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Sommario del 27/04/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Papa Francesco: lo Spirito crea nella Chiesa comunità aperte e non gruppi chiusi
  • Giornata dei cresimandi, domani il Papa amministra il Sacramento a 44 ragazzi
  • In udienza da Papa Francesco i cardinali Marc Ouellet e Angelo Bagnasco
  • Tweet del Papa per la tragedia di Dacca: prego per le vittime, Dio conforti le famiglie
  • Udienza di Papa Francesco al premier italiano uscente Monti
  • Il Papa alla Tanzania per la Festa dell'unità nazionale: Dio conceda pace e benessere
  • Il Papa ringrazia il Piams per il lavoro a servizio della musica liturgica
  • Appello del Papa ai giovani via Twitter: "Non sotterrate i talenti, sognate cose grandi!"
  • Il card. Turkson: Papa Francesco come Giovanni XXIII, un fautore di pace
  • L’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie sbarca su Twitter
  • Congo: apre Causa di beatificazione di sei suore italiane vittime dell'Ebola 18 anni fa
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • La triste condizione del lavoro coatto. Scontri in Bangladesh dopo il crollo di Dacca
  • Guantanamo: si estende la protesta dei detenuti che da anni attendono un processo
  • Afghanistan. I talebani annunciano l’offensiva di primavera
  • Settimana mondiale delle vaccinazioni. Obiettivo: vaccini economici e di qualità
  • L'Istituto Maritain organizza il convegno "Educare alla politica". Papini: si punti a valori condivisi
  • Commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della V Domenica di Pasqua
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Siria: apprensione per i vescovi rapiti. Nuovi particolari sulla dinamica del sequestro
  • Giordania: a Karak un ospedale cattolico per i siriani in fuga da guerra e campi profughi
  • Italia: in dirittura d'arrivo il goveno di Enrico Letta
  • Cina. Sisma in Sichuan: 10 mila cattolici pronti a ricostruire case e chiese distrutte
  • Nigeria: bilancio di oltre 70 chiese distrutte nello Stato di Benue
  • Pakistan: cristiani e musulmani piangono la scomparsa dell'attivista cristiano Ashfaq Fateh
  • Ecuador. Scontri fra indios: per i vescovi è “un conflitto figlio dell’indifferenza”
  • Messico: tossicodipendenza, Hiv, salmonella, tubercolosi: i rischi per i bambini di strada
  • Conferenze episcopali europee: a Londra incontro sul dialogo con l'islam
  • Svizzera: le Chiese cristiane aderiscono all’“Alleanza per la domenica”
  • Spagna: la Chiesa celebra la Giornata nazionale delle vocazioni native
  • Il Papa e la Santa Sede



    Papa Francesco: lo Spirito crea nella Chiesa comunità aperte e non gruppi chiusi

    ◊   “Guardare Gesù che ci invia a evangelizzare, ad annunciare il suo nome con gioia”. E’ l’esortazione di Papa Francesco che, questa mattina durante l’omelia nella Domus Sanctae Marthae, in Vaticano, ha anche ribadito che non dobbiamo aver “paura della gioia dello Spirito”, via per vincere la chiusura in “noi stessi”. Hanno partecipato alla Messa con il Papa, i dipendenti del servizio Poste Vaticane e del Dispensario pediatrico Santa Marta. Il servizio di Massimiliano Menichetti:

    “Sembrava che questa felicità non sarebbe mai stata vinta”. Così il Papa commentando l’affidamento in Cristo della comunità dei discepoli, riuniti ad Antiochia per ascoltare la parola del Signore, ricordato oggi negli Atti degli Apostoli. Poi, la domanda di Papa Francesco sul perché la comunità dei “giudei chiusi”, “un gruppetto”, “persone buone”, furono ricolmi di gelosia nel vedere la moltitudine dei cristiani e incominciarono a perseguitare:

    "Semplicemente, perché avevano il cuore chiuso, non erano aperti alla novità dello Spirito Santo. Loro credevano che tutto fosse stato detto, che tutto fosse come loro pensavano che dovesse essere e perciò si sentivano come difensori della fede e incominciarono a parlare contro gli Apostoli, a calunniare… La calunnia… E sono andati dalle pie donne della nobiltà, che avevano potere, gli hanno riempito la testa di idee, di cose, di cose, e le spingevano a parlare ai loro mariti perché andassero contro gli Apostoli. Questo è un atteggiamento di questo gruppo e anche di tutti i gruppi nella storia, i gruppi chiusi: patteggiare col potere, risolvere le difficoltà ma 'fra noi'… Come hanno fatto quelli, la mattina della Resurrezione, quando i soldati sono andati a dir loro: 'Abbiamo visto questo'… 'State zitti! Prendete…”. E con i soldi hanno coperto tutto".

    “Questo è proprio l’atteggiamento di questa religiosità chiusa”, ha spiegato il Papa, “che non ha la libertà di aprirsi al Signore”:

    "La loro vita comunitaria per difendere sempre la verità, perché loro credono di difendere la verità, è sempre la calunnia, il chiacchierare… Davvero, sono comunità chiacchierone, che parlano contro, distruggono l’altro e guardano dentro, sempre dentro, coperte col muro. Invece la comunità libera, con la libertà di Dio e dello Spirito Santo, andava avanti, anche nelle persecuzioni. E la parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. E’ proprio della comunità del Signore andare avanti, diffondersi, perché il bene è così: si diffonde sempre! Il bene non si corica dentro. Questo è un criterio, un criterio di Chiesa, anche per il nostro esame di coscienza: come sono le nostre comunità, le comunità religiose, le comunità parrocchiali? Sono comunità aperte allo Spirito Santo, che ci porta sempre avanti per diffondere la Parola di Dio, o sono comunità chiuse, con tutti i comandamenti precisi, che caricano sulle spalle dei fedeli tanti comandamenti, come il Signore aveva detto ai Farisei?".

    “La persecuzione incomincia proprio per motivi religiosi e per la gelosia”, ha detto Papa Francesco, ma non solo “i discepoli erano pieni di gioia di Spirito Santo”, “parlano con la bellezza, aprono strade”:

    "Invece la comunità chiusa, sicura di se stessa, quella che cerca la sicurezza proprio nel patteggiare col potere, nei soldi, parla con parole ingiuriose: insultano, condannano… E’ proprio il suo atteggiamento. Forse si dimenticano delle carezze della mamma, quando erano piccoli. Queste comunità non sanno di carezze, sanno di dovere, di fare, di chiudersi in una osservanza apparente. Come Gesù gli avete detto: 'Voi siete come una tomba, come un sepolcro, bianco, bellissimo, ma niente di più'. Pensiamo oggi alla Chiesa, tanto bella: questa Chiesa che va avanti. Pensiamo ai tanti fratelli che soffrono per questa libertà dello Spirito e soffrono persecuzioni, adesso, in tante parti. Ma questi fratelli, nella sofferenza, sono pieni di gioia e di Spirito Santo".

    “Guardiamo Gesù che ci invia a evangelizzare, ad annunciare il suo nome con gioia, pieni di gioia”, ha concluso il Papa, sottolineando che non bisogna aver “paura della gioia dello Spirito”, così da non “chiuderci in noi stessi”.

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    Giornata dei cresimandi, domani il Papa amministra il Sacramento a 44 ragazzi

    ◊   Cinque continenti per 44 cresimandi, con età oscillante dagli 11 ai 55 anni. Sono loro che domattina, in Piazza San Pietro, riceveranno dalle mani di Papa Francesco il Sacramento della Confermazione. Già da oggi, in Vaticano, decine di migliaia di ragazze e ragazzi, di varie parti del mondo, hanno iniziato il loro percorso di fede in preghiera sulle tombe dei Papi, nel primo dei due giorni organizzati dal Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione, nell’Anno della Fede. Fabio Colagrande ne ha parlato con don Krzysztof Marcjanowicz, officiale del dicastero:

    R. – I cresimandi sono persone che di per sé sono state chiamate a testimoniare la fede. Ricevono il dono dello Spirito Santo per poter presentare la fede nella vita matura, testimoniarla con la propria vita e viverla. Perciò, nell’Anno della Fede non potevano mancare proprio i cresimandi con la loro testimonianza di vita.

    D. – Come avete scelto i ragazzi che riceveranno la Cresima dalle mani di Papa Francesco?

    R. – I criteri erano diversi, però posso dire che il primo era quello di far venire i ragazzi da Paesi dove la libertà religiosa è spesso compromessa, quelli che hanno maggiore difficoltà, quelli che nella vita quotidiana professano spesso la fede con il proprio sangue. C’è la Nigeria, il Congo, Paesi dove uno che dice “sono credente, sono cristiano, sono una persona che crede in Gesù Cristo” rischia di essere anche ucciso a causa della propria fede. Questo è stato il nostro criterio principale. Poi, ovviamente, ci sono anche persone che devono professare la propria fede in società che sono molto avverse alla fede. Sappiamo bene come si vive la fede oggi: non è di moda e spesso i ragazzi che vogliono professarla, che vogliono testimoniarla anche nelle nostre società, nell’Europa e in America, vengono per questo derisi. Perciò, vogliamo rafforzare la loro fede mostrando proprio quel momento comune della preghiera, della gioia, che condividiamo qui in piazza San Pietro e nell’Aula Paolo VI.

    D. – Oggi, lei ha incontrato queste famiglie, questi giovani, questi cresimandi: che clima c’è?

    R. – Dà una soddisfazione enorme vedere questi ragazzi, sentire le loro testimonianze di vita. A dire il vero, è cambiata anche la vita delle loro famiglie. Ho già sentito alcuni che dicono che il frutto concreto di questa loro venuta è la conversione di qualche familiare. Perciò, noi vediamo come incide l’incontro tra la grazia di Dio e questi ragazzi: è la grazia che passa tramite le mani del nostro Pontefice.

    Diverse le storie dei giovani cresimandi, come quella di un ragazzo di Carpi, duramente coinvolto nel sisma emiliano dello scorso anno, di cui parla don Roberto Vecchi, direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi, intervistato da Fabio Colagrande:

    R. – Lui vive in container ancora fuori casa. Aver scelto lui è un modo per porre al centro l’attenzione verso chi sta soffrendo ma ha voglia di crescere, di diventare a sua volta portatore del Vangelo e della speranza. Quindi, si viene aiutati per poter poi aiutare meglio gli altri.

    D. – E’ stato difficile mantenere la catechesi, la preparazione ai Sacramenti, durante questi mesi dopo il terremoto?

    R. – Non è stato per niente facile. Un po’ perché molte famiglie si sono dovute spostare ed è cambiato proprio il tessuto sociale, i rapporti... In alcune parrocchie, si è ritardato l’inizio della catechesi ma per il resto si cerca di creare un po’ di quotidianità, di normalità. E' stato importante ripartire per dare qualche piccolo punto di riferimento in un momento in cui tanti punti e tante cose sono crollate.

    D. – Quali sono stati riflessi spirituali dell’esperienza del terremoto sulla comunità di Carpi?

    R. – In positivo, è stata la scoperta della solidarietà, dell’attenzione, di una maggiore disponibilità a stare insieme, a cercarsi. Però, i problemi sono così aumentati per la crisi economica che flagellava il territorio. E' come se ci fosse stata una seconda crisi economica e questo ha certamente messo alla prova tante persone e anche la loro fede.

    D. – In questo senso, questo viaggio a Roma di una parte della vostra comunità assume un significato particolare?

    R. – Sì, per noi è sicuramente coraggio e speranza: è ritessere tutte le relazioni e sentirsi Chiesa, una Chiesa più ampia, anche perché abbiamo bisogno di questo respiro grande in un momento in cui, per colpa del terremoto, le comunità si sono molto sparigliate, disperse. Molti hanno dovuto prendere casa altrove, oppure vivono nei moduli abitativi provvisori. E’ una situazione molto complicata. Per noi, vivere un momento di comunione così importante, addirittura con un respiro mondiale, è qualcosa che dà gioia, speranza e anche un futuro.

    D. – Nella prospettiva della Nuova Evangelizzazione, quanto è importante sottolineare il valore di questo sacramento, secondo lei, nella vita dei giovani in particolare?

    R. – E’molto importante se preso come un momento di approfondimento del Battesimo ricevuto. E’ un modo per sentire sempre più personalmente la chiamata a essere missionario, cioè vivere con "due polmoni": i polmoni di Pietro e di Paolo, la Chiesa, la comunione, l’evangelizzazione e la missionarietà.

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    In udienza da Papa Francesco i cardinali Marc Ouellet e Angelo Bagnasco

    ◊   Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, i cardinali Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, e Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, presidente della Conferenza episcopale italiana.

    In Colombia, il Papa ha nominato vescovo di Florencia il sacerdote Omar de Jesús Mejía Giraldo, del clero della diocesi di Sonsón-Rionegro, finora rettore del Seminario Maggiore Nazionale “Cristo Sacerdote” in La Ceja. Il neo presule è nato a El Santuario, diocesi di Sonsón – Rionegro, il 21 gennaio 1966. Compì gli studi di Filosofia e Teologia nel Seminario Maggiore Nazionale “Cristo Sacerdote” in La Ceja. Ha ottennuto la Licenza in Filosofia e Scienze religiose presso l’“Universidad Católica de Oriente” di Rionegro e la Licenza in Teologia Dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ha svolto i seguenti incarichi: Formatore nel Seminario diocesano “Nuestra Señora”, Delegato diocesano per la pastorale giovanile e vocazionale, Vicario Parrocchiale nella Parrocchia di “Nuestra Señora del Carmen” in El Carmen de Viboral, Direttore del Dipartimento per la Pastorale nell’“Universidad Católica de Oriente” di Rionegro, Vicario Parrocchiale della Parrocchia “Madre de la Sabiduría”, Vicerettore del Seminario Nazionale “Cristo Sacerdote” in La Ceja e, dal 2008, Rettore dello stesso Seminario Nazionale “Cristo Sacerdote” in La Ceja.

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    Tweet del Papa per la tragedia di Dacca: prego per le vittime, Dio conforti le famiglie

    ◊   “Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia di Dhaka, Bangladesh, che Dio conceda conforto e forza alle loro famiglie”. Con questo tweet, Papa Francesco ha fatto giungere la propria vicinanza e il sentimenti di cordoglio alle persone coinvolte nel crollo, avvenuto mercoledì scorso, di un grande stabile nel quale lavoravano circa tremila operai tessili, 332 dei quali hanno perso la vita. Centinaia i feriti, mentre diverse dozzine di persone sono state estratte vive dalle macerie, tra le quali i soccorritori continuano a scavare.

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    Udienza di Papa Francesco al premier italiano uscente Monti

    ◊   Ieri sera verso le 18, presso la Casa Santa Marta, dove risiede, Papa Francesco ha ricevuto in udienza il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Monti, in vista di congedo, accompagnato dalla consorte, la signora Elsa. Il colloquio - ha spiegato il direttore della Sala Stampa della Santa Sede - è stato molto cordiale ed è durato una ventina di minuti. I temi principali sono stati l’Italia, l’integrazione europea e le sue prospettive, e le migrazioni. Monti ha ricordato al Santo Padre che suo padre era nato in Argentina, nel 1900, a Luhan, località famosa per la presenza del Santuario mariano più famoso del Paese, da famiglia italiana emigrata.

    I doni offerti dal presidente Monti sono stati un trittico di penne di colore verde, bianca e rossa, come quello donato a Benedetto XVI nella sua ultima visita, un libro sulle cattedrali d’Europa e un libro sulla Democrazia in Europa, da lui scritto con Sylvie Goulard con dedica autografa. I doni del Papa sono stati un libro dei suoi primi discorsi del Pontificato, con dedica autografa, le monete del Pontificato e un rosario.

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    Il Papa alla Tanzania per la Festa dell'unità nazionale: Dio conceda pace e benessere

    ◊   La Festa per l’unità della Tanzania, celebrata ieri, è stata salutata da Papa Francesco con un messaggio di felicitazioni indirizzato al presidente della Repubblica, Jakaya Mrisho Kikwete. Definendo la giornata di festa un’“occasione felice” per la popolazione della Tanzania, il Papa prosegue affermando di voler affidare “volentieri” la nazione, all'inizio del Pontificato, “alla Provvidenza di Dio Onnipotente” e di pregare perché “i suoi cittadini possano godere di pace e benessere”.

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    Il Papa ringrazia il Piams per il lavoro a servizio della musica liturgica

    ◊   Papa Francesco ha ringraziato e benedetto, in un Messaggio a firma di mons. Angelo Becciu, sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, il preside e i membri del Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra (Piams). In una lettera inviata in occasione della sua elezione al Soglio di Pietro, mons. GianLuigi Rusconi, massimo responsabile dell’Istituto, aveva assicurato al nuovo Papa “rinnovato impegno” affinché – scriveva – la preghiera e la musica liturgica “siano un trasparente segno della parola e dell’opera di Dio fedele e misericordioso e, insieme, perché siano sempre più e meglio l’espressione della fede e della vita di tutto il popolo cristiano”.

    “Sua Santità – si legge in risposta nel Messaggio papale – ha accolto con vivo compiacimento tale testimonianza di sincera devozione ed ha parimenti apprezzato le attestazioni di fedele adesione al Suo universale ministero, e, mentre ringrazia per il premuroso gesto, esorta a perseverare nella preghiera per la Sua Persona e il Suo servizio alla Chiesa”.

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    Appello del Papa ai giovani via Twitter: "Non sotterrate i talenti, sognate cose grandi!"

    ◊   Il Papa ieri sera ha lanciato un nuovo tweet: "Cari giovani - scrive - non sotterrate i talenti, i doni che Dio vi ha dato! Non abbiate paura di sognare cose grandi!". Nel suo account Twitter in nove lingue, i follower sfiorano quota 6 milioni.

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    Il card. Turkson: Papa Francesco come Giovanni XXIII, un fautore di pace

    ◊   Tracciando il profilo dell'Enciclica Pacem in Terris a 50 anni dalla sua pubblicazione, stamattina il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, al Convegno svoltosi a Bergamo e promosso dal Movimento Cristiani Lavoratori, ha evidenziato che diverse similitudini avvicinano la figura di Giovanni XXIII a Papa Francesco, il quale sin dall’inizio del suo ministero petrino ha auspicato che la Chiesa sia “strumento per la pace” e ha definito il Pontefice come “colui che costruisce ponti con Dio e tra gli uomini”. Per questo motivo, ha osservato il porporato, Papa Francesco ricorda Papa Roncalli, che dal canto suo nella Pacem in Terris “ci guida a comprendere la pace e a costruire la pace oggi”. Per il cardinale Turkson, l’intuizione di Giovanni XXIII è stata quella di parlare di pace riferendosi all’uomo, e solo secondariamente a tutte le nazioni, che rientrano nell’ordine stabilito dall’uomo, ordine dove “non è intrinseca la pace, in quanto le nazioni sono in competizione”. Papa Roncalli evidenziò che “la pace in terra è raggiunta, in sostanza, in relazione alla verità di Dio e nel rispetto dell’ordine da Lui stabilito, che comprende l’uomo, la donna e tutta l’umanità”. Per questo, nell’Enciclica vi è da riconoscere una base antropologica-umanistica: “Il punto di partenza e l’elemento fondamentale è l’essere umano, l’uomo creato da Dio, dotato di dignità, con diritti e doveri”, ha spiegato il presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.

    Analizzando poi il contesto storico nel quale è nata l’enciclica Pacem in Terris, il porporato ha brevemente riflettuto sull’influenza che i Papi hanno avuto nel panorama mondiale storico e ha sottolineato che “un Papa o un cardinale non è solo colui che in un momento di crisi interviene sul palcoscenico mondiale”, ma che “ruolo più tipico, e addirittura cruciale, è quello di ricordare al mondo le verità più profonde”. In tal senso, il cardinale Turkson ha rammentato che “la Pacem in Terris è stata scritta in un momento in cui il disastro nucleare sembrava imminente” e che i suoi contenuti servirono come richiamo a ognuno “a lavorare per costruire la pace e i diritti dell’uomo”, così come l’invito dello stesso Giovanni XXIII - rivolto dai microfoni della Radio Vaticana, a “tutti i governi di non essere sordi davanti a questo pianto dell’umanità” - indusse l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti a non far degenerare la Guerra Fredda in un catastrofico conflitto ad armi atomiche. Ripetendo infine le parole di Papa Francesco del 22 marzo scorso al Corpo Diplomatico, il cardinale Turkson ha affermato che per costruire la pace è necessario costruire ponti di vero dialogo e vera fraternità. Per questo, il porporato ha invocato l’intercessione del Beato Papa Giovanni, affinché lo Spirito Santo “guidi Papa Francesco ad essere un efficace Pontefice e un vero costruttore di pace, e perché ognuno di noi possa, a sua volta, costruire ponti ed operare per la pace secondo quanto siamo stati predestinati a fare in questo mondo, secondo il disegno di Dio Padre”. (T.C.)

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    L’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie sbarca su Twitter

    ◊   @UCEPO: è questo l’account Twitter dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche pontificie. Inaugurato tre giorni fa, l’account ha già 351 follower e segue, a sua volta, l’account @Pontifex, in italiano, del Santo Padre. Cinque, fino ad ora, i tweet lanciati: tre sono citazioni della Costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, mentre altri due contengono indicazioni per la Santa Messa con i cresimandi ed i cresimati che Papa Francesco presiederà domenica prossima, 28 aprile, in Piazza San Pietro. Con l’arrivo di @UCEPO, si allunga la lista degli organismi vaticani presenti su Twitter: basti citare @TerzaLoggia, l’account della Segreteria di Stato, @proLaicis, il profilo ufficiale del Pontificio Consiglio per i Laici, @PCCS_VA, l’account multilingua del Dicastero per le Comunicazioni Sociali, e L’Osservatore Romano, che è presente su Twitter sia in italiano, con @oss_romano, che in inglese, con @LOsservatore_USA. Infine, è da ricordare @newsva, il servizio in diverse lingue fornito dal Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali e che raccoglie le notizie della Radio Vaticana e dei principali media vaticani. (I.P.)

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    Congo: apre Causa di beatificazione di sei suore italiane vittime dell'Ebola 18 anni fa

    ◊   “Testimoni della carità”: così vengono ricordate le sei suore delle Poverelle di Bergamo, morte 18 anni fa, nella Repubblica Democratica del Congo a causa del virus ebola. Domani, nella cattedrale di Kikwit, si aprirà la Causa di beatificazione delle religiose che, di fronte all’epidemia, restarono al fianco dei malati seguendo fedelmente il carisma del fondatore del loro ordine, il Beato Luigi Palazzolo. Ma cosa significa l’apertura della Causa di beatificazione? Benedetta Capelli lo ha chiesto alla postulatrice, suor Linadele Canclini:

    R. – Per noi, l’apertura di questa Causa vuol dire rivivere quel momento drammatico nella luce della fede, in comunione con la Chiesa di Kikwit, con la Chiesa di Bergamo, con la Chiesa del Congo, con la Chiesa universale, per guardare a queste nostre sorelle che sono state modelli di vita, di donazione e di morte.

    D. – Lei è in Congo per l’apertura dell Causa: come si sta vivendo lì questo momento, che è anche un momento di gioia per tutta la Chiesa?

    R. – Di gioia grande. Intanto, la gioia è limitata al vescovo di Kikwit, al tribunale che è stato istituito, alla condizione storica. Quindi, è un po' riservata. La gente che però ci incontra, che ci vede, che ricorda questo avvenimento, comunque è scossa.

    D. – Ci sono persone che ricordano le suore e come le ricordano?

    R. – Non è la prima volta che io vengo in Congo e che incontro persone che le hanno conosciute. Hanno un ricordo fortissimo e addirittura tante volte hanno detto che sono delle “sante”, ma sappiamo che questo è la Chiesa che lo dichiara. Loro hanno un ricordo incancellabile di queste persone che sono venute da lontano, che hanno dato la loro vita. Hanno un ricordo fortissimo della loro donazione.

    D. – Se lei dovesse racchiudere in poche parole il carisma che le ha animate, che poi è il carisma della vostra Congregazione, cosa direbbe in proposito?

    R. – Direi due frasi: una del Vangelo e una del nostro fondatore. Quella del Vangelo è: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i fratelli”. Per quanto riguarda la seconda frase, queste nostre suore hanno fatto rifiorire il carisma del Beato Palazzolo in terra africana, erano non solo vincolate da un voto ma lo hanno fatto per libera scelta. Il voto che le prime suore facevano era questo: “Le suore delle poverelle assisteranno i malati poveri anche in tempo di malattie contagiose e di peste”. Praticamente loro, di fronte all'Ebola, non solo non hanno temuto, ma sono andate sul campo di battaglia per sconfiggerla, in aiuto dei fratelli malati.

    D. – Ci descrive queste sei sorelle?

    R. – Sono state unite da una catena di amore, che è diventata una catena di morte e che adesso speriamo diventi una catena di gloria. La prima è stata una delle prime cinque missionarie venute in Congo, con 43 anni di missione alle spalle. Pare che il virus circolasse da gennaio nei villaggi e in ospedale arrivavano molti malati. Un malato già operato è stato rioperato nell’ospedale di Kikwit, poiché nessuno sapeva nulla, e tutto il corpo medico infermieristico è stato contagiato ed è morto. Altre due suore lavoravano in ospedale con lei nei diversi padiglioni e una suora, la più giovane, è venuta ad assistere ed è stata la prima ad essere contagiata e la terza a morire. Morta la quarta suora, che era già stata a contatto con altri malati, una delle suore di Kinshasa, suor Vitarosa ha detto: “Suor Anelvira, vengo ad aiutarti”. Molti hanno cercato di fermarla, ma lei ha aggiunto: “I miei fratelli stanno morendo” e ha voluto decisamente venire a Kikwit e così è stata la quinta a morire, dopo di che c’è stata la sesta. Fortunatamente, la morte di sei suore bianche ha scosso il mondo. L’abbiamo pensato tante volte: pur avendo sofferto moltissimo, l'essere suore bianche, dalla pelle bianca, ha scosso davvero tutti. Se fossero stati solo i fratelli congolesi, forse non si sarebbe fatto molto. Il sacrificio delle nostre suore è invece servito a salvare la vita di molti altro fratelli congolesi.

    D. – Oggi, secondo lei, che cosa ci insegnano queste sei suore?

    R. – Ci insegnano la fedeltà continua al proprio dovere quotidiano. Un missionario che le ha conosciute molto bene ha detto: “Le suore delle poverelle morte a Kikwit potremmo definirle eroi per abitudine”. Proprio in questi giorni parlavo con le mie consorelle, che mi hanno detto: “Dove sta il loro eroismo?” Erano persone comuni, generose, che non hanno fatto niente di straordinario, ma il loro è stato l’eroismo di tutti i momenti, per il Signore e per i fratelli bisognosi e malati più poveri.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   La Giornata dei cresimandi: in prima pagina, il pellegrinaggio dei circa settantamila giovani che domenica parteciperanno alla messa presieduta da Papa Francesco.

    Come morire per 38 euro al mese: la tragedia in Bangladesh di oltre trecento operai costretti a lavorare nel palazzo già pericolante.

    Oltre due milioni di vittime delle malattie professionali: nell'informazione internazionale, in rilievo il rapporto dell'Ilo sull'occupazione.

    L’ultima tragedia di un delinquente delicato: Achille Bonito Oliva sul realismo concettuale del pittore Francis Bacon.

    Dall’Italia un ponte sul Nilo: Rossella Fabiani sulla riapertura del museo greco-romano di Alessandria d’Egitto.

    Il poeta e la purificazione dello sguardo: Pierangelo Sequeri sul mistero della morte e la presenza di Dio nei versi di Arnoldo Mosca Mondadori.

    Un giovane di Salò in cerca di risposte dalla storia: Roberto Pertici sulle ricerche di Roberto Vivarelli.

    Fede e speranza contro i totalitarismi: nel servizio religioso, la lectio magistralis tenuta a Tirana dal cardinale arcivescovo di Cracovia, Stanisław Dziwisz.

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    Oggi in Primo Piano



    La triste condizione del lavoro coatto. Scontri in Bangladesh dopo il crollo di Dacca

    ◊   Nel palazzo crollato a Dacca, in Bangladesh, erano ospitate cinque fabbriche tessili. Gli operai sarebbero stati costretti dai propri datori di lavoro a rientrare nell’edificio, nonostante fossero comparse enormi crepe sui muri. Otto le persone arrestate, mentre migliaia di operai sono scesi in piazza in tutto il Paese per chiedere maggiori diritti e sicurezza. Intanto, si continua a scavare tra le macerie alla ricerca dei corpi delle decine di lavoratori che ancora oggi risultano dispersi. Sono oltre 2.300 le persone estratte vive, tra loro una donna che nel frattempo ha partorito un bambino. Questa tragedia riporta in primo piano la triste condizione di milioni di persone che lavorano in regime di sfruttamento e senza garanzie di sicurezza. Molto spesso, sono vittime delle multinazionali che investono nei Paesi in via di sviluppo per abbassare i costi di produzione, a fronte di un aumento esponenziale dei ricavi. Salvatore Sabatino ne ha parlato con l’economista Tito Boeri:

    R. – Io credo che una tragedia come quella di Dacca sia soprattutto legata all’incapacità dei governi nazionali di rispettare le regole di base, di far applicare gli standard minimi fissati dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Il problema è che in Bangladesh noi abbiamo il parlamento nazionale e lo stesso governo che detengono quote importanti di queste aziende e quindi hanno tutti gli interessi ad aumentare i profitti di tali aziende e a chiudere un occhio sui controlli, che invece dovrebbero essere attuati.

    D. – Ovviamente, questo non è un problema che riguarda solo il Bangladesh. Secondo l’Onu, sarebbero circa 20 milioni le vittime del lavoro coatto e si concentrano soprattutto in Asia. Questo fenomeno come può essere definito?

    R. – E’ un problema, in effetti, molto serio, molto importante, soprattutto nel campo del tessile, perché ci sono condizioni di lavoro davvero disumane. Sono purtroppo eventi che richiedono davvero, credo, un’attenzione molto più forte da parte delle organizzazioni multilaterali, nel far sì che gli standard di lavoro vengano rispettati nei diversi Paesi. Soprattutto, bisogna impedire che ci sia questo legame così stretto tra le elite nazionali e queste industrie.

    D. – Quanto tutta questa delocalizzazione ha influito sulla crisi economica, che "morde" invece di più i Paesi sviluppati?

    R. – Certamente, la delocalizzazione ha creato un problema per i lavoratori poco qualificati nei Paesi più avanzati, perché le lavorazioni a minore contenuto di capitale umano si sono trasferite nei Paesi in via di sviluppo, dove ci sono costi del lavoro più bassi e, come purtroppo vediamo, anche condizioni di lavoro disumane. Quelli che prima avevano un lavoro nei Paesi avanzati, in queste aziende, nel tessile, hanno sofferto davvero molto duramente. La risposta in questo caso non può che essere quella sul puntare su investimenti in capitale umano e cercare di far sì che queste persone abbiano maggiore possibilità di riconvertirsi, di apprendere mansioni che siano a maggiore contenuto di capitale umano. Perché è questo il vantaggio che avranno in futuro, in ogni caso, i Paesi avanzati.

    D. – Guardando però al mercato del lavoro, in senso globale, c’è piuttosto una corsa al ribasso. Non sono i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo che si adeguano a quelle che sono le garanzie che vengono date nei Paesi già sviluppati, ma è il contrario...

    R. – In realtà, la situazione è più complessa, perché ci sono, per esempio, anche proteste dei lavoratori nei Paesi emergenti, quelli che si stanno arricchendo, e ci sono anche delle forme di organizzazione dei lavoratori. Anche in Cina ci sono stati scioperi molto importanti e i lavoratori sono riusciti a portare a casa condizioni lavorative migliori e incrementi salariali significativi. Non si va, quindi, solo in una direzione. Certamente, c’è il problema che la penetrazione nei mercati avanzati di importazione dai Paesi in via di sviluppo ha aumentato le pressioni competitive. Soprattutto in Paesi come l’Italia, dove non ci sono minimi che vengano fissati dai sindacati, significa avere persone, soprattutto lavoratori immigrati, lavoratori molto vulnerabili, giovani, che finiscono per essere in condizioni lavorative molto, molto pesanti.

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    Guantanamo: si estende la protesta dei detenuti che da anni attendono un processo

    ◊   Sale il numero di detenuti in sciopero della fame nel carcere di Guantanamo, a Cuba. Il numero è ormai arrivato a circa 100 prigionieri, di cui 19 alimentati in modo forzoso. All’origine della protesta, cominciata nel febbraio scorso, la denuncia delle condizioni di vita nella struttura e la mancanza di un processo, oppure di un capo di imputazione. La Casa Bianca segue la vicenda e ha fatto sapere che il presidente Obama continua a ritenere che il carcere dovrebbe essere chiuso. Eugenio Bonanata ha chiesto l'opinione di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia:

    R. – E’ sintomo di una disperazione profonda che stanno patendo i detenuti di Guantanamo, perché non vedono un futuro, non vedono una speranza, non vedono la possibilità di una evoluzione nella loro condizione, che è quella di un "limbo" giuridico nel quale sono da tanti anni e che non prevede per molti di loro la possibilità di uscire, né tantomeno di essere processati.

    D. – Lamentano le rigide condizioni a cui sono sottoposti: che cosa si sa di questo?

    R. – Ci sono lamentele e proteste specifiche che riguardano perquisizioni particolarmente invadenti e in altri casi il vecchio tema della profanazione di testi religiosi. Però, al di là di questo, le stesse autorità militari hanno definito correttamente, io credo, questo sciopero della fame come il sintomo di una profonda disperazione complessiva. Quindi, al di là degli episodi che pure non mancano, o dell’indubbio miglioramento delle condizioni detentive a Guantanamo nel corso degli anni, all’origine di tutto c’è proprio questa assenza di prospettive, l'impossibilità di ricorrere a qualcuno che prenda finalmente una decisione, che sia ribadire la non colpevolezza: in senso più ampio, quello che Amnesty chiede da tanto tempo, di chiudere cioè il centro di detenzione di Guantanamo.

    D. – Qual è lo status dei detenuti di Guantanamo?

    R. – Per 48 di loro, è uno status arbitrario e senza precedenti. Ovvero, non saranno rilasciati e non saranno neanche processati. Questi 48 sono in sciopero della fame, assieme agli altri. Altre decine sono stati già riconosciute non colpevoli, però ci sono condizioni di sicurezza, secondo l’amministrazione Obama, che ne impediscono il ritorno in patria e si tratta sostanzialmente di yemeniti. Complessivamente, la situazione dal punto di vista dei “successi giudiziari” di Guantanamo è misera, perché ci sono state poche condanne. Ci sono processi che vanno avanti nei confronti di sei imputati presso le commissioni militari e, se pensiamo che per Guantanamo sono transitate 800 persone, è veramente un bilancio misero, completamente insufficiente e ottenuto tra l’altro in spregio delle norme internazionali.

    D. - Per l'appunto, tutto questo è legale?

    R. – No, non è legale. Questo è un diritto internazionale che si è inventato l’amministrazione Bush dopo quei crimini orrendi contro l’umanità commessi a New York nel 2001 e che anche l’amministrazione Obama non ha smantellato fino in fondo. Sono stati presi provvedimenti riguardo alle forme di interrogatorio, ad altri dettagli, ma l’architettura della guerra al terrore dell’amministrazione Bush è rimasta intatta. Quello che è persino peggio è che, nonostante Obama avesse promesso entro un anno dal suo primo mandato di chiudere Guantanamo, non solo Guantanamo è aperta, ma non c’è alcuna prospettiva che sia chiusa.

    D. – I fatti di Boston di questi giorni possono rallentare questo percorso?

    R. - E’ possibile che ci sia nell’opinione pubblica e in alcuni responsabili politici la tentazione, o l’emozione legittima, di collegare quell’orribile episodio di Boston con la situazione della sicurezza e dunque di considerare Guantanamo un luogo dove isolare presunte minacce alla sicurezza degli Stati Uniti. Finora, però, non ha pagato contrastare il terrorismo con la guerra al terrore perché vediamo che avvengono episodi gravi negli Stati Uniti, ma soprattutto altrove, sempre contro obiettivi statunitensi, contro turisti, contro occidentali. Dunque, tutto questo non ha pagato. Amnesty International lo sostiene da anni. Noi vorremmo vedere un salto in avanti, cioè che Obama riprenda quell’idea di chiudere Guantanamo e che si trovi una qualche soluzione col Congresso che è ostile. Perché finché Guantanamo resta aperta, è una ferita al diritto internazionale.

    D. – In sintesi, cosa manca per la chiusura?

    R. – La volontà politica da parte del Congresso degli Stati Uniti e questa mancanza di volontà politica è diventata un comodo alibi per l’amministrazione Obama, per il Pentagono, per allontanare quella prospettiva. Dunque, oggi siamo in assenza di questa volontà politica, che è poi quell’elemento che scatena la disperazione dei quasi 100 detenuti in sciopero della fame.

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    Afghanistan. I talebani annunciano l’offensiva di primavera

    ◊   I talebani in Afghanistan hanno annunciato un’imminente ripresa di azioni in forze contro le truppe Nato e il governo locale. La cosiddetta “offensiva di primavera” si verifica ormai da diversi anni nel Paese: lo scorso anno gli attacchi, durati 18 ore, presero di mira alcune ambasciate e lo stesso parlamento afghano. Davide Maggiore ha chiesto ad Arduino Paniccia, docente di Studi strategici all’Università di Trieste, in quale contesto si inserisca l’annunciata offensiva:

    R. – Da un lato, i talebani dichiarano l’offensiva, ma dall’altro lato stanno invece trattando. Questa volta, compresi i seguaci del Mullah Omar, hanno in corso da circa un mese delle trattative riservate, sponsorizzate dai sauditi, con il governo afghano. Quindi, la dichiarazione dell’offensiva ha il sapore questa volta di una pressione molto forte per convincere il governo afghano – e naturalmente gli americani e la Nato – a giungere a una fine negoziata del conflitto dell’Afghanistan.

    D. – Di quanto consenso dispongono i talebani?

    R. – Meno di un tempo, sicuramente. Il consenso resta molto forte in alcune aree del Paese, anche se ormai un po’ a macchia di leopardo: non supera certamente il 30%, forse anche il 25% della popolazione. Resta comunque un consenso che riguarda ancora qualche milione di afghani sui 35 della popolazione complessiva. Certamente, dei passi avanti dal governo Karzai sono stati fatti: basti pensare che il prodotto interno lordo dell’Afghanistan è oggi dieci volte superiore a quello di 12 anni fa. Questo i capi talebani lo hanno capito, quindi stanno cercando l’offensiva per uscire da una situazione che ormai, anche per loro, è una situazione di logoramento e di stallo.

    D. – Qual è, invece, l’atteggiamento del governo Karzai?

    R. – Il governo Karzai è stato richiamato all’ordine dal segretario di Stato americano, pochi giorni fa a Bruxelles, perché era molto riluttante ad aprire anche la trattativa con il Pakistan, che gli Stati Uniti ritengono comunque fondamentale, insieme con quella promossa dai sauditi con i talebani. Gli Stati Uniti osservano i due Paesi come due facce della stessa medaglia: pur comprendendo le numerosissime lamentele da parte afghana, il tentativo è di creare un "pacchetto" che riguardi i due Paesi e la collocazione politica futura dell’elemento talebano sia in Afghanistan che in Pakistan.

    D. – C’è qualcosa che le autorità afghane possono fare per impedire che il consenso a favore dei talebani metta ancora più radici nel Paese?

    R. - Il modo fondamentale è continuare a dare occupazione, benessere e scolarità. Questo quindi significa che il flusso di aiuti internazionali e gli investimenti esteri in Afghanistan devono continuare a ritmo serrato. Nonostante vi saranno attacchi, offensive e persino attacchi suicidi, che sono stati promessi a breve dai talebani nelle città afghane, la vera battaglia oggi per togliere definitivamente il consenso è proseguire nell’avanzamento economico del Paese. Un cammino che, in qualche modo, è già iniziato: oggi in Afghanistan vi sono 20 milioni di telefonini, 8 mila miglia di strade asfaltate, rispetto alle 700 miglia di dieci anni fa. Otto milioni di ragazzi frequentano la scuola, dei quali il 30% sono donne. Diciamo che la capacità dell’Afghanistan – che ha un sottosuolo ricco – di attrarre comunque investimenti esteri e attenzione da parte dei Paesi asiatici è già diventata una realtà. Tuttavia, senza l’aiuto economico del’Europa e degli Stati Uniti, potrebbe verificarsi davvero una spaccatura al momento, ormai vicino, del ritiro delle truppe.

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    Settimana mondiale delle vaccinazioni. Obiettivo: vaccini economici e di qualità

    ◊   La Settimana Mondiale delle Vaccinazioni, partita il 24 aprile e promossa dall’Oms, ha l’obiettivo di ottenere vaccini di alta qualità, sicuri e convenienti. Si stima che al mondo vengano utilizzati ogni anno 2,5 miliardi di dosi per immunizzare i bambini sotto i 10 anni da malattie come morbillo, polio, tetano e difterite. In coincidenza con questa Settimana, è stato organizzato il primo "Global Vaccin Summit" ad Abu Dhabi. Ma “Medici senza frontiere” sottolinea che i vaccini hanno un costo ancora troppo alto per i Paesi in via di sviluppo. Nel mondo, muore un bambino ogni 20 secondi per una malattia prevenibile come il morbillo o la polmonite, e questo soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Quanto è importante, dunque, una campagna come quella della Settimana Mondiale delle Vaccinazioni? Elisa Sartarelli lo ha chiesto a Giovanni Rezza, virologo dell’Istituto Superiore di Sanità:

    R. - E’ importante ed è importante soprattutto in questo momento in cui sono forti i pregiudizi contro le vaccinazioni, anche se ingiustamente: perché se è vero che i vaccini, talvolta, possono dare degli effetti collaterali, è vero anche che hanno salvato milioni e milioni di vite e ancora di più ne potrebbero salvare, specialmente nei Paesi del Terzo Mondo, dove il morbillo è ancora un killer.

    D. - Infatti, in Italia alcune malattie sono state debellate grazie proprio ai vaccini. Spesso i genitori si interrogano però sulla pericolosità dei vaccini che potrebbero provocare allergie o addirittura shock anafilattico. Qual è la percentuale di rischio?

    R. - Il rischio di effetti collaterali gravi da vaccino è veramente molto, ma molto basso. Effetti collaterali più banali possono, invece, verificarsi più frequentemente, ma in genere sono risolvibili e non danno grossi problemi, né residui. Il vantaggio della vaccinazione, a fronte degli effetti collaterali, è invece un vantaggio enorme. Ricordiamo che un flagello globale come il vaiolo è stato completamente eradicato proprio grazie alle campagne vaccinali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Naturalmente, ci vuole più empatia anche nei confronti dei genitori dei bambini: ci vuole un "counselling prevaccinale", che chiarisca quali siano gli aspetti delle vaccinazioni, soprattutto i possibili vantaggi a fronte degli effetti collaterali che possono verificarsi. E’ importante che il medico faccia un’anamnesi accurata del bambino e dell’adulto, nel caso degli adulti, che deve vaccinare e che dopo questi bambini vengano adeguatamente seguiti. Quindi, le vaccinazioni sono uno strumento importantissimo, forse il più importante strumento di sanità pubblica. E’ bene, però, che vangano anche fatte come si deve e che il candidato alla vaccinazione venga ben considerato e venga soprattutto fatta un’opera di educazione e di informazione anche nei confronti dei genitori.

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    L'Istituto Maritain organizza il convegno "Educare alla politica". Papini: si punti a valori condivisi

    ◊   Il boom dell’antipolitica alle recenti elezioni, il lungo percorso che ha portato alla riconferma di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica e la travagliata nascita del nuovo governo sono indicatori dell’insufficienza dell’attuale politica in Italia. Occorre riscoprirne la vocazione al servizio del bene comune a partire da una riscoperta di valori condivisi. Ne è convinto Roberto Papini segretario generale dell’Istituto Internazionale Jacques Maritain che ha organizzato ieri e oggi, nella Repubblica di San Marino, il convegno “Educare alla politica”. Paolo Ondarza lo ha intervistato:

    R. - Il problema della politica, la ricerca del bene comune, della giustizia e della solidarietà sono problemi che oggi, in genere, le società sviluppate non risolvono, perché c’è un diffuso individualismo e ognuno - sia gli individui, sia le forze politiche - ricerca il proprio bene particolare.

    D. - In Italia, in particolare, la fiducia nei partiti è ai minimi storici; tante le adesioni raccolte dal movimento di Beppe Grillo. Anche il linguaggio usato è ormai caduto nella volgarità, quasi si sia persa di vista la funzione alta della politica.

    R. - Non c’è dubbio, ma io credo che il problema della crisi della politica sia più profondo. Se una società civile non ha più dei valori condivisi, è evidente che poi esprime anche una società politica insufficiente.

    D. - A quali valori fa riferimento?

    R. - Essendo in un Paese come l’Italia, che si riferisce soprattutto ai valori cristiani, mi riferisco a questi ultimi, però ci sono anche i valori laici, perché noi abbiamo avuto delle tradizioni fortissime: lo stesso Partito comunista, il Partito d’azione, erano dei partiti che avevano dei valori, che credevano in un cambiamento in senso migliore della società. Oggi questo non c’è più. Oggi c’è esclusivamente crisi della scuola, crisi dell’università già da decenni, e la gente non ha più dei valori; al massimo viene educata alle nuove tecnologie. Nessuno pensa più agli studi umanistici, piuttosto finanziamo la ricerca scientifica! Abbiamo investito sempre meno soldi nell’educazione. In questo senso, siamo gli ultimi dei 27 Paesi, insieme alla Grecia! Noi che abbiamo il Paese con maggiori giacimenti culturali del mondo! Non abbiamo capito che le ferite della società civile, le disfunzioni, le diseguaglianze, si curano con la cultura, con i valori…

    D. - Ritrovare la cultura vuol dire anche intraprendere una strada per una rinnovata coesione?

    R. - Certamente! Questi valori a cui mi riferisco, dovrebbero essere imperniati sulla solidarietà, sulla coesione. Uno dei temi su cui è fondata l’Unione Europea è proprio la coesione, eppure questa coesione non c’è!

    D. - Colpisce che in un momento come quello che stiamo vivendo in Italia, la persona che più di tutte in questi ultimi giorni sembra aver ridato serietà alla politica, è il presidente della Repubblica Napolitano, ovvero un uomo anziano, quasi che la classe politica adulta, stenti a ritrovare - appunto - questa strada di serietà, per anteporre l’unità al conflitto. Questo a conferma di quanto diceva…

    R. - Certo! Adesso c’è questa rincorsa ai giovani, come se il fatto di essere giovani già significhi portare nella società dei valori… Questo non è vero; il fatto che si è un giovane non significa che già porti in sé nuovi valori. Il problema è il sistema educativo!

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    Commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della V Domenica di Pasqua

    ◊   Il Vangelo della V Domenica di Pasqua è tratto dai discorsi di Gesù durante l’ultima cena con i suoi discepoli. Dopo la lavanda dei piedi e il preannuncio del tradimento di Giuda, Gesù dà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore.

    “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”.

    Su questo brano evangelico ascoltiamo una breve riflessione di Don Ezechiele Pasotti, Prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma:

    Il Vangelo di oggi inizia con l’annuncio – ma i verbi dicono che si è già compiuta – della glorificazione del Figlio di Dio da parte del Padre. Poi il Signore offre ai suoi discepoli un cenno della stessa vita divina: “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato”. Si resta impressionati a scorrere il Vangelo di Giovanni e la sua 1ª lettera alla luce di queste parola del Signore. È un vero ritornello. È caratteristico del Vangelo di Giovanni notare che Gesù non parla di testa “sua”, non fa cose “sue”, ma dice e fa solo ciò che ha udito e visto presso il Padre suo (cf Gv 3,11 e ss.). E che cosa ha udito? Cosa ha visto? L’Amore. Non l’amore edulcorato, mieloso, vuoto, che spesso riempie le pagine dei settimanali di moda. L’amore di Dio è altro: è dono gratuito di sé, è ricerca appassionata dell’altro, per dargli la vita: è un amore segnato dalla dimensione della croce. Chi è raggiunto da questo amore, chi è toccato dalla bellezza dell’amore di Dio, non può fare altro che amare. Di qui il grido di Giovanni: “Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello rimane nella luce…” (1ª Gv 2,9). E ancora: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1ª Gv 3,14). E ancora: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio” (1ª Gv 4,7): ecco, il fine dell’amore del Signore è proprio che i discepoli si amino reciprocamente. Si parla di “comandamento dell’amore”, ma qui appare chiaro che l’Amore è la vita di Dio, è Dio stesso (cf 1ª Gv 4,16). Ora, rendere visibile questo amore nella comunità cristiana è la vocazione e la missione prima della Chiesa, perché fa presente la nuova creazione di Dio sulla terra (cf Ap 21,5).

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Siria: apprensione per i vescovi rapiti. Nuovi particolari sulla dinamica del sequestro

    ◊   Mentre tra i cristiani di Siria e di tutto il mondo cresce col tempo l'ansia per la sorte di Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e di Boulos al-Yazigi – i vescovi siro-ortodosso e greco-ortododosso di Aleppo sequestrati lunedì scorso nell'area compresa tra la metropoli siriana e il confine con la Turchia – emergono nuovi dettagli eloquenti sulla dinamica del rapimento. I due metropoliti orientali - riferisce l'agenzia Fides - sono stati catturati dai loro finora ignoti sequestratori mentre stavano realizzando un piano concordato tra loro per permettere al vescovo greco ortodosso Boulos di rientrare nella sua sede episcopale, da cui era assente da tre mesi. Fonti residenti in Turchia confermano all'agenzia Fides che il metropolita Boulos al-Yazigi dallo scorso febbraio aveva lasciato la Siria per visitare le comunità cristiane greco-ortodosse in territorio turco che cadono sotto la giurisdizione del Patriarcato greco-ortodosso di Antiochia. Un suo primo progetto di fare rientro in Siria attraverso il Libano si era rivelato impraticabile. A quel punto il metropolita siro-ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim aveva offerto la sua collaborazione per permettere a Boulos al-Yazigi di rientrare in diocesi e condividere con i suoi sacerdoti e i suoi fedeli le sofferenze patite da tutti per la guerra civile. Mar Gregorios lunedì mattina si era recato con il suo autista al confine con la Turchia appositamente per prelevare il vescovo greco ortodosso al suo rientro in Siria e fare ritorno insieme ad Aleppo, confidando di poter ripercorrere itinerari considerati “sicuri”, che già in altre occasioni gli avevano permesso di tornare nella città siriana dal confine turco. Poco dopo aver confermato a alcuni sacerdoti greco-ortodossi residenti in Turchia il loro ricongiungimento in territorio siriano, i due vescovi sono diventati irrintracciabili. Mentre continuano a circolare voci e indiscrezioni incontrollate e di volta in volta smentite sulla imminente liberazione dei due vescovi rapiti – l'ultima è stata diffusa ieri mattina su diversi siti d'informazione arabi – rimane oscura anche l'identità dei rapitori. Nell'area tra Aleppo e la frontiera turca si muovono fazioni e gruppi eterogenei, spesso in lotta tra loro. Intanto, da Gedda, l'Organizzazione per la Cooperazione islamica (Oic) ha condannato il rapimento dei due vescovi. Ekmeleddin Ihsanoglu, Segretario generale dell'organismo panislamico, ha chiesto il loro rilascio “immediato e incondizionato”, ribadendo che il loro sequestro “contraddice i principi dell'Islam autentico, e l'alto status riservato dall'Islam agli ecclesiastici cristiani”. (R.P.)

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    Giordania: a Karak un ospedale cattolico per i siriani in fuga da guerra e campi profughi

    ◊   La guerra in Siria e il sovraffollamento dei campi profughi costringono sempre più persone a cercare la "salvezza" nel deserto giordano a centinaia di chilometri dalla capitale Amman e dal confine siriano. Intervistata dall'agenzia AsiaNews, suor Adele Fumagalli, religiosa comboniana dell'ospedale italiano di Karak, racconta il dramma di chi tenta di fuggire dagli orrori della guerra e dei campi profughi. Ogni giorno l'ospedale apre le sue porte a decine di donne incinta, bambini rimasti orfani, padri giovanissimi a cui mogli in fin di vita hanno affidato i propri figli. "Alla sera e alla mattina - afferma suor Adele - quando ci troviamo in cappella, il nostro primo pensiero va a chi ha attraversato nella notte il deserto per salvarsi...noi basiamo il nostro servizio sulla carità e accogliamo questo popolo sul quale sta calando il silenzio". La suora confessa che la gente rifugiata nei campi profughi vive una situazione drammatica di grande emergenza e precarietà. Secondo la religiosa i rifugiati in Giordania sono circa il 10% della popolazione e ciò costringerà il regno Hashemita ad aprire nuovi campi, ma potrebbero non bastare le risorse del piccolo Stato, che in meno di un anno ha accolto oltre 500mila siriani. La popolazione inizia a chiedere altre soluzioni e in queste settimane vi sono state numerose proteste in vari centri del Paese. Per le agenzie umanitarie, compreso l'Onu, fra qualche mese non potrà essere più garantito il rifornimento di acqua, servizi igienico-sanitari, istruzione, assistenza medica. Per sopravvivere molti fuggono verso Amman. "Sulla strada che porta alla capitale - sottolinea suor Adele - vi sono numerosi bambini siriani, che durante il viaggio sono stati separati dai loro familiari. Essi sono completamente abbandonati a sé stessi. Per sopravvivere vendono sigarette, tè, oppure chiedono l'elemosina ai passanti". Al momento sono oltre 30mila i siriani che si sono stabiliti nella provincia di Karak. In gennaio erano circa 10mila. La maggior parte sono persone che non hanno trovato posto nel campo profughi di Zarqa, nel nord del Paese, altri giungono direttamente dalla Siria. I più fortunati vivono in piccole abitazioni in affitto. In un appartamento vivono fino a tre famiglie con più figli. A volte portano con se anche gli anziani o persone ammalate. "Questa gente - spiega suor Adele - ha bisogno di assistenza medica e ricovero ospedaliero. Noi curiamo soprattutto donne gravide che molto spesso non hanno avuto nessuna cura pre-natale, e bambini piccolissimi che a causa del disagio, del freddo, della mancanza di medicinali hanno diverse patologie che vanno dalle infezioni respiratorie a seri problemi gastrointestinali". Per la religiosa ciò che accumuna queste persone, oltre alla sofferenze fisiche, è il dramma psicologico. "Alcuni giorni fa - racconta - è venuto un padre con una bambina che per lo shock aveva perso tutti i capelli. La maggioranza dei piccoli che giungono al nostro ospedale ha il terrore negli occhi". Fondato dal 1939, l'Ospedale italiano di Karak è l'unica clinica attrezzata della regione e dispone di circa 40 posti letto. Esso è sostenuto dalla Catholic Near East Welfare Association (Cnewa), la speciale agenzia vaticana per l'aiuto alle Chiese cattoliche e alle popolazioni del Medio Oriente. Per far fronte all'emergenza in Siria la struttura ha stabilito con Caritas e Unhcr un programma di assistenza e di accoglienza per le persone bisognose e i malati. "Altri organismi locali - spiega suor Adele Fumagalli - chiedono la nostra collaborazione. Il nostro ospedale rimane il punto di riferimento per la parte meridionale della Giordania. Il nostro servizio continua grazie al sostegno della Chiesa e dei benefattori ai quali ci raccomandiamo". (R.P.)

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    Italia: in dirittura d'arrivo il goveno di Enrico Letta

    ◊   Italia. Ultimi colloqui per la messa a punto del governo da parte di Enrico Letta. Il premier incaricato ha incontrato alla Camera prima il segretario del Pd, Bersani, poi la delegazione del Pdl guidata da Berlusconi, con Alfano e Gianni Letta. Successivamente lo stesso Berlusconi si è incontrato con il leader di Scelta Civica, Monti. Attesa dunque per conoscere la lista dei ministri. Parlando con i giornalisti, Silvio Berlusconi ha annunciato che non assumerà alcun incarico in questo governo. Secondo gli osservatori, già stasera si potrebbe conoscere il novero di capi dicastero e sottosegretari, che formeranno il prossimo esecutivo, mentre il giramento nelle mani del presidente della Repubblica, Napolitano, potrebbe avvenire presumibilmente domani. Se andrà in porto questo tentativo, Letta potrà contare sula fiducia di Pd, Pdl e Scelta Civica. All’opposizione Sel, Movimento 5 Stelle e Lega, che potrebbe, tuttavia, rivedere in queste ore la sua posizione. (G.L.V.)

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    Cina. Sisma in Sichuan: 10 mila cattolici pronti a ricostruire case e chiese distrutte

    ◊   Insieme a tutta la popolazione del Sichuan, i cattolici hanno osservato tre minuti di silenzio stamane alle 8.10, in memoria di tutti i morti del terremoto di magnitudo 7 che ha colpito a quell'ora la regione lo scorso 20 aprile. Secondo la cultura cinese - riferisce l'agenzia AsiaNews - il settimo giorno dopo la morte è giorno di lutto. Fino a ieri, il bilancio delle vittime diffuso da Xinhua per la contea di Lushan, nella zona di Yaan (Sichuan), è di 196 morti e 13.484 feriti. Padre Chen Yong, della parrocchia di Santa Maria, vicino a Yaan (diocesi di Leshan), racconta che i suoi fedeli vivono insieme agli altri sopravvissuti sotto le tende e ricevono cibo, coperte e medicine dalle squadre di soccorso. Molte case sono crollate oppure sono divenute pericolanti. Su 10mila cattolici dell'area, almeno 6mila sono stati colpiti dal terremoto. "Fino ad ora - dice padre Chen - non ci è giunta nessuna notizia di cattolici morti nel sisma, ma alcuni sono feriti e almeno uno è ricoverato all'ospedale". Padre Chen, ordinato lo scorso anno, è uno dei tre parroci che servono la zona colpita. La maggior parte degli abitanti sono contadini e allevatori di polli. Il sisma ha distrutto case, campi e fattorie e ora essi sono molto preoccupati per come faranno a vivere o ricostruire la loro casa, essendo poveri. Dal giorno del sisma, padre Chen e gli altri sacerdoti stanno aiutando le persone, trasportando feriti e coordinando gli aiuti di emergenza. Diversi volontari cattolici sono arrivati nella zona colpita per aiutare le vittime del terremoto e per far giungere gli aiuti nelle zone più lontane. Almeno tre chiese della zona sono completamente distrutte; molte altre hanno subito danni gravi. Padre Chen dice che per il momento i sacerdoti celebrano Messa o pregano all'aperto. "Il primo giorno dopo il sisma - continua - il tempo è trascorso correndo da una parte all'altra, per aiutare, soccorrere, rispondere ai bisogni delle vittime. Le strade che collegano i villaggi erano danneggiate o bloccate dalle frane; le telecomunicazioni interrotte. Ora qualche servizio è stato ripristinato". A Chengdu, la capitale della provincia, circa 160 km dall'epicentro, il seminario regionale del Sichuan è stato colpito. Seminaristi e insegnanti sono salvi: al momento del terremoto sono stati subito evacuati dai dormitori e dagli edifici. I muri e la cappella presentano forti crepe, che si sono aggiunte a quelle che rimangono del terremoto del 2008. Il 21 aprile sera, i seminaristi hanno tenuto un momento di preghiera, sullo stile di quella di Taizé, facendo lutto per i morti, pregando per le vittime e chiedendo al Signore la forza di affrontare questa nuova prova. Alcune delle chiese colpite dal terremoto del 2008 non erano ancora riparate in pieno o ricostruite. La Chiesa e diverse Organizzazioni non governative hanno lanciato appelli per donazioni e sostegno alle vittime del terremoto. Ma la gente è molto riluttante a donare perché sono emerse molte prove di enormi fondi rubati da autorità corrotte dopo lo scorso terremoto. Il card. John Tong, vescovo di Hong Kong, ha chiesto ai fedeli della diocesi di pregare per le vittime del terremoto e di fare donazioni attraverso la Caritas di Hong Kong. Anche papa Francesco, il giorno dopo il sisma, ha pregato per i colpiti del terremoto in Sichuan. (R.P.)

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    Nigeria: bilancio di oltre 70 chiese distrutte nello Stato di Benue

    ◊   E’ un bilancio a tinte fosche quello diramato dalla Chiesa cattolica nello stato Benue, nella Nigeria centrale: nella crisi sociale e religiosa che attraversa la regione, oltre 70 chiese risultano distrutte, e migliaia di fedeli, specie in villaggi remoti, restano senza un luogo di culto. Lo riferisce, in una nota inviata all'agenzia Fides, Felix Apine, coordinatore della commissione “Giustizia, Sviluppo e Pace” della diocesi di Makurdi, capitale dello stato di Benue. La nota informa che 30 chiese che si trovavano nell’area di Gwer occidentale sono state bruciate o completamente distrutte, e i fedeli sono fuggiti in altri villaggi. Altre 40 risultano rase al suolo nella zona di Guma. La distruzione tocca anche alcune scuole primarie e secondarie appartenenti alla diocesi, mentre volontari e catechisti stanno perlustrando le diverse aree per appurare i danni. L’arcivescovo cristiano protestante Yiman Orkwar, presidente della “Associazione cristiana della Nigeria”, confermando la distruzione di chiese e scuole, ha detto che il bilancio degli edifici distrutti potrebbe ancora salire. Nello stato di Benue, allevatori di etnia Fulani, in gran parte musulmani, hanno attaccato villaggi abitati da agricoltori di etnia Tiv, in maggioranza cristiani. Sulla recente recrudescenza di attacchi dei Fulani verso agricoltori Tiv, che ha fatto oltre 30 morti, l’arcivescovo ha osservato “con sgomento la distruzione di vite umane e di proprietà, da parte di pastori Fulani e di uomini sconosciuti, con armi sofisticate”. Quanto sta accadendo ai cristiani “non sono semplici incidenti, è ma frutto dell’opera di jihadisti Boko Haram e jihadisti Fulani”, ha affermato, invitando le istituzioni a difendere la popolazione. “No si tratta di scontri – ha ribadito – ma di veri propri attacchi subìti dagli agricoltori cristiani”. (R.P.)

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    Pakistan: cristiani e musulmani piangono la scomparsa dell'attivista cristiano Ashfaq Fateh

    ◊   Un modello di attivismo cristiano, come in passato lo sono stati Anthony Mathew e Clement Shahbaz Bhatti; persone che se ne sono andate (troppo) presto, ma che hanno lasciato la loro impronta sulla mappa del Pakistan e una via da seguire. Così Atif Jamil Pagaan, assistente sociale e direttore di Harmony Foundation, ha ricordato l'attivista cattolico pakistano Ashfaq Fateh, scomparso di recente dopo una breve malattia all'età di 41 anni. Le esequie - riferisce l'agenzia AsiaNews - si sono tenute il 20 aprile scorso nel distretto cittadino di Toba Tek Singh, provincia del Punjab, davanti a una folla immensa formata da cristiani e musulmani, di ogni genere ed estrazione sociale. La sua scomparsa ha destato vivo cordoglio e partecipazione in tutta la comunità, che si è raccolta in preghiera per dare l'estremo saluto a una persona in prima fila nella lotta per lo sviluppo della minoranza cristiana e la sua presenza in seno alla società civile. Molte le testimonianze di affetto alla moglie Salomi, sposata nel 1997, con la quale aveva compiuto diversi viaggi (uno dei quali in India), una delle sue numerose passioni. Nelle scorse settimane i medici hanno tentato un intervento disperato per cercare di rimuovere un tumore al fegato, ma lo stadio della malattia era già avanzato. Resta però la testimonianza di vita e di fede lasciata da Ashfaq Fateh, appassionato di media e comunicazione, amante dei viaggi e con un desiderio profondo di imparare le lingue - in particolare l'inglese - e migliorare il proprio (e non solo) livello culturale. Egli era inoltre molto legato a padre Bonnie Mendes, già coordinatore regionale per la Caritas e attivo nel sociale, che lo ha guidato a lungo nella formazione spirituale e scolastica. Infatti, è grazie al sacerdote che ha potuto avvicinarsi al mondo dei media - in particolare la televisione e i notiziari tv - e allo studio della lingua inglese. Ancora giovane, Ashfaq ha rappresentato il Pakistan in un incontro fra cattolici di tutto il mondo che si è tenuto a Caracas, in Venezuela, grazie al visto ottenuto attraverso l'ambasciata iraniana. Un documento che gli è valso un passaggio a Teheran, dove ha incontrato i sacerdoti domenicani presenti nella Repubblica islamica. Il suo ricordo è legato all'attivismo ambientale, al desiderio di rafforzare il dialogo interreligioso e alla sua testimonianza di vita cristiana e cattolica, alla quale non ha mai rinunciato. Nel suo percorso ha inoltre diretto e guidato la Ravi Foundation, organizzazione non governativa che si occupa dei più bisognosi e ricoperto l'incarico di insegnante e preside della St. Peter High School. (R.P.)

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    Ecuador. Scontri fra indios: per i vescovi è “un conflitto figlio dell’indifferenza”

    ◊   Scontri e massacri fra diverse tribù di indios, inseriti nella questione, più ampia e complessa, dello sfruttamento dei terreni dell’Amazzonia: sono le tensioni registrate nelle ultime settimane nell’Est dell’Ecuador, nella foresta amazzonica, che hanno generato la forte preoccupazione di mons. Jesus Esteban Sadaba, vescovo del vicariato di Aguarico. Come appreso dall'agenzia Fides, a conclusione del recente incontro della Rete Ecclesiale Amazzonica, il vescovo ha lanciato allarme: le autorità della zona “non hanno fatto nulla per chiarire i fatti che riguardano la comunità di Yarentano”, dove sono stati massacrati 20 indigeni della etnia Taromenane. Il vescovo ha detto: “Come è possibile che soltanto ieri (24 aprile) la Procura ha aperto un’indagine su questo caso che si è verificato più di un mese fa e dove sono state perfino rapite due ragazze?”, paventando il rischio che il conflitto si allarghi, con conseguenze più gravi. Secondo informazioni pervenute alla Fides, il massacro dei Taromenane è una vendetta per l’omicidio di una coppia della popolazione di Yarentano. La situazione, molto complessa, è generata dal processo di industrializzazione di una parte dell’Amazzonia, dove vivono gruppi indigeni definiti “popoli occulti”. Lo sfruttamento dell’Amazzonia ecuadoriana e la colonizzazione accelerata di territori incontaminati hanno indotto le popolazioni indigene a spostamenti forzati, a causa della trasformazione del loro habitat e della diminuzione delle fonti di sopravvivenza Tra i Waori da un lato e i Tagaeri e i Taromenane dall’altro si è scavato un fossato profondo. I primi infatti sono entrati in contatto con il mondo esterno e in molti lavorano nelle stesse compagnie petrolifere e minerarie. Gli altri due gruppi hanno invece rifiutato ogni tipo di relazione con l’esterno e vivono in una zona impenetrabile della foresta amazzonica, nel Parco Nazionale Yasuní. Secondo il presidente della Federazione nazionale degli indigeni dell’Ecuador, Humberto Cholango, “i tragici fatti di cronaca sono il risultato di un problema strutturale. Il modello di sviluppo seguito da parte dello Ecuador ha acuito la pressione sulla vita dei popoli indigene. Le pressioni sui territori indigeni hanno provocato conflitti tra i Waori e le tribù dei Tagaeri e Taromenane”. Il missionari della Chiesa cattolica propongono itinerari di educazione ed evangelizzazione dei villaggi e insegnano a rispettare la diversità di culture e gruppi indigeni che abitano in quelle zone. (R.P.)

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    Messico: tossicodipendenza, Hiv, salmonella, tubercolosi: i rischi per i bambini di strada

    ◊   Oltre ad essere denutriti e a svolgere lavori pesanti e pericolosi, in Messico i bambini di strada sono vittime anche di malattie come tubercolosi, salmonella, Hiv/Aids, influenza. Circa il 60% di questi sono stranieri e provengono prevalentemente da Honduras e Guatemala. In un comunicato della responsabile dell’organizzazione internazionale Ejército de Salvación emerge anche che i piccoli spesso consumano alcol o sniffano colla per fermare la fame, per stordirsi e commettere furti o altri reati. Molti di loro - riferisce l'agenzia Fides - abbandonano la scuola mentre altri cercano di continuare a frequentare. Attualmente l’ Ejército de Salvación non dispone di spazio adeguato per accogliere e assistere questi piccoli e così intervengono distribuendo generi alimentari a quelli che vivono e lavorano per le strade. Il centro sostiene in media circa 60 bambini e adolescenti che vi si recano per mangiare o in cerca di riparo per la notte. (R.P.)

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    Conferenze episcopali europee: a Londra incontro sul dialogo con l'islam

    ◊   È possibile un dialogo con i musulmani “nel rispetto della libertà di ognuno, ma senza per questo nascondere la propria convinzione”? L’attuale situazione di crisi “si ripercuote sull’identità dei giovani” cristiani e musulmani? Insomma, quali sono le sfide della Chiesa negli spazi in cui si vive il multiculturalismo? A queste e ad altre domande cercheranno di rispondere, dal 1° al 3 maggio, i vescovi e delegati delle Conferenze episcopali in Europa responsabili per i rapporti con i musulmani all’incontro che si svolgerà a Londra dal titolo “Dialogo e Annuncio”. L’incontro, guidato dal card. Jean-Pierre Ricard, arcivescovo di Bordeaux, è promosso dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee). Ad aprire i lavori, mercoledì 1° maggio, sarà il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Nel corso dell’incontro prenderà parte anche il Presidente della Conferenza episcopale d’Inghilterra e del Galles, mons. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster. La relazione centrale è affidata all’esperto don Andrea Pacini, coordinatore per il Ccee di questa rete. Le riflessioni saranno particolarmente centrate sulla “costruzione dell’identità dei giovani musulmani alle prese con tensioni e/o convergenze tra fattore religioso e cittadinanza”. I delegati avranno anche l’occasione di presentare la situazione nel loro rispettivo paese e cercheranno di tracciare quali “sono le nuove questioni circa i rapporti tra musulmani e cristiani in Europa”. (R.P.)

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    Svizzera: le Chiese cristiane aderiscono all’“Alleanza per la domenica”

    ◊   Anche la Comunità delle Chiese cristiane della Svizzera (Ctec) aderisce all’ “Alleanza per la domenica”, l’iniziativa europea nata nel 2011 per tutelare la domenica come giorno non-lavorativo in tutta Europa, difendendo così il diritto al riposo settimanale, alla vita sociale, familiare, associativa e religiosa. In Svizzera, in particolare, l’Alleanza ha depositato alla Cancelleria federale le 67mila firme necessarie per chiedere che l’apertura domenicale degli esercizi commerciali delle stazioni di servizio sia sottoposta a referendum popolare. “La Ctec ha deciso di aderire all’iniziativa – si legge in una nota – perché le famiglie, le comunità e le associazioni devono poter disporre di un giorno di riposo, così da potersi incontrare”. I cristiani, inoltre, continua la nota, “si riuniscono soprattutto la domenica per partecipare ai riti religiosi”. “Le Chiese cristiane – spiegano la presidente della Ctec, il pastore protestante Rita Famos-Pfander, ed il vicepresidente, il vescovo cattolico di Losanna, mons. Charles Morerod – devono impegnarsi insieme, in Europa, in materia di responsabilità sociale e di difesa dei valori fondamentali”. Fondata nel 1971, oggi la Ctec è la sola piattaforma ecumenica nazionale della Svizzera; attualmente, contra undici membri, tra cui la Conferenza episcopale elvetica, la Federazione delle Chiese protestanti svizzere, e numerosi esponenti ortodossi, luterani, battisti ed anglicani. Da ricordare, infine, che recentemente la Commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale svizzera è divenuta membro dell’Alleanza: una scelta motivata ribadendo che “l’economia deve servire l’uomo e non l’uomo l’economia”. (I.P.)

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    Spagna: la Chiesa celebra la Giornata nazionale delle vocazioni native

    ◊   “Vocazioni native, segnale di speranza”: su questo tema la Chiesa spagnola celebra domani, domenica 28 aprile, la Giornata nazionale delle vocazioni native. Organizzata dalla Pontificia Opera di San Pietro Apostolo, che si dedica alla formazione del clero locale nei Paesi di missione, la ricorrenza si colloca in continuità con la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che quest’anno è stata celebrata il 21 aprile. Ricordare le vocazioni native, spiega una nota dell’arcidiocesi di Santiago de Compostela, significa “rendere partecipi i fedeli cristiani della necessità di aiutare le Chiese dei territori di missione nel sostentamento e nella formazione dei seminaristi e dei novizi”. Oltre che con la preghiera, i fedeli potranno aderire alla Giornata attraverso le collette che verranno raccolte durante le Messe e ridistribuite, poi, nelle terre di missione attraverso le Nunziature Apostoliche. “Mentre nelle Chiese e nelle comunità diminuiscono le vocazioni – spiega Anastasio Gil García, direttore delle Pontificie Opere Missionarie di Spagna – Dio le sta suscitando nei luoghi di missione e questo è un segnale di speranza”. Attualmente, sono 1.103 le circoscrizioni ecclesiastiche nei territori di missione, pari al 37,18% della Chiesa universale; 902 i vescovi che operano in queste zone, di cui l’84,92% è autoctono. Infine, da ricordare che nel 2012 la Pontificia Opera di San Pietro Apostolo ha aiutato 73.741 seminaristi, ovvero un terzo di quelli presenti nel mondo. (I.P.)


    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 117

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