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Sommario del 09/01/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Udienza generale. Il Papa: chi non dona un po' di se stesso, dona sempre troppo poco
  • Il cardinale Sandri in Egitto: cristiani in difficoltà, le riforme rispettino la libertà religiosa
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Gabon, al via i colloqui tra governo e ribelli Seleka. Testimonianza di un missionario
  • Egitto: presidente Morsi "arbitro" delle prove di pace tra Hamas e Al Fatah
  • Sinai, un migliaio i profughi prigionieri. Don Zerai: urgente mobilitarsi per liberarli
  • Rapporto Open door 2013: persecuzioni religiose nel mondo, rischio islamizzazione in Medio Oriente
  • Mons. Lazzarotto: in Terra Santa abbattere i muri di pietra e dello spirito
  • I vescovi tedeschi rompono con il Kfn: ora nuovo partner per le ricerche sugli abusi
  • Un milione di firme per difendere la vita in Europa
  • Ospedali religiosi: situazione critica nel Lazio. Aris: a rischio eccellenza sanità italiana
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Iraq: a Mosul autobomba uccide uno studente universitario cristiano
  • Caritas Giordania: rivolta nel campo di Zaatari, devastato dalla tormenta
  • Haiti. Commissione Ue: a tre anni dal terremoto resta molto da fare
  • Mali: rinviati colloqui governo-ribelli
  • Sudan: in Sud Kordofan e Blue Nile popolazioni allo stremo
  • Francia: la manifestazione contro i matrimoni gay non ha carattere confessionale
  • Sri Lanka: la giovane Rizana Nafeek è stata giustiziata
  • Filippine: a Mindanao chiese stracolme a Natale. Un segno di speranza per la pace
  • Myanmar. La Chiesa: “Un Anno giubilare di libertà e riconciliazione per il Paese"
  • Bolivia: la Chiesa rivendica le proprietà del vicariato di Beni nel Tipnis
  • Cile: i Gesuiti dalla Missione Mapuche auspicano una pace duratura
  • Zambia: rientrato il sacerdote di origine rwandese espulso ad agosto
  • Nord Irlanda. Il vescovo anglicano Miller: preoccupa nuovo clima di violenza urbana
  • Austria: preoccupazione del card. Schönborn per la carenza delle vocazioni
  • Russia: a Mosca oltre 220 mila fedeli alle funzioni della notte di Natale
  • Il 150.mo anniversario della morte della Serva di Dio Pauline-Marie Jaricot
  • Il Papa e la Santa Sede



    Udienza generale. Il Papa: chi non dona un po' di se stesso, dona sempre troppo poco

    ◊   Un dono d’amore di “inaudito realismo”, che insegna cosa significhi donare con totale gratuità: ecco qual è il senso dell’Incarnazione di Gesù. All’udienza generale di stamattina, in Aula Paolo VI, Benedetto XVI ha dedicato la catechesi dell’udienza generale all’evento iniziale della salvezza cristiana. Dobbiamo “recuperare – ha detto – lo stupore di fronte a questo mistero”. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    Il rischio di abituarsi all’“assolutamente impensabile” il Papa lo paventa all’inizio della catechesi. Dio ha preso carne umana, pensando come un uomo, amando come un uomo, avendo una madre, un padre e degli amici. Eppure, afferma, ad attrarre della festa del Natale sono a volte i suoi “colori”, il bordo esteriore della verità piuttosto che “il cuore della grande novità cristiana": e cioè, che Dio è entrato nella storia, Dio ha condiviso tempo, spazio e soprattutto la precarietà dell’essere umano. Un “grande mistero”, ha sottolineato Benedetto XVI, racchiuso nelle cinque parole “Il Verbo si è fatto carne”:

    “Questo per dirci che la salvezza portata dal Dio fattosi carne in Gesù di Nazaret tocca l’uomo nella sua realtà concreta e in qualunque situazione si trovi. Dio ha assunto la condizione umana per sanarla da tutto ciò che la separa da Lui, per permetterci di chiamarlo, nel suo Figlio Unigenito, con il nome di ‘Abbà, Padre’ ed essere veramente figli di Dio”.

    “È importante allora – ha esortato il Papa – recuperare lo stupore di questo mistero”…

    “E’ importante allora recuperare lo stupore di fronte a questo mistero, lasciarci avvolgere dalla grandezza di questo evento: Dio, il vero Dio, Creatore di tutto, ha percorso come uomo le nostre strade, entrando nel tempo dell’uomo, per comunicarci la sua stessa vita. E lo ha fatto non con lo splendore di un sovrano, che assoggetta con il suo potere il mondo, ma con l’umiltà di un bambino”.

    Restituita, per così dire, alle giuste dimensioni l’eccezionalità dell’Incarnazione, Benedetto XVI ne ha posto in rilievo alcuni aspetti. Anzitutto, il valore che sta dietro un dono. A parte chi regala qualcosa per “convenzione”, di norma – ha rilevato – un dono “esprime affetto, è un segno di amore e di stima”. Dio è andato ben oltre, ha ribadito il Papa: “Ha assunto la nostra umanità per donarci la sua divinità”. E così facendo, ha conferito una nuova misura all’atto del donare:

    “Chi non riesce a donare un po’ di se stesso, dona sempre troppo poco; anzi, a volte si cerca proprio di sostituire il cuore e l’impegno di donazione di sé con il denaro, con cose materiali. Il mistero dell’Incarnazione sta ad indicare che Dio non ha fatto così: non ha donato qualcosa, ma ha donato se stesso nel suo Figlio Unigenito. Troviamo qui il modello del nostro donare, perché le nostre relazioni, specialmente quelle più importanti, siano guidate dalla gratuità dell'amore”.

    All’affermazione sul dono totale di se stessi – apparsa poco dopo l’udienza anche in un nuovo tweet papale – Benedetto XVI ha fatto seguire altre due considerazioni sulla venuta di Cristo nel mondo. La prima sul fatto che nel diventare “uomo come noi” Dio mostra dell’amore divino un “inaudito realismo”, perché “non si accontenta di parlare, ma si immerge nella nostra storia”:

    “Questo modo di agire di Dio è un forte stimolo ad interrogarci sul realismo della nostra fede, che non deve essere limitata alla sfera del sentimento, delle emozioni, ma deve entrare nel concreto della nostra esistenza, deve toccare cioè la nostra vita di ogni giorno e orientarla anche in modo pratico”.

    La seconda riflessione è incentrata invece sull’indissolubile, profondo rapporto spirituale che lega le pagine della Bibbia prima e dopo l’Incarnazione di Gesù:

    “L’Antico e il Nuovo Testamento vanno sempre letti insieme e a partire dal Nuovo si dischiude il senso più profondo anche dell’Antico (...) Con l’Incarnazione del Figlio di Dio avviene una nuova creazione, che dona la risposta completa alla domanda ‘Chi è l’uomo?’. Solo in Gesù si manifesta compiutamente il progetto di Dio sull’essere umano: Egli è l’uomo definitivo secondo Dio”.

    Al termine delle catechesi in otto lingue, Benedetto XVI ha fatto riferimento alla Festa del Battesimo del Signore di domenica prossima, invitando in particolare i giovani a riscoprirvi “quotidianamente” la grazia proveniente dal Sacramento, gli ammalati ad attingere dal Battesimo “la forza per affrontare i momenti di dolore e di sconforto” e i nuovi sposi a saper “tradurre gli impegni del Battesimo” nel “cammino di vita familiare”.

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    Il cardinale Sandri in Egitto: cristiani in difficoltà, le riforme rispettino la libertà religiosa

    ◊   E’ “urgente far sentire alle regioni orientali la sollecitudine della Chiesa”: è quanto ha affermato il cardinale Leonardo Sandri, in questi giorni in visita in Egitto. Il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali ha presieduto stamani al Cairo la Messa per il bicentenario della nascita della Beata Maria Troiani, fondatrice delle Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, che nella capitale egiziana gestiscono numerose opere educative e assistenziali. Ieri sera si è svolto l’atteso incontro con il patriarca copto-ortodosso Tawadros che ha espresso la propria preoccupazione per la situazione dei cristiani in Medio Oriente. Sull’accoglienza che sta ricevendo in questi giorni in Egitto, ascoltiamo il cardinale Leonardo Sandri al microfono di Sergio Centofanti:

    R. - Un’accoglienza cordialissima, affettuosa, da parte dei nostri confratelli cattolici, i vescovi, i sacerdoti e le religiose. Ho celebrato due anniversari: i 100 anni della fondazione della Congregazione delle Suore Egiziane del Sacro Cuore e, adesso, i 200 anni della nascita della fondatrice delle Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria, che stanno qui in Egitto ed hanno tante opere. Quindi, è una visita di grande accoglienza ecclesiale, affettuosa, cordiale da parte dei nostri fratelli che vivono in tante difficoltà. Sono stato accolto molto cordialmente dal Patriarca greco ortodosso Theodoros di Alessandria e poi ho avuto un incontro molto cordiale e fraterno col Patriarca copto ortodosso Tawadros, che ha accettato di ricevermi ed io - con tanta gioia e speranza - sono andato a fargli visita e gli ho fatto tanti auguri per il suo ministero e per tutto quello che lui può fare per i nostri fratelli cattolici. Quindi, ribadisco, ho ricevuto da parte della Chiesa cattolica un’accoglienza veramente fraterna, con un affetto grandissimo verso il Santo Padre; tutti hanno accolto le parole che lui ha rivolto recentemente al Corpo Diplomatico e sono tutti molto sensibili all’attenzione e all’affetto che le comunità cristiane in Occidente danno loro.

    D. - Qual è la situazione delle comunità cristiane in Egitto, in questo momento molto particolare?

    R. - In questo momento loro soffrono: a volte sentono voci minacciose per la loro esistenza, sono voci isolate che parlano di farli sparire dall’Egitto; ma, per il momento continuano la loro opera. Per esempio, le Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria hanno delle scuole importantissime, qui al Cairo, dove i musulmani mandano anche le loro figliole, con tanta fiducia nella loro formazione e con tanta amicizia. Quindi, da una parte si tratta di una situazione, a volte, triste per queste voci isolate che si sentono contro i cristiani, ma nella vita di ogni giorno - soprattutto le suore, ma anche i frati francescani, i sacerdoti - ricevono un’accoglienza veramente fraterna da parte del popolo, perché vedono il bene che offrono, sia nell’ambito dell’educazione, della sanità e della promozione umana.

    D. - Alcuni cristiani temono per l’introduzione dei principi della Sharia nella Costituzione…

    R. - Certamente, per quello che il Papa ha detto, auspichiamo che - in questo periodo di riforme costituzionali nell’Egitto - ci sia da parte di tutti noi una preghiera ed una vicinanza, perché siano guidati nel difendere i diritti della persona umana, in primo luogo, la libertà religiosa e tutti quei diritti che servono la dignità della persona: il diritto all’educazione, il diritto alla vita, il diritto alla casa, al cibo, al lavoro, perché ci sono tanti disoccupati. Speriamo che in queste riforme costituzionali entrino tutti questi principi che si richiamano non alla Primavera araba, ma alla “primavera umana”, alla primavera dell’uomo nella sua dignità.

    D. - Lei ha avuto un incontro con il nuovo Patriarca copto ortodosso Tawadros. Come sono i rapporti ecumenici?

    R. - Sono rapporti molto cordiali. Lui mi ha parlato di un ecumenismo teologico e questo - dice - può essere difficile, però c’è un ecumenismo dell’amore, nel quale noi dobbiamo continuare a camminare insieme con tutto il nostro impegno e la nostra fiducia. Ci sono tanti segni di speranza da parte del nuovo Patriarca copto ortodosso.

    D. - Quali sono le sue speranze per la Chiesa in Egitto?

    R. - Che possa continuare le sue opere, come ha fatto finora, attraverso gli ordini maschili e femminili, attraverso i laici, attraverso l’educazione, per questo grande popolo. Che l’Egitto riprenda, veramente, il suo ruolo nel Medio Oriente e nel mondo; questo ruolo di grandezza umana, storica, culturale, civile che lo ha caratterizzato durante tutti gli anni passati e che speriamo sia così anche per il futuro.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Il tema dell’Incarnazione al centro dell’udienza generale di Benedetto XVI.

    Nell’informazione internazionale, in rilievo la crisi nella Repubblica Democratica del Congo: stallo nei negoziati tra Governo e ribelli.

    Il Vaticano II presente oggi e aperto al domani: stralci da una conferenza dell’arcivescovo titolare di Bolsena, nunzio apostolico e presidente emerito della Pontificia Accademia Ecclesiastica, Justo Mullor García.

    Nel lato oscuro del sogno americano c’è la solitudine: in cultura, Emilio Ranzato sulla pellicola “The Master” di Paul Thomas Anderson.

    Quando un’immagine riaccende l’emozione di un film: Gaetano Vallini sul cinema raccontato dai grandi fotografi.

    Cresce in Francia la mobilitazione per la famiglia: nel servizio religioso, un articolo sulla manifestazione contro il disegno di legge sulle unioni omosessuali.

    Rispetto della vita e difesa della libertà religiosa: messaggio dei vescovi in Ecuador in vista delle elezioni presidenziali del 17 febbraio.

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    Oggi in Primo Piano



    Gabon, al via i colloqui tra governo e ribelli Seleka. Testimonianza di un missionario

    ◊   Sono iniziati oggi a Libreville, in Gabon, i colloqui di pace tra il governo della Repubblica Centrafricana e la delegazione dei ribelli del movimento Seleka, che dal 10 dicembre scorso hanno imbracciato le armi, conquistando parte del Paese e chiedendo le dimissioni del presidente, François Bozizé. Il capo dello Stato non partecipa personalmente ai negoziati, nei quali si discute la rinegoziazione degli accordi firmati dalle parti il 2007 e il 2011. La situazione sul terreno rimane tesa, con ricadute fortemente negative per la società civile. Sono stati saccheggiati diversi depositi del Programma alimentare dell’Onu, contenenti aiuti destinati alla popolazione. Sulla realtà sociale del Paese, Giancarlo La Vella ha intervistato il padre cappuccino, Antonino Serventini, da 25 anni missionario in Centrafrica:

    R. – I valori su cui si basa la società centrafricana vedono al primo posto la famiglia, intesa come gruppo, come clan, come sangue, che li tiene uniti: la famiglia che accoglie i bambini, che accoglie la vita. Questo è il valore principale. Il nostro ruolo, come missionari, si avvale appunto di queste basi ed evidentemente è facilitato dal fatto che noi annunciamo il Signore e cerchiamo di far conoscere il Figlio di Dio. Questo messaggio è accolto molto gradevolmente e da questo loro si aspettano tutto. Non parliamo ancora di nuova evangelizzazione laggiù, perché siamo ancora nella fase dell’evangelizzazione tradizionale.

    D. – Qual è il rapporto dei cattolici in Centrafrica con le altre realtà religiose?

    R. – Il dialogo con i cattolici si fa addirittura anche con i musulmani. L’abbiamo fatto l’anno scorso ed è stato molto interessante. Hanno contribuito a questo incontro tutte le componenti cristiane. Abbiamo interpellato i fratelli protestanti e anche quelli musulmani, che hanno esposto il loro punto di vista con molto rispetto. I punti d’incontro sono sulla pace.

    D. – E’ inutile dire che un momento come questo ricade fortemente sulla popolazione civile...

    R. – Sì, la preoccupazione è proprio che il popolo eviti il bagno di sangue, quindi che ci sia una guerra civile, una guerra fratricida.

    D. – La Repubblica Centrafricana è un Paese ricco dal punto di vista delle materie prime, ma permane una grande povertà nella popolazione. Come fare per eliminare certe differenze socioeconomiche?

    R. – La strada buona è quella che hanno intrapreso in Ciad, perché nell’ambito dello sfruttamento dei giacimenti è stata fatta, sul territorio, una raffineria. E’ molto importante che sia la popolazione a sfruttare tutto questo e che i proventi vadano alla popolazione stessa. Finora, invece, è stato asportato ed esportato: parlo del petrolio, ma adesso anche per il cotone è così, come anche per il legname della foresta, per l’uranio e i diamanti. Queste sono le materie prime più ambite dai contendenti.

    D. – Il Paese ha tutte le carte in regola perché ci sia un benessere diffuso?

    R. – Questo è quello che evidentemente sperano. Le entrate, infatti, sono basate sulle licenze. Ma sarebbe importante che la ricchezza fosse all’interno del Paese. Non vi è però la possibilità, all’interno del Centrafrica, di avere la tecnologia che consenta agli stessi centrafricani di manipolare, di sfruttare e distribuire questa ricchezza a pari diritto con un partenariato paritario.

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    Egitto: presidente Morsi "arbitro" delle prove di pace tra Hamas e Al Fatah

    ◊   Si attendono nuovi risvolti dagli incontri di oggi Al Cairo tra il presidente palestinese, Abu Mazen, e il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal. Sul tavolo la riconciliazione tra Al Fatah e Hamas, ai ferri corti dal 2007. I colloqui si svolgono alla presenza del presidente egiziano, Morsi, che ormai da tempo si sta proponendo come un attore importante nella regione mediorientale. Questi colloqui porteranno a qualche passo avanti nella riconciliazione tra i due movimenti palestinesi? Benedetta Capelli lo ha chiesto ad Antonio Badini, ex ambasciatore italiano Al Cairo, autore del libro “Verso un Egitto democratico”:

    R. – Io credo di sì, perché intanto l’Autorità nazionale palestinese è riuscita a conseguire questa grande vittoria alle Nazioni Unite, con il riconoscimento di Stato osservatore e non membro: non più dunque un’entità, ma uno Stato. Questo si è unito al mezzo successo che ha avuto Hamas nel favorire un avvicinamento con Morsi e convincerlo a svolgere un ruolo di mediazione con Israele, una presa di posizione che è stata favorita anche dagli americani. Sia Hamas che Fatah, dunque, hanno recentemente alzato un po’ il morale. Morsi si sente responsabile di questo primo passo e sicuramente sarà in grado di controllare le forze più radicali. Mi pare, dunque, che ci siano le condizioni per poter sperare in una ripresa di colloquio. Non è facile, ma credo che sarà molto difficile tornare indietro.

    D. – Morsi ha avuto un ruolo importante nel riconciliare nei mesi scorsi Israele e Hamas. Hamas, lo ricordiamo, è filiazione dei Fratelli Musulmani, formazione dalla quale il presidente egiziano deriva. Questo quanto può incidere sui negoziati?

    R. – Io credo che intanto Hamas sia in debito morale e anche politico con i Fratelli Musulmani, e dunque starà attenta a non commettere errori, a non creare tensioni che possano appunto provocare un crescendo di violenza. Al tempo stesso, Morsi sa di poter controllare Hamas e di poterla controllare in maniera che questa relativa armonia che si è creata tra l’Egitto e Hamas poi porti dei risultati. E qui le cose possono farsi un po’ più complicate, perché in Israele la destra sta guadagnando posizioni.

    D. – Il presidente egiziano, secondo lei, è davvero l’attore nuovo nello scacchiere mediorientale?

    R. – Certamente sì, oggi è l’attore nuovo. Ha problemi interni e dunque è un po’ condizionato anche lui, ma è un attore nuovo in quanto ha una carica di novità che non può essere offuscata dalla responsabilità di governo. Lui deve portare avanti un disegno che sia positivo per la Palestina. Credo che il suo interesse sia di non far perdere influenza ad Hamas nel quadro palestinese. Il punto adesso per Fatah è riuscire a consolidare questo successo alle Nazioni Unite. L’armonia, dunque, non sarà facile, però gli ingredienti per poter ottenere un’unità del popolo palestinese ci sono tutti. Naturalmente occorrerà fare un compromesso e Fatah dovrà fare un passo indietro perché tutto sommato non è più, come prima, la forza egemone all’interno del movimento palestinese. Hamas è cresciuta e il fatto che sia Morsi a gestire questa situazione è un punto rassicurante perché Morsi ha due anime dentro di sé: quella che tende ad incoraggiare una situazione di armonia e che porti poi i palestinesi al tavolo del negoziato: quella poi in grado di tenere un controllo sui movimenti che hanno creato finora la violenza, si tratta di questi movimenti jihadisti che, con la connivenza di Hamas prima di Morsi, hanno a volte creato i presupposti per reazioni, anche se sproporzionate, di Israele. Morsi, dunque, effettivamente è un punto di speranza. Speriamo che i problemi interni non lo distraggano troppo dal tempo che occorrerà dedicare alla causa palestinese, perché rimane una causa che non ha una prospettiva a breve termine.

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    Sinai, un migliaio i profughi prigionieri. Don Zerai: urgente mobilitarsi per liberarli

    ◊   Non si sblocca la situazione nel territorio del Sinai, al confine tra Egitto e Israele, per i profughi eritrei in balia dei predoni che controllano il deserto. Centinaia di uomini e donne, anche incinte, vengono tenuti a lungo prigionieri, in condizioni disumane, in attesa che qualcuno paghi per loro il riscatto chiesto dai rapitori. Una situazione che rimane per lo più ignorata dai mass media e disattesa dai governi coinvolti, nonostante gli appelli lanciati alla comunità internazionale. Per un aggiornamento sulla situazione di questi profughi, Adriana Masotti ha sentito don Mussie Zerai, il sacerdote che tramite telefono satellitare riesce a mantenersi in contatto con alcuni di loro:

    R. – Non è che l’attuale situazione sia cambiata molto da qualche mese o un anno a questa parte. Ora, ci sono circa un migliaio di ostaggi e aumentano, nonostante sia diminuito il flusso di persone che vogliono andare in Israele. Quello che sta avvenendo adesso, invece, è che le persone vengono sequestrate in Sudan, negli stessi campi profughi, come quello di Shagarab. Oppure, vengono vendute già al confine con il Sudan, a volte anche con la complicità della polizia sudanese che li carica sulle macchine dicendo di accompagnarli ai campi profughi, e invece consegnanandoli poi nelle mani dei trafficanti. Accadono questo genere di manovre per costringere queste persone ad arrivare nel Sinai dove poi possono essere ricattate. Quindi, il ricatto inizia già in territorio sudanese, perché i primi trafficanti che li prendono sono misti, tra sudanesi ed eritrei, e chiedono somme intorno a 10 mila dollari. E se i familiari non sborsano queste cifre, le persone vengono rivendute ai predoni del Sinai. Quindi, il traffico si è allargato nei campi profughi in Sudan o proprio al confine tra Eritrea e Sudan e questo perché c’è la totale mancanza di garanzia della sicurezza perfino nei campi profughi, che compete al governo sudanese. Così, noi continuiamo a ricevere telefonate con richieste di aiuto sia dai familiari sia direttamente dagli ostaggi, che chiedono aiuto per pagare il riscatto.

    D. – Lei ha detto che questa situazione si sta allargando ancora di più. Ma a chi giova che questa situazione non si risolva? Quali e quanti sono gli interessi in gioco?

    R. – Da una parte, c’è il fatto che esiste un Sinai fuori controllo da parte del governo egiziano, perché evidentemente lì c’è di tutto. Sappiamo che lì i profughi vengono tenuti perfino negli scantinati delle ville che questi trafficanti si sono costruiti nelle stesse città di Rafah, o al-Arish… La polizia egiziana non riesce a controllarli e non riesce a impedire questo. A chi giova? Giova ai trafficanti. Poi, c’è la corruzione spaventosa sia in Egitto sia in Sudan e quindi i trafficanti hanno vita facile. Qui, invece, servirebbe un impegno della comunità internazionale, come richiamato dal Santo Padre nel novembre scorso quando ha incontrato i partecipanti all’assemblea dell’Interpol, affermando che serve un impegno anche della polizia internazionale contro questi orribili traffici che sono la negazione della dignità umana. Qui, viene negato l’uomo in quanto tale, perché viene ridotto allo stato animale, di bestia, perché queste sono le condizioni in cui vengono tenuti gli ostaggi: incatenati, spesso costretti a mangiare erba, come fossero capre, pecore… E’ questo quello che avviene in Sinai. Bruciati, marchiati e abusati in tutti i sensi: questo è quanto sta avvenendo…

    D. – Alcune organizzazioni umanitarie hanno, a suo tempo, denunciato quanto sta avvenendo nel Sinai. Si sono anche mobilitate, ma senza risultati. Che cosa potrebbe fare di più l’opinione pubblica per la liberazione di questa gente?

    R. – L’opinione pubblica deve continuare a richiamare i propri governi a impegnarsi perché in Egitto, in Sudan e anche in Eritrea e in Etiopia tutti questi movimenti di traffico di esseri umani e di organi abbiano fine. Ci siamo rivolti a tante sedi istituzionali, soprattutto al Parlamento europeo. Nello scorso mese di giugno, ci siamo recati anche al Dipartimento di Stato americano proprio per chiedere l’impegno degli Stati Uniti, affinché facessero pressione su questi governi e avere a disposizione uomini per combattere questi traffici.

    D. – Anche Israele potrebbe fare di più?

    R. – Sì, potrebbe fare molto di più, perché anche le autorità israeliane hanno ottimi contatti nel Sinai, conoscono il territorio e quindi potrebbero fare molto di più di quello che stanno facendo. Infatti, Israele si è limitato a costruire il muro che separa l’Egitto da Israele, ma non basta un muro: quello che accade al di là del muro non significa che non li riguarda solo perché è al di là del muro, perché riguarda esseri umani, riguarda tutta l’umanità. Ci tocca tutti. Per questo, è bene che anche i mass media si impegnino di più per informare, per combattere anche con l’informazione questo traffico.

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    Rapporto Open door 2013: persecuzioni religiose nel mondo, rischio islamizzazione in Medio Oriente

    ◊   E’ in crescita la consapevolezza del dramma delle persecuzioni a sfondo religioso, ma i dati confermano un fenomeno drammatico nel mondo che colpisce in maggior numero i cristiani. E’ quanto emerge dal Rapporto “Open door 2013”, nel quale si legge che in Corea del Nord circa 70 mila fedeli sono detenuti in campi di lavoro. Ma anche che la Cina è scesa dal 21.mo al 37.mo posto nella classifica dei Paesi più intolleranti. Di persecuzioni e in particolare di quanto sta avvenendo in Medio Oriente e Nord Africa, Fausta Speranza ha parlato con Marta Petrosillo, portavoce di Aiuto alla Chiesa che soffre:

    R. – C’è molta attenzione riguardo a quanto sta accadendo in Medio Oriente e Nord Africa, mentre persistono altre situazioni critiche, ad esempio in Cina ed in altri Paesi come il Myanmar e la Corea del Nord.

    D. – Guardiamo in particolare al Medio Oriente e al Nord Africa: ci sono dei conflitti, ci sono degli scontri, ci è anche però un processo di islamizzazione in atto. E’ così?

    R. – Sì, si può parlare di islamizzazione. Diciamo che, dal punto di vista della minoranza cristiana, alla speranza suscitata dalla "primavera araba" è seguito un periodo di disillusione. Questo perché innanzitutto i ragazzi che erano scesi in piazza durante la "primavera araba", da Piazza Tahrir ad altre piazze, non hanno avuto la capacità di organizzarsi politicamente e il vuoto lasciato dalla caduta dei regimi precedenti è stato colmato da vari movimenti, quali ad esempio i Fratelli musulmani. La paura è proprio questa: che a una dittatura politica possa seguire una dittatura religiosa. Molte preoccupazioni desta, ad esempio, l’Egitto dove si sono registrati diversi episodi allarmanti: poco tempo fa, due bambini di 8 e 10 anni sono stati arrestati con l’accusa di aver profanato il Corano, in nome di una blasfemia di cui prima non si era mai parlato in Egitto. In Siria, la situazione è molto più complessa perché vediamo la minoranza cristiana schiacciata tra il regime e i diversi movimenti che costituiscono l’opposizione, di cui non è neanche troppo certa la natura. Sappiamo di infiltrazioni di movimenti jihadisti… Quindi, sicuramente è una situazione che non lascia intravedere sviluppi positivi e desta molta preoccupazione da parte della minoranza cristiana.

    D. – Si deve parlare anche del Myanmar…

    R. – Sì, le notizie che giungono dall’episcopato locale non sono troppo positive, nonostante ultimamente in Myanmar il governo abbia intrapreso alcune riforme che lasciano intravedere una certa apertura. Purtroppo, quello che ci dicono i vescovi è che continuano i controlli, continuano le persecuzioni, specialmente nei confronti dell’etnia Kachin, in maggioranza cristiana, tuttora vittima di violente persecuzioni. E uno dei vescovi ci ha detto: purtroppo, per sviluppo economico e libertà politica, il Myanmar è ancora tra gli ultimi Paesi del mondo. Noi, Chiesa, siamo costretti a lavorare con il peso di limitazioni che per i Paesi occidentali sarebbero inconcepibili.

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    Mons. Lazzarotto: in Terra Santa abbattere i muri di pietra e dello spirito

    ◊   Ci sono tante difficoltà in Terra Santa, vecchie e nuove, ma anche tanti segni di speranza: è quanto ha affermato mons. Giuseppe Lazzarotto, nunzio apostolico in Israele e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina, durante l’incontro con i vescovi europei e nordamericani, che stanno compiendo in questi luoghi il loro annuale pellegrinaggio di solidarietà. L’inviata della Radio, Veronica Scarisbrick lo ha intervistato:

    R. – Il momento che stiamo vivendo in Terra Santa è certamente un momento difficile, perché ci sono tante cose che, almeno apparentemente, lavorano contro la pace, l’intesa, la convivenza pacifica e fraterna di tutte le comunità in Terra Santa. Ci sono, però, anche segni di speranza e noi li dobbiamo individuare, facendo in modo che questi segni di speranza siano più visibili e portino i frutti auspicati.

    D. – Israele e Santa Sede sono vicine alla firma dell’Accordo economico?

    R. – L’accordo si farà. Ci stiamo lavorando e siamo a buon punto. Naturalmente come in ogni accordo ci sono dei punti che devono essere meglio definiti, meglio espressi. La cosa importante è non lasciare spazi vuoti, che poi possano essere usati contro lo spirito dell’accordo. Questo è importante per noi: che l’accordo venga definito in maniera positiva, in modo che anche l’interpretazione che verrà data all’accordo aiuti a realizzare lo scopo per cui questi accordi stessi vengono firmati, altrimenti rischiano di rimanere solo elementi fissati sulla carta, che poi non trovano una corrispondenza nella vita di tutti i giorni, nella vita della nostra comunità. Questo non deve avvenire.

    D. – Lei è tornato in Terra Santa dopo 30 anni. Che situazione ha trovato?

    R. – Certamente ho trovato delle cose nuove, rispetto a 30 anni fa, e non tutte migliori. Ci sono difficoltà nuove, diverse, che si sono create, ma quello che noto, e che mi ha fatto piacere, è che in tutti c’è una coscienza più forte di quello che dovremmo riuscire a realizzare e ad essere in questa terra e - cosa molto importante - anche da parte della comunità cattolica: mi riferisco al fatto che vengono moltissimi pellegrini in questi ultimi mesi. E’ stato rilevato un aumento molto grande del numero dei pellegrini e questo è un buon segno. E’ un buon segno, perché vuol dire che questa coscienza è viva ed interessa non solo alcuni gruppi limitati o alcuni gruppi in particolare, ma la Chiesa in quanto tale ed anche altre comunità al di fuori della Terra Santa. Questo è un elemento molto positivo ed è un qualcosa in più che ho trovato, ritornando. So che per molti anni, a causa delle difficoltà, soprattutto durante la prima e seconda Intifada – e tra le due - i pellegrinaggi erano quasi scomparsi. Questo ritorno è un segno molto positivo.

    D. – Bisogna pensare in positivo, ma il muro esiste ed è sempre una barriera...

    R. – Sì, ma guardi, i muri materiali si possono abbattere solo se abbattiamo i muri dello spirito. Quella è la cosa essenziale. Fin quando non si abbattono i muri che ognuno di noi porta dentro di sé, non sarà possibile abbattere altri muri, anzi se ne costruiranno di nuovi, che è ancora peggio. Bisogna, quindi, prima di tutto, lavorare e impegnarsi per abbattere i muri che abbiamo dentro di noi e fare in modo che non crescano muri dentro di noi e abbatterli se ci sono.

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    I vescovi tedeschi rompono con il Kfn: ora nuovo partner per le ricerche sugli abusi

    ◊   La Conferenza episcopale tedesca ha interrotto il suo progetto di ricerca, in materia di abusi sessuali compiuti da esponenti del clero, con l’Istituto di ricerca criminologica della Bassa Sassonia (Kfn) e ora cerca un nuovo partner per affrontare in modo approfondito e trasparente la questione. In un comunicato, i vescovi tedeschi spiegano la decisione con il venir meno del rapporto di fiducia con il prof. Christian Pfeiffer, direttore dell’Istituto. “Deploriamo molto il fatto – afferma la nota - che questo progetto non possa essere portato a termine con il Kfn e di dover trovare un nuovo partner con cui si possa riprendere tale progetto di ricerca. Ci siamo trovati costretti, oggi, a recedere con effetto immediato dall’accordo con il Kfn per gravi motivi, e a chiedere la restituzione di fondi per la ricerca già erogati“.

    “Il rapporto di fiducia tra il direttore dell’Istituto e i vescovi tedeschi – si legge nel comunicato - si è rotto. La fiducia, invece, è un elemento irrinunciabile in un progetto così ampio e delicato. Su questo, i partner del progetto si erano trovati d’accordo fin dall’inizio. Il comportamento del prof. Pfeiffer nel campo della comunicazione nei riguardi dei responsabili ecclesiali ha purtroppo causato la perdita di quella base di fiducia necessaria ad una ulteriore collaborazione costruttiva. Siamo spiacenti di non aver potuto trovare una soluzione consensuale, nonostante i nostri sforzi“.

    La Conferenza episcopale tedesca continua, tuttavia, ad essere “sempre convinta della necessità di una ricerca criminologica in materia di abusi sessuali su minori nell’ambito della Chiesa. Pertanto, essa cercherà un nuovo partner per lo svolgimento di tale progetto. A tal fine, sono previsti, nelle prossime settimane, diversi colloqui".

    Il progetto di ricerca si inserisce nel quadro dell’ampio piano d’azione che la Chiesa tedesca perseguendo da ormai quasi tre anni. "Nella primavera 2010, poco dopo la rivelazione di numerosi casi di abusi - spiega la nota - la Conferenza episcopale aveva deciso un’ampia serie di misure per affrontare la questione della violenza sessuale nei riguardi di minori in ambito ecclesiale. Tra queste, l’istituzione di una linea verde telefonica, la rielaborazione delle linee guida per affrontare l’argomento, la collaborazione con la 'Tavola rotonda' istituita dal governo federale, ampie misure di prevenzione e offerte di aggiornamento professionale nonché il riconoscimento materiale del danno subito. Al di là di questo, sono stati avviati due progetti scientifici. Accanto al progetto con il Kfn c’era un ulteriore progetto mirato all’analisi dei pareri forensi nei riguardi dei sacerdoti coinvolti nel problema, guidato da un gruppo di ricerca che fa capo al prof. Norbert Leygraf dell’Università di Duisburg-Essen. Abbiamo potuto presentare all’opinione pubblica i risultati di questa ricerca già nel dicembre 2012 – concludono i vescovi - Questo impegno della Chiesa dimostra che siamo sempre impegnati nell’affrontare in modo approfondito e trasparente la questione“.

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    Un milione di firme per difendere la vita in Europa

    ◊   “Tutelare la vita in Europa sin dal concepimento”. E’ la sfida lanciata nei 27 Paesi della Ue dalla campagna “Uno di noi”. L’iniziativa, che vede l’adesione di un crescente network di associazioni pro-life, è partita dal Movimento per la Vita italiano. L’obiettivo è raccogliere, entro novembre, oltre un milione di firme così da attivare il legislatore dell’Unione sulla questione della vita nascente. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Filippo Vari, docente di Diritto costituzionale all’Università Europea di Roma e tra i promotori della campagna:

    R. - L’iniziativa nasce dalla possibilità, offerta dal Trattato di Lisbona ai cittadini europei, di presentare delle proposte alla Commissione Europea, che ha poi il compito di coinvolgere le competenti istituzioni dell’Unione per richiedere che l’Unione Europea non finanzi politiche che non siano rispettose del diritto alla vita. Pensiamo al finanziamento della ricerca sulle cellule staminali embrionali, pensiamo alle azioni che l’Unione promuove nei Paesi in via di sviluppo, a sostegno di associazioni non governative che promuovono l’aborto in quei Paesi. L’iniziativa ha l’obiettivo di chiedere che i soldi dell’Unione non siano più spesi per queste politiche che non rispettano il diritto alla vita.

    D. - Quindi, avrebbe una ricaduta indiretta, ma non diretta sull’impianto della legislazione dei singoli Paesi...

    R. - Non toccherebbe liceità dell’aborto e liceità della ricerca, perché queste sono materie di cui l’Unione non si può occupare. Invece, toccherebbe tutta una serie di aspetti collegati, per i quali ci sono finanziamenti cospicui. Poi, la campagna ha una portata culturale molto più ampia. Noi, oggi, assistiamo in Europa a un dibattito culturale dove, purtroppo, il diritto alla vita è sempre più calpestato, sconosciuto, violato. Invece, questa campagna ha proprio l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini di tutti i Paesi membri dell’Unione sull’importanza del diritto alla vita. Quindi, serve anche a risvegliare le coscienze, a tenerle vive su un tema per il quale oggi purtroppo la società contemporanea è schierata su posizioni gravissime, che non tutelano, anzi violano il diritto alla vita.

    D. - Questo lo si fa sin dal titolo della campagna, "Uno di noi", riferito al nascituro. È un chiaro messaggio…

    R. - Sì, è un chiaro messaggio. Tra l’altro, il titolo riprende un parere del Comitato nazionale di bioetica del 1996, in cui si evidenziava come l’embrione goda della dignità propria dell’essere umano ed è uno di noi. Questi principi poi sono stati anche ripresi - sia pure ad altro proposito - in una recente sentenza della Corte di Giustizia, della fine del 2011, dove sostanzialmente si riconosce che l’embrione gode della dignità che spetta ad ogni uomo, con tutta una serie di conseguenze, limitatamente a quel caso su cui si è pronunciata la Corte di Giustizia.

    D. - La campagna si articola lungo il 2013, proclamato “Anno della cittadinanza europea”. Come si può concretamente aderire alla campagna?

    R. - C’è sia lo strumento tradizionale, che consiste nella raccolta di firme in forma cartacea, con appositi banchetti che - specie in Italia - il Movimento per la Vita organizzerà, sia è possibile firmare questa iniziativa su Internet, connettendosi o al relativo sito oppure, ancora più semplicemente, al sito del Movimento per la Vita italiano, e da lì si è guidati immediatamente - fornendo il proprio nome, cognome e documento di identità - a questa iniziativa. Ogni firma è veramente molto importante per noi.

    D. - Voi sottolineate che questa iniziativa serve all’Europa per ritrovare la propria anima…

    R. - Non bisogna dimenticare che il diritto alla vita è il primo e il fondamento di tutti gli altri diritti, che oggi purtroppo - nonostante il ragionamento sui diritti umani - è gravemente violato.

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    Ospedali religiosi: situazione critica nel Lazio. Aris: a rischio eccellenza sanità italiana

    ◊   Emergenza sanità in Italia: a Roma le ambulanze sono bloccate nei pronto soccorso a causa della mancanza di posti letto negli ospedali ed è fortemente a rischio - sottolinea il direttore del 118 di Roma Capitale, Livio De Angelis - il servizio di emergenza. Il ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha immediatamente chiesto una relazione urgente sulla situazione nella capitale. Ed è poi sempre più critica, soprattutto nel Lazio, la situazione degli ospedali religiosi, a causa di tagli e crediti non riscossi. E’ quanto denuncia l’Associazione religiosa Istituti socio–sanitari (Aris) che riunisce istituzioni ecclesiastiche che erogano, in tutto il territorio nazionale, prestazioni di assistenza sanitaria. Il rischio, per diverse strutture, è la chiusura o la vendita a privati. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

    L’allarme riguarda tutta l’Italia ma la situazione più critica si riscontra nel Lazio, dove le istituzioni sanitarie cattoliche vantano crediti, nei confronti della Regione, per circa 500 milioni di euro. Capitolo a parte per il Policlinico “Gemelli”, il cui credito supera la somma di 800 milioni di euro. Se la situazione non si dovesse sbloccare, si profilano due alternative: la vendita ai privati, come nel caso dell’Ospedale Cristo Re, o la trasformazione delle strutture in residenze sanitarie assistite per anziani o in centri per la riabilitazione. Il presidente dell’Associazione religiosa istituti socio – sanitari (Aris), fratel Mario Bonora:

    “Il pagamento delle prestazioni è ben regolamentato da accordi in ogni regione. Per esempio, in Veneto il termine è 60 giorni e i pagamenti sono abbastanza puntuali. Ma nel Lazio la situazione è veramente un disastro. Adesso, alcune strutture stanno chiudendo e se non interviene qualche nostro ente, passano in mano a privati for profit. Le Congregazioni alle quali fanno capo le nostre realtà – le varie Congregazioni religiose o enti ecclesiastici dipendenti dalle diocesi – hanno dato le garanzie bancarie, hanno anticipato i soldi, ma più di tanto non possono fare. Per alcune realtà, siamo ormai al capolinea”.

    Per l’attuazione del Piano di rientro dei disavanzi nel settore sanitario della regione Lazio, è stato designato commissario ad acta Filippo Palumbo, subentrato al dimissionario Enrico Bondi. I decreti regionali 348 e 349, i cosiddetti “decreti Bondi” dello scorso 22 novembre, avevano comportato una sforbiciata di 29 milioni di euro al budget del 2012. Tra i tagli, retroattivi, anche cinque milioni in meno per le attività di emergenza del “Gemelli” e l’impossibilità di potenziare, nel Policlinico, l’unità di terapia intensiva neonatale e il centro Sla. Tagli che rischiano di mettere in crisi un servizio sanitario, quello offerto dagli ospedali religiosi, che presenta, rispetto al pubblico, costi sostenuti:

    “E’ provato che noi privati, religiosi, costiamo molto meno del pubblico, per ovvi motivi. E’ certo che un’oculata gestione, un contenimento delle spese, senza assolutamente compromettere l’assistenza al malato, porta a dei risparmi. Dalle statistiche che abbiamo noi, in alcune regioni si arriva fino al 35% in meno di spesa sanitaria, rispetto al pubblico. E ritengo che diano anche un buon servizio visto il flusso registrato e a un costo decisamente inferiore. Sia chiaro che noi stiamo resistendo, resistiamo il più possibile, però alcune strutture non ce la fanno più”.

    In diversi casi sarà sempre più difficile, dunque, scongiurare la chiusura di reparti e, soprattutto, piani di riduzione del personale:

    “I posti di lavoro sono a rischio. Possiamo parlare di alcune centinaia. Se poi il fenomeno Lazio si allarga a tutta Italia, le centinaia potrebbero anche diventare qualcosa di più. Se non ci lasciano lavorare, dobbiamo ridurre l’attività e conseguentemente il personale, che resta la spesa principale. La spesa per il personale incide sui nostri bilanci tra il 55 e il 65% dei finanziamenti. Se si deve purtroppo tagliare, credo sarà l’ultima cosa che i nostri enti faranno”.

    La situazione degli ospedali religiosi è anche il segnale di un sistema sanitario italiano che sembra allontanarsi dai livelli di eccellenza raggiunti negli ultimi anni. Ancora fratel Mario Bonora:

    “Da come si sta muovendo, il sistema sanità sta perdendo parecchi punti rispetto a quello che era in passato. Almeno nei Paesi occidentali, eravamo tra i primi come prestazioni sanitarie. La sanità non potrà più essere gratuita per tutti: bisognerà prevedere fasce – quelle medio alte – dove ci sia anche il dovere di contribuire. Per quelli che invece non sono in grado di contribuire perché hanno redditi molto bassi, bisogna continuare con l’assistenza gratuita, a tutti i livelli. Questo se vogliamo restare un Paese civile, un Paese all’altezza dei tempi. Se in vece vogliamo avvicinarsi alla sanità dell’Africa o dell’Asia, allora si sta imboccando la strada giusta”.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Iraq: a Mosul autobomba uccide uno studente universitario cristiano

    ◊   Ancora sangue cristiano a Mosul, nel nord dell'Iraq, dove un'autobomba ha ucciso uno studente universitario. L'assassinio segue il ritrovamento, avvenuto ieri, del cadavere di donna, Shdha Elias, insegnante caldea di 54 anni. Il doppio omicidio contro la minoranza religiosa - riferisce l'agenzia AsiaNews - conferma il clima di violenza che si respira nell'area e in tutto il Paese, teatro di una lotta confessionale fra sunniti e sciiti e di uno scontro per il potere che ha per protagonisti arabi, curdi e turcomanni. Le precarie condizioni di salute del presidente della Repubblica - il curdo Jalal Talabani, colpito da ictus il mese scorso - e il clima di incertezza politica alimentano le tensioni, mentre l'esecutivo a Baghdad appare sempre più impotente di fronte agli attacchi terroristi. Fonti di AsiaNews a Mosul raccontano che l'autobomba è esplosa questa mattina davanti al supermercato di Al Alamia, nei pressi dell'università cittadina. La vittima è uno studente cristiano, Ayyoub Fauzi Auyyoub Al Sheikh, all'ultimo anno della facoltà di medicina del locale ateneo. I testimoni confermano che il giovane è deceduto sul colpo, decine i feriti e i danni materiali causati dalla deflagrazione. Da due settimane nella città di Mosul si respira un clima di grande tensione, acuito dallo scontro fra i vertici dell'amministrazione locale con l'esecutivo centrale a Baghdad. Il governatore Athil Al Nujjaifi - sunnita e membro del partito islamista vicino ai Fratelli musulmani - è fratello del presidente del Parlamento, Ussama Al Nujjaifi. Esperti di politica irakena spiegano che "i sunniti detengono il potere nelle città di Anbar, DIala, Salah addin', Tikrit, Mosul e Kirkuk grazie al sostegno dei curdi"; una coalizione che costituisce un vero e proprio "movimento di opposizione contro il Primo Ministro sciita Nouri al Maliki". L'idea è quella di "dividere la nazione in cantoni". Il tutto a spese delle minoranze, fra cui quella cristiana, che non hanno alle spalle un sistema di potere o un movimento politico in grado di tutelarne gli interessi. Dall'invasione statunitense del 2003, che ha determinato la caduta del rais Saddam Hussein, i cristiani sono più che dimezzati nel Paese. Tornando all'omicidio della donna, avvenuto ieri, alcune fonti (dietro anonimato) raccontano che "viveva sola" ed era "un facile bersaglio per i criminali", che "l'hanno uccisa con molta probabilità nel corso di una rapina". Il suo corpo è stato composto e seppellito sempre nella giornata di ieri. In passato Mosul ha registrato omicidi eccellenti all'interno della comunità cristiana: fra tanti, l'uccisione del vescovo mons. Faraj Rahho (nel contesto di un sequestro) e di padre Ragheed Ganni. (R.P.)

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    Caritas Giordania: rivolta nel campo di Zaatari, devastato dalla tormenta

    ◊   Le tempeste di neve, vento e pioggia gelida abbattutesi sul Regno hashemita hanno avuto effetti devastanti sul campo profughi di Zaatari, nel deserto giordano, dove vivono ammassati in una situazione sempre più intollerabile 50mila dei rifugiati fuggiti dalla guerra civile siriana. “Le tormente - riferisce all'agenzia Fides Wael Suleiman, direttore di Caritas Giordania - hanno distrutto almeno 500 tende del campo. In mezzo al deserto, i profughi vivono una condizione ormai insostenibile, in cui c'è da diventare pazzi. Non abbiamo ancora notizie di morti, ma certo in molti si sentiranno male e avranno bisogno di essere curati. Alcuni hanno ripreso la via della Siria. Preferiscono i rischi di un Paese dilaniato della guerra alla prospettiva di veder morire i propri bambini nell'inferno del campo profughi”. Dopo tre giorni di pioggia e neve, il fango ha travolto le tende che ospitano i rifugiati, comprese quelle dove vivevano bambini e donne incinte. Nel pomeriggio di ieri, alcuni profughi esasperati,hanno attaccato con pietre e bastoni il personale dell'Onu e delle organizzazioni locali coinvolto nella gestione del campo. “La situazione è esplosiva. Da tempo sosteniamo che il campo di Zaatari andrebbe chiuso. Ma l'apertura di una nuova struttura nell'area di Zarqa, data sempre per imminente, viene di volta in volta rinviata” spiega a Fides Suleiman. La Caritas, che non è coinvolta nella gestione diretta del campo di Zaatari, davanti alla drammatica situazione climatica ha distribuito negli ultimi giorni coperte, stufe e cibo caldo a 30mila famiglie di profughi. Ma le iniziative di soccorso messe in campo in Giordania appaiono in affanno davanti a un'emergenza umanitaria che si dilata di giorno in giorno. “Se parliamo con quelli del governo - racconta a Fides il direttore di Caritas Giordania - ci dicono che la questione dei rifugiati non è di loro competenza diretta. Se andiamo dai funzionari dell'Onu, ci dicono che le risorse sono limitate e non si può operare meglio di così. Intanto le cose peggiorano, e rischia di saltare tutto”. I siriani espatriati in Giordania sono più di 280mila. E la cronicizzazione del conflitto lascia prevedere un nuovo afflusso massiccio di profughi nei primi mesi del 2013 appena iniziato. (R.P.)

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    Haiti. Commissione Ue: a tre anni dal terremoto resta molto da fare

    ◊   “A tre anni dal terremoto che sconvolse Haiti” (12 gennaio 2010) “resta ancora molto da fare” per la popolazione dell’isola caraibica, che ha sofferto, successivamente, di epidemie, povertà, altri disastri naturali (fra cui due recenti uragani). Nonostante l’impegno della Comunità internazionale, e dell’Ue nello specifico - riporta l'agenzia Sir - “350mila persone vivono ancora in abitazioni di fortuna”, mentre occorrono aiuti di lungo periodo per la ricostruzione e la ripresa economica, anche se nel 2012 il tasso di sviluppo del Pil è stato considerevole, attorno al 6-7%. I commissari Ue Catherine Ashton, Kristalina Georgieva e Andris Piebalgs tracciano un bilancio di quanto realizzato dall’Ue27, intervenuta con aiuti umanitari, personale della protezione civile, medici, ingegneri civili. All’Ue si devono inoltre azioni per il miglioramento della qualità della vita, per l’istruzione (formazione insegnanti, realizzazione scuole). “Oggi come allora - spiegano i commissari - riaffermiano l’impegno dell’Unione a favore degli haitiani”. L’Ue ha costruito alloggi per 500mila persone, ha portato aiuti umanitari a circa 5 milioni di haitiani, si è impegnata per rilanciare l’economia del Paese. “L’85% dei 522 milioni di euro promessi dalla Commissione nel 2010 sono stati già impegnati e altri fondi supplementari sono stati messi a disposizione per rispondere” a nuovi bisogni sul piano sanitario, educativo, economico. (R.P.)

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    Mali: rinviati colloqui governo-ribelli

    ◊   Sono rinviati a data da destinarsi, ufficialmente per “consentire alle parti di avere più tempo per prepararsi” i colloqui diretti tra il governo maliano e due gruppi ribelli del nord in agenda per domani a Ouagadougou. Lo ha annunciato Djibrill Bassole, ministro degli Esteri del Burkina Faso, paese mediatore della Comunità economica dell’Africa occidentale (Cedeao), precisando che “la situazione attuale non compromette il proseguire dei colloqui”. Lo slittamento di un atteso appuntamento tra l’esecutivo di transizione di Bamako, gli islamici di Ansar Al Din e i tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) - riferisce l'agenzia Misna - è stato comunicato poche ore dopo la notizia di scontri nella zona di Mopti (centro) tra esercito e insorti. Gli ultimi sviluppi sul terreno sono già stati interpretati da osservatori come un tentativo della ribellione di spingersi verso sud, nella zona ancora sotto controllo delle truppe governative. Fonti di stampa maliane e internazionali hanno riferito del dispiegamento di rinforzi deciso nelle ultime ore da Bamako che ha posizionato soldati a Kona e Diabaly (regione di Mopti), lungo una ‘linea rossa’ che divide il sud dal nord del paese, passato otto mesi fa sotto il dominio di diversi gruppi ribelli. Sulle ultime tensioni il ministero della Difesa maliano ha annunciato oggi che l’esercito ha respinto un attacco degli islamisti a una cinquantina chilometri da Mopti, centro strategico a 450 chilometri a nord di Bamako che ospita un’importante base militare e un aeroporto. Secondo la fonte governativa l’assalto è stato messo a segno da esponenti di Ansar Al Din, Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e del Movimento per l’unità e il jihad in Africa occidentale (Mujao). L’emittente panaraba Al Jazeera ha invece riferito che in queste circostanze i jihadisti avrebbero catturato 12 soldati maliani nei pressi di Kona, 30 chilometri a est di Mopti. I combattimenti dei giorni scorsi, i primi da aprile, hanno suscitato nuove preoccupazioni nella comunità africana e internazionale. Il presidente di turno dell’Unione Africana (Ua), il beninese Thomas Boni Yayi, ha sollecitato un intervento della Nato accanto alle truppe africane per fronteggiare la situazione. “Si tratta di una questione di terrorismo che va oltre il contesto regionale e africano bisogna creare una coalizione globale. Non abbiamo più tempo da perdere” ha dichiarato Boni Yayi in visita ufficiale a Ottawa. Il 20 dicembre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha autorizzato il dispiegamento per un anno di una Missione internazionale in Mali (Misma) forte di 3300 militari sotto comando africano ma sostenuta dai paesi occidentali. L’Unione Europea (Ue) ha invece confermato per il mese di febbraio l’invio di 400 elementi incaricati di addestrare e riorganizzare le truppe maliane. Inoltre, in visita a Dakar, la direttrice di Onu-Donne (Un-Women) Michelle Bachelet ha espresso “grande preoccupazione” per la sorte delle maliane che vivono nel nord del Paese, “vittime di violenze sessuali, così come i bambini”. Chiedendo un intervento mirato a loro tutela, l’ex presidente cilena ha sottolineato che “l’esperienza ci ha già dimostrato che le donne hanno un ruolo cruciale nella costruzione di una pace durevole”. (R.P.)


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    Sudan: in Sud Kordofan e Blue Nile popolazioni allo stremo

    ◊   La crisi peggiora, soprattutto dal punto di vista umanitario in Sud Kordofan e Blue Nile per mancanza di volontà da parte dei contendenti impegnati a scontrarsi sul terreno: a sollevare l’allarme sulla situazione dei civili intrappolati dai combattimenti nelle due regioni meridionali del Sudan è John Ging, coordinatore Onu per le operazioni di assistenza umanitaria (Ocha) secondo cui è fondamentale riuscire ad avere accesso immediato alle popolazioni nei due stati. Secondo i dati forniti dall’organismo delle Nazioni Unite - riferisce l'agenzia Misna - il numero delle persone affette in vario modo dai combattimenti “ha superato le 700.000 unità”, molti dei quali per sopravvivere “sono costretti a mangiare foglie e radici”. Ging ha ammesso che nonostante gli sforzi, nell’ultimo anno le organizzazioni umanitarie non sono riuscite ad arrivare alle popolazioni colpite. “Il fatto che, nel 2013 migliaia di persone vivano in condizioni così disperate è semplicemente inaccettabile” ha proseguito il responsabile Ocha secondo cui, finora, le trattative per consentire accesso agli operatori umanitari, tra il governo di Khartoum e i ribelli del Movimento per la liberazione del Sudan – Nord (Splm-N) non hanno portato “a niente”. Il coordinatore ha riferito che ci sono tonnellate di aiuti e medicinali bloccati nei container al limite delle zone colpite “ma che non riescono ad accedere per mancanza di volontà politica da entrambe le parti”. Il Sudan accusa il governo di Juba di sostenere la ribellione nelle due regioni di frontiera. Un’accusa smentita dai responsabili del Sud che hanno più volte assicurato di aver interrotto ogni rapporto con l’Splm-N. Lo scorso fine settimana, dopo l’ennesimo incontro ad Addis Abeba i presidenti dei due Paesi hanno riconfermato l’impegno a creare una zona demilitarizzata lungo la frontiera. (R.P.)

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    Francia: la manifestazione contro i matrimoni gay non ha carattere confessionale

    ◊   Il presidente della Conferenza episcopale francese, il card. André Vingt-Trois, non parteciperà alla marcia del 13 gennaio indetta da un cartello di 34 associazioni a Parigi per manifestare contro il progetto di legge che introduce in Francia il matrimonio fra persone dello stesso sesso con diritto all’adozione. “Andrà forse a salutare i manifestanti. Ma non parteciperà alla manifestazione in se stessa. Il cardinale considera infatti che questa manifestazione solleva una questione che riguarda innanzitutto i genitori, i cittadini e le associazioni familiari. Non è dunque una manifestazione confessionale”. A fare all'agenzia Sir Europa il punto sulla partecipazione dell’episcopato francese alla manifestazione “La manif pour tous” è mons. Hippolyte Simon, vescovo di Clermont-Ferrand e vicepresidente della Conferenza episcopale francese, che spiega: “Può essere che qualche vescovo, a titolo personale, accompagnerà i manifestanti della sua diocesi”. “Da parte mia posso dire che non andrò alla manifestazione” perché “se si dà a questa un carattere confessionale, si rischia d’indebolirla. Darebbe argomentazioni a coloro che vogliono rinchiuderla in una particolarità religiosa, per squalificarla ulteriormente”. È invece “una questione che chiama in causa l’insieme dei cittadini, il progetto modifica il Codice civile e, dunque, la concezione stessa del matrimonio civile”. (R.P.)

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    Sri Lanka: la giovane Rizana Nafeek è stata giustiziata

    ◊   Rizana Nafeek, la giovane cameriera srilankese condannata a morte in Arabia saudita, è stata giustiziata questa mattina. Lo riferisce il ministero srilankese per gli Affari esteri. L'esecuzione è avvenuta alle poco dopo le 7 di questa mattina (ora italiana) a Damami, città a circa 400km a ovest di Riyad. La ragazza musulmana era nel braccio della morte dal 2007 per il presunto omicidio di un neonato. L'Asian Human Rights Commission (Ahrc) sostiene che "né il governo, né l'ufficio del presidente hanno fatto qualcosa per salvare la vita di Rizana, nonostante gli innumerevoli appelli della famiglia e della società civile". Originaria di una famiglia molto povera del villaggio di Mutur (distretto orientale di Trincomalee), Rizana era arrivata in Arabia saudita nel 2005, a soli 17 anni - con passaporto falso - per lavorare come cameriera. Il bambino del suo datore di lavoro è morto mentre lei prestava servizio. Rizana è stata accusata di omicidio e condannata a morte con un processo-farsa, basato su una confessione firmata senza che ne conoscesse il contenuto, perché scritto in arabo, lingua a lei sconosciuta. Nel 2007, è arrivata la condanna a morte. (R.P.)

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    Filippine: a Mindanao chiese stracolme a Natale. Un segno di speranza per la pace

    ◊   A Mindanao, regione a maggioranza musulmana, folle di fedeli, soprattutto giovani, hanno riempito le chiese in queste festività natalizie, le prime senza la minaccia concreta di attentati degli estremisti islamici. Tale clima è uno dei primi frutti dello storico accordo fondamentale per il dialogo fra governo e Moro Islamic Liberation Front (Milf) firmato lo scorso 15 novembre a Manila. Padre Giulio Mariani, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere a Zamboanga, racconta all'agenzia AsiaNews che "migliaia di persone hanno preso parte alla messa di mezzanotte, officiata in tutte le chiese della regione. Un tal numero di fedeli, soprattutto giovani, non si vedeva da anni". Secondo il sacerdote questo è un segno di speranza per questa isola martoriata dalle violenze e dagli odi della quarantennale guerra fra esercito filippino e ribelli musulmani. Padre Mariani sottolinea che la nascita di Gesù e le celebrazioni per il nuovo anno, sono molto sentite nelle Filippine. La popolazione e le amministrazioni cittadine non badano a spese per addobbare edifici religiosi, case, palazzi, strade. "Anche a Zamboanga - continua - città dove vivono insieme cristiani e musulmani, tutti godono di questo clima di felicità e gioia". Lunedì il Papa nel suo annuale discorso ai diplomatici ha citato Mindanao come esempio dell'efficacia del dialogo per consentire la convivenza fra religioni, nonostante le divisioni. L'elogio del dialogo fatto da Benedetto XVI mette in luce la posizione della Chiesa filippina e dei missionari, che da decenni sono in prima linea per lavorare con le varie comunità a estirpare i pregiudizi e i semi di paura e odio che ancora dividono cristiani, musulmani e membri di altre fedi. Per Angel Calvo, missionario clarettiano da quarant'anni nelle Filippine e membro dell'Interreligious Solidarity Movement for Peace a Zamboanga, la firma dello storico documento - che potrebbe portare a un reale accordo di pace nel 2015 - non sarebbe stata possibile senza le strette relazioni fra leader musulmani e cristiani nella società. "La qualità di questi rapporti - afferma il sacerdote - emerge proprio durante le festività importanti come il Natale. Quest'anno diverse famiglie del nostro gruppo hanno condiviso le festività con i loro amici musulmani. Tale tendenza riguarda per ora solo una piccola parte della popolazione, che però testimoniano che un dialogo fra le fedi è possibile anche da un punto di vista spirituale". (R.P.)

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    Myanmar. La Chiesa: “Un Anno giubilare di libertà e riconciliazione per il Paese"

    ◊   Quello appena cominciato è “un anno giubilare per il Myanmar”, infatti “dopo 50 anni di tenebre soffocanti, oggi brilla una luce nella bella nazione birmana”: lo afferma in un messaggio inviato all’agenzia Fides per il nuovo anno, mons. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e Segretario generale della Conferenza episcopale del Myanmar, ricordando che nel 1962 era iniziato il tempo della dittatura nel Paese, mentre oggi “la sofferenza sta lentamente cedendo il passo alla speranza”. “Questo messaggio – nota il presule – deve essere portato in ogni angolo della nazione, in quest’anno di nuova evangelizzazione, con un rinnovato vigore di fede”. L’arcivescovo ricorda il doloroso passato con accenti poetici: “Nel 1962, il buio ha inghiottito la Birmania. La sua storia è stata congelata, la sua bellezza nascosta, i suoi figli ridotti alla schiavitù del silenzio, molti al martirio, molti a lunghe notti di lacrime. Milioni sono divenuti sfollati o immigrati clandestini. Le nostre ragazze innocenti sono state vendute come schiave del sesso e le loro lacrime sepolte in grotte silenziose di disumanità. Due generazioni hanno intrapreso un viaggio nel tunnel buio della disperazione”. Oggi Mons. Bo guarda al futuro con fiducia: “Dopo 50 anni, ci siamo riuniti per rivedere la luce. La luce della verità risplende su di noi, la luce della libertà sta lentamente risvegliando la nostra gente, la luce delle opportunità che stanno emergendo. Nel nostro Natale Cristo è nato, donandoci una nuova luce di speranza. Questo è un anno molto significativo per il nostro popolo, è un Anno Giubilare, un Anno di Grazia per il popolo del Myanmar”. L’arcivescovo, rimarcando che “Dio guida il suo popolo nel suo cammino”, applica al Myanmar di oggi le pratiche del Giubileo biblico: “Nel Giubileo si liberano gli schiavi. Noi, in quest’anno, chiediamo di liberare tutti i prigionieri politici, prigionieri di coscienza, i nostri uomini e donne nelle carceri”. Nel Giubileo, prosegue “tutti i debiti sono cancellati: La nostra è una nazione in debito. Nessuna famiglia è esente da debiti soffocanti . Urge sollevare il peso dei prestiti soprattutto dalle spalle di agricoltori e pescatori”. Nell’Anno di grazia, “ognuno ritorna alla sua proprietà”. “Oggi – dice il messaggio – siamo una nazione di sfollati. Oltre tre milioni di persone sono fuori dal nostro Paese senza documenti regolari. Alcuni sono rifugiati, molti vivono in condizioni disumane. I nostri figli e le figlie devono tornare alla loro terra madre”. Un altro messaggio giubilare è “proclamare la libertà agli oppressi”: “La democrazia porta grandi speranze. Ma – nota il vescovo – come si è visto di recente, le vecchie abitudini sono dure a morire. Se i monaci sono percossi, che libertà c’è in questa terra? Il rispetto della dignità umana e dei diritti umani hanno bisogno di crescere nella nostra nazione”. Il Giubileo è anche un anno di misericordia e di riconciliazione. Il Segretario della Conferenza episcopale auspica “la riconciliazione tra tutte le parti in guerra e il trionfo della pace. Per troppo tempo – ribadisce – questa nazione è stata in guerra con se stessa… migliaia di morti in guerre insensate, molti giovani uccisi e la terra bagnata del sangue dell’odio reciproco”. Oggi, conclude, “è tempo di costruire la pace” e “la pace può essere costruita solo sulla giustizia”. (R.P.)

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    Bolivia: la Chiesa rivendica le proprietà del vicariato di Beni nel Tipnis

    ◊   Il Ministro della Presidenza, Juan Ramon Quintana, in un programma televisivo trasmesso alla fine di dicembre scorso, aveva affermato che il vicariato di Beni è proprietario di una fattoria di 5.000 ettari situtata nella zona del Tipnis (Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure) e che non si conosce la destinazione del contributo che il governo assegna al Centro di formazione che vi è stato costruito. A tali accuse risponde mons. Julio María Elías Montoya, vicario apostolico del vicariato di Beni, che in una nota di chiarimento, inviata all'agenzia Fides dalla Conferenza episcopale boliviana, afferma: "Dinanzi a questa enorme falsità sulla proprietà in cui si trova il Centro di formazione ‘Kateri Tekakwitha’, gestito dal vicariato, devo ricordare a tutti che il titolo di proprietà attribuito al vicariato apostolico del Beni corrisponde a una superficie di 843 ettari, qualificata con il nome di San Marcos, comprata dal vicariato nell'anno 2000”. La nota è accompagna dal documento ufficiale dell’Inra, Istituto Nazionale di Riforma Agraria, e dall’evidenziazione di alcuni dettagli del documento. Mons. Elías spiega che su quel terreno il vicariato apostolico ha costruito nel 2003 una scuola media e un Istituto tecnico nel quale, da allora ad oggi, si sono diplomati 171 giovani. Inoltre la nota ricorda l’impegno personale di mons. Elías con l’Eparu (Equipe di Pastorale Rurale), che dal 1973 lavora con la popolazione del Tipnis. “Sono perplesso che il Ministro della Presidenza domandi ‘dov’è il denaro?’ quando ha visitato personalmente la sede dell’Istituto nel maggio 2012, vedendo l’infrastruttura da gestire e mantenere” sottolinea il vicario apostolico. Come riportato in altre occasioni da Fides, la Chiesa cattolica, malgrado la grave situazione economica della zona, porta avanti un impegnativo lavoro missionario con tutta la popolazione del vicariato di Beni. (R.P.)

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    Cile: i Gesuiti dalla Missione Mapuche auspicano una pace duratura

    ◊   “Da Tirúa, i Gesuiti e i loro collaboratori che camminano in solidarietà con le comunità mapuche, vogliono nuovamente esprimere il totale rifiuto della violenza e riaffermare l’impegno per il dialogo e la pace": lo si legge nel comunicato della Missione Mapuche della Compagnia di Gesù, pervenuto all’agenzia Fides. Nella dichiarazione si ricorda che “molte famiglie mapuche e non mapuche hanno subito la perdita di persone care nel contesto del conflitto negli ultimi anni” e i Gesuiti condividono il dolore della famiglia di Werner Luchsinger Lemp e Vivian McKay, rimasti uccisi di recente nella loro abitazione data alle fiamme. “Ribadiamo il nostro invito al dialogo e alla riparazione storica come unico modo per stabilire una pace duratura – prosegue il testo -. Chiediamo di chiarire ciò che è successo e la ricerca dei responsabili di questo attacco feroce per evitare di criminalizzare un intero popolo. Chiediamo anche che lo Stato del Cile mostri rigore e forza nel condannare ogni forma di violenza e assassinio nella zona della Araucanía". La dichiarazione ribadisce che fin quando non saranno affrontate le radici storiche di questa situazione, non si potrà garantire la pace, e lamenta che tale argomento è assente dalla discussione, “e questo fa crescere il dolore di quelli che attendono da molti anni”. La dichiarazione, firmata da Carlos Bresciani, responsabile della Missione Mapuche della Compagnia di Gesù, si conclude: “Vogliamo ripetere che condanniamo l'uso della violenza e l'attentato alla vita delle persone. La domanda mapuche non può essere confusa con la violenza contro le persone e tanto meno con la morte. Si tratta di una domanda di vita, per il loro popolo e per tutti”. (R.P.)

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    Zambia: rientrato il sacerdote di origine rwandese espulso ad agosto

    ◊   Padre Viateur Banyangandora, il sacerdote di origine rwandese espulso dalle autorità dello Zambia all’inizio di agosto, è rientrato nel Paese il 7 gennaio scorso. Padre Banyangandora è stato accolto da mons. George Lungu, vescovo di Chipata, all’aeroporto di Lusaka, e ha detto che il sacerdote rilascerà dichiarazioni al tempo opportuno. L’espulsione di padre Banyangandora - riferisce l'agenzia Fides - aveva suscitato una forte reazione da parte della Chiesa. Ben 130 preti locali avevano firmato una petizione per la revoca del provvedimento. Padre Viateur è un profugo rwandese che è stato ordinato nel 2004. “È diventato un sacerdote della diocesi di Chipata. Ha scelto di rimanere a Chipata come uno dei sacerdoti diocesani, fino alla sua morte” sottolineava mons. Lungu in una lettera pastorale che ricostruiva l’arresto e l’espulsione dal Paese del sacerdote. Dopo aver trascorso 5 mesi in Rwanda, le autorità di Lusaka hanno permesso a padre Banyangandora di ritornare in quella che considera ormai la sua nuova patria. (R.P.)

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    Nord Irlanda. Il vescovo anglicano Miller: preoccupa nuovo clima di violenza urbana

    ◊   Un appello a tutti i cristiani “ovunque si trovino”, di pregare di nuovo per l’Irlanda del Nord ripiombata dopo anni in un clima di preoccupante e forte violenza urbana. A lanciarlo è il vescovo anglicano di Down e Dromore, rev. Harold Miller. Gli ultimi giorni - racconta il vescovo - sono stati “tragici e difficili” in Irlanda del Nord, e soprattutto nella East Belfast. Le proteste che hanno avuto luogo su una decisione del consiglio comunale di Belfast di esporre la bandiera del Regno Unito solo in determinati giorni dell’anno, sono degenerate in vere e proprie “scene di violenza e di caos”. “Coloro che hanno sperimentato le divisioni e le violenze del passato in Irlanda del Nord - scrive il vescovo - sono profondamente preoccupati per quanto sta accadendo in questo momento. L‘adrenalina, il fatto di dare uno scopo e un significato alla violenza, e le leggende metropolitane diffuse fin troppo facilmente dai social network sono un mix pericoloso e inebriante. Ho visto prima persona scene di violenze, il lancio di bombe molotov e mattoni contro la polizia, l‘atmosfera minacciosa di folla nella penombra, l‘incendio di auto, e la paura nelle persone anziane e nelle famiglie che vivono nelle vicinanze. Da qui l’appello alla preghiera chiedendo “saggezza per le chiese in quello che dicono e vivono, la grazia di Dio su “quelli intenti a distruggere”, “lo Spirito di Amore e Pace” per il futuro di questo Paese. (R.P.)


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    Austria: preoccupazione del card. Schönborn per la carenza delle vocazioni

    ◊   La carenza di vocazioni resta “una delle preoccupazioni più grandi” della Chiesa anche per il 2013: lo ha affermato il card. Christoph Schönborn, presidente della Conferenza episcopale austriaca, in un’intervista pubblicata dal mensile “Miteinander” e riportata ieri dall’agenzia di stampa cattolica austriaca Kathpress. Per affrontare questa sfida, “la pastorale per le vocazioni rappresenta un tema centrale dell’Anno della fede attualmente in corso”, ha spiegato il card. Schönborn. “In futuro, la ricerca delle vocazioni deve essere effettuata in modo più attivo e consapevole”, ha aggiunto, osservando che “in molte diocesi del mondo, la pastorale per le vocazioni ha un’importanza e una priorità maggiori rispetto a quanto avviene da noi. Perciò vale la pena seguire con attenzione i ‘modelli di best-practice’ di altri Paesi”. Il card. Schönborn - riporta l'agenzia Sir - ha ribadito di avere avuto conferma, durante il Sinodo dei Vescovi dello scorso ottobre, di quanto le piccole comunità cristiane siano sempre più “portatrici di speranza per la Chiesa” e che in esse è presente “l’humus delle vocazioni spirituali”. Occorre perciò “curare questi ambienti”, poiché da essi dipendono la missione e la nuova evangelizzazione: “Senza la missione - ha concluso il cardinale -, la Chiesa muore”. (R.P.)

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    Russia: a Mosca oltre 220 mila fedeli alle funzioni della notte di Natale

    ◊   Sono oltre 220mila i fedeli che a Mosca hanno partecipato alla liturgia della Vigilia, tra il 6 e il 7 gennaio, quando la Chiesa russo-ortodossa celebra il Natale, secondo il calendario giuliano. I dati del ministero degli Interni russo, come riporta l'agenzia Ria Novosti, ripresa da AsiaNews, registrano un aumento rispetto all'anno scorso quando alle funzioni parteciparono 90mila persone. La popolazione della capitale russa è, ufficialmente, di 12 milioni di persone. La percentuale di chi si è recato in chiesa è quindi meno del 2% del totale degli abitanti, calcolando comunque che la città si svuota letteralmente durante le vacanze del Nuovo Anno, come si chiama in Russia il lungo periodo di ferie dal 31 dicembre al 9 gennaio. Le messe sono state celebrate in 348 delle 900 chiese che a Mosca sono sotto la giurisdizione del Patriarcato russo-ortodosso. Essendo il Natale anche un periodo di massima allerta per il rischio attentati, circa 7mila agenti, tra polizia ed esercito, hanno vigilato sui luoghi considerati sensibili. Secondo un recente sondaggio, i russi che si dicono cristiani ortodossi sono l'80%, ma chi pratica realmente la fede è solo una piccola percentuale (intorno all'8%). Per molti la fede è per lo più associata all'idea di identità nazionale e poco radicata nella pratica. Forse per questo, il protodiacono Andrei Kuraev, professore all'Accademia spirituale di Mosca e influente esponente della Chiesa russo-ortodossa, ha proposto di unire il Natale ortodosso al Novi God (Nuovo Anno) e festeggiare insieme il 1° gennaio la ricorrenza religiosa - ormai poco sentita dopo 70 anni di ateismo di Stato - e quella laica, ritenuta invece la più importante di tutto l'anno dai russi. (R.P.)

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    Il 150.mo anniversario della morte della Serva di Dio Pauline-Marie Jaricot

    ◊   La Conferenza episcopale francese ha dichiarato il 2012, Anno giubilare della serva di Dio, la ven. Pauline-Marie Jaricot, morta 150 anni fa, a Lione, il 9 gennaio 1862. Il 2012 è stato anche il 190° anniversario della Fondazione dell’Associazione per la Propagazione della Fede e il 90° anniversario della sua erezione ad Opera Pontificia. Con l’indizione di questo Giubileo, la Conferenza episcopale francese ha inteso riscoprire la figura di questa donna, in realtà poco conosciuta, ma che con la sua fede, creatività e santità ha messo in moto la Cooperazione Missionaria dei tempi moderni. Nata a Lione in Francia nel 1799, in un periodo di rapidi sconvolgimenti politici e culturali, fu un’appassionata delle missioni estere e allo stesso tempo una operatrice di giustizia in una società in cui i diritti degli operari e specialmente delle donne erano conculcati. Nel 1822 fondò l’Associazione della Propagazione della Fede con la caratteristica della Universalità. Ella intuì che il problema della cooperazione missionaria non era aiutare questa o quella missione, ma tutte, senza distinzione. “Facciamo qualcosa di universale, di cattolico”. “Tutti i fedeli per tutti gli infedeli”. Da Lei prese inizio quel grande movimento di cooperazione missionaria, che doveva gradualmente coinvolgere tutta la Chiesa, tutti i cattolici, tutte le sue istituzioni, i suoi ministeri. Dalla sua passione missionaria e intuizione nacquero le altre Opere Pontificie: Santa Infanzia, S. Pietro Apostolo, Unione Missionaria. Il suo motto “Tutti i fedeli per tutti gli infedeli” divenne “tutta la Chiesa per tutto il mondo”, il motto del Beato padre Manna, fondatore della Pontificia Unione Missionaria. Alla passione per la diffusione del Regno di Dio tra i non cristiani, aggiunse la passione per la giustizia sociale. Per sollevare dalla miseria gli operai e le operaie dell’allora mondo industriale mise in atto varie iniziative di coscientizzazione sociale e fondò la Banca del Cielo. Questa creatività apostolica era il frutto della sua intensa vita spirituale. Era fermamente convinta che l’opera missionaria non traeva la sua efficacia dall’opera e dalle risorse umane, ma esclusivamente da Dio, perché era Sua la missione. Nel 1826 fondò il Rosario Vivente. Ma fu la sua vita che divenne la testimonianza più tangibile della sua passione per l’annuncio del Vangelo alle Genti. Donazione di se stessa, e di quanto aveva come beni di famiglia, una povertà radicale, una contemplazione continua del volto di Cristo, hanno accompagnato la sua avventura apostolica. Alla fine, come ad ogni discepolo di Cristo, non mancò la croce, dovette subire una enorme quantità di insulti, per la bancarotta che dovette dichiarare nel 1862 e vivere il resto della sua vita nell’assoluta povertà. La riscoperta di questa figura si erge luminosa nel mondo dei cristiani laici, e in particolar modo nel mondo missionario. Ella che amò chiamarsi la “povera di Gesù Cristo” e in seguito “la povera Maria” volle identificarsi come “figlia nel Figlio” per la salvezza di tutto il mondo. Con la sua vita e la sua opera, è stata motivo di una riflessione ecclesiologica missionaria, che sfociava nel Concilio Vaticano II, con l’affermazione: la Chiesa è per sua natura missionaria, e che l’evangelizzazione è diritto e dovere di ogni fedele laico. Per questo fu dichiarata Venerabile dal Beato Giovanni XXIII il 25 febbraio 1963. (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 9

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.