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Sommario del 24/09/2012
Il Papa e l'ascolto della Parola di Dio: perché sia compresa bisogna superare le sordità del cuore
◊ La Parola di Dio è sempre di luce, dipende da come la si ascolta. È questo l’insegnamento che si desume dalla pagina del Vangelo proposta dalla liturgia di oggi. “Nessuno – si legge nel brano di Luca – accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce (…) Fate attenzione dunque a come ascoltate”. Su questi aspetti, Benedetto XVI ha spesso esortato i cristiani a compiere un percorso di maturazione. Alessandro De Carolis ricorda alcune delle affermazioni del Papa in merito:
Linguaggio in parabole per il pubblico e spiegazioni con diverso stile comunicativo in privato, per i suoi discepoli. Il Vangelo restituisce questa come linea generale di insegnamento del Maestro. Le parabole di Gesù, criptiche all’apparenza, sono un distillato di sapienza che ha però bisogno, per essere comprese, di un requisito particolare e dunque difficilmente riscontrabile a livello di massa: la disposizione all’ascolto con il cuore. “Fate attenzione a come ascoltate”, mette in guardia Gesù coloro che lo attorniano nella scena descritta del Vangelo di Luca. Un valore, quello dell’ascolto della Parola di Dio, che da quei giorni del primissimo annuncio a oggi ha visto soffermarsi Dottori della Chiesa, Santi, teologi, Papi, non ultimo Benedetto XVI:
“C’è chi ascolta superficialmente la Parola ma non l’accoglie; c’è chi l’accoglie sul momento ma non ha costanza e perde tutto; c’è chi viene sopraffatto dalle preoccupazioni e seduzioni del mondo; e c’è chi ascolta in modo recettivo come il terreno buono: qui la Parola porta frutto in abbondanza”. (Angelus, 10 luglio 2011)
La parabola del Seminatore, ricordata qui dal Papa, è una limpida cartina di tornasole. Perché la Parola di Dio rischiari tutta la casa, e non sia l’inutile punto-luce messo in un angolo, è necessario la Parola diventi per un cristiano un cibo ruminato con costanza da solo e comunitariamente, con la meditazione e la vita dei Sacramenti:
“Ascoltare insieme la parola di Dio; superare la nostra sordità per quelle parole che non si accordano con i nostri pregiudizi e le nostre opinioni; tutto ciò costituisce un cammino da percorrere per raggiungere l’unità nella fede, come risposta all’ascolto della Parola”. (Vespri Converisone di S. Paolo, 26 gennaio 2007)
La comprensione della Parola di Dio è un dono di Dio stesso. Tuttavia – afferma Gesù nel Vangelo di Luca – “non c'è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce”. Una garanzia del fatto che quel seme – al di là del terreno che lo accoglierà – deve essere comunque gettato ne solchi dei cuori dalla Chiesa di ogni tempo:
“E’ una Parola che deve essere testimoniata e proclamata esplicitamente, perché senza una testimonianza coerente essa risulta meno comprensibile e credibile”. (Discorso Pontificie Opere Missionarie, 14 maggio 2011)
In udienza dal Papa il cardinale Bagnasco e un gruppo di presuli francesi in visita "ad Limina"
◊ Benedetto XVI ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e successivamente un gruppo di presuli della Conferenza episcopale di Francia, in Visita ad Limina.
Oggi su l'"Osservatore Romano"
◊ Nella logica di Dio non c'è spazio per l'orgoglio: all'Angelus il Papa chiede ai fedeli di continuare a pregare per la pace in Medio Oriente.
In rilievo, nell'informazione internazionale, il nuovo attacco contro i cristiani in Nigeria.
In cultura, un articolo di Sandro Barbagallo dal titolo "E dalla Stazione Vaticana partì un treno": a Loreto una mostra per il cinquantenario del pellegrinaggio di Giovanni XXIII.
La Voce dei focolarini: Giulia Galeotti sulla conclusione dei lavori del LoppianoLab 2012.
Strategie lungimiranti e solidarietà per il bene dell'Italia: nell'informazione religiosa, la prolusione del cardinale presidente Angelo Bagnasco al Consiglio permanente della Cei.
In missione nell'analfabetismo religioso: il cardinale vicario per la diocesi di Roma, Agostino Vallini, ai sacerdoti per l'apertura del nuovo anno pastorale.
La road map della pace: nell'informazione vaticana, sul viaggio del Papa in Libano, intervista di Mario Ponzi al cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.
Il contributo dei cristiani al rinnovamento della società: intervista del cardinale segretario di Stato a "La Vanguardia".
Attentato contro cattedrale in Nigeria. Mons. Kaigama: non ci lasciamo intimidire dai violenti
◊ “Un attacco scioccante e sconvolgente”. Così all’agenzia Fides, mons. Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale della Nigeria, sull’attentato di ieri, contro la Cattedrale cattolica di Bauchi, nel Nord del Paese. Un kamikaze, appartenente ai terroristi islamici di Boko Haram, che continuano a funestare il Paese, ha diretto la propria auto, piena di esplosivo, contro i fedeli che uscivano dalla Messa domenicale. Tre i morti, 46 i feriti. “Dobbiamo andare avanti con la nostra vita e il nostro lavoro – ha ribadito mons. Kaigama - e non lasciarci intimidire dai violenti”. Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Maurizio Misitano, responsabile dell'area internazionale della Onlus agostiniana Apurimac, molto attiva anche in Nigeria:
R. – Boko Haram significa “l’educazione occidentale è sacrilega”, quindi non siamo di fronte ad un attacco alle chiese, semplicemente, ma è un attacco che vuole destabilizzare il potere. Attaccano sia cristiani che musulmani e, come ha dichiarato mons. Kaigama, i terroristi Boko Haram vogliono provocare una guerra fra cristiani e musulmani, ma nessun musulmano nigeriano desidera questo.
D. – Lo ricordiamo, il nucleo di partenza di Boko Haram è la parte nord-occidentale della Nigeria…
R. – Sì, partono da un gruppo organizzato nella parte nord-occidentale del Paese, ma sempre di più stanno sviluppando i loro attacchi un po’ in tutto il centro-nord. Non dimentichiamo l’attacco che c’è stato a gennaio dell’anno scorso a Kano, la seconda città per numero di popolazione e la quarta città dell’islam, dove da gennaio del 2012 ci sono state 162 persone uccise soprattutto tra poliziotti, quindi Boko Haram attacca lo Stato.
D. - Voi siete in contatto continuo con realtà locali, qual è la situazione?
R. – Noi lavoriamo nel Plateau State, in tutta la Middle Belt, ormai dal 2005. Devo dire che la situazione sta migliorando giorno per giorno. Oggi, insieme ai nostri collaboratori locali e la provincia agostiniana di Nigeria, siamo a capo di un coordinamento di 61 associazioni del territorio di Jos, la capitale dello Stato, che lavorano per la pace e il dialogo. E’ un coordinamento cui partecipano anche i rappresentanti della Chiesa, rappresentanti musulmani, laici, politici etc. Sono tutti molto preoccupati perché nonostante il coprifuoco, nonostante lo sforzo del governo locale, del governo nazionale, per fermare questa crisi, continuano ad esserci attacchi.
D. - Perché Boko Haram è interessato a destabilizzare lo Stato?
R. – Per riuscire a conquistare il potere politico ed economico di uno Stato che, ricordiamo, è il più popoloso d’Africa, che è uno dei produttori di petrolio più importante, che è il secondo Pil dell’Africa e che rappresenta il 25 per cento degli africani, cioè ogni 4 africani c’è un nigeriano. Chi si conquista il potere di questo Stato riesce praticamente a mettere le mani su gran parte dell’Africa.
D. – Una situazione che non è soltanto subita. Il 19 e 20 settembre scorso c’è stata una grande conferenza proprio a Jos per fare il punto della situazione…
R. – Abbiamo organizzato un incontro internazionale cui hanno partecipato tra gli altri anche la rappresentante dell’ambasciata d’Italia e canadese e poi Germania, Spagna, Usa, Inghilterra e rappresentanti della delegazione europea, oltre chiaramente rappresentanti sia della Chiesa locale sia dei musulmani locali. Tutti crediamo che la via per la risoluzione della crisi è il dialogo interculturale e interreligioso, rafforzando e sostenendo quello che nella società civile sta nascendo. C’è una forte volontà di ritrovare la pace. Non dimentichiamo che Jos - che oggi è teatro di continui attacchi - era considerata la città della pace e del turismo. Oggi è una città di fuga e coloro che non possono fuggire sono i più poveri.
D. – Quindi bisogna puntare su quella parte della società civile che non condivide Boko Haram?
R. – Mi permetto di riprendere le parole di mons. Kaigama: "La maggior parte della popolazione non vuole questa crisi, sia da parte cristiana sia da parte musulmana". E’ soltanto una minima parte, con la quale noi stiamo cercando di lavorare, che viene strumentalizzata. Soltanto sostenendo la società civile e il dialogo che sta nascendo, si può uscire da questa crisi.
Congo. Il vescovo di Kabinda: condizioni disumane per i profughi del Nord Kivu
◊ “Le condizioni degli sfollati nei campi profughi di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, sono disumane”. Così ai nostri microfoni mons. Valentin Masengo Kinda, vescovo di Kabinda, e capo della delegazione di sei presuli che nei giorni scorsi hanno concluso una missione nel territorio del Nord Kivu. La zona è da mesi dominata dai ribelli del gruppo M23 che sono in lotta con il potere centrale. L’intervista è di Benedetta Capelli:
R. – Questo incontro con i fratelli del Kivu fa parte del progetto della Conferenza episcopale nazionale per evitare il “piano di balcanizzazione” del Paese. Avevamo deciso, infatti, di prendere due misure. La prima consisteva in una marcia attraverso tutte le parrocchie della Chiesa cattolica nel Congo, che abbiamo compiuto il primo agosto: ci siamo messi sulla strada per gridare e per dire al mondo intero che non siamo d’accordo e che non vogliamo questo “piano di balcanizzazione”. La seconda misura che avevamo deciso era quella di far sentire ai nostri fratelli che sono nel Nord e nel Sud del Kivu che siamo tutti fratelli, che non li abbiamo dimenticati. E’ stato un incontro di solidarietà, un incontro per partecipare alla loro sofferenza. E’ così siamo andati da Kinshasa a Goma e Bukavu: a Goma abbiamo fatto un piano per arrivare in un territorio occupato dai ribelli.
D. – Come è stato l’incontro con i ribelli?
R. – Non siamo partiti per incontrare i ribelli: eravamo partiti per incontrare i nostri fratelli cristiani che sono lì. Per prima cosa, infatti, siamo passati direttamente alla chiesa di Rutshuru, che è una grande chiesa, ed era già tutto piena: abbiamo detto la Messa e dopo la Messa abbiamo letto il messaggio dei vescovi a tutti i fedeli che erano lì; era piena, era veramente piena di fedeli! Dopo la Messa siamo stati invitati ad andare in una sala della parrocchia e lì sono arrivati i rappresentanti e i dirigenti dei ribelli che volevano salutarci. Dopo il loro saluto, ci hanno detto che se sono in guerra è perché l’accordo che avevano fatto con il governo e le promesse che erano state fatte non sono state realizzate. E’ per questo che fanno la guerra.
D. – Quali sono le condizioni della popolazione civile nelle zone che avete visitato?
R. – La condizione è ancora peggiorata, gli sfollati credevano che la situazione di tensione si sarebbe risolta nel giro di una settimana o due, ma ormai sono già circa 4 mesi. La gente è impaziente. Ci hanno anche chiesto quando finirà la guerra. Vi posso soltanto dire che le case in cui abitano sono più piccole di una macchina utilitaria: tutta una famiglia deve vivere in queste condizioni. Questo è disumano! Io penso che se veramente si vuole far qualcosa, si deve intervenire su coloro che desiderano la guerra, su coloro che vogliono prendere le ricchezze del Congo e che non sono certo i congolesi! Questa guerra non finisce mai e i congolesi hanno bisogno invece che questa guerra finisca, perché continuano a vivere in condizioni disumane!
"O Viveiro", centro per bambine orfane in Mozambico: intervista con Flaminia Giovanelli
◊ A 20 anni dalla fine della guerra civile, grazie agli Accordi di Roma del 4 ottobre 1992, il Mozambico continua a svilupparsi, crescendo a un tasso dell'8%. Ma tante restano le problematiche e le sacche di povertà. Per far fronte a queste sfide, 5 anni fa nasceva a Chitima, nel Nord-Est del Paese, il Centro di accoglienza "O Viveiro" per bambine orfane. Fausta Speranza ne ha parlato con Flaminia Giovanelli, sottosegretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, tra i primi sostenitori del progetto che segue personalmente recandosi spesso in Mozambico:
R. - I frutti li possiamo vedere nei visi delle bambine, in questa gioia che loro sprizzano e questo desiderio di apprendere. È un progetto di solidarietà, di amicizia, di fraternità e devo dire anche di maternità spirituale, per offrire la possibilità a queste bambine di continuare nella loro formazione scolastica. Le bambine nel nostro centro sono accolte ed hanno un supplemento di formazione oltre i corsi scolastici, per esempio dal punto di vista sanitario. E poi abbiamo messo in piedi un orto e stanno anche imparando a commercializzare i prodotti dell’orto e poi ci sono le lezioni di cucito.
D. - Proviamo a raccontarlo nel concreto. Quante bambine ci sono nel centro?
R. - Attualmente 21 bambine. Il centro è nato dall’iniziativa di una coppia di sposi mozambicani, che sono ormai un po’ attempati ma molto molto validi e veramente molto bravi. Loro hanno avuto cinque figli, poi mano a mano hanno cominciato ad accogliere dei bambini - purtroppo conosciamo la realtà del Mozambico con la guerra civile, bimbi abbandonati anche a causa della povertà, questi bambini si trovano spesso con un genitore solo e quasi sempre è una donna - quindi, questa coppia accoglieva mano a mano questi bambini, poi un sacerdote amico della coppia ci ha chiesto aiuto per costruire qualcosa di più strutturato.
D. - A 20 anni dagli accordi di pace in Mozambico c’è un bilancio da fare: a livello umanitario la situazione del Paese, in qualche modo, sarà probabilmente migliorata però ci sono ancora conseguenze pesanti?
R. - Le conseguenze ancora ci sono, purtroppo lo sappiamo che la guerra non è soltanto i morti che lascia sul campo, ma anche le ferite negli animi, nella psicologia delle persone. In più, purtroppo, c’è un’arretratezza specialmente nella zona dove siamo noi: un’arretratezza di strutture, una inesistenza di strutture. Pensiamo alla problematica dell’acqua che interessa tutto il mondo. Ecco se pensiamo all’acqua, dobbiamo dire che il centro sorge in un comune dove ci sono più o meno 50 mila persone - vivono in casupole sparse - e le persone per avere l’acqua fanno dei buchi nel fiume, che 10 mesi su 12 è secco, e lì trovano l’acqua con cui si lavano, bevono, cucinano ed in questa stessa acqua si abbeverano anche gli animali. Eppure il centro di Chitima sorge a 20 chilometri da Songo, la cittadina in cui si trova una delle centrali idroelettriche più grandi - quella di Cabora Bassa - che si trova in Africa. Questo già fa capire che il problema dell’acqua è gravissimo dovunque, ma lì si tocca veramente con mano.
D. - Che dire delle istituzioni locali? Hanno collaborato al progetto, partecipano, lo sostengono?
R. - Mediamente senz’altro sì. Abbiamo dei contatti anche con il governatore, che l’anno scorso è venuto ad inaugurare i corsi a novembre; quest’anno nel mese di luglio è venuta a visitare il centro la segretaria del distretto. Certo, però, fare qualcosa concretamente prende tanto tanto tempo dovunque, lì in Africa ancora di più. Noi abbiamo cheisto se non ci fosse un progetto per l’acquedotto e ci hanno risposto che c’è un progetto “faraonico”. In realtà portare l’acqua è difficile, ma non è nulla di insuperabile perché i chilometri sono 20. Però certamente è un progetto costoso. E poi pare che ci sia anche un altro progetto fatto dal distretto ma che ancora non si concretizza.
Domani ad Abbiategrasso i funerali di padre Bossi, "gigante buono" delle Filippine
◊ Si terranno domani in Italia le esequie di padre Giancarlo Bossi, il missionario del Pime, sequestrato per 40 giorni nel 2007 da miliziani musulmani a Mindanao nella Filippine, dove era tornato pochi mesi dopo la liberazione. Padre Bossi, malato di tumore da circa un anno, è spirato ieri in una clinica nel milanese. Il rito funebre si terrà alle ore 15 nella parrocchia di Castelletto di Abbiategrasso, suo paese d’origine. Il servizio di Roberta Gisotti:
Sono in tanti nelle Filippine a piangere padre Bossi, 62 anni, di cui 32 vissuti in questo Paese. Domani pomeriggio, in suo ricordo si terranno veglie di preghiera a Payao, nell’isola di Mindanao, dove era stato rapito, e sarà celebrata una Messa in suo ricordo nella parrocchia di Maria Regina degli Apostoli a Paranaque, dove pure aveva lavorato. Padre Bossi era soprannominato il “gigante buono” per la statura atletica e la gentilezza del suo animo, come ricorda commosso padre Gianni Re, superiore dei missionari del Pime nell’arcipelago filippino:
R. – A dir la verità, ho tanti ricordi, tanti bei ricordi, anche perché ho avuto la possibilità di lavorare con lui per più di dieci anni e abbiamo sempre mantenuto una grande amicizia. Anche se ero già un po’ preparato al fatto che venisse meno e che morisse, mi è dispiaciuto tantissimo e ancora adesso mi dispiace, mi dispiace veramente.
D. – Come è stata appresa la notizia?
R. – Sono diverse le comunità che ha servito: Mindanao, qui vicino a Manila, e poi anche le zone un po’ più centrali e l’ultimo suo impegno era nell’isola di Mindoro. Adesso sta cominciando ad arrivare la notizia alla gente comune. So, ad esempio, che i vescovi di queste diocesi stanno organizzando delle Messe in ricordo e a suffragio di padre Giancarlo. La notizia sta arrivando e ne stanno dando notizia sia i giornali che le televisioni e le radio delle Filippine.
D. – Quale eredità principale resta di quest’uomo, che aveva mostrato anche così tanto equilibrio nella tragica vicenda del suo rapimento?
R. – L’immagine che ha sempre dato è quella di una persona semplice e buona, molto vicina ai poveri e ai bisognosi, abbastanza riservata e silenziosa, ma soprattutto l’immagine che la gente ha davanti a sé è proprio quella di questa figura imponente da un punto di vista fisico, ma – allo stesso tempo – si vedeva la sua semplicità e anche la sua bontà di cuore verso coloro che gli si avvicinavano per chiedere aiuto in un modo o in un altro.
D. – Dopo il suo rapimento, c’erano stati cambiamenti nei rapporti fra cristiani e musulmani?
R. – Lui era stato rapito in una zona dove c’era una certa percentuale di musulmani, ma anche una forte presenza di cristiani. Per quanto ne posso sapere, i rapporti tra cristiani e musulmani sono rimasti uguali, anche perché sembra che chi avesse organizzato e portato avanti il rapimento fosse veramente un piccolo gruppo e lo scopo era quello di riuscire a fare qualche soldo, chiedendo un riscatto.
D. – E infatti lui, una volta rientrato, sottolineava con la sua comunità: "Sono stati dei criminali a rapirmi e non c’entra che fossero musulmani"...
R. – Sì, non era tanto da mettere sotto il punto di vista di conflitto tra cristiani e musulmani, ma semplicemente un rapimento a scopo di guadagno, a scopo di riscatto.
D. – Padre Re, com’è la situazione per voi missionari nelle Filippine di oggi?
R. – Dipende dalla zone, anche se attualmente nella maggior parte delle zone in cui lavoriamo la situazione è abbastanza tranquilla. Poi possono esserci dei momenti in cui la tensione aumenta un poco e allora, in quel caso lì, bisogna stare attenti.
Mons. Shomali: Dio non permetterà mai la scomparsa dei cristiani dalla Terra Santa
◊ Ad una settimana dalla conclusione del viaggio del Papa in Libano, si è tornati a parlare del problema dei cristiani in Medio Oriente. In particolare della diminuzione dei cristiani in Terra Santa. Su questa questione, Debora Donnini ha intervistato mons. William Shomali, vescovo ausiliare del Patriarcato latino di Gerusalemme:
D. – Dico con un ottimismo moderato che il Signore non permetterà mai la scomparsa dei cristiani dalla Terra Santa. A prova di quello che dico, davanti a me ho un paradosso: 160 anni fa, quando i cristiani rappresentavano il 10 per cento di tutta la Palestina – e questo secondo le statistiche del Consolato francese di quell’epoca, del 1848 - noi eravamo soltanto 21 mila cristiani in tutta la Terra Santa e questo vuol dire la Galilea, la zona di Gerusalemme e di Betlemme; ora, che stiamo diminuendo e diventando il 2 per cento, in tutta la Terra Santa – Israele, compresi i Territori palestinesi – siamo 180 mila, più i 230 mila lavoratori stranieri, più i russi che sono emigrati. Dunque il numero è paradossalmente aumentato, nonostante che la percentuale stia diminuendo. Io direi che il Signore non permetterà mai la scomparsa dei cristiani da Betlemme, Nazareth e Gerusalemme. Statisticamente stiamo però diminuendo: a Betlemme, ad esempio, 60 anni fa eravamo metà e metà, in tutto il distretto di Betlemme, mentre oggi in tutta la zona siamo vicini a 30 mila, ma su una popolazione di 200 mila. Questo vuol dire che siamo il 15 per cento.
D. – Che cos’è che determina l’esodo dei cristiani dalla Terra Santa? Ci sono delle forme di discriminazione?
R. – Prima di tutto c’è la situazione economica, che obbliga un cristiano a partire per cercare lavoro, per lui e per la sua famiglia. L’economia della Palestina è stata anche condizionata dalla situazione politica: l’occupazione israeliana, ma anche prima c’era il mandato inglese e la guerra civile; e prima ancora della guerra civile, c’era il regime turco, che non era certo un regime facile. Dunque con il peggioramento della situazione economica, tutto ha funzionato a sfavore dei cristiani. Anche se siamo una minoranza, abbiamo tutta la libertà religiosa e questo può apparire come un paradosso, perché qualcuno potrebbe dire: ma come? Siete stati aggrediti a Latrun! Siete stati aggrediti qua e là! Questo è vero, ma è anche vero che si tratta di eventi straordinari, che non capitano ogni giorno. I graffiti su questa chiesa o un cimitero dissacrato qua e là, sono eventi eccezionali e non si ripetono ogni giorno. Noi godiamo di una completa libertà religiosa. I motivi della partenza dei cristiani sono primariamente politici ed economici.
D. – Che cosa, secondo lei, è importante fare per la presenza dei cristiani in Terra Santa?
R. – Prima di tutto dar loro la fiducia sul fatto che la loro presenza è importante, che la loro presenza in Terra Santa è una chiamata del Signore - sono nati là, perché è il Signore che li vuole là – e che la loro presenza è una testimonianza. Dunque, far entrare la loro permanenza in un’ottica anche teologica e non soltanto materiale. Seconda cosa: un appoggio morale è molto importante e ritengo che tutti i pellegrinaggi che si fanno, con le visite alle parrocchie, sono molto importanti per i nostri cristiani, perché vedono che non sono soli. In terzo luogo è necessario sostenere tutti i progetti educativi, sanitari, di costruzione di case a favore dei cristiani: questo completa lo sforzo spirituale e lo sforzo dell’appoggio morale.
Post-terremoto in Emilia. Mons. Lanfranchi: c'è speranza, ma la burocrazia rallenta la ricostruzione
◊ Nuove polemiche sulle presunte lentezze della ricostruzione nelle zone terremotate dell’Emilia. Nelle tendopoli, dove il freddo si fa già sentire, soprattutto di notte, ci sono oltre 3mila sfollati. E l’inverno è ormai alle porte. Della situazione ci parla l’arcivescovo di Modena, mons. Antonio Lanfranchi, al microfono di Fabio Colagrande:
R. - La situazione, rispetto ad esempio a giugno e a luglio è molto cambiata, cioè: subito dopo il terremoto si toccava con mano anche un clima un po’ di desolazione, di paura, adesso sono evidenti i segni di speranza dalla ricostruzione. Per fare riferimento proprio a Finale Emilia, dove mi trovavo ieri pomeriggio, sta per essere ultimata una scuola materna, parrocchiale, che ospiterà 240 bambini, frutto delle offerte di privati. Si sta lavorando alacremente in particolare anche per una struttura voluta dal seminario - prima c’erano i chierici di Don Orione, adesso dalla parrocchia - per rendere fruibile la Chiesa, con la messa in sicurezza del campanile, che sarà aperta al pubblico presto; così come la chiesa di San Bartolomeo. Quindi, la comunità verrà ad appropriarsi di queste strutture fondamentali, ma questi segni della ricostruzione sono evidenti in ogni comunità. Accanto a questo vorrei sottolineare però quell’altra componente fondamentale che risponde al bisogno di relazioni: relazioni che esprimono vicinanza ed esprimono aiuto concreto, perché le ferite possono essere lenite anche semplicemente con il costatare che gli altri sono vicini, ti portano nel cuore e ti danno quell’aiuto che sono in grado di offrirti.
D. - Si parla ancora di 3 mila sfollati nelle tendopoli ed il freddo comincia a farsi sentire: com’è lo stato d’animo della popolazione?
R. - C’è l’impegno proprio a chiudere al più presto queste tendopoli, molti sono ritornati nelle loro case, i più svantaggiati in questo indubbiamente sono gli extracomunitari.
D. - C’è un po’ la preoccupazione che il ritardo nella costruzione - che ovviamente richiede tempo - o i ritardi anche nell’arrivo dei finanziamenti per motivi burocratici, possano far subentrare anche un po’ di scoraggiamento e questo dal punto di vista pastorale penso che per voi è un elemento importante…
R. - Sì, la preoccupazione c’è, chiaramente si scontrano anche due desideri: quello della popolazione, che vorrebbe far presto e gli aiuti che magari stentano ad arrivare, proprio anche a causa di una certa burocrazia. Però, non vorrei demonizzare proprio le strutture in questo senso, perché ho visto anche il gran lavoro a cui si sono sottoposti i Vigili del Fuoco, la Protezione civile. Non vorrei che si gettasse una cattiva luce proprio su questi, ma una certa lentezza si fa sentire in alcuni luoghi.
Pisapia: adozione da parte di coppie Gay. Forum Famiglie: in gioco lo sviluppo del bambino
◊ Fa discutere l’apertura del sindaco di Milano Pisapia alle adozioni da parte di coppie omosessuali. “Meglio per un bimbo essere adottato da una coppia gay che rimanere orfano”, ha detto il primo cittadino, sostenendo che è possibile essere ottimi o pessimi genitori indipendentemente dall’orientamento sessuale. Secondo l’osservatorio sui Diritti dei Minori, il tema delle adozioni non può diventare oggetto di contese politiche perché in gioco vi è lo sviluppo dell'identità del bambino, che non può essere sacrificato all'egoismo adulto''. Dello stesso avviso Francesco Belletti, presidente del Forum delle Famiglie. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. - Credo che si debba partire proprio dalla naturalità, dall’origine dell’essere genitori: dare la vita nasce proprio nel maschile e nel femminile. L’incontro della diversità genera una nuova vita e questo sia biologicamente, sia culturalmente. L’identità del bambino e della bambina - la sua stessa identità sessuale, il suo maschile ed il suo femminile - sono rinforzati dall’incontro dialettico con il riconoscimento di uno dei due genitori e con la differenza dell’altro.
D. - A supporto di questo c’è una letteratura scientifica?
R. -Sì, c’è una letteratura fondativa che è antropologica, ma che è anche della psicanalisi, delle scienze psicologiche e documenta che il maschile ed il femminile costruiscono il benessere, la stabilità della personalità. Da un lato c’è questo, dall’altro quasi tutte le indagini disponibili oggi, sulla base del confronto tra coppie omosessuali con figli, in contesti dove questo fenomeno è più diffuso – vedi gli Stati Uniti - dicono che i figli in queste condizioni hanno indicatori di benessere molto peggiori. Le loro storie di vita sono molto più complicate ed anche la stabilità ed il benessere personale è messo a rischio.
D. - Il benessere psicoemotivo?
R. - Sì, sono più esposti alla devianza, all’abuso di alcolici, all’abuso di droghe, hanno percorsi di maturazione e di crescita più difficili, più complicati. Lo stesso si può dire anche per i figli di famiglie separate, cioè: là dove la principale risorsa del bambino - un papà ed una mamma - è messa in crisi, è messa in discussione, si rompe ed è più fragile, lì la vita diventa più difficile.
D. - C’è chi contesta quanto lei sta affermando dicendo: “Meglio per un bimbo essere adottato da una coppia gay, che rimanere orfano senza genitori”…
R. - Da un lato c’è del vero in questa affermazione, nel senso che le condizioni di istituzionalizzazione sono disumane in molti Paesi del mondo: noi in Italia solo nel 2006 abbiamo fatto una legge che chiudeva finalmente i classici istituti per minori. Dare una famiglia ad un bambino corrisponde a garantirgli i suoi diritti. Dall’altro lato, proprio per queste difficoltà e sofferenze di vita di questi bambini, mi sembra poco prudente e poco adeguato dargli una situazione familiare incerta, come un genitore solo o come una coppia di genitori dello stesso sesso.
D. - Non va dimenticato che tante coppie eterosessuali, regolarmente sposate, non riescono ad adottare per varie ragioni: difficoltà burocratiche ad esempio…
R. - Ci sono liste d’attesa molto lunghe, ci sono anche iter burocratici molto forti, c’è proprio una criticità del sistema Italia sulla lunghezza delle procedure che andrebbe rivista. Lo scenario mondiale invece vede decine di milioni di bambini che vivono abbandonati o per strada o in istituti con 500/600 posti letto, quindi, a livello mondiale si pone una sfida grandissima: la grande sfida dell’accoglienza, del dare una famiglia ad ogni bambino. Però, io credo che questo dibattito abbia purtroppo un avvelenamento iniziale, cioè troppo spesso è usato per garantire il diritto delle persone omosessuali ad avere un figlio. Io credo invece che non esiste un diritto degli adulti ad avere un figlio, esiste solo l’interesse superiore del minore e questo lo dichiara anche la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, dell’89, proclamata dalle Nazioni Unite. E’ un diritto di civiltà.
Conclusa la 64.ma edizione di Prix Italia, il concorso per radio, tv e web di tutto il mondo
◊ Si è conclusa la 64.ma edizione del Prix Italia, un concorso internazionale per programmi radio, tv e web, svoltosi a Torino dal 16 al 21 settembre. Luca Pasquali ha intervistato Luigi Picardi, collega della redazione che cura i Programmi musicali per la Radio Vaticana, presente a Torino in qualità di presidente di giuria per la categoria “Radio Musica”:
R. - E' un premio che si svolge ogni anno a Torino e i premi riguardano sia la televisione che la radio. La radio ha tre categorie: musica, dramma e documentario. Altrettanto è per la televisione: tv performing arts - arti in generale - documentario e dramma. Io sono stato presidente di giuria per la sezione "Radio Musica".
D. - Quali sono stati i tratti caratterizzanti dell’edizione 2012?
R. - I tratti caratterizzanti dell’edizione odierna sono un po’ lo specchio di quelli delle edizioni precedenti: ricerca dell’innovazione, della qualità e dell’eccellenza nella comunicazione.
D. - Chi sono i partecipanti?
R. - Le radio e le televisioni di tutti i Paesi.
D. - Notavamo, soprattutto tra i vincitori, che hanno fatto un po’ da padroni i Paesi del nord Europa…
R. - Diciamo che molti premi sono stati dati alla Germania, all’Olanda, alla Norvegia e anche alla Francia. L’Italia ha avuto delle nomination, ma non ha vinto.
D. - Come mai questa ondata di premi più che altro al nord Europa, in cosa si distinguono?
R. - Forse per gli argomenti su cui hanno puntato, ad esempio c’è un documentario sul riciclo dei rifiuti e cosa viene sprecato a livello globale. Per quanto riguarda la nostra categoria - sezione "Radio Musica" - abbiamo dato una menzione d’onore ad un programma norvegese perché si trattava di un’opera a metà tra la composizione musicale ed il documentario. Era molto bella e accattivante, riguardava “Lettere dalla prigione” - questo il titolo - e il tema principale riguardava la realtà di isolamento di una prigione. Questo compositore, insieme a un giornalista, sono entrati in un carcere e hanno integrato la musica con le interviste ai detenuti, molto interessante, e tra l’altro la prigione in questione era la nota Ila, dove è stato rinchiuso l’assassino di Oslo dell’anno scorso.
D. - I partecipanti provenivano dai cinque continenti. Ci sono aspetti comuni riscontrati tra rappresentanti di realtà così distanti tra loro: sulla scelta dei programmi, sulla qualità dei programmi?
R. - No, ogni nazione ha la sua caratteristica. Posso citare, ad esempio, la Francia con “La notte allucinata” del compositore Sebastian Rivas, al quale abbiamo assegnato il primo premio. E' un programma prettamente francese, perché si basa sui poemi di Arthur Rimbaud: abbiamo apprezzato molto la qualità del suono. In Francia poi lavorano il suono in una maniera particolare, e quindi l'opera possedeva dei tratti distintivi che permettevano di apprezzare in particolar modo questo programma.
D. - Quali sono state le tematiche principali che hanno accompagnato questa edizione?
R. - Tematiche umanitarie. Ad esempio, per quanto riguarda noi abbiamo “Lettere dalla prigione” e “Madre una volta, madre per sempre”. La terza nomination che non ha vinto niente, ma che era un tipo di composizione accattivante perché illustrava destini di madri infelici e disperate. In questa composizione, c’era anche un’integrazione ben fatta con la musica, poiché parallele al testo scorrevano appunto versi e musiche dell’epopea nazionale finlandese. Le tematiche umanitarie erano abbastanza presenti in un po’ tutte le categorie.
D. - Qual è il ruolo della Radio Vaticana in questa manifestazione?
R. - E’ importante, perché viene chiamata ogni anno in giuria ed è molto ben considerata e apprezzata per il lavoro che fa.
D. - Quando si parla di radio, televisione e web parliamo ovviamente di cultura, informazione, insomma, di società. Oggi, sembra sia il web lo strumento più adatto a raccontare la società contemporanea, con un’informazione sempre più veloce, sempre più diretta. In questo contesto, quale ruolo possono ritagliarsi gli altri media, soprattutto la radio?
R. - La radio ha il vantaggio che può essere anche trasmessa via web - con il web casting - e si stanno studiando le soluzioni per rendere il suono ancora più performante rispetto allo stereo attuale. Radio France ha presentato gli studi che sta facendo sul 5.1, la tecnologia che stiamo provando ad implementare anche noi di Radio Vaticana e su cui dovremmo lavorare per poter quanto prima teletrasmettere con un suono del genere, con il cosiddetto surround.
Libano: il patriarca Rai chiede che l'Onu proibisca le offese contro le religioni
◊ Il patriarca maronita Beshara Rai ha chiesto che l'Onu produca una risoluzione che proibisca le offese alle religioni. La proposta del patriarca è avvenuta oggi, all'inizio di un incontro islamo-cristiano a Bkerke, nella sua residenza. L'incontro - riferisce l'agenzia AsiaNews - è avvenuto a porte chiuse. Prima del raduno, riferendosi al film anti-islam, che ha scatenato molte dimostrazioni e violenze nel mondo, il capo della Chiesa maronita ha detto che il film è offensivo non solo verso i musulmani e il profeta, ma anche verso i cristiani e ogni religione". "Non ci accontentiamo - ha aggiunto - di condannarlo. Chiediamo alla comunità internazionale di emettere una risoluzione Onu che proibisca la denigrazione delle religioni". Il 13 settembre scorso il patriarca aveva già condannato con parole simili il film blasfemo su Maometto. "Questo film - aveva detto - offende tutti noi. Le Nazioni Unite e la comunità internazionale dovrebbero prendere una posizione molto ferma riguardo a questo tipo di reati". L'incontro di Bkerke è avvenuto su richiesta del Gran Mutfi sunnita del Libano, sheikh Mohammad Rashid Qabbani, per discutere degli attacchi contro l'islam. Nel raduno di oggi vi è anche la difficile situazione economica libanese, come anche l'Esortazione apostolica di Benedetto XVI "Ecclesia in Medio Oriente", che il Pontefice ha diffuso durante il suo recente viaggio nel Paese dei cedri. Il Papa è stato ricevuto molto bene da tutti i leader musulmani del Libano, che a più riprese hanno sottolineato l'importanza della convivenza fra cristiani e musulmani e il valore del "modello Libano". Le stesse tematiche sono contenute nell'Esortazione apostolica. È da tempo che il patriarca Rai lancia messaggi preoccupanti sulla situazione economica del Paese, accusando anche il governo libanese di "silenzio". "La situazione economica del Paese - ha detto oggi - è insostenibile... Dobbiamo mettere fine a questo deterioramento perché se crolla l'economia, crolla tutto". (R.P.)
Pakistan. Nessuna prova contro Rimsha: il sostegno delle donne musulmane
◊ Dopo una ulteriore settimana di indagini, la polizia pakistana ha riconosciuto che non ci sono prove contro Rimsha Masih, la bambina cristiana arrestata per blasfemia e poi liberata su cauzione. Lo conferma all'agenzia Fides l’avvocato cattolico Kahalit Tahir Sindhu, parlamentare del Punjab ed esperto dei casi di blasfemia. Gli inquirenti hanno confermato le responsabilità e l’opera manipolatoria dell’imam Mohammad Khalid Jadoon Chishti, attualmente, in carcere, che ha aggiunto pagine bruciate del Corano a quelle in possesso della ragazza. La bambina cristiana ha incassato il pieno sostegno delle donne musulmane in Pakistan. Sulla vicenda, la Fides ha raccolto, infatti, le opinioni di alcune rappresentanti musulmane della società, della politica e della cultura in Pakistan. Amna Ulfat, Parlamentare del Punjab, ritiene Rimsha innocente perché “è minorenne e analfabeta” e, riferendosi all’imam, stigmatizza “quanti commettono tali crimini, utilizzando autorità giudiziarie per interessi personale”. “So che i cristiani rispettano il Corano quanto la Bibbia”, conclude. Naveed Anjum, la presidente della “Saf Foudation per le donne”, definisce l’arresto di Rimsha “disumano” e chiede che “i colpevoli siano severamente puniti”. Faiza Malik, parlamentare e presidente della sezione del Punjab del “Partito Popolare del Pakistan” dice a Fides: “A nessuno deve essere permesso di giocare con le leggi del Paese. Fare del male a una bambina disabile mentale è un atto vergognoso, da biasimare. Il suo rilascio e la sua innocenza è una vittoria della giustizia”. Tahira Abdullah, musulmana e attivista dei diritti umani, rimarca i punti oscuri della vicenda: “Nessun minore può essere messo in una prigione per adulti e tenuto per tre settimane con pericolosi detenuti. Ciò che è stato fatto a Rimsha è del tutto illegale. Inoltre la legge sulla blasfemia prevede che i funzionari di polizia svolgano indagini prima dell'arresto e della registrazione di una denuncia: anche questo è stato omesso”. L’attivista chiede che “Rimsha e la sua famiglia siano posti sotto protezione dello Stato, che i cristiani del sobborgo di Mehrabadi siano aiutati dallo Stato per essere reinsediati nelle loro case”. Le donne musulmane pakistane chiedono, infine, di riattivare il Comitato parlamentare per la revisione della legge sulla blasfemia. (R.P.)
India: ancora aggressioni contro i cristiani nel Karnataka
◊ Due nuovi incidenti anticristiani, a un giorno di distanza l'uno dall'altro, sconvolgono il Karnataka. In entrambi i casi, le vittime sono comunità pentecostali, aggredite nell'intimità delle loro case e minacciate da ultranazionalisti indù, nel tentativo di costringerli ad abiurare al cristianesimo. Per Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), è ormai evidente che simili incidenti "sono orchestrati", perché "in Karnataka come in altri Stati guidati dal Bharatiya Janata Party (Bjp, partito ultranazionalista indù) religione e politica vanno a braccetto, e sono usate per racimolare più voti possibili". Il Bjp - riferisce l'agenzia Asianews - è alla guida del Karnataka dal 2007. L'ultimo caso è avvenuto ieri a Gudadahalli Hearaghatta (nord di Bangalore). Due attivisti della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss, gruppo ultranazionalista indù) si sono infiltrati durante un servizio di preghiera della Chiesa pentecostale guidata dal rev. Muniraju. Poco dopo l'inizio del raduno, altri otto membri della Rss hanno fatto irruzione sul posto. Dopo aver bruciato e distrutto tutte le Bibbie e altri libri religiosi presenti nella chiesa, gli aggressori hanno picchiato e schiaffeggiato il pastore. Poi, per intimidire la comunità, hanno trascinato l'uomo e sua moglie per circa un chilometro, fino al vicino tempio indù. Lì, gli attivisti hanno costretto la coppia a partecipare alla pooja (rituale indù). Prima di lasciarli andare, gli aggressori hanno intimato loro di interrompere ogni servizio di preghiera. Due giorni prima, il 21 settembre scorso, la Chiesa pentecostale Bethel Prathanalaya (vicino a Bhadravathi, distretto di Shimoga) ha subito un'aggressione simile. La comunità conta 25 fedeli ed è guidata dal rev. Kumar Hanumanthappa. Quel giorno, i cristiani erano ospiti di cinque famiglie di Voddarahalli Thanda, un villaggio vicino. Circa 20 attivisti della Rss e del Bajrang Dal hanno interrotto la preghiera, minacciando i presenti di "terribili conseguenze" se avessero continuato a praticare il cristianesimo. Dopo aver picchiato alcuni di loro e bruciato le Bibbe, gli indù hanno condotto l'intera comunità al tempio più vicino, costringendoli a partecipare a una cerimonia di "purificazione" dalla loro religione. Una volta tornati a casa, alcuni cristiani hanno sporto denuncia alla polizia di Holehonnur. Al momento, non risultano arresti in merito al caso. "L'art. 14 della nostra Costituzione - ribadisce Sajan George - sancisce l'uguaglianza dinanzi alla legge per tutte le persone. Eppure, ancora una volta assistiamo ad aggressioni contro i cristiani e i loro luoghi di culto, in cui i colpevoli girano a piede libero, mentre vittime innocenti vengono arrestate". (R.P.)
Osce: voto in Bielorussia non democratico, nessun eletto tra le opposizioni
◊ L'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha definito non libere e non democratiche le elezioni che si sono svolte ieri in Bielorussia, sostenendo che non c'è stata competizione sin dall'inizio. Scontato il risultato: voto plebiscitario a favore dei candidati vicini al presidente Lukashenko. Ciononostante non si registra nessuna protesta a Minsk. Due anni fa, quando si tennero le presidenziali, cominciarono subito veementi dimostrazioni di protesta, sedate con la forza dalla polizia. Adesso non è così anche perché l’esito di queste legislative è apparso scontato fin dall’inizio della consultazione con gli uomini vicini al presidente Lukashenko favoritissimi. Secondo i dati ufficiali della Commissione elettorale l’affluenza alle urne si è attestata al 74,3% degli aventi diritto. 109 mandati su 110 sono stati assegnati a partiti vicini a Lukashenko. Nessun deputato dell'opposizione è stato eletto. In una circoscrizione della regione di Gomel sarà necessario un secondo turno. I dati della Commissione elettorale sono contestati da parte dell’opposizione che afferma che l’affluenza alle urne non ha superato il 38%. Quindi il voto non avrebbe valore legale.
Nepal: salgono a 13 le vittime della valanga sul Monte Manaslu
◊ Riprendono le ricerche dei dispersi sul Monte Manaslu (8.156 metri), nel distretto di Gorkha, (Nepal centro occidentale), dove ieri una valanga ha ucciso 13 alpinisti, fra cui l'italiano Alberto Magliano. Le altre vittime sono di nazionalità tedesca, francese e nepalese. Fino ad ora, i soccorsi hanno tratto in salvo 12 persone, ma vi sono dati contradditori sul numero dei possibili dispersi. Secondo le autorità mancano all'appello tre alpinisti, ma potrebbero essere almeno sette. Le operazioni - riporta l'agenzia AsiaNews - sono ostacolate da maltempo e temperature rigide, che non permettono agli elicotteri di decollare. Per il Nepal, questa è la tragedia più grave dal 1995, quando oltre 40 persone (di cui 17 stranieri) sono morti assiderati sotto abbondanti nevicate nella regione del Monte Everest. Estesa quanto sei campi da calcio, la valanga si è staccata dal Monte Manaslu alle tre del mattino e ha colpito gli alpinisti al campo n. 3 a quota 6.600 metri, mentre dormivano. La maggior parte delle vittime è morta assiderata dentro i propri sacchi a pelo. Sul luogo erano presenti oltre 50 persone giunte da varie parti del mondo per affrontare la scalata. Claude Manel, uno dei sopravvissuti di un gruppo francese, racconta: "Ero nella mia tenda con altri due compagni, quando siamo stati colpiti dalla valanga. Con le mani sono riuscito a rompere il telo e a uscire, ma un secondo muro di neve mi ha travolto e fatto rotolare per 200 metri. Qunado mi sono fermato ero intrappolato fino al collo". L'uomo racconta che indossava solo una t-shirt e il freddo non gli permetteva di respirare. Dopo qualche decina di minuti è però riuscito a liberarsi e a salvare uno dei compagni di tenda. L'altro è stato trovato morto dai soccorsi. Il Manaslu è l'ottava vetta più alta del mondo. Essa è famosa fra gli appassionati di sci alpinismo e sci estremo d'alta quota, per le abbondanti nevicate che interessano il monte nel periodo successivo ai monsoni. Tuttavia i mesi autunnali sono anche quelli più pericolosi a causa delle condizioni meteo instabili e il rischio valanghe. Secondo i funzionari del turismo del distretto di Gorkha circa 230 alpinisti stranieri divisi in 25 squadre hanno prenotato la scalata per la stagione autunnale 2012. Intanto, in Italia si piange la morte di Alberto Magliano. Grande amante della montagna l'uomo, 67 anni originario di Trieste, lavorava come consulente di agenzie, ma negli anni si era affermato come uno fra i più importanti alpinisti italiani. Magliano è stato il primo scalatore non professionista ad aver affrontato le vette più alte dei sette continenti. (R.P.)
Sudan-Sud Sudan: vertice ad Addis Abeba tra Juba e Khartoum
◊ Comincia oggi ad Addis Abeba il vertice tra Juba e Khartoum nel corso del quale i due Paesi cercheranno di porre fine alle questioni irrisolte dopo l’ottenuta indipendenza del Sud e che hanno minacciato più di una volta di ripiombare nel conflitto l’intero Sudan. All’incontro – anticipato ieri sera da un mini-summit di un paio d’ore tra Omar Hassan al Bashir e Salva Kiir Mayardit – saranno presenti oltre ai due presidenti un ristretto gruppo di consiglieri, il team di mediatori dell’Unione Africana e il primo ministro etiopico Halemariam Desalegn. Confini, imposte sul transito petrolifero e lo status della regione frontaliera di Abyei saranno gli argomenti all’ordine del giorno oggi e nelle prossime due settimane per cui è prevista la durata del negoziato. In teoria - riferisce l'agenzia Misna - già da oggi i due Paesi dovrebbero annunciare un accordo formale se non vogliono incorrere nelle sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Finora, sugli incontri a porte chiuse è stato mantenuto il più stretto riserbo: unica notizia circolata sulla stampa e non smentita finora dalle parti, quella di una bozza di accordo sul Abyei. In base alla proposta formulata dal pannello di esperti africani, lo status della regione petrolifera rivendicata da entrambi i Sudan dovrebbe essere sottoposto a referendum popolare nell’ottobre 2013. La comunità internazionale invoca inoltre una zona demilitarizzata lungo il confine di 1800 chilometri e spera nella ripresa in tempi rapidi della produzione di petrolio, unica soluzione per scongiurare il collasso economico dei due Paesi. Ad agosto, Juba e Khartoum avevano raggiunto un accordo sui dazi doganali per il transito del greggio – motivo alla base del contenzioso che aveva determinato la sospensione dell’attività estrattiva - che prevede la ripresa della produzione a partire dal prossimo mese di dicembre. Il governo sudanese tuttavia, ha sottoposto il rispetto dell’intesa al raggiungimento di un accordo imprescindibile sulla sicurezza interna: le due parti si accusano a vicenda di sostenere gruppi armati allo scopo di destabilizzare l’avversario. (R.P.)
Sud Sudan: petizione dei Comboniani per abolire la pena di morte
◊ I missionari Comboniani hanno lanciato una petizione per abolire la pena di morte nel Sud Sudan. La petizione è stata rivolta ai vescovi di Sudan e Sud Sudan riuniti a Juba, per la loro Assemblea plenaria. “Nel corso delle ultime settimane il Sud Sudan ha ripreso ad impiccare i prigionieri nel braccio della morte: sono state eseguite le condanne a morte di almeno quattro uomini a Juba e di uno a Wau” afferma il testo della petizione, firmata da padre Joe Vieira, vice Superiore provinciale per il Sud Sudan, di cui è pervenuta copia all’agenzia Fides. Secondo l’articolo 21 della Costituzione Provvisoria del Sud Sudan (Stato indipendente dal luglio dell’anno scorso) la pena di morte può essere comminata “solo per delitti estremamente gravi”. Non può essere inoltre applicata nei confronti dei minori di 18 anni o di persone che superino i 70 anni, né nei confronti di donne incinte o in fase di allattamento dei figli, salvo dopo due anni dall’allattamento”. Facendo riferimento all’auspicio di vedere abolita la pena di morte in Africa, contenuto nell’Esortazione apostolica “Africae munus” di Papa Benedetto XVI, i missionari Comboniani chiedono alla Conferenza episcopale sudanese di invitare il Capo dello Stato del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, ad adottare una moratoria sulle esecuzioni capitali, e di inviare una petizione alla Commissione per la revisione costituzionale, perché abolisca definitivamente la pena capitale dalla Costituzione definitiva del Paese. Si invitano infine i vescovi a coinvolgere le Commissioni “Giustizia e Pace” perché su uniscano alle organizzazioni della società civile nella campagna per l’abolizione della pena di morte. (R.P.)
Mali: accordo per l'intervento africano nel nord del Paese
◊ Con il raggiungimento all’ultimo minuto di un accordo tra Bamako e la Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas) si è concluso il lungo iter diplomatico sull’intervento militare regionale nel Nord del Mali, da cinque mesi controllato da gruppi armati islamici e tuareg. Riuniti ad Abidjan il presidente di transizione Dioncounda Traoré e il suo omologo ivoriano, Alassane Dramane Ouattara – alla presidenza di turno della Cedeao – hanno stabilito che “l’operazione di riconquista del Nord si svolgerà in sinergia permanente con le autorità maliane”. L’intesa - riporta l'agenzia Misna - prevede che a Bamako, la capitale, non verranno dispiegate truppe straniere ma saranno soltanto stabiliti un quartiere generale operativo e una base logistica della polizia. Il ministro della Difesa maliano, Yamoussa Camara, ha assicurato che l’intervento regionale si svolgerà “nella massima discrezione per non urtare la suscettibilità e la sensibilità della maggioranza delle popolazioni molte attente all’argomento e restie alla presenza di forze straniere sul proprio territorio”. Inoltre Ouattara ha promesso che l’armamento maliano bloccato da settimane in Guinea verrà consegnato in tempi brevi a Bamako. L’accordo raggiunto nel fine settimana conclude un ‘braccio di ferro’ diplomatico durato per settimane e consente alla Cedeao di rivolgersi formalmente al Consiglio di sicurezza dell’Onu per ottenere un via libera all’intervento nelle regioni settentrionali. Il 26 settembre a New York è prevista una conferenza internazionale sul Sahel presieduta dal segretario generale Ban Ki-moon. Pochi giorni fa i 15 Stati membri si sono detti pronti a “esaminare e accogliere una proposta più realistica” per il dispiegamento di una forza panafricana nel Nord del Mali. Sabato l’ex colonia francese ha celebrato in un clima cupo e tra ingenti misure di sicurezza il 52° anniversario di indipendenza da Parigi. In un discorso alla nazione Traoré ha sottolineato che “la tragedia vissuta dal Mali ipoteca la sua stessa esistenza e ha deplorato che “l’irredentismo dei tuareg si sia collegato col terrorismo transfrontaliero e internazionale e col narcotraffico fiorente”. Se da una parte il capo dello Stato ha teso la mano ai ribelli islamici, invitandoli a imboccare “la via del dialogo e del negoziato sincero e costruttivo”, dall’altra si è detto “consapevole di essere alla guida di un Paese in guerra”, chiamando la nazione a “fare blocco attorno all’esercito che deve essere riarmata fisicamente e moralmente per liberare le regioni occupate anche con la forza se necessario”. Dal Nord, il portavoce del Movimento per l’unità e il Jihad in Africa occidentale (Mujao), collegato ad Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), Oumar Hamaha, ha risposto che “solo se il Mali applicherà la sharia al cento per cento sarà possibile mettersi d’accordo”. La stessa condizione è stata posta dall’altro gruppo islamico di Ansar Al Din. I ribelli tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) hanno accolto positivamente la mano tesa da Bamako, dicendosi “pronti a sedersi col governo per negoziare, ma non allo stesso tavolo che i Jihadisti” ha detto Moussa Ag Assareid, responsabile per la comunicazione. A Gao, Kidal e Timbuctù tuareg e islamici sono da tempo in rotta anche se, in base ad interessi di potere, l’Mnla non ha esitato a avvicinarsi ad Ansar Al Din. (R.P.)
Congo: incontro della Rete interconfessionale dei leader religiosi per la pace
◊ Riflettere sulle problematiche scatenate dall’Esercito di resistenza del signore (Lra): su questo tema si terrà, dal 26 settembre al 1 ottobre, un incontro della Rete regionale e interconfessionale dei leader religiosi per la pace. L’evento, che avrà luogo presso il Centro Caritas di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, si articolerà in momenti di dialogo con esponenti istituzionali dell’Unione Africana, dell’Unione Europea e delle Ambasciate locali, insieme ad ulteriori colloqui con le autorità congolesi e le organizzazioni non governative. La Rete regionale e interconfessionale dei leader religiosi per la pace (Rrilrp) è nata al termine della Conferenza internazionale dei leader religiosi dei 4 Paesi colpiti dall’Lra: Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e Repubblica Centrafricana, che si è tenuta a Kisangani nel febbraio 2010. “La rete - si legge in una nota di presentazione dell’organismo - è apolitica, interconfessionale e raggruppa i leader religiosi cattolici, anglicani, musulmani e protestanti. Attualmente, la sede sociale, si trova nell’arcidicocesi di Kisangani” continua la nota. La Rrilrp ha come missione la promozione della pace e della sicurezza in tutte le aree colpite dall’Lra e parte dalla convinzione secondo la quale ogni conflitto può essere risolto pacificamente attraverso il dialogo e il negoziato, nel rispetto della dignità di ognuno. “La rete intende esercitare una forte attività di sensibilizzazione perché la questione dell’Lra rimanga all’attenzione della comunità nazionale, regionale e internazionale, al fine di adottare una strategia coerente ed efficace, in modo che le vie del dialogo e del negoziato siano esplorate da tutti gli attori nazionali e internazionali” afferma il documento. La Rrilrp è composta da un Comitato Regionale, un Segretariato, alcuni Gruppi di lavoro e dai singoli Comitati Nazionali. Il Comitato Regionale è composto da un delegato per Paese: mons. Marcel Utembi Tapa (arcivescovo di Kisangani); mons. Jean Baptiste Odama (arcivescovo di Gulu) e mons. Juan José Aguirre Muños (vescovo di Bangassou). Il delegato del Sud Sudan non è ancora stato indicato. (I.P.)
Guinea Bissau: la Chiesa chiede medicine per tubercolosi e Aids
◊ Un drammatico appello urgente sulla necessità di inviare in Guinea Bissau farmaci per la tubercolosi e l'Hiv/Aids, ma anche per avere del personale tecnico competente che “contribuisca alla valutazione della attuale situazione sanitaria del Paese” è stato lanciato dal vescovo di Bissau, mons. José Câmnate Na Bissign. Nella nota inviata all’agenzia Fides dalla Curia di Bissau, si sottolinea che il golpe di stato avvenuto in Guinea Bissau il 12 aprile scorso ha avuto, tra le molte conseguenze, un aggravamento della povertà del Paese e della sua gente. L'isolamento internazionale che il Paese sta vivendo ha provocato una carenza di farmaci per la tubercolosi e l'Hiv/Aids. Questa situazione, classificata da chi è sul territorio come "gravissima", è condivisa dal Ministero della Sanità e della Solidarietà Sociale, dalle diocesi di Bafatà e Bissau, dall'Ospedale dei malati di lebbra (Missione cattolica di Cumura), dal Raoul Follereau Hospital, e da tutti coloro che lottano per cercare di alleviare le sofferenze di questo popolo che ha già tanto sofferto. Mons. Camnate Na Bissign, nella sua lettera afferma: “Sono molto preoccupato perché nessuno sa per quanto tempo potrebbe durare questo isolamento politico-diplomatico della Guinea-Bissau. E chi pagherà le conseguenze di questa nuova crisi saranno, come sempre, i gruppi più vulnerabili (malati, bambini, donne e anziani). Per evitare il peggio, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti ad elaborare un piano di emergenza". (R.P.)
New York: incontro all'Onu sui giovani promosso dai Salesiani
◊ In preparazione al bicentenario della nascita di Don Bosco i salesiani organizzano un evento presso il quartier generale dell’Onu a New York, per presentare il contributo che i salesiani offrono alle Nazioni Unite in tutto il mondo. All’organizzazione dell’iniziativa che si tiene oggi - riferisce l'agenzia Sir - hanno collaborato la Missione dell’Osservatore permanente della Santa Sede e la Missione permanente dell’Honduras presso l’Onu. L’evento, dal titolo “Responsabilizzare i giovani perché siano agenti del cambiamento nello sradicamento della povertà”, vedrà gli interventi del cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e presidente di Caritas Internationalis, e di Jean Paul Muller, salesiano coadiutore, economo generale della Congregazione salesiana. Come ospiti d’onore vi saranno il presidente dell’Honduras, Porfirio Pepe Lobo, e l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede. L’ambasciatrice dell’Honduras Elizabeth Flores, l’ambasciatore del Venezuela Jorge Valero e mons. Francis Chullikatt, rappresentante permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, apriranno i lavori. L’ambasciatore Valero, ex allievo di una scuola salesiana in Venezuela, testimonierà la sua positiva esperienza dell’educazione ricevuta in gioventù. (R.P.)
Taiwan: riunione per la pastorale giovanile alla luce delle Gmg
◊ Al centro di spiritualità di Changhua, nel centro dell'isola di Taiwan, si è conclusa ieri una tre giorni per gli assistenti cattolici giovanili. Più di 60 operatori giovanili - riferisce l'agenzia AsiaNews- si sono riuniti per la prima volta per preparare al meglio la pastorale per i ragazzi e gli adolescenti in questi prossimi mesi. Negli ultimi due anni, 2010 e 2011, coloro che avevano partecipato all'incontro degli assistenti dei giovani avevano insistito presso la conferenza episcopale per avere una migliore formazione. Infatti, oltre a insegnanti esperti ci sono anche molti genitori o giovani assistenti alle prime armi che hanno bisogno di essere accompagnati nella loro missione. La richiesta era stata accolta molto positivamente, e l'incontro di tre giorni si è concluso ieri. La prima sessione di venerdì scorso è stata un'introduzione generale al lavoro pastorale con i giovani che lavora nell'ufficio per la pastorale giovanile di Taiwan, prendendo spunto dai documenti degli ultimi due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e dalle Giornate della gioventù da loro promosse. Sabato mattina è stato trattato il tema biblico della vocazione in generale e della chiamata rivolta a ogni giovane a seguire Cristo. La sessione era guidata da suor Nonie Gutzler, una religiosa Maryknoll originaria degli Stati Uniti. La terza sessione ha affrontato le problematiche psicologiche che sono strettamente collegate alla crescita e soprattutto all'adolescenza. La professoressa Zhen, con una lunga esperienza di psicologa, ha guidato con humor e intelligenza l'assemblea in una lettura delle problematiche più complesse relative ai giovani di quell'età. Sabato sera l'incontro ha affrontato gli aspetti più pratici, come per esempio incoraggiare i ragazzi alla liturgia e alla preghiera, accendendo in essi l'interesse per una partecipazione attiva all'eucarestia. La sessione, guidata da padre Gao della Comunità San Giovanni, si è conclusa con una preghiera comune con uno stile simile a quello di Taizè. Ieri il padre Fan, vietnamita dei missionari verbiti che opera a Chiayi, ha portato la sua testimonianza sul lavoro coi giovani svolto nella diocesi di Chiayi. E infine ieri pomeriggio , prima della messa finale, c'è stato un incontro guidato da mons. Zhong, vescovo incaricato della pastorale giovanile a Taiwan, in cui i partecipanti hanno potuto esprimere domande, perplessità o richiedere chiarimenti circa la missione da svolgere. Il vescovo ha particolarmente incoraggiato l'assemblea degli operatori, offrendo anche la possibilità il prossimo anno di avere due incontri di questo tipo per venire incontro alle loro esigenze. "E' importante lavorare insieme, perché i giovani di Taiwan meritano la nostra più profonda attenzione" ha concluso mons. Zhong. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 268