità di tale situazione. E, al solito, lo fa con esempi che non lasciano adito a troppe obiezioni:
“Se una notte di inverno, qui vicino in via Ottaviano, per esempio, muore una persona, quella non è notizia. Se in tante parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia, sembra normale. Non può essere così! (…) Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti”.
La denuncia risuona tra gli applausi dei 70 mila e oltre che gremiscono Piazza San Pietro. Papa Francesco spiega l’origine di questa crisi che ha reso l’uomo non più custode della terra, secondo il progetto di Dio, ma spesso uno sfruttatore e un manipolatore, mettendo in “pericolo” la stessa umanità:
“La Chiesa lo ha sottolineato più volte; e molti dicono: sì, è giusto, è vero… ma il sistema continua come prima, perché ciò che domina sono le dinamiche di un’economia e di una finanza carenti di etica. Quello che comanda oggi non è l'uomo, è il denaro, il denaro, i soldi comandano. E Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi: agli uomini e alle donne. Noi abbiamo questo compito!”.
Invece, osserva Papa Francesco, “uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo”. È quella “cultura dello scarto", ripete, per cui “se si rompe un computer è una tragedia”, mentre i bisogni e i drammi di tante persone “finiscono nella normalità”. E in questo scenario, anche la vita umana finisce per essere un qualcosa da gettare via:
“La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora – come il nascituro –, o non serve più – come l’anziano. Questa cultura dello scarto ci ha resi insensibili anche agli sprechi e agli scarti alimentari, che sono ancora più deprecabili quando in ogni parte del mondo, purtroppo, molte persone e famiglie soffrono fame e malnutrizione”.
Papa Francesco individua la causa di ciò in quel consumismo che, sostiene, “ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo”:
“Ricordiamo bene, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero, di chi ha fame! Invito tutti a riflettere sul problema della perdita e dello spreco del cibo per individuare vie e modi che, affrontando seriamente tale problematica, siano veicolo di solidarietà e di condivisione con i più bisognosi”.
La visione cristiana del Creato, affidato da Dio alla cura dell’uomo, aiuta invece ad avere il giusto approccio con i beni della natura, secondo quella “ecologia umana” tante volte evocata dai Papi:
“Coltivare e custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti”.
Papa Francesco ascolta poi ripetere in sette lingue la catechesi, salutando e benedicendo tutti i gruppi di varie parti del mondo presenti all’udienza e ricordando che “il mese di giugno è dedicato dalla pietà popolare alla devozione del Cuore di Gesù”.
Siria, appello del Papa: pace, dialogo e aiuti umanitari, non possiamo tirarci indietro
◊ “Di fronte al perdurare di violenze e sopraffazioni rinnovo con forza il mio appello alla pace”. Così Papa Francesco incontrando i rappresentanti degli Organismi caritativi cattolici per la crisi in Siria, ricevuti nel salone della Domus Sanctae Marthae, in Vaticano. Ricordando l’impegno di Benedetto XVI per il “dialogo e la riconciliazione”, il Papa ha ribadito la vicinanza alle comunità cristiane “in tutto il Medio Oriente”, incoraggiando la Comunità internazionale ad aiutare “profughi e rifugiati”. Massimiliano Menichetti:
Pensiamo tutti, tutti pensiamo alla Siria, quante sofferenze, quanta povertà, quanto dolore. E’ Gesù che soffre, che è povero, che è cacciato via dalla sua patria. E’ Gesù. Quello è un mistero ma è il nostro mistero cristiano. Guardiamo Gesù sofferente negli abitanti dell’amata Siria. Il cuore di Papa Francesco si è fermato a guardare la popolazione della Siria, “spesso inerme, che soffre le conseguenze del conflitto”. Ha ricordato l’impegno di Benedetto XVI affinché “tacciano le armi”, la missione del Cardinale Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum , in quelle zone e il contribuito dei Padri Sinodali lo scorso ottobre. Ha ricordato il suo appello, il giorno di Pasqua, quando ha chiesto la pace «per l’amata Siria, per la sua popolazione ferita dal conflitto, e per i numerosi profughi che attendono aiuto e consolazione. Quanto sangue è stato versato! E quante sofferenze dovranno essere ancora inflitte prima che si riesca a trovare una soluzione politica alla crisi?».
"Di fronte al perdurare di violenze e sopraffazioni rinnovo con forza il mio appello alla pace. Nelle ultime settimane la comunità internazionale ha ribadito l’intenzione di promuovere iniziative concrete per avviare un dialogo fruttuoso con lo scopo di mettere fine alla guerra. Sono tentativi che vanno sostenuti e che si spera possano condurre alla pace".
"La Chiesa si sente chiamata a dare la testimonianza umile ma concreta ed efficace”, ha evidenziato.
"Sappiamo che dove qualcuno soffre, Cristo è presente. Non possiamo tirarci indietro, proprio nelle situazioni di maggiore dolore!".
Guardando al lavoro degli organismi di carità cattolici impegnati sul terreno il Santo Padre ha esortato a continuare “con fedeltà la preziosa opera di assistenza umanitaria, nella Siria e nei Paesi vicini che generosamente ospitano chi fugge dalla guerra”:
"Alla Comunità internazionale, accanto alla ricerca di una soluzione negoziale del conflitto, chiedo di favorire l’aiuto umanitario per i profughi e i rifugiati siriani, mirando in primo luogo al bene della persona e alla tutela della sua dignità".
“Per la Santa Sede - ha detto il Papa - l’opera delle Agenzie di carità cattoliche è estremamente significativa” perché l’aiuto va oltre “le appartenenze etniche o religiose” offrendo nella maniera più diretta “un contributo alla pacificazione e alla edificazione di una società aperta a tutte le diverse componenti”. Poi il suo pensiero è andato “alle comunità cristiane che abitano la Siria e tutto il Medio Oriente”:
"La Chiesa sostiene quelle sue membra che oggi sono particolarmente in difficoltà. Esse hanno il grande compito di continuare a rendere presente il Cristianesimo nella regione in cui è nato. Ed è un nostro impegno favorire la permanenza di questa testimonianza. La partecipazione di tutta la comunità cristiana a questa grande opera di assistenza e di aiuto è un imperativo del momento presente".
Nel suo indirizzo di saluto al Papa, il cardinale Sarah, presidente di Cor Unum, aveva sottolineato la crescente preoccupazione del Pontificio Consiglio nel seguire l’evoluzione della crisi umanitaria in Siria. Parlando della missione in Libano nel novembre scorso, su mandato esplicito di Benedetto XVI, il porporato ha ribadito la vicinanza della Chiesa universale, l’assistenza alle vittime del conflitto, ma anche l’obiettivo concreto di incontrare gli organismi caritativi cattolici impegnati nell’emergenza al fine di coordinarne al meglio gli interventi. Ha parlato di una crisi umanitaria “che si protrarrà nel tempo e che si estenderà ulteriormente”. Di qui ha sottolineato “la necessità di convocare” un “secondo incontro di coordinamento”, per tornare a fare il punto con tutte le organizzazioni e la necessità “di lavorare in comunione e di testimoniare insieme l’amore e la prossimità di Dio verso la popolazione siriana”.
Gridare il proprio dolore davanti a Dio è una preghiera del cuore: così il Papa a Santa Marta
◊ Lamentarsi delle proprie sofferenze davanti a Dio non è peccato, ma una preghiera del cuore che arriva al Signore: è quanto ha affermato il Papa stamani nella Messa a Santa Marta. Erano presenti alcuni membri della Congregazione per il Culto Divino e della Biblioteca Apostolica Vaticana. Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Antonio Cañizares Llovera,
mons. Arthur Roche e Cesare Pasini. Il servizio di Sergio Centofanti:
La storia di Tobi e Sara, riportata nella prima lettura del giorno, è stata al centro dell’omelia del Papa: due persone giuste che vivono situazioni drammatiche. Il primo diventa cieco nonostante compia opere buone, rischiando addirittura la vita; la seconda sposa sette uomini che muoiono prima della notte di nozze. Entrambi, nel loro immenso dolore, pregano Dio di farli morire. “Sono persone in situazioni limite – osserva il Papa - situazioni proprio nel sottosuolo dell’esistenza, e cercano un’uscita. Si lamentano” ma “non bestemmiano”:
“E lamentarsi davanti a Dio non è peccato. Un prete che io conosco una volta l’ha detto ad una donna che si lamentava davanti a Dio per le sue calamità: ‘Ma, signora, è una forma di preghiera quella. Vada avanti’. Il Signore sente, ascolta i nostri lamenti. Pensiamo ai grandi, a Giobbe, quando nel capitolo III (dice): ‘Maledetto il giorno in cui sono venuto al mondo’. E anche Geremia, nel XX capitolo: ‘Maledetto il giorno …’. Si lamentano anche con una maledizione, non al Signore, ma a quella situazione, no? E’ umano, questo”.
Ci sono tante persone che vivono casi limite, ha sottolineato il Papa: bambini denutriti, profughi, malati terminali. Nel Vangelo del giorno – osserva – ci sono i Sadducei che presentano a Gesù il caso limite di una donna, vedova di sette uomini. Non parlavano di questa vicenda col cuore:
“I Sadducei parlavano di questa donna come se fosse un laboratorio, tutto asettico, tutto … Era un caso di morale. Noi, quando pensiamo a questa gente che soffre tanto, pensiamo come se fosse un caso di morale, pure idee, ‘ma, in questo caso, … questo caso …’, o pensiamo con il nostro cuore, con la nostra carne, anche? A me non fa piacere quando si parla di queste situazioni in maniera tanto accademica e non umana, alle volte con le statistiche … ma soltanto lì. Nella Chiesa ci sono tante persone in questa situazione”.
In questi casi – afferma il Papa – bisogna fare quello che dice Gesù, pregare:
“Pregare per loro. Loro devono entrare nel mio cuore, loro devono essere un’inquietudine per me: il mio fratello soffre, la mia sorella soffre. Ecco … il mistero della comunione dei Santi: pregare il Signore: ‘Ma, Signore, guarda quello: piange, soffre’. Pregare, permettetemi di dirlo, con la carne: che la nostra carne preghi. Non con le idee. Pregare con il cuore”.
E le preghiere di Tobi e Sara, che pur chiedendo di morire si rivolgono al Signore, ci danno speranza – sottolinea il Papa - perché sono a loro modo accolte da Dio, che non li fa morire ma guarisce Tobi e dà finalmente un marito a Sara: “La preghiera – spiega - sempre arriva alla gloria di Dio, sempre, quando è preghiera dal cuore”. Invece, “quando è un caso di morale, come questo di cui parlavano i Sadducei, non arriva mai, perché non esce mai da noi stessi: non ci interessa. E’ un gioco intellettuale”. Papa Francesco invita, infine, a pregare per quanti vivono situazioni drammatiche e soffrono tanto e come Gesù sulla Croce gridano: “Padre, Padre, perché mi hai abbandonato?”. Preghiamo – ha concluso –“perché la nostra preghiera arrivi e sia un po’ di speranza per tutti noi”.
Tweet del Papa: la custodia del creato è parte del progetto di Dio
◊ Al termine dell’udienza generale, nuovo tweet del Papa sull’account @Pontifex in nove lingue: “Custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto”.
Il cordoglio del Papa per la morte del card. Stanislaw Nagy
◊ E' morto a Cracovia, all'età di 91 anni, il cardinale polacco Stanislaw Nagy. In un messaggio di cordoglio Papa Francesco tratteggia la figura di “questo caro fratello che ha servito generosamente il Vangelo e la Chiesa, specialmente nel mondo accademico, quale apprezzato studioso ed esperto docente di discipline teologiche”. Ricorda “con gratitudine la sua feconda collaborazione, cordiale amicizia e reciproca stima con il Beato Giovanni Paolo II, come pure la sua intensa attività ecumenica”. Infine, eleva “fervide preghiere al Signore affinché, per intercessione della Beata Vergine Maria, accolga questo suo fedele servitore e insigne uomo di Chiesa nel gaudio e nella pace eterna”.
Il cardinale Stanislas Nagy, dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani), era nato il 30 settembre 1921 a Bieruń Stary, arcidiocesi di Katowice (Polonia), da una famiglia di operai. Nel 1937 entra nella Congregazione Dehoniana, ricevendo l'ordinazione sacerdotale l'8 luglio 1945, a Cracovia. Inizia gli studi all'Università Jagellonica di Cracovia, proseguendoli poi all'Università Cattolica di Lublino, presso la quale consegue il dottorato nel 1952 e l'abilitazione nel 1968. Svolge importanti incarichi all'interno della propria Congregazione religiosa e nel mondo accademico come docente e studioso.
Dal 1947 al 1950 è stato rettore del Seminario minore dei Padri Dehoniani a Cracovia-Płaszów, dal 1952 al 1958 rettore del Seminario maggiore della medesima congregazione a Tarnów; dal 1957 al 1962 è stato direttore dello Studio Teologico dei Dehoniani. Nel 1958 diventa docente presso l'Università Cattolica di Lublino e nel 1972 viene nominato professore ordinario. È stato il primo direttore della Sezione di Teologia Comparata ed Ecumenica. Dal 1972 al 1974 è vicepreside della Facoltà di Teologia. Partecipato al movimento ecumenico. Dal 1973 al 1974 è membro della Commissione Mista Cattolico-Luterana, convocata dal Segretariato per l'Unità dei Cristiani della Santa Sede e dalla Federazione Luterana Mondiale. Diviene membro della Commissione Teologica Internazionale nonché direttore della sezione «Teologia ecumenica» presso la redazione dell'Enciclopedia Cattolica dell'Università di Lublino. Dal 1983 al 1991 è stato presidente della Sezione Professori di Teologia Fondamentale presso la Commissione episcopale per gli studi ecclesiastici. Partecipato al Sinodo dei Vescovi nel 1981 e nel 1985.
Dall'inizio della sua attività accademica si occupa della Chiesa in tutti i suoi aspetti, in particolare della questione della credibilità della Chiesa e delle trasformazioni che essa ha subíto dopo il Concilio Vaticano II. Dedica una parte consistente della sua attività come studioso alla questione ecumenica, approfondendo nelle sue opere il problema dell'apertura della Chiesa post-conciliare ad altre confessioni cristiane. È uno dei pionieri dell'ecumenismo in Polonia.
Si occupa in numerose pubblicazioni dell'attività e degli insegnamenti di Giovanni Paolo II. Aveva conosciuto il Papa quando tutti e due erano ancora semplici sacerdoti e da allora era stato sempre suo collaboratore. E' autore di numerose ed importanti pubblicazioni, tra le quali: «Cristo nella Chiesa. Abbozzo di ecclesiologia fondamentale», «La Chiesa sulle vie dell'unità», «Il Papa di Cracovia». Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale nel Concistoro del 21 ottobre 2003, Diacono di S. Maria della Scala.
Il card. Vegliò: gli Stati aprano le porte a chi fugge da guerre e lavoro forzato
◊ Viene presentato domani presso la Sala Stampa della Santa Sede il documento “Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate, orientamenti pastorali”, redatto dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti e dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Il testo è stato lo strumento di lavoro della recente plenaria del dicastero per i migranti, dedicata all'impegno pastorale della Chiesa nel contesto delle migrazioni forzate: rifugiati, sfollati, vittime della tratta, del lavoro forzato, bambini soldato. Alla vigilia della presentazione, il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente di questo pontificio consiglio, spiega perché c’è bisogno di una nuova consapevolezza sul tema. L’intervista è di Fabio Colagrande:
D. – Perché secondo il vostro Dicastero c’è bisogno di una nuova consapevolezza circa le varie forme di migrazioni forzate?
R. – La natura delle migrazioni è cambiata. In altri tempi era più facile distinguere tra migranti e rifugiati, migrazioni per motivi di lavoro e migrazioni forzate. La migrazione forzata è costituita da movimenti migratori involontari, legati a minacce di vita. Nuove forme di migrazione forzata sono diventate oggi più evidenti, come la fuga all’interno del proprio Paese, che costringe le persone allo sfollamento interno, oppure coloro che non hanno cittadinanza e, quindi, sono apolidi. Naturalmente, poi, vi è maggiore attenzione alle conseguenze del cambiamento climatico e al deplorevole fenomeno del traffico di esseri umani. Tutto ciò può persino portare a un aumento dei flussi migratori. Si stima che almeno 100 milioni di persone abbiano lasciato le loro case a malincuore. E tutti costoro necessitano di qualche forma di protezione. Per contrasto, osserviamo oggi un atteggiamento più rigido da parte dei governi e dell’opinione pubblica. In effetti, è sempre più forte il tentativo di fermare le persone in fuga, che vorrebbero chiedere asilo in altri Paesi. Sembra che il punto cruciale della questione siano le persone forzate allo sradicamento, piuttosto che i motivi per cui esse sono costrette a fuggire.
D. – In questo documento, la Chiesa rivolge un appello alla cooperazione internazionale. Come lo sintetizzerebbe?
R. – Il documento fa una distinzione a tre livelli: quello dello sviluppo internazionale, quello delle necessità che emergono dopo una guerra civile o il rapido succedersi dell’assistenza in situazioni di emergenza verso realtà di sviluppo organizzato, e infine le condizioni necessarie per far sì che possano essere realizzate soluzioni per l’integrazione o il rimpatrio volontario dei singoli profughi. Tutti dovrebbero ricevere mezzi sufficienti per affrontare le necessità della vita. Tuttavia, esistono disuguaglianze fondamentali nel sistema economico mondiale, che devono essere corrette. L’insegnamento della Chiesa, anche nei suoi interventi presso le Nazioni Unite, copre l’intera gamma dei bisogni quotidiani e attivamente li affronta. Questo esige che si introducano politiche di sradicamento della povertà. La Santa Sede sottolinea, tra gli altri, i seguenti aspetti: mettere al centro del dibattito politico i poveri come persone che hanno uguale dignità, in modo da promuovere la loro partecipazione ai processi decisionali e amministrativi, incrementare i servizi di assistenza pubblica tenendo conto dei poveri in misura prioritaria, onorando l’impegno di raggiungere la quota dello 0,7%, cancellare il debito dei Paesi fortemente indebitati e dei Paesi meno sviluppati, con disposizioni che non li inducano nuovamente in condizioni di indebitamento, promuovere una riforma finanziaria e commerciale per far funzionare i mercati a favore dei Paesi in via di sviluppo, favorire il buon governo e la lotta alla corruzione, diminuire le spese militari, sviluppare ulteriori attività di ricerca e rendere disponibili farmaci contro l’Aids, la tubercolosi, la malaria e altre malattie tropicali. Papa Benedetto XVI ha dato forte enfasi a questi punti in una lettera del 16 dicembre 2006 al Cancelliere Angela Merkel. Situazioni di post-conflitto richiedono che tutti coloro che sono impegnati in attività umanitarie e di sviluppo collaborino per ridurre la povertà e dare concretezza alle risoluzioni adottate. È necessaria una sufficiente piattaforma finanziaria per garantire uno sviluppo sostenibile e il processo di ricostruzione. Il tempo tra la fase di emergenza e il coinvolgimento nella ricostruzione di una società deve essere il più breve possibile. Molte volte, purtroppo, si deve notare che il ritorno volontario dei rifugiati non è né sostenibile né volontario. Le persone dovrebbero essere riportate a casa con dignità e sicurezza. Questo richiede una buona e adeguata formazione scolastica e professionale, servizi sociali di base e corrispondente assistenza sanitaria. Si scopre, invece, che sono le disponibilità finanziarie a determinare la qualità del ritorno. È successo più di una volta che non è stato possibile fornire viveri a sufficienza o appropriate misure contro la malaria, per il fatto che le risorse erano carenti. Il rimpatrio volontario non ha il semplice significato di un ritorno indietro, altrimenti vi è il rischio che le persone passino da una situazione difficile a una vita di miseria nel loro Paese d’origine.
D. – Ritenete che i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo siano attualmente sufficientemente tutelati?
R. – La Convenzione sui rifugiati del 1951 garantisce sufficientemente i diritti che promuovono il loro benessere. Essi sono abbastanza estesi. Tuttavia, al giorno d’oggi, i governi non rispettano più e non mettono in atto questi diritti. Questo si traduce nella riduzione degli standard umanitari e nell’insorgere di situazioni difficili. L’accesso alla procedura di asilo dovrebbe essere facilitata e, in base a ciò, la chiusura delle frontiere non è una risposta accettabile. Sono state adottate numerose misure per rendere più difficile ottenere l’accesso al territorio dei Paesi Europei e l’avvio della domanda d’asilo. Tale atteggiamento favorisce il contrabbando di persone e porta a situazioni pericolose, ad esempio per gli attraversamenti via mare. Il ricorso alla detenzione dovrebbe durare soltanto il più breve tempo possibile e per motivi ben precisi. Allo stato attuale, invece, si nota che la detenzione è praticata quasi indiscriminatamente. In altre parti del mondo, vi sono governi che non consentono ai rifugiati di lavorare e neppure permettono loro di muoversi liberamente. Il risultato è che i rifugiati rimangono bloccati nei campi profughi in condizioni di dipendenza dalle razioni di cibo. Anche essi hanno il diritto alla casa, al libero esercizio di culto e all’educazione religiosa, solo per citare alcuni dei loro diritti. I Paesi dovrebbero garantire i diritti dei rifugiati e agire secondo lo spirito della Convenzione del 1951, andando incontro a chi è nel bisogno, accogliendolo e trattandolo come si farebbe con cittadini autoctoni. I Paesi dovrebbero rispettare i diritti di coloro che fuggono e dovrebbero accoglierli in modo da onorare gli impegni assunti con la sottoscrizione della Convenzione. Inoltre, la protezione deve essere data anche alle persone nelle diverse forme di migrazione forzata. Questo può variare dalla concessione di un permesso di soggiorno alle vittime del traffico di esseri umani alla possibilità di accedere alla cittadinanza per gli apolidi.
D. – Come valutate l’attuale legislazione internazionale per contrastare la tratta di esseri umani e la sua applicazione concreta?
R. – La legislazione internazionale è vigente. Rimane, però, la questione dell’implementazione e della lotta a tutte le forme di traffico di persone. Il traffico di esseri umani coinvolge almeno 21 milioni di persone ogni anno. Tuttavia, tra il 2007 e il 2010, soltanto contro 12 mila persone in tutto il mondo è stata aperta una procedura legale. Questo senza dubbio fa riflettere. Il traffico di esseri umani avviene sotto molte forme diverse. Va oltre la cosiddetta “industria del sesso”, coinvolgendo il lavoro forzato di uomini, donne e bambini in vari settori come l’edilizia, la ristorazione, la ricettività, l’agricoltura e l’impiego domestico, come pure il traffico per il trapianto di organi, l’obbligo all’accattonaggio e il reclutamento di bambini nei conflitti armati. Le misure adottate dagli Stati si sono concentrate principalmente sulla domanda di sfruttamento sessuale, in particolare di donne e ragazze. Sono state trascurate altre forme di richiesta, come ad esempio la domanda di manodopera sottopagata o lo sfruttamento delle peggiori forme di lavoro minorile. Tuttavia, si confermano gli obblighi degli Stati a prevenire il traffico di persone, a proteggere e sostenere le vittime, a perseguire i colpevoli. Questo esigerebbe l’adozione di normative sul lavoro e la regolamentazione delle condizioni di impiego, con la loro conseguente applicazione. Le cause profonde del traffico di esseri umani vanno oltre la povertà e la disoccupazione. La domanda di manodopera a basso costo, di prodotti a basso prezzo o di “sesso esotico o inusuale” sono anch’essi una delle cause principali di questo turpe fenomeno. Le diverse forme di traffico costituiscono una violazione dei diritti umani, che richiedono approcci distinti e misure efficaci per ripristinare la dignità delle vittime. Come consumatori dobbiamo chiederci come e in quali condizioni questi prodotti sono coltivati o confezionati? Come è possibile che vi siano beni di consumo disponibili a prezzi così stracciati? Anche le multinazionali e le grandi marche hanno la loro responsabilità. A poco a poco, l’attenzione si è spostata verso la Responsabilità Aziendale di Rispettare i Diritti Umani. Alcuni ambiti di commercio hanno introdotto dei codici di condotta. Nel 2001, per esempio, è stato siglato un Codice di condotta per l’industria del cacao e del cioccolato, il cosiddetto “Protocollo Harkin-Engel”. Esso obbliga l’industria a combattere le forme peggiori di lavoro minorile. Attualmente esiste un sistema di certificazione dei prodotti di cacao come esenti da impiego forzato di lavoro minorile. Ma la domanda resta: che tipo di cioccolato compri? La lotta contro il traffico di esseri umani è compito dei governi, delle Ong, dei datori di lavoro e delle imprese, dei sindacati e di tutta l’umanità in generale.
D. – Quanto le comunità ecclesiali devono migliorare l’accoglienza dei rifugiati e delle persone forzatamente sradicate?
R. – La Chiesa non parte da zero. Molti sacerdoti, religiosi e laici sono impegnati in questo apostolato non facile. Nel corso degli anni, sono state create apposite strutture e sono nate Congregazioni religiose per la cura pastorale dei migranti. Sessant’anni fa la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni (Icmc) ha iniziato la sua attività con particolare attenzione al reinsediamento, mentre la Caritas è abitualmente presente in situazioni di crisi e di emergenza. Negli anni Settanta del secolo scorso, al tempo dei boat people vietnamiti, è entrato in azione il “Jesuit Refugee Service”, mentre recentemente si è costituita la “Rete Talitha Kum”, che vede soprattutto le religiose in prima linea nella lotta al traffico di esseri umani. Ma c’è ancora molto da fare. Mi pare che sia ancora carente la consapevolezza del grave fenomeno che stiamo vivendo. Le Chiese locali hanno ben presente cosa significhi e quali siano le conseguenze del valore dell’accoglienza, manifestando forte coinvolgimento e impegno. Ma mi domando: cosa sappiamo delle persone e dei motivi che le costringono a fuggire per salvarsi la vita? Ci rendiamo conto che essi sono nostri fratelli e sorelle? Dopo tutto, siamo un’unica famiglia umana. Se qualcuno della nostra famiglia dovesse vivere nelle condizioni di chi scappa per non essere ucciso, cosa faremmo? Nascono domande sul modo corretto di assistere le persone forzatamente sradicate, con quali mezzi possiamo rispondere alle loro necessità materiali e pastorali? Una cosa è certa: le Chiese locali devono essere aiutate a superare diffidenze e pregiudizi. Tra i valori della visione cristiana ci sono, senza dubbio, quelli di salvare vite, restituire la dignità umana, offrire speranza e cercare soluzioni realistiche ai drammi del nostro tempo. Si tratta di una sollecitudine pastorale che riguarda tutti. Per questo è importante che si facciano sforzi concertati per essere presenti e portare conforto ai rifugiati e alle persone forzatamente sradicate. Questo manifesta atteggiamenti di vera accoglienza e comportamenti di autentica ospitalità. Mi pare che, nelle Chiese locali, ci sia bisogno di maggior preparazione per non essere colti alla sprovvista di fronte ad eventi che accadono all’improvviso, come le calamità naturali. Questo si potrebbe fare con più attenzione alla formazione, mediante l’integrazione di questa pastorale specifica nella pastorale ordinaria, ma anche cercando di ottenere fondi sufficienti o con la creazione di un fondo speciale per l’assistenza pastorale delle persone costrette a sfollare. Mi si stringe il cuore quando sento che i Vescovi o i parroci non possono rispondere alle emergenze perché mancano risorse economiche sufficienti. Questo significa che vi saranno persone che non potranno essere raggiunte o saranno costrette a rimanere in situazioni di disagio e di sofferenza. Per quanto possibile, poi, tutti coloro che lo possono fare, devono incoraggiare programmi e politiche migratorie che rispettino e proteggano i diritti umani delle persone che affrontano la migrazione forzata e dei membri delle loro famiglie. Solo così si favorirà una cultura dell’accoglienza, della solidarietà e della pace. E tutto questo, ovviamente, avrà conseguenze immediate per le Chiese di origine, di transito e di destinazione dei flussi migratori. Ricordo, infine, che Papa Francesco ha affermato lo scorso 24 maggio, nell’udienza ai partecipanti alla Plenaria del nostro Pontificio Consiglio: “Non dimenticate la carne di Cristo che è nella carne dei rifugiati: la loro carne è la carne di Cristo!”.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Il cibo sprecato è cibo rubato ai poveri: nella giornata mondiale dell'ambiente il Papa denuncia con forza la mentalità che sacrifica l'uomo al profitto e la cultura dello scarto.
Aiuti umanitari e soluzioni negoziali per mettere fine alla guerra: l'appello di Papa Francesco durante l'incontro con gli organismi caritativi cattolici impegnati in Siria.
Nel sottosuolo dell'esistenza: messa del Pontefice a Santa Marta.
Misura della civiltà del mondo: il cardinale Antonio Maria Vegliò illustra il nuovo documento (presentato domani) sulla situazione dei profughi e degli sfollati.
Il cordoglio del Santo Padre per la morte del cardinale polacco Stanislaw Nagy.
Responsabilità sociale e ambientale delle imprese: intervento della Santa Sede al Consiglio dei Diritti dell'Uomo a Ginevra.
Siria: al via la riunione preparatoria per Ginevra 2 mentre continuano le violenze
◊ Sono centinaia i morti dopo la caduta della cittadina siriana di Qusayr, roccaforte ribelle nella Siria centrale e vicina al confine libanese. Stamani, l’esercito, supportato da Hezbollah, ha confermato di averla riconquistata dopo tre giorni di assedio. I ribelli denunciano la comunità internazionale di non aver fornito alcun aiuto umanitario ai civili intrappolati nella cittadina e l’aviazione di Damasco avrebbe bombardato sulle persone in fuga. Intanto, a Ginevra si è aperta la riunione preparatoria in vista della Conferenza di pace sulla Siria. Il servizio di Benedetta Capelli:
Russia, Stati Uniti, Nazioni Unite e Lega Araba sono riunite da stamani per decidere una data per la Conferenza di pace di Ginevra e soprattutto la lista dei partecipanti. Tutto ruota intorno all’Iran, storico alleato della Siria. L’opposizione ha già detto che non si siederà al tavolo dei negoziati fino a quando gli iraniani e le milizie islamiste di Hebzollah continueranno a combattere a fianco delle forze lealiste. Di oggi è la conquista di Qusayr da parte dell’esercito, appoggiato nei tre giorni di assedio proprio da Hezbollah. E mentre la situazione umanitaria peggiora sempre di più, i ribelli hanno parlato di una pioggia di bombe sui civili in fuga dalla zona. Di ieri è invece l’allarme dell’Onu per i crimini di guerra e contro l’umanità nel Paese, ma anche per l’impiego di armi chimiche: un punto sul quale gli Stati Uniti si mostrano prudenti, mentre la Francia e la Gran Bretagna sostengono che sia stato usato il gas sarin.
Speranze sono comunque riposte nella preparazione della Conferenza di Ginevra. Ma questo summit potrà imprimere una svolta nel conflitto siriano? Benedetta Capelli lo ha chiesto a Matteo Pizzigallo, ordinario di Relazioni internazionali all’Università Federico II di Napoli:
R. – Noi dobbiamo sperare vivamente che la conferenza di Ginevra possa dare almeno un inizio di risposta o individuare, se non altro, una road map da seguire. La questione siriana è un’equazione a troppe incognite che dimostra la fragilità, le contraddizioni e l’incapacità del sistema internazionale di garantire il rispetto della legge, il rispetto dei diritti. Quindi, all’interno della questione siriana giocano più incognite: in primo luogo, il fatto che la Siria possa contare su un aperto appoggio, in sede di Nazioni Unite, della Russia. La soluzione di forza militare sul campo non porta per ora ad alcun tipo di risultato, se non dolore e sofferenza e massacri e vittime da parte dell’inerme popolazione civile. Si tratta di un conflitto evidentemente asimmetrico, nel senso che da una parte c’è una forza che è quella degli schieramenti fedeli al regime di Assad e, dall’altra, abbiamo una nebulosa di forze indipendentiste, tra di loro in parte divise, all’interno delle quali nessuna è in grado di assumere l’egemonia e la guida. A questo punto, la comunità internazionale, a mio avviso, deve assolutamente praticare la via diplomatica.
D. – La Russia ha annunciato che non invierà missili in Siria, ma intanto Putin sembra sminuire la portata della conferenza di Ginevra, perché secondo lei?
R. – Intorno alla questione siriana, la Russia gioca un interesse e ha un’esigenza di gran lunga superiore a quella che lo stesso Putin voglia mettere in conto. Ed è la prospettiva sullo sfondo di questo. Qualora si assistesse a un crollo – ripeto, un crollo "non assistito" del regime di Assad – innanzitutto si altererebbero completamente gli equilibri geo-strategici della regione. La Russia può definitivamente abbandonare qualsiasi tipo di possibilità di avere un affaccio nel Mediterraneo e comunque essere interessata agli equilibri dell’area. Converrebbe ricordare che i russi hanno già fornito ai siriani un sistema di difesa antimissilistica “Bastion” in difesa delle coste siriane da eventuali attacchi esterni condotti dal mare.
D. – Ieri, l’Onu ha denunciato l’uso di armi chimiche nel conflitto. Sulla stessa linea Francia e Gran Bretagna, mentre i più prudenti sono stati gli Stati Uniti. Come spiegare questa differenza di posizioni e cosa c’è dietro questo atteggiamento più attendista degli Stati Uniti?
R. – C’è una linea di politica internazionale complessiva che porta a considerare, con la massima attenzione e con la massima prudenza, l’idea di aprire in maniera drammatica un altro fronte. L’equazione siriana ha troppe incognite e noi dobbiamo cercare a uno a uno di risolvere il problema. La comunità internazionale deve premere in tutte le sedi opportune affinché venga esperito il tentativo di un negoziato e di una conferenza internazionale.
E dunque, la comunità internazionale si interroga sull’uso delle armi chimiche. In proposito, Benedetta Capelli ha intervistato Maria Grazia Enardu, docente di Storia delle relazioni internazionali presso l'Università di Firenze:
R. – Le armi chimiche sicuramente godono di un "effetto annuncio" e inoltre, probabilmente, potrebbero essere usate da singoli comandanti locali che possono interpretare largamente ordini, oppure semplicemente ignorarli. C’è molto disordine in Siria, anche riguardo il fronte governativo. Quindi, è indubbio che questo caos militare, sia per quanto riguarda le armi, sia per quanto riguarda l’intervento di forze esterne, l’afflusso di volontari, l’intervento di Hezbollah che arriva dal Libano etc., rischi o di vanificare o di rendere puramente accademica la Conferenza che americani e russi volevano convocare per parlare del futuro della Siria. Si rischia di occuparsi di questioni militari importanti ma limitate e ignorare invece il problema di fondo che è politico.
D. – Oggi, a Ginevra c’è proprio un incontro preparatorio in vista di "Ginevra 2", ma ieri ad esempio il presidente russo Putin ha ironizzato molto su questo summit. "Ginevra 2" potrà essere risolutivo oppure una riunione interlocutoria?
R. – Nulla riguardo alla Siria può essere risolutivo, però alla Conferenza internazionale si può solo vedere se gli interlocutori principali – che in questo caso sono alcuni governi principali o anche il governo russo – intendano procedere seriamente, oppure se si tratta solo di una finzione diplomatica.
D. – Intanto, la situazione sul terreno è drammatica, in particolar modo la situazione umanitaria e Qusayr è stata riconquistata da Damasco. Di fronte a quanto sta accadendo, vediamo questa impasse della comunità internazionale: ma cosa servirebbe per riuscire davvero a cambiare le sorti di questo conflitto?
R. – La Siria è molto complicata, lo era quando ha cominciato la rivolta contro Assad, figuriamoci ora che intervengono forze dall’estero. Sono estremamente preoccupata dall’intervento di Hezbollah, sia perché è una forza straniera, sia perché rischia di esportare il disordine siriano in casa propria, cioè in Libano. E’ chiaro che tutte queste forze, i volontari, le organizzazioni che partecipano, vorranno portare un risultato di vittoria a casa, indipendentemente dalle fazioni originariamente siriane che già si battono sul terreno. Questo può solo aumentare il caos, non c’è nulla di risolutivo.
Ancora proteste antigovernative in Turchia. L’esecutivo si scusa per le violenze
◊ Sesto giorno di proteste antigovernative in Turchia. La scorsa notte, centinaia di manifestanti si sono scontrati con gli agenti non solo a Istanbul e Ankara, ma anche a Smirne. Il vicepremier, Arinc, ha chiesto scusa a nome dell’esecutivo a quanti hanno subito violenze da parte della polizia e ha assicurato che nessuno vuole imporre un pensiero unico ispirato all’islam. Ma piazza Taksim non cede e continua a chiedere le dimissioni del premier Erdogan. Cecilia Seppia ha sentito Alberto Rosselli, analista esperto dell’area:
R. – Le motivazioni in qualche modo che hanno portato migliaia e migliaia di giovani a protestare contro il governo non sono solo esclusivamente di tipo politico e istituzionale, ma anche economico. Anche perché i giovani turchi stentano a trovare lavoro e occupazione, se non nelle grandi città. Diciamo, quindi, che c’è una forte richiesta di modernizzazione da parte dei giovani a livello istituzionale, costituzionale, del Paese, ma è anche una richiesta di modernizzazione del mondo del lavoro.
D. – Oggi, c’è anche lo sciopero generale, durerà 48 ore, proclamato dal sindacato dei lavoratori del pubblico impiego e questo potrebbe aggiungere tensione a un clima già infiammato…
R. – Certamente. Settori del pubblico impiego – ma non solo, anche del privato – si trovano in difficoltà a dispetto di quelle che sono le cifre che apparentemente potrebbero far pensare a una Turchia in grande crescita economica. Non credo che sospenderanno questo sciopero.
D. – Un altro punto che bisogna sottolineare è che l'opposizione che sta riempiendo le piazze di Istanbul, di Ankara, in realtà è formata da diversi settori della popolazione, quindi è molto eterogenea, però sembra fortemente compatta…
R. – Sì. C’è la trasversalità e questo lo ha dimostrato anche una fotografia, abbastanza emblematica, che è uscita oggi su Internet, dei tifosi delle tre maggiori squadre di Istanbul che manifestano insieme contro Erdogan, al di là dei loro attriti di tipo sportivo. Questo sta a dimostrare che c’è una condivisione di interessi da parte della popolazione. Stiamo parlando di ragazzi che sono scesi in piazza che sono studenti, che sono precari, collegati col mondo occidentale attraverso Twitter, attraverso Internet, ma non hanno un collegamento diretto col mondo occidentale nel quale si rispecchiano in qualche modo.
D. – Il vicepremier continua a dire che in una democrazia tutto questo è possibile, quindi è possibile che ci siano manifestazioni. Di fatto, però, il pugno duro delle forze dell’ordine comincia a farsi sentire: parliamo di migliaia di feriti, parliamo di oltre 1700 arresti, tra l’altro anche con accuse blande come per esempio quella di aver usato Twitter per divulgare messaggi non veri. Quindi, insomma, l’impronta della polizia si comincia a far sentire in maniera determinante?
R. – Non è la prima volta che manifestazioni di piazza in Turchia vengano in qualche modo gestite con un pugno di ferro e in realtà, al di là delle dichiarazioni del vicepremier, al di là delle dichiarazioni del presidente, al di là delle dichiarazioni del primo ministro, la polizia turca non va tanto per il sottile. Ma questo fa parte anche della tradizione “reprimenda” della Turchia e dei governi turchi. Ricordiamoci che la Turchia è un Paese che ha avuto molti colpi di Stato, ha avuto in passato altre manifestazioni di questo tipo, di natura diversa, che sono state represse anche con violenza ben maggiore. Anzi, fino a questo punto mi sembra che, in qualche modo, il governo turco cerchi di tenere la mano leggera: cosa non facile, perché i militari quando hanno da sedare manifestazioni lo fanno non proprio col guanto di velluto, ma questo anche perché la Turchia è un Paese sotto osservazione internazionale.
Gb, nozze gay: anglicani difendono famiglia tradizionale. Sostegno dai cattolici
◊ I matrimoni gay accendono il dibattito civile e religioso in molti Paesi. In Europa, dopo la Francia anche la Gran Bretagna si avvia con ogni probabilità al riconoscimento delle nozze omosessuali, dopo il via liberà ieri della Camera di Lord. Vibrata la protesta del primate anglicano, Justin Welby, in difesa del matrimonio tradizionale. Il servizio di Roberta Gisotti:
Sono 9 i Paesi europei che hanno detto sì ai matrimoni gay. E in nessuno di questi 9 Paesi la legalizzazione è passata attraverso una consultazione referendaria, espressione di un consenso popolare su una questione tanto complessa, sulla quale hanno legiferato – senza interpellare i cittadini – le lobby parlamentari in un terzo dei Paesi dell’Ue. Se usciamo fuori dai confini europei, negli Stati Uniti contrariamente a quanto si creda, solo 12 Stati su 50, oltre alla città di Washington, riconoscono le nozze gay. Nel resto del mondo le persone omosessuali possono sposarsi solo in Canada, Nuova Zelanda, Sud Africa, Argentina, Uruguay e a Città del Messico. Riassumendo: in tutto il pianeta sono 14 Paesi, una piccola minoranza di Stati Usa, e due città.
Ma l’idea che passano i media è che il matrimonio gay sia una realtà ineluttabile, in grande crescita, da accettare quale segno di progresso e civiltà di una società evoluta nei costumi e nella morale. Ma sono in molti – si è visto di recente in Francia – sono a voler contrastare, anche se mancano luoghi e occasioni per interferire con le lobby parlamentari, quella che ritengono una deriva rischiosa dell’istituto familiare. “Noi pensiamo – ha sostenuto il primate anglicano Welby – che il matrimonio tradizionale sia una pietra angolare della società”, che viene invece “ridefinito e ricreato” con la nuova legge sui matrimoni gay creando “confusione” e indebolendo “la famiglia, nella sua definizione normale, che precede lo Stato ed è la base della nostra società”. E un incoraggiamento al rappresentante anglicano è giunto da mons. Mark Langham, del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, in vista del suo incontro con il Papa il prossimo 14 giugno:
“Noi siamo molti grati all’arcivescovo Welby, perché in parlamento ha parlato in toni decisi per difendere la famiglia e il matrimonio tradizionale, i valori cristiani della società. E io so che i vescovi cattolici d’Inghilterra e Galles sono molto vicini a lui e lo sostengono molto”.
Giornata Onu dell'Ambiente contro gli sprechi alimentari
◊ Lo spreco di cibo è una delle piaghe della nostra epoca e Papa Francesco lo ha denunciato a voce alta all'udienza generale di oggi. In effetti, rileva l'Onu – che proprio al tema dedica l'odierna Giornata Mondiale dell’Ambiente, con il titolo “Think- eat -save", cioè “Pensa, mangia e conserva” – solo nei Paesi industrializzati circa 300 milioni di tonnellate di alimenti vengono gettati via ancora in buono stato, ovvero più di quanto basterebbe a nutrire gli 870 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo. Marina Tomarro ne ha parlato con Andrea Masullo, presidente del comitato scientifico dell'Aassociazione "Greenaccord":
R. – Oggi, secondo i dati Fao, si sprecano un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo all’anno, che è la produzione alimentare di tutta l’Africa subsahariana. Allora, viene da pensare: ma il mio spreco come incide sulle popolazioni che soffrono la fame? C’è un legame diretto, direi. Noi, per lo spreco alimentare sulle nostre mense ricche, sottraiamo realmente cibo a circa un miliardo di persone che nel mondo soffrono la fame. I dati sono drammatici: sono 21 mila i bambini sotto i cinque anni che ogni anno muoiono di fame. A causa del debito contratto, i Paesi poveri sono costretti a non produrre alimenti per sé, ma a produrre mangimi, per esempio, per i nostri allevamenti di carni bovine. Questo significa che quando noi gettiamo via gli avanzi di carne, stiamo gettando via il cibo di questi Paesi, che sono costretti a produrre mangimi per il nostro bestiame.
D. – Ma come lo spreco di cibo influisce sull’ecologia ambientale?
R. – Pensiamo soltanto ad un dato: per produrre un hamburger occorrono circa 2500 litri di acqua. E’ qualcosa d’impressionante, in un mondo in cui si va verso una grossa carenza di acque pulite per l’alimentazione umana. Gli allevamenti, i pascoli sono la causa dell’80% della deforestazione nel mondo e sono la causa del 30% della produzione di gas serra, che stanno drammaticamente cambiando il clima del pianeta. L’impatto, quindi, è veramente grande: è un impatto diretto: è un impatto ecologico. Come dice Papa Francesco, c’è veramente bisogno di riscoprire un’ecologia della natura accanto ad un’ecologia umana.
D. – Anche il Papa ci invita a non abbracciare la "cultura dello scarto". In che modo accogliere la sua esortazione?
R. – Per fortuna, nel mondo ci sono – anche nel nostro Paese – dei piccoli segnali, delle piccole testimonianze. In alcuni Comuni italiani, si stanno organizzando situazioni di accordo tra le catene di distribuzione di alimenti e le associazioni caritatevoli, che gestiscono le mense per i poveri. Per esempio, i prodotti prossimi alla scadenza, che hanno ancora due o tre giorni e non vengono più esposti nei supermercati, possono essere immediatamente utilizzati dalle mense per i poveri, dalla Caritas e da tante altre organizzazioni che gestiscono queste mense, al punto che si è creato un network di food share, cioè iniziative in cui non solo l’area del commercio e della produzione di alimenti, ma anche il singolo cittadino, può dare i suoi eccessi di cibo acquistato – prima ovviamente della scadenza – a chi lo distribuisce ai poveri.
Salta l’assemblea dei soci Ilva. Mons. Santoro: scelta di responsabilità.
◊ E' saltata l'assemblea dei soci Ilva prevista per oggi a Milano. E' la conseguenza del decreto del governo che ha imposto il commissariamento dell’azienda di Taranto. Per il presidente di Confindustria, Squinzi, “il principio della proprietà non va messo in discussione”. Alcuni esponenti politici parlano di espropriazione, ma il ministro dell’Ambiente, Orlando, assicura che sarà un intervento limitato. Luca Collodi ha intervistato mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto:
R. – E’ sicuramente una scelta di responsabilità. Noi avevamo bisogno di un appiglio, anche tecnico, per sostenere la speranza del popolo. Questo decreto, di fatto, mette chiarezza – io dico che mette chiarezza – e richiama le persone – lo Stato e poi tutte le persone – alla responsabilità. Secondo me, gli aspetti che più mi colpiscono positivamente sono che in tal modo non si è semplicemente data continuità alla produzione e poi anche sostenuta energicamente la necessità dell’applicazione dell’Aja, ma si individua anche da dove possano essere utilizzate le risorse. E poi si pongono dei meccanismi di controllo ambientale molto rigorosi.
D. – Federacciai parla di questa scelta di responsabilità del governo come di una scelta sbagliata e rischiosa. E qui si contrappone, secondo lei, il tema tra il capitalismo, il liberalismo in economia e – dall’altra parte – lo Stato che talvolta interviene anche per il bene comune della comunità?
R. – Qui noi ci troviamo di fronte ad un caso estremo. E’ chiaro che è un precedente. Però, un intervento dello Stato che non si sostituisce alla proprietà, mi sembra; e se la sostituzione avviene, avviene nel corso di uno o due o massimo tre anni. Quindi, certo che è un intervento straordinario per tutta la complicatissima situazione che si era creata. Però, l’obiettivo è proprio quello del risanamento e quindi anche della continuità produttiva.
Alessandro Guarasci ha sentito il commento del presidente della sezione di Taranto dell’Ucid, l'Unione cristiana imprenditori e dirigenti, Giuseppe Fischetti:
R. – Parlare di esproprio nei confronti dell’Ilva mi sembra un po’ esagerato. Parliamo di un’industria che ha un interesse nazionale. Questo, però, ovviamente non giustifica quello che sta accadendo, e cioè un’industria che non si è posta il problema di tutelare la salute, di salvaguardare i cittadini, ma soprattutto chi la ospita.
D. – Secondo lei, le soluzioni scelte riusciranno a garantire occupazione e produzione, tra l’altro in un contesto internazionale di forte competitività?
R. – La scelta del commissariamento non è una scelta sbagliata. Non si riesce a capire, però, per quale motivo a tutela dell’applicazione delle norme sia stata messa una persona che comunque è valida, ma è legata alla proprietà. Quindi, non si riesce a capire come questa persona, in presenza di un decreto, riesca ad attuare ciò che tanto tempo prima è stato chiesto e non è stato fatto.
D. – Secondo lei, il ruolo dell’Ilva in tutta questa vicenda nel corso degli anni è stato sottovalutato? Bisognava, insomma, obbligarli prima a risanare l’ambiente?
R. – Sì, forse abbiamo dato per certe alcune cose che invece non lo erano. Poi, però, aandando avanti nel tempo non si riesce ancora a capire, nel momento in cui c’è stata questa presa di coscienza, perché certi processi non siano stati accelerati.
Germania. Al via a Colonia il Congresso eucaristico nazionale
◊ Si apre questa sera a Colonia, con una grande Messa a cielo aperto ed una processione al Duomo della città, il Congresso eucaristico nazionale. Sarà una festa della fede, che si protrarrà per cinque giorni, e per cui si prevede la partecipazione di 50.000 persone. Temi attuali nel campo della teologia, ma anche dell’etica sociale, saranno affrontati in tavole rotonde e seminari pubblici, e numerosi vescovi tedeschi parteciperanno alle varie iniziative che accompagnano il Congresso. Grande attesa per la partecipazione del cardinale Paul Josef Cordes, nominato da Papa Francesco Inviato speciale all’evento. Circa 800 le iniziative organizzate tra colloqui sulla fede, celebrazioni eucaristiche nel Duomo di Colonia e nelle altre chiese della diocesi, veglie di preghiera e occasioni per la confessione, catechesi e diversi concerti e spettacoli – tra cui una serata nella più grande arena coperta della città che può ospitare fino a 20.000 persone – ed un particolare allestimento di fari colorati all’interno del Duomo stesso. Tutto ruota attorno all’Eucaristia. L’arcivescovo di Colonia, cardinale Joachim Meisner, si augura che l’iniziativa possa dare un contributo per richiamare il significato centrale della Messa e dell’Eucaristia per la vita cristiana e la comunità ecclesiale. Anche all’ecumenismo saranno dedicati vari incontri, tra cui discussioni aperte al pubblico e celebrazioni liturgiche, come per esempio i Vespri di giovedì sera in Duomo. Il Congresso terminerà domenica con una Messa nello stadio della città. In queste ore, il sole splende sulla città, e con esso crescono le speranze degli organizzatori che ancora molte persone possano trovare la strada per Colonia. Il centro della città, in ogni caso, si sta già riempiendo di partecipanti; già prima dell’apertura ufficiale del Congresso, ovunque si incontrano gruppi di giovani e adulti che si fermano nei diversi luoghi in cui possono partecipare ai programmi offerti ai margini dell’evento centrale e nei numerosi punti di informazione, dove si informano sull’ampio programma offerto dal Congresso. (A cura di Christine Seuss)
Stati americani: aperto lo storico summit sulle droghe
◊ “Il carattere storico di questa Assemblea risiede nel fatto che comincia un dibattito che prima non poteva essere realizzato…pone fine a un tabù durato diversi decenni” ha detto il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa), José Miguel Insulza, aprendo ad Antiguia Guatemala il 43° ciclo di sessioni, ospitato in una piantagione di caffè dell’epoca coloniale. La questione delle droghe - riferisce l'agenzia Misna - resta “una delle sfide più gravi” per le democrazie in America – ha sottolineato il diplomatico cileno – per cui sono più che mai necessarie nuove strategie che offrano “maggiore efficienza e migliori risultati” a fronte di politiche basate sulla repressione della produzione e della distribuzione. “Oggi legittimiamo questo dibattito in modo trasparente, con la convinzione che può aprire la strada ad azioni per ridurre il tasso di criminalità e violenza che colpiscono molti dei nostri Paesi” ha dichiarato il presidente ospite dell’evento, Otto Pérez, strenuo sostenitore della ricerca di alternative nella lotta agli stupefacenti. L’Assemblea, che si concluderà domani, verterà anche sulla riforma della Corte interamericana dei diritti umani (Cidh) che Caracas e i suoi alleati politici accusano di essere asservita agli interessi della Casa Bianca, e temi di attualità del continente, inclusa la crisi politica in Venezuela. Il dibattito sulle droghe si celebra proprio nel Paese che lo scorso anno ha aperto la discussione sulla necessità di disegnare politiche più mirate ed efficaci. Si basa su un rapporto dell’Osa che ha accolto alcune proposte di Pérez e suggerisce di affrontare il problema da una prospettiva in cui la salute prevalga di fronte alla sicurezza, privilegiando prevenzione e trattamento, oltre a tracciare alcuni possibili scenari: quello della depenalizzazione, sebbene non ci sia un consenso, guadagna terreno negli Stati Uniti (Colorado e Washington), ma anche in Uruguay, Argentina e Brasile. Secondo l’Osa il 45% dei consumatori di cocaina, la metà dei consumatori di eroina e oppiacei e un quarto dei consumatori di marijuana vivono in America, il secondo continente più violento del pianeta dopo l’Africa. Solo la cocaina muove un giro d’affari che l’Onu stima in 85 miliardi di dollari, 35 dei quali negli Stati Uniti. (R.P.)
Forum economico per l'Asia: al via in Myanmar
◊ Inizia oggi a Naypyidaw, la capitale del Myanmar, il Forum economico mondiale nella sua versione per l’Asia orientale. L’iniziativa, per la prima volta ospitata in un Paese fino a pochi anni fa “paria” globale per il suo regime repressivo e per la sua economia asfittica, ma da pochi mesi libero da buon parte delle sanzioni internazionali, ha portato nella remota capitale 900 rappresentanti di 50 Paesi. Leader politici, diplomatici, imprenditori, un gran numero di giornalisti che fino a venerdì, sotto lo slogan “Courageous Transformation for Inclusion and Integration” (Una trasformazione coraggiosa per l’inclusione e l’integrazione), discuteranno dei risultati e dei limiti dello sviluppo nel più vasto contesto continentale e globale nonché delle prospettive di integrazione regionale. Domani - riferisce l'agenzia Misna - parleranno all’Assemblea il presidente Thein Sein e Aung San Suu Kyi, l’icona della democrazia nell’ex Birmania, Premio Nobel per la pace per molti anni prigioniera del regime e dal maggio 2012 membro del Parlamento. Due momenti importanti non solo per comprendere in quale direzione si è avviata la democrazia in Myanmar, ma anche su quali basi gli investitori potranno concretizzare le proprie iniziative nel Paese, dove il livello delle infrastrutture è in sé un grave limite. L’evento sarà ovviamente anche una vetrina del Myanmar. “Sarà il nostro spettacolo, la nostra presentazione al mondo”, ha sottolineato alla vigilia il ministro del Turismo Htay Aung. Al di là delle attese e anche delle velleità ufficiali, indubbiamente – come ha sottolineato Sushant Palakurthi Rao, direttore del Forum economico mondiale per l’Asia – l’incontro che comincia oggi è finora il più partecipato tra quelli del Forum. “Credo – ha aggiunto Rao – che il numero delle presenze mostri con chiarezza il grande interesse da parte di ogni settore”. (R.P.)
Al via a Baghdad il Sinodo della Chiesa caldea
◊ Al via oggi a Baghdad il primo Sinodo della Chiesa Caldea convocato dal nuovo patriarca Louis Raphaël I Sako, eletto lo scorso 31 gennaio. Diversi i punti all'ordine del giorno: le nomine di vescovi nelle numerose sedi episcopali caldee rimaste vacanti in Iraq, in Medio Oriente e nei Paesi occidentali; la formazione dei sacerdoti; la stesura definitiva di un “Diritto proprio” della Chiesa Caldea da sottoporre al consenso della Sede apostolica; l'aggiornamento e l'armonizzazione dei riti liturgici celebrati in maniera non uniforme nelle varie diocesi; lo studio di misure concrete per arginare il fenomeno della migrazione e incoraggiare i cristiani a rimanere nella propria terra d'origine o a farvi ritorno. (L.Z.)
Pakistan: Sharif per la terza volta premier. Minoranze invocano misure contro la blasfemia
◊ Sopravvissuto a un golpe militare e a sette anni di esilio in Arabia Saudita, il leader della Pakistan Muslim League-Nawaz (Pml-N) Nawaz Sharif ha giurato davanti al Parlamento per il suo terzo mandato a Primo Ministro del Paese asiatico. L'Assemblea nazionale ha quindi votato la fiducia al suo esecutivo, vincitore alle elezioni dell'11 maggio scorso con la conquista di 176 seggi in Parlamento su un totale di 342. Il 63enne politico pakistano, due volte premier negli anni '90 e cacciato nel 1999 in seguito a un golpe militare, deve affrontare numerose sfide, nel tentativo di risollevare il Paese. Nel suo primo discorso davanti all'Assemblea nazionale, il neo premier pachistano Nawaz Sharif ha chiesto la fine dei raid dei droni americani per rispetto alla ''sovranita' e indipendenza'' del Pakistan. "Questa campagna deve finire", ha detto Sharif parlando degli attacchi contro postazioni di talebani nel nord-ovest del Paese. Fra i molti problemi, per gli esperti si profilano almeno sei priorità da affrontare nei primi cento giorni di governo: crisi energetica, economia in ginocchio, inflazione alle stelle, terrorismo islamico, violenze confessionali e intolleranza stratificata a vari livelli nella società. Come appreso da fonti dell'agenzia Fides, fra le minoranze religiose circola un generale scetticismo: “Nawaz Sharif è stato un fondamentalista e un conservatore. Non ci si può aspettare molto da lui. In passato ha dato ampio spazio ai partiti religiosi islamici”, nota a Fides padre Bonnie Mendes, sacerdote di Faisalabad. Un banco di prova sarà la “legge di blasfemia” che Sharif, nel suo precedente governo, confermò, ampliando le pene previste fino all’ergastolo e alla pena capitale: “Una modifica della legge sulla blasfemia - dice padre Mendes - è difficile per chiunque. Quello che si può chiedere è di punire chi formula false accuse di blasfemia e di impedire che dagli altoparlanti delle moschee si istighi alla violenza. Sarebbe per noi un piccolo sollievo”, spiega. In un colloquio con Fides, il domenicano padre James Channan, direttore del “Peace Center” di Lahore si professa “moderatamente ottimista”: “E’ vero – dichiara a Fides – che Sharif in passato è stato favorito dai partiti religiosi e militanti, come ‘Laskar-e-Jhangwi’. E che durante il suo secondo mandato le sue politiche, caratterizzate da una agenda islamista, non hanno favorito le minoranze religiose. Ma oggi la situazione è diversa. La popolazione ha sofferto enormemente sotto il governo del Partito Popolare del Pakistan (Ppp), soprattutto per le questioni economiche, come mancanza di elettricità, inflazione, disoccupazione, corruzione. “Finora nessuno dei precedenti governi ha toccato la legge sulla blasfemia – ricorda il domenicano – a causa delle pressioni e delle minacce di militanti, islamici, scesi in strada. L'ultimo governo ha perso il governatore Salam Taseer e il nostro ministro federale cattolico Shabaz Bhatti, che si erano esposti contro quella legge. Credo che nessun governo abrogherà queste leggi per paura dei militanti. Tuttavia, si potrebbero adottare alcune misure di salvaguardia per gli accusati. Questa è la nostra richiesta al nuovo governo”. (R.P.)
Centrafrica. Saccheggi alle chiese: un appello alla cautela
◊ “Sto camminando come al solito. Non abbiamo altri mezzi dopo che tutti gli autoveicoli a disposizione della diocesi e dei missionari sono stati rubati” dice all’agenzia Fides mons. Juan José Aguirre Muños, vescovo di Bangassou, nella Repubblica Centrafricana. “Ci hanno rubato tutto: 28 automobili, 3 motociclette, tutti i medicinali della farmacia, sono state saccheggiate la pediatria, la casa delle Suore francescane, quella dei Padri Spiritani….l’elenco è lungo” afferma mons. Aguirre Muños, che però non demorde. “Non ne facciamo un dramma perché non è la prima volta che ci accadono cose del genere. L’importante è stare qui, rimanendo accanto ai poveri per evangelizzare. Non siamo stati i primi a sperimentare momenti di violenza e di dolore così grande, né saremo gli ultimi. Resistiamo come gli Apostoli che dicevano è un onore essere picchiati per il Signore”. “E’ prematuro vedere in questa crisi un conflitto interreligioso anche perché in Centrafrica per decenni abbiamo vissuto in totale armonia con i musulmani (il 10-12% della popolazione, ndr). Abbiamo invitato la gente alla vigilanza e alla prudenza ma noi, come Chiesa cattolica, continueremo ad adoperarci a favore del dialogo e della riconciliazione”: lo dice all'agenzia Misna padre Francis Siki, curato della cattedrale di Bangui, mentre nel Paese continuano violenze e furti della Seleka, a due mesi dal colpo di stato che lo scorso 24 marzo ha portato al potere l’ex capo della ribellione, Michel Djotodia. Da allora fonti religiose locali denunciano un’ostilità dei miliziani nei confronti della Chiesa cattolica e temono che Djotodia cerchi di instaurare una Repubblica islamica. “E’ vero che i beni della Chiesa sono stati saccheggiati su vasta scala dai ribelli Seleka mentre quelli dei musulmani sono stati risparmiati. E’ anche vero che alcuni provvedimenti o dichiarazioni ufficiali sono ambigui e possono preoccuparci, ma non bisogna cedere ad interpretazioni facili e rischiose” prosegue l’interlocutore della Misna, che è anche il presidente della Caritas a Bangui. Ma, per padre Siki, il nodo della questione non riguarda la religione musulmana ma bensì “la folta presenza nella Seleka di soggetti stranieri, per lo più ciadiani e sudanesi, che si comportano come conquistatori del Centrafrica, derubando beni di tutti, distruggendo infrastrutture e sfruttando le risorse”. Fonti della società civile contattate nella capitale sottolineano che la sfida principale è il ripristino della sicurezza a Bangui e su tutto il territorio nazionale per consentire alla gente di riprendere regolarmente le proprie attività. Il primo ministro Nicolas Tiangaye ha avviato consultazioni con tutte le forze politiche e con esponenti della società civile per formare un governo di unità nazionale, come chiesto dai Paesi mediatori dell’Africa centrale. “Le questioni istituzionali - dice un rappresentante locale della società civile - sono polvere negli occhi. Qui bisogna disarmare i ribelli con l’aiuto di forze esterne. Solo dopo le nuove autorità potranno mettersi al lavoro e far fronte alle necessità dei centrafricani sempre più poveri e in balia dei miliziani stranieri”. (R.P.)
Mali: militari in marcia verso Kidal. Si teme il peggio
◊ Temono il peggio i militari in marcia verso Kidal. A Bamako tutti i maliani sono impazienti di vedere l’esercito riprendere il controllo del capoluogo per consentire al Paese di ritrovare la sua integrità territoriale, ma temono repressioni e vendette incrociate. A riferirlo all’agenzia Misna fonti della società civile originarie di Kidal, stabilite nella capitale dall’inizio del conflitto nelle regioni settentrionali, nel gennaio 2012. Il capoluogo nord-orientale, solitamente abitato da circa 60.000 persone, si è svuotato negli ultimi mesi dopo che la ribellione tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) ne ha preso il controllo assieme ad altri gruppi armati islamici. L’intervento militare franco-africano, a partire dello scorso gennaio, non ha ancora consentito di liberare Kidal, ancora oggi sotto il dominio dell’Mnla e di altri movimenti armati che si oppongono al ritorno dell’esercito e dell’amministrazione centrale. Accorati gli appelli affinché le truppe che entreranno a Kidal non commettano una repressione cieca, riportano fonti della Misna, sottolineando che i tuareg sono maliani a tutti gli effetti e che l’Mnla (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) rappresenta solo una piccola parte della comunità. Le Forze armate maliane, che si trovano ad Anefis, località situata circa a metà strada tra un’ansa del fiume Niger e Kidal, sono in marcia verso il capoluogo per riprendere il controllo della roccaforte dell’Mnla. La ribellione tuareg ha già messo in guardia la autorità maliane: “Se dovessimo essere attaccati, andremo fino in fondo alla nostra lotta e interromperemo ogni negoziato” ha dichiarato Mahamadou Djeri Maiga, vicepresidente dell’Mnla. A Kidal sono dispiegate truppe francesi e dei Paesi dell’Africa occidentale, il cui ruolo al momento è guardato con sospetto da diversi settori della società maliana. Ieri un consiglio straordinario dei ministri ha prorogato lo stato di emergenza fino al 5 luglio, quando si aprirà la campagna elettorale per il voto del 28 luglio. Cancellate per motivi di sicurezza tutte le manifestazioni. (F.B.)
Bangladesh: musulmani, indù e cattolici ricordano le vittime della parrocchia di Boniarchar
◊ Il 3 giugno del 2001, un ordigno nella chiesa di Boniarchar, distretto di Gopalganj, uccise 10 cattolici e ne ferì 26. Lunedì scorso, a 12 anni dall'attentato, la comunità ha ricordato le vittime. Musulmani e indù hanno partecipato alla commemorazione e hanno chiesto chiarezza alle autorità. Jiaual Hasan, presidente del Shamollito Islami Jot, dichiara che "è inaccettabile che alcuni integralisti musulmani facciano della religione un pretesto per uccidere altra gente e sarebbe necessaria una vera indagine". Anche il leader indù Subroto Hajra, prende le difese della comunità cattolica e dichiara all'agenzia AsiaNews che "la Chiesa è un luogo sacro e ognuno dovrebbe essere libero di professare la propria fede. Per questo motivo pretendiamo una punizione esemplare per i colpevoli". Per Subroto Hajra, capo anche del Consiglio per l'unità di cristiani, indù e buddhisti, "il Bangladesh è un luogo di convivenza pacifica tra le differenti comunità religiose ed episodi di tale natura rovinano l'immagine del Paese". Dal 3 giugno 2001, la polizia ha cambiato sette volte il capo d'indagine senza arrestare alcun colpevole. In occasione della cerimonia di commemorazione, tutti i 200 partecipanti hanno acceso una candela in memoria della vittime e hanno pregato per l'eternità gioiosa della loro anima. In Bangladesh, su una popolazione di 161 milioni, i cattolici costituiscono circa lo 0,3% degli abitanti. (R.P.)
Cambogia: migliaia di operai del tessile in piazza per la liberazione di colleghi arrestati
◊ Il numero e l'intensità delle proteste dei lavoratori cambogiani è "in continuo aumento" e il malcontento si fa "sempre più evidente e diffuso" rispetto al passato. È quanto affermano fonti cattoliche dell'agenzia AsiaNews attive nel terzo settore. Il problema occupazionale, aggiungono, "è molto sentito" e si affianca a quello delle "condizioni in cui si trovano a operare". Difatti, la "competizione con la Cina" spinge le imprese a "contenere le spese" e i lavoratori, in molti casi, restano "sotto la soglia di sopravvivenza". Oggi intanto migliaia di operai - guidati dai sindacati nazionali - hanno manifestato, chiedendo la liberazione dei colleghi arrestati nei giorni scorsi e tuttora in stato di fermo senza capi di accusa specifici. Lo scorso 3 giugno otto persone sono state arrestate, nell'ambito delle manifestazioni di piazza promosse da oltre 10mila impiegati nel tessile, che chiedono un aumento dei salari e migliori condizioni di lavoro. A guidare la protesta i dipendenti della compagnia di proprietà taiwanese Sabrina (Cambodia) Garment Manifacturing, che produce vestiti e calzature per l'americana Nike. L'industria del tessile è fra le più fiorenti e vitali della Cambogia, con 650mila occupati e un volume di affari miliardario legato alla produzione di capi di abbigliamento per le grandi marche occidentali. Ad oggi la magistratura non ha ancora emesso un capo di accusa specifico nei confronti dei manifestanti fermati; durante gli scontri seguiti alle dimostrazioni sono rimaste ferite una decina di persone, fra cui un'operaia incinta che nei tumulti ha perso il bambino. Per questo oggi almeno 3mila persone si sono assembrate davanti ai cancelli del tribunale provinciale di Kampong Speu, nel sud della Cambogia, chiedendo il rilascio degli arrestati. "Il governo ha paura delle proteste - afferma Ou Virak - presidente del Cambodian Centre for Human Rights - perché teme possibili rivolte sociali in vista delle prossime elezioni. Una sorta di rivolta, sulla falsariga di quanto avvenuto nei Paesi arabi o in Turchia". Egli aggiunge però che la politica del pugno di ferro "causerà ulteriore risentimento". (R.P.)
Sud Corea: sacerdoti in pellegrinaggio sulle tombe dei martiri pregano per la pace
◊ Assumere, nell’Anno della Fede, l’esempio dei martiri coreani, modello di virtù e di fede: con questo spirito, nella Giornata Mondiale di Preghiera per la Santificazione dei Sacerdoti, il 7 giugno prossimo, i 600 sacerdoti dell'arcidiocesi di Seul vivranno un pellegrinaggio a piedi, che toccherà i santuari dedicati ai martiri cattolici coreani. Il pellegrinaggio, guidato dall’arcivescovo di Seul, mons. Andrei Yeom Soo-jung, toccherà, fra gli altri luoghi, la cattedrale di Myeongdong, i santuari di Seosomun e Saenamteo. In una nota inviata a Fides, l’arcivescovo Yeom Soo-jung spiega: “Questo pellegrinaggio non è solo un momento per i sacerdoti a riflettere sui propri compiti del sacerdozio, ma anche una buona occasione per lasciare che molte persone conoscano i martiri coreani e riflettano sulla loro fede. Inoltre, si celebra nel 2013 il 60 ° anniversario della guerra di Corea: attraverso questo evento, preghiamo per una autentica pace nella penisola coreana”. Come riferito all'agenzia Fides da padre Matthias Hur Young-yup, direttore delle Comunicazioni sociali nell’arcidiocesi, la Giornata del 7 giugno avrà inizio con l'adorazione eucaristica e la liturgia della Parola, alle ore 10.30 nella cattedrale di Myeongdong. Seguiranno una serie di catechesi e riflessioni sulla storia e sull’esperienza dei martiri. Nel pomeriggio prede il via il pellegrinaggio a piedi, che si concluderà al “Seosomun Martyrs Memorial Hall”, il più grande santuario dedicato ai martiri coreani, dove si terrà la Santa Messa, atto finale della Giornata. Già il 2 giugno scorso l'arcidiocesi di Seul ha celebrato l'adorazione eucaristica in contemporanea mondiale, unita a Papa Francesco, con la partecipazione di oltre mille fedeli presenti nella cattedrale. L’arcivescovo ha chiesto a tutti di “pregare per la riconciliazione fra Nord e Sud Corea Sud e per tutte le famiglie separate dalla divisione fra le due Coree”. La Chiesa coreana è cresciuta grazie all’opera al martirio di moti fedeli. In passato sono già stati canonizzati 103 santi; ora la Chiesa coreana sta lavorando sulla beatificazione di padre Choi Yang-eob (1821-1861), il secondo sacerdote coreano morto durante il lavoro pastorale, di Paul Yu Ji-chung (1759-1791), il primo martire coreano, e di altri 123 fedeli che hanno sacrificato la loro vita per la fede. (R.P.)
Filippine: vescovi contro il porto d'armi per sacerdoti e missionari, autorizzato dal governo
◊ I vescovi filippini criticano il nuovo decreto legge del governo su armi e munizioni che autorizza anche sacerdoti e religiosi, soprattutto se in missione in aree ad alto rischio, ad avere con sé pistole e fucili. Per i prelati "girare armati, anche per legittima difesa, è incompatibile con la fede cristiana". Mons. Arturo Bastes, vescovo di Sorgoson, sottolinea che "i missionari sono per definizione non violenti e ottengono la loro protezione dagli angeli, non dalle armi". Dello stesso parere è mons. Honesto Ongtioco, vescovo di Cubao (Quezon City). "Come sacerdoti - afferma - la nostra vocazione e il nostro ruolo nella trasformazione della società sono diverse da quelle degli attivisti laici. Noi dobbiamo preoccuparci della nostra missione fra i fedeli, non della nostra sicurezza". Varato lo scorso 29 maggio, il Comprehensive Firearms and Ammunition Regulation Act agevola il porto d'armi per attivisti, giornalisti, medici e leader religiosi, spesso vittime di sequestri, uccisioni sommarie e rapine da parte di gruppi terroristi o criminali. Il decreto è valido solo in alcune zone dell'arcipelago filippino, come ad esempio le province di Sulu e Basilan (Mindanao), in mano agli estremisti islamici di Abu-Sayyaf. Fonti dell'agenzia AsiaNews a Mindanao, sottolineano che la legge "serve anzitutto per regolare il traffico illegale di armi, che ha nell'isola uno dei suoi centri nevralgici". L'inserimento dei religiosi all'interno della lista è un modo per invitare tutti coloro che operano in quelle aree a viaggiare con prudenza. Tuttavia "è un segno del clima di insicurezza che affligge alcune aree del Paese, dove nemmeno operatori di pace come i sacerdoti sono risparmiati dalla violenza dei gruppi criminali". Da diversi anni le autorità di Mindanao cercano di imporre la scorta armata a vescovi e missionari stranieri che ricevono minacce da parte di gruppi estremisti o criminali. La maggior parte dei religiosi spesso rifiuta tale offerta. Le fonti di AsiaNews confermano il messaggio dei vescovi filippini: "Viaggiare con militari armati limita la testimonianza fra la popolazione che invece convive ogni giorno con tali pericoli frutto di oltre 40 anni di guerriglia fra esercito filippino e ribelli islamici". In questi anni diversi sacerdoti e religiosi sono stati assassinati o rapiti da bande criminali o gruppi terroristi. L'omicidio più recente è stato quello di padre Fausto Tentorio, 59 anni, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) nell'Arakan Valley (Mindanao), ucciso da una raffica di mitra il 17 ottobre 2011. Egli è il terzo missionario del Pime assassinato nelle Filippine. Gli altri martiri sono: padre Tullio Favalli ucciso nel 1985 nella diocesi di Kidapawan e padre Salvatore Carzedda, impegnato nel dialogo con i musulmani, morto nel 1992 a Zamboanga. (R.P.)
Apre il portale radiofonico del Celam
◊ Al fine di sostenere la programmazione delle emittenti cattoliche in America Latina e nei Caraibi, il Dipartimento di Comunicazione del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), ha creato il portale Radiofonico Celam, uno spazio virtuale per avvicinare tutti alle radio cattoliche della Chiesa. Questo strumento che è stato sviluppato dal Cebipal (Centro Biblico Pastorale del Celam) e dalle Società Bibliche Unite, offrirà gratuitamente programmi radiofonici e altre risorse alle stazioni radio cha lavorano all'evangelizzazione del continente. La nota inviata all'agenzia Fides dal Celam, afferma: "Questo portale è stato creato con l'obiettivo di fornire programmi audio di Lectionautas, che possono esser trasmessi dalle stazioni radio nella regione”. Secondo i dati pervenuti all'agenzia Fides, sono più di 3 mila le radio cattoliche presenti nella sola America Latina anche se non si conosce il numero preciso di persone che la ascoltano; si sa però che la radio è ancora il media più diffuso nelle Ande. (R.P.)
Francia: documento dei vescovi sul matrimonio
◊ “Continuiamo il dialogo”: s’intitola così un documento pubblicato in Francia dai 12 vescovi che compongono il Consiglio famiglia e società. Un documento in cui la Chiesa di Francia cerca di rispondere ai numerosi interrogativi che ha suscitato il progetto di legge che apre il matrimonio alle persone dello stesso sesso ed è stato approvato il 18 maggio dal presidente della Repubblica Hollande. Un progetto di riforma - riferisce l'agenzia Sir - che ha fortemente diviso la comunità nazionale. “Come superare le opposizioni tra punti di vista diversi?”, a questo interrogativo i vescovi francesi tentano di trovare più che una risposta, una via di uscita che consenta a tutti di lavorare insieme per il bene comune. Il primo insegnamento è che “l’esercizio democratico suppone fin dall’inizio che le divergenze di opinione siano legittime”. “Su questa base i cittadini e le organizzazioni possono esprimere liberamente il loro punto di vista, nel rispetto degli altri. Ciascuno merita di essere ascoltato e rispettato per le sue più profonde convinzioni. Il dibattito - incalzano i vescovi - deve normalmente permettere di migliorare un progetto in modo da raccogliere l’adesione del più gran numero di persone. Il disprezzo, la violenza verbale o fisica non hanno spazio nel gioco democratico”. L’altro insegnamento è il rispetto della laicità in base alla quale “la Chiesa come ogni associazione, può far sentire le sue argomentazioni e i cattolici, come tutti i cittadini, possono prendere la parola”. (R.P.)
A don Di Noto il premio "Tu es Petrus" per la sua opera in difesa dell'infanzia
◊ L’associazione “Tu es Petrus” (www.tuespetrus.it), fondata nel 2005 in ossequio all’elezione di Benedetto XVI, ha conferito a don Fortunato Di Noto l’omonimo premio internazionale come “operatore di pace”. “Il riconoscimento è per la sua opera esemplare in difesa dell’infanzia, dei più piccoli e indifesi, quale presidente dell’Associazione Meter”, si legge nella motivazione. La premiazione si terrà il prossimo 16 novembre a Battipaglia (Salerno). Realizzato dallo scultore Michele Monaco - riferisce l'agenzia Sir - il premio è stato presentato e donato lo scorso 25 marzo a Papa Francesco. L’opera, in bronzo, raffigura san Pietro e la basilica vaticana. “È una grande gioia per me ricevere questo premio”, confessa il sacerdote, perché “significa che da quasi venticinque anni l’impegno di Meter nella Chiesa e per la Chiesa viene ancora una volta apprezzato”. Don Di Noto non nasconde le difficoltà: “È un cammino faticoso ma possibile in difesa dei piccoli. Ed è questo, malgrado le difficoltà economiche e di risorse a cui ci sta sottoponendo la Regione Sicilia, che ci spinge a fare sempre più e sempre meglio”. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 156