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Sommario del 24/03/2012
Il Papa in Messico: vengo come pellegrino della fede, della speranza e della carità
◊ E’ iniziata, in un clima di gioia e di affetto, la visita apostolica di Benedetto XVI in Messico. Il Papa è arrivato ieri pomeriggio, ora locale, all’aeroporto di León-Guanajuato, dove si è svolta la cerimonia di benvenuto alla presenza del presidente federale, Felipe Calderón e delle altre autorità civili e religiose. Il servizio da León del nostro inviato Giancarlo La Vella:
Il Papa e il Messico, un rapporto di reciproco amore, nato con Giovanni Paolo II e proseguito con Benedetto XVI. “Sei il nostro fratello messicano”. Questo il primo saluto rivolto al Papa dai tanti fedeli che lo hanno accolto all’aeroporto. E il Santo Padre nel suo discorso ha subito ricambiato il gradito moto d’affetto. Visibilmente sereno e sorridente, il Pontefice ha detto di essere felice di questo viaggio da tempo desiderato nel profondo del suo cuore, per poter confermare nella fede il popolo di Dio di questa grande nazione. Un desiderio, già espresso ma non realizzato – ha detto il Papa – anche dal suo predecessore il Beato Giovanni Paolo II. Dopo aver ricordato il bicentenario dell’indipendenza messicana, uno dei motivi della visita, e Nostra Signora di Guadalupe, patrona del Paese, Bendetto XVI è entrato nel vivo delle motivazioni della sua presenza in Messico:
“Vengo como peregrino de la fe, de la esperanza y de la caridad…”
“Giungo come pellegrino della fede, della speranza e della carità – ha detto il Papa –. Desidero confermare nella fede i credenti in Cristo, consolidarli in essa e incoraggiarli a rivitalizzarla con l’ascolto della Parola di Dio, i Sacramenti e la coerenza di vita”.
Un obiettivo questo, ha continuato il Papa, riallacciandosi alla “missione continentale” lanciata nel 2007 ad Aparecida insieme con i vescovi latino-americani, che può essere raggiunto condividendo la fede stessa con gli altri, con l’essere missionari tra i propri fratelli ed essere fermento nella società, contribuendo a una convivenza rispettosa e pacifica, basata sulla incomparabile dignità di ogni persona umana, creata da Dio, e che nessun potere ha il diritto di dimenticare o disprezzare. Questa dignità – ha detto ancora – si manifesta in modo eminente nel diritto fondamentale alla libertà religiosa, nel suo genuino significato e nella sua piena integrità.
Ed è la speranza, in particolare, che cambia realmente l’esistenza concreta di ciascuno. Essa – ha sottolineato il Papa – se radicata in un popolo e condivisa, si diffonde come la luce che disperde le tenebre che offuscano e attanagliano:
“Este país, este Continente, está llamado a vivir la esperanza en Dios…”
“Questo Paese, questo Continente, sono chiamati a vivere la speranza in Dio come una convinzione profonda, trasformandola in un atteggiamento del cuore e in un impegno concreto a camminare uniti verso un mondo migliore. Continuate ad avanzare sena scoraggiarvi nella costruzione di una società fondata sullo sviluppo del bene, il trionfo dell’amore e la diffusione della giustizia”.
Ma è anche la carità – ha continuato il Papa – la chiave di volta alla quale il credente e la Chiesa devono ispirare la propria missione. La fame, la malattia, il bisogno devono far scattare questo senso di sincera solidarietà fraterna che deve essere rivolta verso chiunque…
“Nadie queda excluido por su origen o creencias…”
“Nessuno rimane escluso per la sua origine o le sue convinzioni da questa missione della Chiesa, che non entra in competizione con altre iniziative private o pubbliche, anzi, essa collabora volentieri con coloro che perseguono questi stessi fini. Tantomeno pretende altra cosa che non sia fare del bene, in maniera disinteressata e rispettosa, al bisognoso, a chi, molte volte, manca più di tutto proprio di una prova di amore autentico”.
Parole significative, dunque, quelle del Papa, rivolte ad un popolo che ha sofferto e che soffre – come aveva sottolineato nel suo saluto al Pontefice il presidente Calderón – per la crisi economica, per la violenza messa in atto dalla delinquenza comune e del crimine organizzato, per le catastrofi naturali. Ma è proprio la speranza, la solidarietà, la presenza di valori come la famiglia, la libertà, la democrazia e la pace, uniti alla proverbiale allegria del popolo messicano, che possono consentire la prosecuzione su un cammino di autentico sviluppo umano.
Infine, per Benedetto XVI il bagno di folla festante - moltissimi i giovani - che, senza soluzione di continuità, lo ha accompagnato nel trasferimento in papamobile dall’aeroporto di León-Guanajuato sino alla residenza pontificia del Collegio Santisima Virgen de Miraflores. Trentaquattro chilometri di reciproco affetto per riconoscere nel Successore di Pietro una guida spirituale essenziale.
Padre Lombardi: il Papa in Messico come messaggero di pace per una società più giusta
◊ La seconda giornata di Benedetto XVI in Messico vivrà nelle prossime ore due importanti appuntamenti. Alle ore 18 locali, l'una ora italiana, il Papa si recherà alla “Casa del Conde Rul” di Guanajuato per la visita di cortesia al presidente federale Felipe Calderón. Subito dopo, in un momento particolarmente atteso, il Papa saluterà i bambini messicani nella “Plaza de la Paz”, sempre di Guanajuato. Per una prima impressione sull’inizio di questo viaggio apostolico in terra messicana, Giancarlo La Vella ha intervistato il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi:
R. – Il Papa sapeva che c’era un grandissimo desiderio da parte dei messicani di vederlo e si è visto che questa era proprio la realtà. Ci sono stati sorrisi e soprattutto l’accoglienza – a parte naturalmente quella delle autorità e del presidente – lungo la strada di centinaia di migliaia di persone. Questa è una cosa caratteristica del Messico. Io ricordo, anche nei viaggi di Giovanni Paolo II, che c’erano queste muraglie umane lungo la strada, di persone sempre festose. Questo ci parla di una partecipazione di popolo molto ampia. Quindi, i cattolici sono numerosi, ma il popolo in sé esprime questo cuore nell’incontro con il Santo Padre. Nell’ultima delle risposte che ha dato sull’aereo, il Papa ha parlato del cuore e ha dato una risposta significativa, proprio perché metteva in rilievo come nella religiosità – una religiosità genuina – ci deve però essere anche lo spazio del cuore, non solo quello della mente. E certamente la dimensione mariana, la dimensione popolare della religiosità messicana - che va custodita, che va sempre purificata - è una religiosità del cuore, e questo lo si vede.
D. – Parlare ad un Paese che soffre, come ha sottolineato anche il presidente Calderón, dà una forza particolare oggi alle parole del Papa...
R. – Il Papa sa bene qual è la condizione in cui vive questo popolo. Qui c’è questo aspetto della violenza, del sangue versato ogni giorno da tante persone, per le lotte connesse con il narcotraffico, con il crimine organizzato, che colpisce molto. E sono tante le persone che hanno perso i loro parenti, i loro figli, le persone care. Quindi, è un tema molto sentito. Il Papa naturalmente viene come messaggero di pace e di speranza; vuole incoraggiare, affinché la gente creda che può fare qualcosa, per cambiare realmente la situazione e renderla più degna di una convivenza umana, serena e pacifica.
D. – E’ proprio il Messico il terreno ideale per incarnare quella missione continentale per la nuova evangelizzazione, lanciata da Aparecida? In che modo?
R. – Il Messico ha alcune caratteristiche: è il Paese più grande di lingua spagnola del continente latino-americano; è il Paese della Madonna di Guadalupe, quello in cui, quindi, fin dall’inizio dell’evangelizzazione cristiana c’è stata una sintesi particolarmente felice e profonda tra la cultura e il sentire delle persone autoctone di questo continente e la fede cristiana. Quindi, come è stato il cuore della prima evangelizzazione cristiana, portando in sé anche questa madre dell’evangelizzazione, una madre che presenta il figlio a tutto il popolo cristiano, può essere certamente un luogo molto significativo per la nuova evangelizzazione, intesa appunto nella sua ricchezza, come annuncio della fede: sia come annuncio di una fede che opera nella carità e costruisce giustizia, sia come fede, che prende un po’ tutta la persona umana e non è solo intellettuale, ma anche del cuore.
D. – In questa realtà che significato assume la libertà religiosa, un tema al quale il Papa ha riservato un passo assai significativo nel suo discorso. Il Messico è in progresso anche su questo terreno?
R. – Il Messico viene da una storia di conflitto, anche di tensione, su questo tema. Ci sono stati momenti di grande oppressione e di martirio per i credenti. Si è fatto, però, un lungo cammino, una riconciliazione, e Giovanni Paolo II, nei decenni più recenti, ha dato a questo un grande contributo, aiutando quindi a riprendere i rapporti ufficiali tra il Messico e la Santa Sede. La Chiesa naturalmente ha sempre vissuto in Messico ed è sempre stata numerosa e forte, però ha avuto le sue difficoltà e guadagna gradualmente gli spazi, in un Paese che si vuole laico, ma allo stesso tempo si vuole democratico. Quindi, libertà religiosa significa non solo libertà di culto, ma anche possibilità di iniziativa della Chiesa nell’esprimere la sua missione con opere, con attività che possano anche essere pubbliche, non per prevaricare sugli altri, per imporre – diciamo – agli altri il proprio privilegio, ma per poter servire la comunità e il bene comune in un modo più efficace.
D. – Fede, speranza e carità rimangono la ricetta non solo per vivere una fede piena, ma anche per una società più giusta...
R. – L’unico modo in cui si è cristiani, è vivere queste virtù, che però hanno non solo una loro intensità teologale, ma anche una loro espressività umana, cioè si esprimono in comportamenti, in azioni, che poi sono capaci di trasformare la vita della persona, ma anche la vita attorno a lei, la vita della società. (ap)
Mons. Becciu: la Chiesa a Cuba è uscita dalle sacrestie
◊ L’arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, e dal 2009 al 2011 nunzio a Cuba, accompagna il Papa in questo suo 23.mo viaggio apostolico internazionale. Il collega Alessandro Di Bussolo, del Centro Televisivo Vaticano, lo ha intervistato sulla tappa cubana chiedendogli innanzitutto come siano oggi in questo Paese i rapporti tra Stato e Chiesa e se questa seconda visita di un Papa nell’isola caraibica possa essere interpretata come un ulteriore passo in avanti di un dialogo già avviato:
R. - Certamente. I rapporti tra Stato e Chiesa sono dei rapporti abbastanza buoni: appena due anni fa abbiamo celebrato 75 anni di relazioni diplomatiche mai interrotte tra la Santa Sede e lo Stato cubano. Per cui, tra Santa Sede e Stato i rapporti sono stati sempre buoni e, direi, normali, non ci sono stati problemi. Però, è chiaro che il “termometro” vero per misurare le buone relazioni tra Santa Sede e Stato è la situazione dei rapporti tra il governo e la Chiesa locale. Diciamo che, soprattutto nell’ultimo periodo, soprattutto dopo Giovanni Paolo II, le relazioni sono diventate molto più scorrevoli, sono diventate molto più efficienti, perché la Chiesa è riuscita ad avere maggiori spazi per la sua azione. Si può dire che è uscita dalle sagrestie dove era stata costretta a vivere, ha sviluppato una maggiore attività catechetica e inoltre le è stata data la possibilità di svolgere la sua attività caritativa. Ed è soprattutto questo che ha fatto grande la Chiesa, che è diventata punto di attrazione per tanti che l’avevano abbandonata o, addirittura, non la conoscevano. Quindi, direi in sintesi, che le relazioni sono di un dialogo sincero, di un dialogo in cui la Chiesa può dire ai governanti quello che pensa, quello che vorrebbe che si realizzasse per il bene dello stesso popolo cubano.
D. - Questa seconda visita può essere anche un altro spartiacque come è stata anche la visita di Giovanni Paolo II che, possiamo dire, ha cambiato la vita dei cattolici a Cuba e che – Lei ne ha avuto esperienza – ha fatto un po’ cadere la diffidenza di molti politici cubani verso i cattolici?
R. - Direi che di una parte dei politici l’ha fatta cadere. Rimangono ancora riserve da parte di altri e non nascondiamocelo: ci sono alcuni che vivono di una certa idea dello Stato, di una certa idea della vita che non collima, che non coincide con quella della Chiesa. Per cui, rimangono refrattari, rimangono diffidenti alla proposta della Chiesa. Però per molti altri vi è stato un mutamento di atteggiamento. Un piccolo emblematico episodio: mi ricordo che ero appena arrivato in un ricevimento, mi avvicinai a due persone – un signore e una signora che poi mi dissero erano membri dell’Assemblea Popolare – e poi, parlando, mi dissero: “Lei è il rappresentante del Vaticano? Bene! Noi abbiamo una grande ammirazione per la Chiesa: sa, il parroco della Chiesa dove qualche volta vado, vedo che si dà da fare molto con i poveri, organizza la mensa per i poveri. E ne parlavo con un mio compagno di partito, il quale diceva: ‘Non è possibile, non possiamo permetterglielo. Questo è esclusiva del governo o del partito fare queste cose’ ”. E questo signore mi disse: “Subito gli rinfacciai: ‘Ma perché non lo facciamo noi? Se lui lo fa, ne dobbiamo essere contenti, ed anzi dobbiamo rimanere ammirati per l’opera che stanno facendo’ ”. Ecco, un piccolo esempio per dire che alcuni capiscono qual è l’azione vera, l’azione genuina della Chiesa, altri rimangono bloccati in una certa visione della vita e della società.
D. - L’azione della Chiesa - il cardinale Ortega in particolare - in questo delicato ruolo di mediazione e dialogo che sta svolgendo in questa fase importante della storia di Cuba, è un ruolo apprezzato e riconosciuto dal governo?
R. - Il fatto stesso che li abbiano chiamati a fare da intermediari significa che la Chiesa è considerata, la Chiesa ha un gradimento da parte del governo, è riconosciuta nel lavoro che essa compie nel ministero che essa sta svolgendo. E devo dire che vi è un senso di ammirazione per quello che la Chiesa sta compiendo, e sta compiendo proprio nel silenzio, sta compiendo a contatto con la gente. Non può fare grandi cose, non ha grandi mezzi, però ha la forza del Vangelo. E la forza del Vangelo la porta a fare piccole cose, ma concrete per la gente. Inoltre, quando ci fu nel 2008 il terribile uragano che tanti danni ha provocato in molte parti del Paese, la Chiesa fu in prima linea nel cercare aiuti all’estero, quindi tramite tutta l’organizzazione caritativa internazionale della Chiesa, per aiutare le popolazioni danneggiate che avevano subito danni incalcolabili nelle abitazioni, oppure nella mancanza di cibo. Fu una collaborazione con il governo, questa, ed il governo apprezzò tanto quest’opera fatta dalla Chiesa. Ma questa è la grandezza della Chiesa: che essa si fa forte del Vangelo e si fa forte della sua opera caritativa. Anche se viene privata di mezzi esterni, di scuole, di ospedali, istituzioni, essa continua e cammina proprio illuminata e rafforzata dallo Spirito, dallo Spirito di Dio, dalla forza del Vangelo e dall’attività caritativa. Ed è questo che ha cambiato il cuore di tanta gente e che ha fatto ammirare la Chiesa.
D. - Un esempio è anche questo pellegrinaggio della venerata immagine della Vergine della Carità del Cobre. Questa visita di Benedetto XVI sarà anche nel segno proprio di questa devozione. La grande partecipazione a questo pellegrinaggio è la testimonianza che la fede e la devozione mariana dei cubani non si sono mai spente, nonostante le difficoltà del passato?
R. - Io ho scoperto, vedendolo proprio direttamente, che la Vergine del Cobre è la Madre, è la Madonna di tutti, credenti e non credenti. E vedere le processioni dove partecipavano persone che sapevi che erano lontane dalla Chiesa, però si aggregavano ai cristiani già incamminati per portare la statua della Madonna verso il luogo della celebrazione, è qualcosa che ti colpiva e ti impressionava. E la Madonna ha smosso il cuore di tanti. Per cui, questo pellegrinaggio è stato la preparazione migliore per l’arrivo del Papa, perché tanti ormai si trovano preparati a questo grande evento, cioè anche internamente molti hanno già fatto passi concreti di riavvicinamento alla Chiesa. E poi sappiamo bene che la Madonna ha i suoi “segreti” per portare avanti la storia nel piccolo, però è quel piccolo che sa portare anche a cambiamenti insperati.
D. - Il Papa lo ha già preannunciato nella sua omelia del 12 dicembre: possiamo quindi aspettarci un messaggio sull’importanza anche del ruolo che deve giocare la fede cattolica nel cammino di integrazione dell’America Latina e del suo nuovo ruolo che deve giocare nel contesto mondiale?
R. - Sappiamo che in America Latina vive un numero enorme di cattolici, anzi mi pare che sia il numero più alto di cattolici che abbiamo nella Chiesa. Quindi è chiaro che giocano e giocheranno un ruolo importante in tutta la globalità della Chiesa. E la visita del Papa aiuterà i cattolici latino-americani a riconfermarsi nella loro fede, li incoraggerà e soprattutto li aiuterà a rimanere fedeli alla Chiesa, perché nell’America Latina sappiamo che la presenza delle sètte, delle nuove aggregazioni religiose è un problema. E tanti si lasciano incantare da queste nuove realtà che facciamo difficoltà a chiamare “ecclesiali”. Ma sono, però, realtà che si stanno nutrendo della presenza di cristiani e di cattolici che abbandonano la Chiesa. Per cui, sentire la presenza del Papa, sentire la sua parola, questo sarà un motivo forte per aiutarli a rimanere fedeli alla vera Chiesa, alla Chiesa di Gesù.
La Chiesa a Cuba è viva: così il direttore del centro “Felix Varela” all’Avana
◊ Con l’arrivo del Papa in Messico, cresce dunque l’attesa a Cuba per la visita di Benedetto XVI che avrà inizio lunedì prossimo. Ad attenderlo con trepidazione è anche il centro culturale cristiano “Felix Varela” all’Avana. Il nostro inviato a Cuba, Luca Collodi, ha intervistato il direttore del centro, padre Yosvany Cardajal Sureda:
R. – Il centro culturale ha un ruolo importante per la Chiesa in rapporto con il mondo della cultura. Diciamo che il centro culturale raduna intorno a sé tutte o quasi le manifestazioni culturali che ci sono, cercando di avvicinare il mondo della cultura al mondo della Chiesa e viceversa. In questo Centro culturale, vogliamo dare la formazione necessaria a tutti i laici e a tutti coloro che vogliono approfondire la conoscenza delle cose della Chiesa; soprattutto filosofica, teologica, per formare prima di tutto laici cattolici che possano agire poi nella società, ma anche i non cattolici che volessero conoscere e approfondire argomenti ecclesiali, come la dottrina sociale cristiana. Il centro ha quindi un aspetto culturale, ma anche di formazione intellettuale.
D. – Nell’attuale cultura cubana, quella cristiana che posto ha?
R. – Diciamo che qui a Cuba, attualmente, non c’è un chiaro riconoscimento di una “cultura” cristiana; nelle diverse manifestazioni culturali dell’isola, però, ci sono spunti cristiani. Come, ad esempio, la musica cubana che è nata in chiesa e poi si è sviluppata in un’altra direzione. Diciamo che non c’è una cultura totalmente cristiana nelle sue manifestazioni, ma c’è un’anima – a mio parere – molto vicina alla Chiesa. Adesso a Cuba, per quello che conosco e che ho visto, molti artisti, molte manifestazioni culturali vogliono esprimersi in chiesa e vogliono esprimere anche valori cristiani nelle opere, musiche, nella musica sacra, nel teatro, nella letteratura. Tutte queste manifestazioni culturali si avvicinano molto, moltissimo, direi, al mondo della Chiesa. In questo senso possiamo dire che, a Cuba, c’è un’anima cristiana nella sua cultura, nella nostra cultura.
D. – La parrocchia a Cuba come si inserisce in questo progetto culturale?
R. – Quasi tutte le parrocchie, soprattutto all’Avana, radunano sempre attorno a sé un dialogo positivo, bello, con la cultura. Ad esempio, in una parrocchia ci possono essere manifestazioni intellettuali, con persone che si incontrano per leggere un documento, fare un dibattito, recitare poesie, fare teatro; nelle parrocchie si tengono anche dei concerti ai quali partecipano tanti musicisti che spesso tengono concerti nelle nostre chiese. C’è poi anche l’aspetto formativo, perché in parrocchia si svolgono anche molti corsi di formazione culturale, religiosa e di promozione umana. Sono diverse manifestazioni che funzionano e che contribuiscono all’avvicinamento della Chiesa al mondo della cultura, del pensiero, dell’arte.
D. – Nella cultura cubana della religiosità popolare, “la superstizione” che ruolo occupa?
R. – Il popolo cubano è sempre stato un popolo superstizioso. La superstizione esiste da molto tempo. Uno dei grandi pensatori cubani, padre Félix Varela, per il quale è in corso la causa di Beatificazione, nella sua “Lettera a Elpidio” - un personaggio astratto che riflette la realtà del cubano del suo tempo – diceva che uno dei tre mali che vedeva nella sua epoca, era la superstizione. L’altro era il fanatismo e il terzo la mancanza di religione, la mancanza di Dio. Tre mali che sono presenti nella nostra cultura, nella nostra società. Il popolo cubano è sempre stato un popolo un po’ superstizioso. Oggi, dopo un tempo vuoto di formazione religiosa, dove la religione non usciva dalla Chiesa perché era vietato, la superstizione si è sviluppata maggiormente attraverso religioni primitive, naturaliste, come la “santería”, una espressione nata a Cuba dall’incontro tra la tradizione africana, portata dai neri trasportati forzatamente nell’isola per lavorare, e il cattolicesimo. La fusione di queste due religioni, questo sincretismo, ha fatto sì che nascesse la “santería”, una tradizione superstiziosa e molto primitiva. Non è una religione che fa crescere l’uomo in senso etico e nemmeno nell’impegno sociale. Essere cattolico, cristiano, vuol dire andare in chiesa, avere un impegno sociale molto importante nella società. Quanti praticano la religione africana, ma anche le altre religioni che si sono sviluppate in questi anni di mancanza di formazione religiosa, non hanno bisogno di questo comportamento. E’ una realtà da vivere piuttosto dell’ambito privato, per risolvere velocemente problemi spirituali… E questo ha fatto sì che adesso si rilevi l’aumento di questa superstizione, di questa pratica. E’ un problema che noi abbiamo qui: un problema di evangelizzazione. Dobbiamo evangelizzare la cultura, dobbiamo evangelizzare anche il mondo della religiosità popolare. Dobbiamo avvicinarci al mondo della religiosità popolare.
D. – Padre Yosvany, la presenza di Papa Benedetto come può rilanciare il progetto culturale della Chiesa cubana?
R. – La visita del Papa a Cuba è il momento in cui ci rendiamo conto che la nostra Chiesa è viva, una Chiesa evangelizzatrice che ha un suo metodo, un suo ardore per evangelizzare porta a porta; non si preoccupa soltanto dell’evangelizzazione in chiesa ma anche dell’evangelizzazione – appunto – della cultura, del mondo intellettuale. Ora, con la visita del Papa riaffermiamo che la nostra fede è una fede viva, che la Chiesa in Cuba lavora, vive, evangelizza e il Papa viene a confermarci, a rafforzare e incoraggiare la nostra fede, soprattutto in quest’anno che celebriamo i 400 anni del ritrovamento della “Madonna della Carità”, che è la nostra patrona. Noi stiamo celebrando il 400.mo anniversario di questa apparizione, del ritrovamento di questa immagine della Madonna. Celebrazione che ci aiuta a dire che il popolo è cresciuto, che il popolo cubano non ha mai chiuso la porta alla fede, che oggi manifesta chiaramente e liberamente. Con il pellegrinaggio della Madonna della Carità in tutta l’Isola, il popolo ha potuto esprimere la sua fede in Dio. Il Papa viene a dirci che Dio è con noi, che Dio ci aiuta, che la Chiesa deve continuare questo lavoro di evangelizzazione. (gf)
◊ Riscoprire l’entusiasmo di comunicare la bellezza della fede: è l’esortazione di Benedetto XVI nel suo videomessaggio in occasione dell’incontro nazionale organizzato a Lourdes dai vescovi francesi per celebrare i 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II. Ce ne parla Sergio Centofanti.
“Il Concilio Vaticano II – afferma il Papa - è stato e rimane un autentico segno di Dio per il nostro tempo” e se lo interpretiamo “all’interno della tradizione della Chiesa e sotto la guida sicura del Magistero” potrà diventerà “sempre di più una grande forza per il futuro della Chiesa”. Di qui l’auspicio che questo anniversario sia l’occasione “di un rinnovamento spirituale e pastorale”, cogliendo l'opportunità di “conoscere meglio i testi che i Padri conciliari ci hanno lasciato in eredità e che non hanno affatto perso il loro valore”.
Si tratta di un “rinnovamento, che avviene nella continuità” – rileva il Papa - pur assumendo molte forme. Occorre “un’apertura sempre più grande alla persona di Cristo, ritrovando in particolare il gusto della Parola di Dio, per raggiungere una profonda conversione del nostro cuore e andare lungo le strade del mondo per annunciare il Vangelo della speranza agli uomini e alle donne del nostro tempo, in un dialogo rispettoso con tutti”.
Benedetto XVI auspica anche che questo tempo di grazia possa “consolidare la comunione all'interno della grande famiglia della Chiesa cattolica”, aiutando “a ristabilire l'unità fra tutti i cristiani, che era uno degli obiettivi principali del Concilio”.
“Il rinnovamento della Chiesa – prosegue il videomessaggio - passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita degli stessi cristiani perché risplenda la Parola di verità che il Signore ci ha lasciato”. I Santi ci mostrano come la fede sia “un atto personale e comunitario, che implica anche una testimonianza e un impegno pubblico che non possiamo trascurare”. Ne è un “fulgido esempio” Santa Giovanna d'Arco, di cui ricorre quest'anno il sesto anniversario della nascita: una giovane testimone di Cristo che “ha voluto portare il Vangelo nel cuore delle realtà più drammatiche della storia e della Chiesa del suo tempo”.
“Riscoprire la gioia di credere e l’entusiasmo di comunicare la forza e la bellezza della fede – conclude il Papa - è una questione essenziale della nuova evangelizzazione” che richiede di mettersi “in cammino, senza paura” per condurre gli uomini e le donne di oggi “verso l'amicizia con Cristo”.
◊ Benedetto XVI ha nominato nunzio apostolico in Papua Nuova Guinea mons. Santo Gangemi, Arcivescovo titolare di Umbriatico, Nunzio Apostolico nelle Isole Salomone.
In Polonia, il Papa ha nominato Vescovo Ausiliare di Pelplin il rev.do Mons. Wiesław Śmigiel, del clero della medesima diocesi, finora Preside della Cattedra di Teologia pastorale nell’Università Cattolica di Lublino "Giovanni Paolo II", assegnandogli la sede titolare di Beatia.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ In prima pagina, sul viaggio del Papa in Messico e a Cuba, un editoriale del direttore dal titolo "Ritorno in America".
In rilievo, nell'informazione internazionale, l'azione diplomatica per tentare di fermare le violenze in Siria.
In cultura, sull'Annunciazione del Signore, gli articoli di Manuel Nin e Salvatore Perrella.
Un articolo di Gulia Galeotti dal titolo "I mille volti di una giovane ebrea": un volume di Tommaso Claudio Mineo ripropone la visita di Gabriele alla Vergine nella storia dell'arte.
Siria. Cristiani in fuga: la testimonianza di un gesuita ad Homs
◊ E’ ancora ad Homs l’epicentro dei combattimenti tra ribelli ed esercito di Damasco. Nella sola giornata di ieri almeno 33 persone hanno perso la vita negli scontri. Intanto, di fronte all’impotenza della comunità internazionale, cresce la preoccupazione per i gravi crimini che vengono commessi in Siria e per la sorte della minoranza cristiana del Paese. Sentiamo la testimonianza di un padre gesuita raggiunto telefonicamente ad Homs da Stefano Leszczynski:
R. - La situazione umanitaria non è attualmente così grave come potrebbe sembrare. Io mi trovo proprio al centro dei combattimenti, qui ad Homs, e tutti riescono comunque a trovare qualcosa da mangiare, anche aiutandosi reciprocamente. Anche sulle montagne, dove si sono rifugiati i cristiani, ci sono forme di assistenza umanitaria. In generale, da questo punto di vista la situazione non è drammatica.
D. - Avete delle difficoltà nell’aiutare la popolazione locale?
R. - Ci sono molte organizzazioni che offrono aiuto: c’è la Croce Rossa, ci sono i gruppi armati che danno aiuto, ci sono gli imam che aiutano e anche noi diamo il nostro contributo con parecchi gruppi delle parrocchie. Quindi, l’aiuto è possibile, anche se non si può fare molto perché comunque ci sono i bombardamenti e i combattimenti, quindi bisogna fare molta attenzione, ma si riesce a dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno. Nel complesso, ci si riesce a muovere.
D. - Qual è la situazione dei cristiani ad Homs e più in generale in Siria?
R. - Le difficoltà sono soprattutto ad Homs, perché a Damasco la situazione non è cambiata. Ad Homs la maggior parte dei cristiani – circa il 90% - è fuggita sulle montagne, in città è rimasto soltanto un piccolissimo numero di cristiani. Il problema è che ci sono dei gruppi armati che occupano spesso le case dei cristiani che sono andati via, lasciandole vuote. Alcuni quando vengono a sapere delle loro case occupate tornano a controllare, altri non ritornano. Ci sono anche parecchie case attualmente che sono state bombardate. Per cui la situazione dei cristiani non è facile. C’è anche un problema di denaro oltre alla distruzione delle case.
D. - I cristiani si sentono in qualche modo minacciati, ad esempio, dal fondamentalismo islamico?
R. - No non si può dire che siano minacciati. L’Esercito Siriano Libero non è contro i cristiani. Non possiamo dire che i cristiani vengano perseguitati sistematicamente, ma nella realtà l’Esercito Siriano Libero è entrato nel quartiere cristiano e si batte contro l’Esercito governativo proprio a partire dal nostro quartiere cristiano. Ci sono parecchi danni a causa di questi combattimenti.
D. - In che modo la comunità internazionale può aiutare la popolazione civile delle Siria?
R. - Bisogna fare qualcosa per fornire aiuti alimentari e finanziari alle organizzazioni che si trovano già qui, e cioè la Chiesa e le organizzazioni umanitarie. Tramite loro si può fornire un aiuto alla popolazione. Quindi se riescono ad arrivare aiuti da fuori loro possono ridistribuirli alla popolazione. Credo che sia la strada più indicata.
D. - Ci sono dei possibili spazi per un dialogo in Siria oggi o no?
R. - No. Credo che il dialogo non sia più possibile. Ho l’impressione che ogni volta che si parla di un dialogo siano parole vuote, perché il dialogo è realizzabile solo a determinate condizioni e queste condizioni non esistono. L’Esercito Siriano Libero non è affatto pronto ad avviare un dialogo con gli altri, perché non riconoscono la controparte. Loro vogliono andare fino in fondo.
D. - Quindi l’unica probabilità di risolvere la crisi sarebbe l’intervento internazionale?
R. - Al momento l’opzione è soltanto quella militare. Quindi a partire dall’opzione militare si dovrebbe arrivare a una soluzione di tipo politico, a livello nazionale, internazionale o regionale. La situazione è estremamente complicata, ma al momento siamo al punto in cui è necessario abbandonare l’opzione militare che come comprensibile è una soluzione molto penosa. Però come arrivare ad una soluzione politica e partire da una situazione di conflitto militare è una questione ancora aperta alla quale per il momento non c’è risposta.
D. - In Europa sono arrivate notizie di terribili crimini di guerra commessi anche contro i bambini. È vero?
R. - I crimini vengono commessi, ma non si sa da chi. Ciascuno accusa la controparte ed è molto difficile riuscire a scoprire chi effettivamente abbia commesso questi crimini. Non è affatto chiaro chi uccida realmente, ma nel complesso l’Esercito regolare non commette crimini. Il comportamento dell’esercito qui, non è un comportamento criminale, anche se è possibile che ci siano delle eccezioni. In ogni caso, non è possibile attribuire tutti i crimini all’esercito. Questo non è vero.
Giornata di preghiera per i Missionari Martiri: nel 2011 sono stati 26 i morti
◊ Oggi, 24 marzo, è la 20.ma Giornata di preghiera e digiuno per i Missionari Martiri: una data scelta in quanto anniversario dell’assassinio di mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso nel 1980 mentre celebrava la Messa. Si vogliono così ricordare tutti i missionari e gli operatori pastorali che hanno perso la vita per il Vangelo. Secondo l’agenzia Fides, sono almeno mille i missionari uccisi dal 1980 al 2011. Solo lo scorso anno si calcola che siano morti 26 operatori pastorali: 18 sacerdoti, 4 religiose e 4 laici. Ma dove queste violenze avvengono di più? Debora Donnini lo ha chiesto a padre Vito Del Prete, direttore della stessa agenzia Fides:
R. – La maggior parte ancora in America Latina, in quanto la Chiesa sta difendendo, nel nome del Vangelo, i diritti dei più poveri, dei più abbandonati e dei più esclusi. Poi viene l’Africa, perché è un momento di turbolenze, ma in particolare in Africa ci sono problemi di carattere prevalentemente religioso. L’Asia si sta svegliando, in particolare l’India, che prima era molto più tollerante; poi abbiamo il Laos, il Myanmar e il Pakistan che è diventato uno dei Paesi che ancora fa dei martiri. Ci sono poi anche i martiri per la fede, specialmente nei Paesi del Medio Oriente, dove recentemente si sono sviluppate posizioni fondamentaliste in Egitto e in Iraq, sperando che non avvenga in Siria. Poi ci sono i martiri per il dialogo.
D. – Dai dati che voi avete, il fenomeno del martirio sta crescendo?
R. – Sì, il fenomeno sta crescendo e direi in maniera esponenziale. Ci sono più di mille martiri dal 1980 ad oggi: questi sono i missionari martiri. Ma noi non contiamo tutte quelle persone che vengono uccise, che scompaiono, che vengono torturate in diversi Paesi. Basti pensare al Pakistan, attualmente, ma anche al Myanmar, dove io ho lavorato a lungo, dove i cristiani scompaiono in numero imprecisato a causa della loro fede, vengono discriminati come anche in India. In particolare nel Nord dell'India attualmente non c’è soltanto un clima di intolleranza ma addirittura di persecuzione. I cristiani vengono cacciati dai loro villaggi, dal loro habitat, perdono tutto, devono trovarsi un rifugio …
D. – Quest’anno, la Giornata dei missionari martiri ha come titolo “Amando fino alla fine”. Qual è il senso di questa giornata? Cosa vuole comunicare ai fedeli?
R. – La Giornata dei Missionari martiri è stata creata, “inventata” dal Movimento giovanile missionario italiano e poi, nel giro di pochi anni, è stata diffusa in diverse nazioni del mondo. Questa Giornata ha due dimensioni. Prima di tutto, la Chiesa dev’essere cosciente che è anche perseguitata, e questa è una delle note caratteristiche della Chiesa. Secondo punto: l’evangelizzazione non si può fare senza effusione di sangue. E ancora bisogna far prendere coscienza ai fedeli che non c’è missione senza missionari, senza gente che va, ma non c’è neanche missione senza martirio, e questo martirio fa parte anche della comunità dei fedeli, del popolo di Dio. (gf)
A 32 anni dall'uccisione di mons. Romero, El Salvador resta uno dei Paesi più violenti al mondo
◊ Le accuse di mons. Romero per quanto accadeva in El Salvador 32 anni fa, per le violazioni dei diritti umani subite dal suo popolo, sono valide anche oggi. Lo denuncia l’Ong ‘Soleterre’, che da anni lavora nel Paese centroamericano, in occasione della Giornata Internazionale per il diritto alla verità per le vittime delle violazioni dei diritti umani, che le Nazioni Unite hanno dedicato proprio a mons. Romero. El Salvador è una delle nazioni più violente al mondo, soprattutto contro le donne. Solo nel 2011 vi sono stati 647 femminicidi e centinaia di lesioni, abusi e stupri anche su bambine. La violenza sta raggiungendo livelli addirittura più alti che durante la guerra civile, che tra il 1980 e il 1992 ha causato circa 80 mila morti. Oggi, nel Paese, muoiono per omicidio in media 12 persone al giorno. Francesca Sabatinelli ha intervistato Valentina Valfrè, responsabile dei progetti di "Soleterre" in America Latina.
R. – Una delle cause principali – che era una delle cause che denunciava anche mons. Romero, durante le sue omelie – è la grande forbice che continua ad esistere tra ricchi e poveri, quindi la grandissima disuguaglianza sociale che affligge il Paese. Nulla è praticamente cambiato. Anzi, da questo punto di vista sembra che la situazione sia peggiorata. La violenza è molto diffusa all’interno della società, nel momento in cui la violenza viene in qualche modo "naturalizzata", è difficile poi uscirne. Quindi, si va dal semplice rischio di assalto, ad esempio quando una persona si sposta da un luogo all’altro del Paese, ai rischi più grandi, che si corrono quando ad esempio si denunciano determinate cose.
D. – Le "pandillas" sono violente bande di bambini e di adolescenti che nascono proprio dalle situazioni di disagio e di povertà. Sono anche queste ad insanguinare il Paese?
R. – Sì anche, ma non attribuirei la causa principale della violenza alla presenza delle "pandillas". Sicuramente è una violenza più visibile, più cruenta: le "pandillas" commettono omicidi in modi molto violenti, anche perché vogliono dare dei messaggi molto precisi. Il modo in cui vengono uccisi i rivali ha un significato che poi l’altra banda deve capire in qualche modo. La drammaticità è che spesso i membri di queste bande – quelli che poi, di fatto, costituiscono la cosiddetta mano d’opera – sono molto giovani, quindi, una volta che si entra in queste bande e si inizia a commettere omicidi ad 11-12 anni, è chiaramente molto difficile poi tornare in dietro, reinserirsi e reintegrarsi, soprattutto perché quando tu vuoi uscire, queste bande ti condannano a morte.
D. – Quindi è difficile riuscire a mettere in atto azioni di recupero per questi ragazzi?
R. – E’ difficile. Noi lavoriamo molto sulla prevenzione, che sicuramente è l’elemento principale: non fare in modo che questi ragazzi entrino in queste bande. Già ottenere questo vuol dire ottenere un grande risultato, e ottenere anche che riescano in qualche modo a capire che questa cultura della violenza diffusa non è quello che deve essere alla base della loro vita. Noi lavoriamo anche in tema di reinserimento, però è sicuramente più difficile, è un percorso molto molto lungo, senza poi un supporto da parte delle istituzioni il reinserimento è ancora più complesso.
D. – Questo significa che da parte governativa non ci sono delle politiche di sostegno?
R. – Tendenzialmente, fino ad oggi, si sono adottate sempre politiche repressive. Anche questo governo, purtroppo, sta continuando su questa linea, con atteggiamenti un po’ diversi rispetto al passato, però l’idea è sempre di partire dal punto di vista repressivo. Il passo principale dovrebbe essere coinvolgere le associazioni giovanili che in Salvador sono veramente tante e molto attive, cercare quindi un dialogo, un’interlocuzione tra il governo e la società civile, per arrivare anche a definire delle politiche giovanili inclusive.
D. – Molti salvadoregni, ogni giorno, cercano di uscire dal loro Paese per dirigersi verso gli Stati Uniti, verso il Canada. Cosa accade a queste persone …
R. – La maggior parte viene costretta a rientrare per le violenze che subisce durante il percorso verso gli Stati Uniti, e le subisce da diversi tipi di attori, non solo dai narcotrafficanti o dalle "pandillas", ma anche dalla polizia, dalle autorità di immigrazione.
D. – Per voi è difficile lavorare in questa situazione? Correte rischi molto alti?
R. – In alcuni momenti, sì. Noi cerchiamo di tutelare il più possibile il nostro personale locale, cerchiamo di non metterlo mai in pericolo, però chiaramente, quando si affrontano determinate tematiche, il rischio c’è.
D. – Mons. Romero è stato l’esponente di una Chiesa coinvolta in prima linea nel sostegno alla popolazione. Oggi questa stessa Chiesa come lavora …
R. – La Chiesa lavora, e molti dei nostri partner di progetti, associazioni o gruppi con cui lavoriamo, sono molto legati alla Chiesa nel Salvador. In Italia lavoriamo insieme alla "Comunità monsignor Romero" di Milano. E' un lavoro indispensabile perché le stesse "pandillas" si fidano dell’associazionismo religioso, in particolare della Chiesa cattolica, che ha sempre fatto un grande lavoro, collaborando proprio con la società civile; un lavoro direi fondamentale dal punto di vista della negoziazione con la società civile e le istituzioni. Ho visto e conosciuto tanti ragazzi, che stanno facendo e hanno fatto molto per il loro Paese e continuano a rischiare la vita. Le persone che vogliono cambiare le cose ci sono, però vanno supportate ed aiutate. L’esempio di mons. Romero è ancora forte proprio per questo. (cp)
Senegal: ballottaggio presidenziale tra Wade e Sall
◊ Vigilia elettorale in Senegal, in vista del ballottaggio presidenziale di domani. A sfidarsi sono il capo di Stato uscente, Abdoulaye Wade, e il suo ex primo ministro Macky Sall. Il primo turno si è svolto lo scorso 26 febbraio in un clima di violenza e scontri sanguinosi tra l'opposizione, che contesta la candidatura di Wade per un terzo mandato, e i filo-governativi. Dal 6 marzo, giorno in cui il Consiglio istituzionale ha reso noti i risultati del primo turno, entrambi i candidati hanno moltiplicato i loro comizi elettorali. In piazza anche grandi personalità del Paese, come il celebre cantante Youssou Ndour, a sostegno di Sall, ed esponenti della comunità musulmana, a favore di Wade. Per un quadro del clima elettorale, Davide Maggiore ha raggiunto telefonicamente a Dakar Tommaso Caprioglio, vice capo della missione di osservazione elettorale dell’Unione Europea:
R. - La campagna elettorale del secondo turno è cominciata in un’atmosfera molto più tranquilla. Abbiamo potuto osservare nei primi 10 giorni di campagna un’atmosfera calma, in cui non ci sono stati eventi particolari da segnalare. Purtroppo negli ultimi giorni ci sono state recrudescenze di qualche atto violento, in alcune zone del Paese, come quando il corteo del candidato Macky Sall è stato attaccato a più riprese.
D. – Gli incidenti a cui fa riferimento hanno in qualche modo condizionato la campagna elettorale?
R. – Condizionato direi di no, però sicuramente sono dei campanelli di allarme. Fra l’altro in questi giorni vi è una polemica in atto, che riguarda la possibilità per i militanti - di entrambe le coalizioni - di rifornirsi di bastoni o armi improprie, che noi ovviamente speriamo non siano mai utilizzati, né prima, né durante, né dopo il ballottaggio. Abbiamo avuto alcuni elementi che ci fanno pensare che ci sia stata effettivamente una distribuzione di molti bastoni, tra i militanti di entrambi i campi. In un certo senso questo è un elemento di allarme, che stiamo notando nei discorsi fatti dai politici, anche sulla stampa. Al momento sicuramente tutto ciò non ha condizionato la campagna, nel senso che i due candidati in lizza hanno potuto comunque svolgere le loro attività in assoluta libertà.
D. – Lei ha accennato alla stampa senegalese: come può essere giudicato il ruolo svolto dai mezzi di comunicazione nell’intero processo elettorale?
R. – La stampa senegalese ha giocato un ruolo molto importante. Il Senegal è uno dei Paesi dove la libertà di stampa è assolutamente rappresentata e vi è stato tutto sommato un equilibrio nella copertura dei candidati.
D. – Nella sua dichiarazione preliminare - all’indomani del primo turno – la missione ha notato una sottorappresentazione al momento del voto dei giovani senegalesi. Quant’è importante questo elemento, considerando anche il loro peso numerico sulla popolazione del Paese?
R. – Un aspetto molto importante che la missione ha voluto sottolineare, perché - secondo le stime, che non sono fatte dalla missione ma che appartengono a tutti gli interlocutori - più di un milione di giovani non si trova iscritto nelle liste elettorali. Attualmente è iscritta solamente una piccola parte dei giovani – tra i 18 e i 23 anni – perché l’iscrizione è attiva e non passiva: quindi è chiaro che, se non c’è l’interesse da parte dell’elettore, non sarà iscritto e dunque non potrà votare.
D. –Qual è l’importanza elettorale del dipartimento di Dakar?
R. – Dakar ha un peso non indifferente e noi consideriamo anche il bastione del dipartimento di Mbaké, con almeno il 60 per cento dell’elettorato. Ha quindi un’importanza centrale. Fra l’altro la missione ha potuto rilevare che quasi un milione di iscritti ha o effettuato una scelta per un candidato diverso rispetto al presidente Wade e Macky Sall o non si è recato alle urne. Quindi è chiaro che una grande parte del risultato finale si giocherà proprio nella capitale. (cp)
Il dramma dei profughi del Sinai: la testimonianza di una comboniana che li assiste in Israele
◊ Non è ancora ben definibile il numero esatto dei profughi, perlopiù africani, tenuti in ostaggio nel Sinai da bande di trafficanti e criminali. Alla fine del 2011 le statistiche sommarie sul traffico di esseri umani in quella zona indicavano in almeno 50 mila i profughi che avevano varcato il confine tra Israele ed Egitto. Toccanti e drammatiche sono le testimonianze di questi migranti che, dopo mesi di violenze e oltraggi, arrivano in Israele. Ad occuparsene, tra gli altri, è suor Azezet Kidane, una comboniana eritrea che da anni vive e opera a Betania (Cisgiordania), alle porte di Gerusalemme, e - come volontaria - collabora a Jaffa con i Medici per i diritti umani-Israele e a Tel Aviv con l’African Refugees Development Center. Giada Aquilino l’ha intervistata:
R. – Questi profughi vengono nei centri e nella clinica in cui io lavoro come volontaria quando sono malati, perché non sanno dove andare: il governo israeliano non fornisce loro cure e medicine e quindi non hanno alcuna possibilità di andare in altri posti. Abbiamo tanti dottori che vengono ad assisterli ogni giorno.
D. – Queste persone che status hanno?
R. – Non sono riconosciute come rifugiati, sono richiedenti di asilo politico: non possono lavorare, non hanno alcun diritto.
D. – Da dove vengono?
R. – Sono sudanesi, eritrei, ma anche etiopi. Tutti sono stati ostaggio nel Sinai. Soffrono e pagano un caro prezzo: pagano con i soldi, con la loro vita ed affrontano tanta sofferenza.
D. – Cosa raccontano delle vicende nel Sinai?
R. – Io ho intervistato più di mille persone e, di queste, quasi tutte hanno affrontato un viaggio molto traumatico per arrivare in Israele. Si può dire che 500-600 di loro subiscono tante torture, quando sono tenute in ostaggio nel Sinai.
D. – Parlano di abusi, torture e omicidi…
R. – Le torture sono differenti, come anche i trafficanti sono differenti: ci sono persone che per esempio vengono catturate in Sudan, portate nel Sinai e vendute per una somma che può raggiungere i 50 mila dollari. Vengono torturate dai criminali, che puntano ad ottenere soldi. I carcerieri colpiscono gli ostaggi con strumenti vari, li legano mani e piedi, a testa in giù, con gli occhi bendati, li percuotono e li bruciano usando la corrente elettrica ed il fuoco. Tanti muoiono per le torture: uno di loro mi ha riferito di aver visto 6 persone morire durante i maltrattamenti. Le torture fatte alle donne sono anche peggiori: vengono umiliate, abusate, rimangono incinte e poi – quando arrivano da noi – molte di loro devono partorire, dopo un percorso di vera sofferenza.
D. – Questi profughi come fanno poi ad arrivare in Israele?
R. – Quando loro hanno pagato, vengono in Israele, attraversando il Sinai. Però anche i soldati egiziani alla frontiera sparano e così succede che quei profughi che hanno pagato per arrivare in Israele – 25, 30, 50 mila dollari – possono pure morire al confine.
D. – Da dove arrivano i soldi del riscatto per i profughi?
R. – Arrivano da tutto il mondo. I trafficanti torturano gli ostaggi quando sono al telefono con i loro familiari o con gli amici o con qualsiasi persona di cui hanno il numero di telefono. Così i congiunti sono costretti a vendere tutto quello che hanno, il bestiame, le case, al fine di poter riscattare i propri figli.
D. – Chi sono i carcerieri?
R. – I profughi parlano dei Rashaida sudanesi, ma anche degli eritrei, dei beduini: da un traffico si passa ad un altro traffico.
D. – Ci sono dei dati certi su questi profughi?
R. – Veramente non lo sappiamo, perché quelli che vengono da noi sono persone malate e non vengono per essere registrate. Tanti vengono con ferite, piaghe, traumi…
D. – Dopo che sono stati da voi, dove vanno?
R. – Questo è un grande problema. Quelli che sono stati qui uno o due anni fa, ora hanno case di fortuna, composte da una stanza, dove magari ospitano amici, persone che conoscono, fino ad arrivare ad essere 10 in una stanza. Alcuni vivono nel parco: adesso il governo municipale di Tel Aviv ha allestito delle tende, perché la gente moriva all’aperto o stava male. La situazione è veramente tremenda.
D. – Lei vive a Betania, in una realtà di divisione, ai piedi del Muro di separazione tra Israele e Territori: è un’esperienza di sopravvivenza ma anche di speranza. Cosa spera per il futuro di questi profughi e per quello di israeliani e palestinesi?
R. – Per i profughi, spero che Israele li accetti e si assuma delle responsabilità ora che sono qui. Per gli israeliani e i palestinesi – io lavoro con loro ogni sabato – penso sia necessario farli incontrare, perché questi popoli sono come due fratelli che non si incontrano. Questa è la mia missione: farli avvicinare. (cp)
Riforma sanitaria Usa: manifestazioni in oltre 140 città a difesa della libertà religiosa
◊ Migliaia di persone in oltre 140 città degli Stati Uniti hanno manifestato ieri contro le disposizioni della riforma sanitaria del presidente Obama che limitano la libertà religiosa e l’obiezione di coscienza in materia di aborto e contraccezione. All’evento, hanno preso parte tra gli altri 22 presuli americani. Christopher Altieri ha intervistato il giornalista cattolico, Al Kresta, uno dei promotori della manifestazione:
R. – To be faithful disciples of the Lord Jesus Christ means to be able...
Essere discepoli fedeli del Signore Gesù Cristo significa essere in grado di vivere la nostra fede in ogni particolare aspetto della nostra vita. Stiamo affrontando in questo momento situazioni senza precedenti negli Stati Uniti, dove le istituzioni cattoliche sono state costrette ad impegnarsi in attività e acquistare prodotti che hanno rifiutato per duemila anni. E’ importante unirsi per far suonare ancora l’allarme e risvegliare l’interesse della popolazione americana in generale sul fatto che quello che ci troviamo ad affrontare oggi non sono solo preoccupazioni tipicamente cattoliche riguardo alla contraccezione, ma è un attacco alla libertà religiosa sancita nel primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, così come è stato concepito lungo tutta la storia americana.
Italia: via libera del Cdm alla riforma del lavoro. Commento di Luigino Bruni
◊ Passa al parlamento l’esame della riforma del mercato del lavoro approvata ieri, “salvo intese”, dal Consiglio dei ministri. All’interno dell’attuale maggioranza, valutazioni differenti soprattutto sulle modifiche all’articolo 18, condivise da Pdl e Terzo Polo, non dal Pd. I sindacati chiedono modifiche. E la Cgil ha già proclamato un pacchetto di scioperi. Il servizio di Giampiero Guadagni.
Contratti, sussidi, flessibilità in uscita. Sono i tre cardini della riforma del mercato del lavoro messa a punto dal governo Monti. Il contratto a tempo indeterminato sarà la tipologia dominante per le assunzioni. Quelle a termine costeranno di più alle aziende in termini di contribuzione: una misura destinata a combattere il precariato. La principale porta di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro sarà l’apprendistato. Le nuove norme obbligano di fatto le aziende ad assumere una certa percentuale di apprendisti se vorranno utilizzarne di nuovi. Novità anche per chi perde il posto di lavoro. La riforma introduce l’Aspi, l’Assicurazione sociale per l’impiego. Sarà estesa a tutti i lavoratori e sostituirà l’attuale indennità di disoccupazione. Durerà 12 mesi, 18 per chi ha più di 55 anni. Per il sussidio è previsto un tetto massimo di 1.119 euro. Il nuovo sistema di ammortizzatori sociali entrerà a regime nel 2017. Il terzo capitolo, quello riguardante la flessibilità in uscita, è certamente il più spinoso. Al centro c’è infatti la riscrittura dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, da sempre una bandiera del sindacato. Bisogna distinguere tra licenziamenti discriminatori, disciplinari ed economici. Nulla cambia per i licenziamenti discriminatori (per fede religiosa, credo politico, appartenenza ad un sindacato): sono nulli ed è previsto il reintegro sul posto di lavoro. I licenziamenti disciplinari sono quelli intimati per giusta causa: ad esempio furto o rissa; oppure per giustificato motivo soggettivo: ad esempio grave inadempimento degli obblighi contrattuali. Sta al giudice decidere se procedere con il reintegro oppure con l’indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità. Infine, il punto più controverso: i licenziamenti economici per giustificato motivo oggettivo: ragioni inerenti all’attività produttiva o all’organizzazione del lavoro. Il giudice potrà eventualmente condannare il datore di lavoro non al reintegro, come chiedono sindacati e Pd, ma solo al pagamento di un indennizzo, sempre tra le 15 e le 27 mensilità. Previsti interventi per evitare in questo caso abusi di tipo discriminatorio. E ci sono anche norme per velocizzare i processi sui licenziamenti. Tra le altre novità: l’introduzione del congedo di paternità obbligatorio per tre giorni e le norme di contrasto alle dimissioni in bianco delle lavoratrici madri.
Da Cernobbio dove è in corso il workshop della Confcommercio, il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha espresso rammarico per una riforma non condivisa pienamente, accordo in cui, ha detto, “ho creduto e sperato fino all'ultimo'' ma, ha continuato, il mondo cambia e il cambiamento in Italia va accompagnato. E’ tornata quindi a difendere la scelta del governo circa la modifica all’articolo18, mentre la Cgil ha già proclamato una serie di scioperi. Ma che cosa significa il mancato accordo generale sulla riforma? Adriana Masotti lo ha chiesto a Luigino Bruni, docente di economia politica all’università “Bicocca” di Milano e all’Istituto Sophia di Loppiano, nonché responsabile del progetto di Economia e Comunione.
R. – Significa innanzitutto che oggi c’è una divisione anche interna ad una certa Cgil, nel senso che esistono delle posizioni più moderate e più forti che rendono difficile il dialogo e l’avere una linea comune e condivisa internamente alla Cgil stessa. Però vuol dire soprattutto che questa riforma del lavoro è una riforma complessa. Sarei stato stupito se la Cgil avesse accettato una riforma del genere senza protestare e senza sollevare delle problematiche, perché questa è una riforma che certamente tutela meno il lavoratore fragile. Lo ripeto: avrei preferito una maggiore concertazione ed un maggior ascolto delle posizioni, anche di una parte così importante del sindacato, perché la materia del lavoro è una materia davvero molto delicata.
D. – Il ministro del Lavoro dice che la modifica dell’articolo 18 non calpesta i diritti dei lavoratori…
R. – Io la vedo un po’ diversamente. I motivi economici sono molto poco oggettivi se facciamo riferimento ad un momento di crisi e di difficoltà. Se questa nuova normativa viene considerata come un “pagare per licenziare”, capiamo benissimo che quando si parla del lavoro non si tratta di un semplice problema di indennizzo, ma di identità, ossia: ‘che cosa faccio dopo’? In questo momento, secondo me, c’è bisogno di maggior tutela del lavoro e non minore, perché siamo in una fase di grandi cambiamenti e di grandi difficoltà per il lavoro, come anche per il capitale. Capisco che c’era necessità di riformare il mercato del lavoro, però non credo che questa normativa sia stata introdotta per i più fragili. Piuttosto, va a vantaggio delle grandi imprese.
D. – Però non c’è soltanto l’articolo 18: tra i punti centrali della riforma vi è anche la valorizzazione dell’apprendistato, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, costi maggiori a carico delle imprese per i contratti a termine…. Che ne dice di tutto questo?
R. – Questi sono tutti interventi che mi piacciono, soprattutto quello che concerne l’apprendistato, che mi piace moltissimo, perché significa riavvicinare i giovani al mondo del lavoro. Questo è un tema immenso: in Italia, negli ultimi decenni, abbiamo allontanato i giovani dalle imprese. Questa, lo ripeto, è una legge che comprende più elementi: alcuni li apprezzo e li condivido, altri meno. Se rendo più semplice l’uscita, dovrei quantomeno incentivare l’entrata… Questa riforma si basa su una cultura molto anglosassone, dove si vorrebbe creare una zona economica, un’economia pura, senza le scorie, i limiti e le vulnerabilità della vita e scaricare da qualche altra parte – ma non si comprende bene dove, se nella famiglia o nella comunità – i limiti, le vulnerabilità e le fragilità. In realtà, bisogna riconoscere che l’impresa è un luogo che ha gli stessi limiti e le stesse vulnerabilità di tutta la vita comune. Il sogno dell’efficienza pura, di espellere le persone poco adatte al lavoro, non ha mai funzionato nel modello comunitario europeo, perché il nostro è un modello più sociale. Dobbiamo, quindi, stare molto attenti: questa ondata di neo-liberismo – che è arrivata anche da noi – non deve farci perdere un’identità storica di secoli e di civiltà cristiana, che va dal Medioevo in poi, dove il lavoro è stato sempre visto all’interno di un patto sociale molto più ampio, che coinvolgeva la comunità, la famiglia, le istituzioni e dove il lavoro non è una merce, ma un bene fondamentale che viene prima di qualsiasi altro bene, perché riguarda la persona. Tra i fattori di produzione – capitale, terra e lavoro – il lavoro ha un piccolo particolare: ci sono di mezzo le persone. In passato – e ancora oggi – è stato visto come un bene speciale, soprattutto in Europa, che ha una vocazione molto più forte dal punto di vista sociale e comunitario.
D. – Nel suo complesso, questa riforma servirà comunque per creare nuova occupazione e nuova crescita, che sono poi i problemi centrali dell’Italia di oggi?
R. – Lo spero, perché c’è davvero molto bisogno che sia così. Personalmente, credo che oggi i nuovi posti di lavoro non verranno creati nella grande industria e neanche nello Stato. Occorrerà inventarsi altri posti di lavoro, da altre parti. Cioè, secondo me, nell’ambito civile, nel mondo cooperativo, partendo dalla voglia che hanno le persone di mettersi insieme e creare lavoro, come in realtà è stato fatto, in passato, nei momenti di crisi: pensiamo alla fine dell’Ottocento, al dopoguerra, quando anche i cristiani e le persone di buona volontà si sono messi insieme per creare loro stessi dei lavori. Si sono inventati casse rurali, cooperative, che oggi tradurremmo con l’impresa sociale, il no-profit, l’economia civile, l’economia di comunione. Bisognerà quindi creare lavoro dal basso, dalla gente. (vv)
Il commento di padre Bruno Secondin al Vangelo della Domenica
◊ Nella quinta Domenica di Quaresima, la liturgia ci propone il Vangelo in cui alcuni greci, giunti a Gerusalemme per la Pasqua ebraica, chiedono ai discepoli di Gesù di poter incontrare il Maestro. Il Signore, interpellato da Andrea e Filippo, parla della sua morte:
“È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.
Su questo brano del Vangelo, ascoltiamo il commento del padre carmelitano Bruno Secondin, docente di Teologia spirituale alla Pontificia Università Gregoriana:
Siamo nella terza Pasqua vissuta da Gesù nella vita pubblica, e questi greci pellegrini venuti per le feste e che vogliono conoscere Gesù rappresentano simbolicamente le culture e le genti che cercano un incontro con Colui che può salvare. Gesù parla di ora che giunge, di seme che muore, di molto frutto: incontrarlo davvero, e non per pura curiosità, è possibile solo a chi lo riconosce e lo accetta come seme che muore e germoglia, come crocifisso vittorioso, come umiliato che il Padre esalta. Poteva essere un momento di fama che si allargava, di gratificazione dopo tante fatiche: gente di fuori che lo cercava sull’onda della fama. Ma quella voce dal cielo, che per tanti è segno di prodigio e messaggio celestiale, rimanda piuttosto alla storia e ai campi della vita. Gesù seduce ancora, ma incontrarlo e seguirlo è accettare che la sua ora di fatica e umiliazione sia il sentiero e il paradigma anche per noi. La morte è un fantasma che incombe: ma Gesù l’affronta con piena coscienza e totale disponibilità. Con lui anche noi camminiamo fiduciosi che il principe di questo mondo sarà “buttato fuori” e la vita trionferà.
Mali: incertezza dopo il golpe, la voce dei Salesiani
◊ Regna l’incertezza, nel Mali, dove due giorni fa un golpe militare guidato dal capitano Amadou Sanogo, proclamatosi poi capo della Giunta, ha rovesciato il governo del presidente Amadou Toumani Toure a cinque settimane dalle elezioni presidenziali previste per il prossimo 29 aprile. “Non ci sono violenze per le strade né ci sono stati colpi contro la popolazione; la gente sta con l’esercito perché è stanca del modo in cui il governo ha gestito il conflitto con i Touareg”, è la testimonianza dei missionari Salesiani nel Paese, pubblicata in una nota del loro bollettino Ans ripreso dall’agenzia Fides. Infatti il colpo di Stato militare è stato motivato, secondo quanto affermano i golpisti, dalla politica incompetente del governo in risposta all’offensiva dei Touareg che da metà gennaio rivendicano l’autonomia del nord del Mali, già afflitto dalla presenza di gruppi islamici tra cui al-Qaeda. I Salesiani e le suore Figlie di Marina Ausiliatrice, raccontano di un atteggiamento di prudenza e attesa nella popolazione: in dubbio è anche la processione quaresimale annuale in programma domani. I religiosi e le religiose, presenti in Mali da anni e impegnati nella formazione dei giovani e nell’assistenza ai bambini svantaggiati attraverso scuole e centri di accoglienza, stanno ricevendo messaggi di solidarietà e di vicinanza da tutto il mondo. Tornando alla cronaca, non si conosce ancora la sorte del presidente deposto Toure: il capitano Sanogo ha detto che si trova al sicuro e che sta bene. Intanto questa mattina un politico della maggioranza che sosteneva il governo, è stato prelevato dalla sua casa, mentre la giunta ha promesso di rilasciare a breve i tre membri della missione diplomatica inviata nel Paese dall’Unione africana e catturati sulla via per la capitale Bamako. Infine, una condanna da tutto il mondo arriva al colpo di Stato in Mali: oltre ai vicini Algeria, Mauritania e Niger, con i quali le frontiere sono chiuse da giovedì, anche l’Unione Europea chiede l’immediato rilascio dei sequestrati e il ritorno al “governo civile”, mentre gli Stati Uniti hanno dichiarato che l’aiuto economico e militare potrebbe essere compromesso. (R.B.)
Usa: lettera del cardinale Dolan e mons. Gomez per una riforma condivisa sull’immigrazione
◊ In una lettera aperta alle autorità, l’arcivescovo di New York, cardinale Timothy Dolan e l’arcivescovo di Los Angeles, nonché presidente del Comitato per i Migranti della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, mons. José Gomez, sollecitano il mondo politico a una riforma condivisa sul tema dell’immigrazione, promettendo un pieno sostegno ad essa. “Oggi è più importante che mai – scrivono nella missiva indirizzata allo speaker della Camera, John Boehner, al capogruppo della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid e ai capigruppo delle minoranze di entrambi i rami del Congresso - dal momento che leggi statali e provvedimenti locali stanno colmando il vuoto politico lasciato dal Congresso”. Un fenomeno che, riporta l'agenzia Zenit, sta creando un “patchwork” di leggi che causano discordia tra le comunità: nella lettera sono citati a titolo di esempio gli ordinamenti statali dell’Alabama e dell’Arizona, che “hanno creato ambienti dove gli immigrati, indipendentemente dal loro status legale e dall’applicazione della legge, sono posti gli uni contro gli altri”. Il cardinale e l’arcivescovo hanno espresso la propria preoccupazione per l’impatto che certe iniziative stanno avendo sulle famiglie dei migranti, in particolare sui bambini, ma anche sul condizionamento che da esse potrebbero ricevere alcune istituzioni della Chiesa come mense, rifugi per senzatetto, ospedali e parrocchie. La lettera dell’episcopato, infine, è arrivata alla vigilia del viaggio del Papa che ieri è giunto in Messico: negli Usa, infatti, il 60% degli immigrati sprovvisti di documenti sono di origini messicane. (R.B.)
Giornata Mondiale contro la tubercolosi: messaggio di Ban Ki-moon
◊ “Una maggiore solidarietà globale” per sconfiggere, definitivamente, la tubercolosi, che attualmente è la seconda malattia infettiva al mondo per mortalità. È questo il centro del messaggio del segretario generale dell’Onu, Ban-ki-moon per la Giornata Mondiale contro la tbc che si celebra oggi all’insegna del tema “Stop tb in our life”. “La tubercolosi è stata troppo spesso trascurata – sostiene il segretario – e questo ha causato solo nel 2010 circa 9 milioni di contagi, oltre a 1.4 miliardi di morti, il 95% nei Paesi in via di sviluppo”. Ban-ki-moon sottolinea, poi, l’impatto della patologia che va oltre i casi riconosciuti, ma ha effetti devastanti anche sulle famiglie. La mancanza di accesso alle cure e la difficoltà della diagnosi nei bambini, aggravano ulteriormente la situazione, già peggiorata dalla comparsa recente di una forma di tbc resistente ai farmaci. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, infine, dal 1990 a oggi, gli sforzi profusi hanno fatto diminuire del 40% il tasso di mortalità della malattia e hanno salvato dalla morte almeno sette milioni di persone, oltre ad averne curate 46 milioni, ma si può fare ancora di più con lo sforzo congiunto delle Nazioni Unite, dei governi e della società civile. (R.B.)
Iraq: a Kirkuk riapre la parrocchia della Vergine Santissima
◊ La comunità cristiana di Kirkuk, nel nord dell'Iraq, è in festa per la riapertura ufficiale - dopo un paziente lavoro di restauro - della chiesa parrocchiale della Vergine Maria Santissima. Dimenticati per una sera le violenze e i massacri dell'ultima settimana, fra cui la serie di attentati del 20 marzo e l'uccisione di un fedele il 22 a Mosul, la minoranza religiosa può celebrare un momento di gioia riunendosi attorno al proprio pastore e ai sacerdoti della comunità. Nell'omelia che ha accompagnato la messa, l'arcivescovo mons. Louis Sako ha chiesto ai presenti di "testimoniare la fede" fra persecuzioni e abusi, invitandoli a non abbandonare il Paese ma, al contrario, "a restare" per contribuire a creare un futuro di speranza. La chiesa parrocchiale, aperta nel 1965, è stata restaurata per intero grazie all'impegno dell'arcivescovado caldeo di Kirkuk. La sera del 22 marzo, mons. Louis Sako ha presieduto la messa di inaugurazione, concelebrata alla presenza di sacerdoti e numerosi fedeli che hanno gremito il luogo di culto. Un cristiano racconta che "la chiesa era piena" e per la celebrazione "sono arrivati anche preti dalle altre parrocchie" per un momento di "vera festa". Il 29 gennaio 2006 la chiesa della Vergine è stata obiettivo di un violento attentato dei fondamentalisti islamici; gli estremisti hanno colpito il luogo di culto cristiano, in risposta al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, che tante strumentali e pretestuose polemiche aveva innescato col mondo musulmano. L'esplosione di un'autobomba aveva anche causato la morte di un chierichetto 13enne di nome Fadi Raad Elias che, al rientro da scuola, si era fermato in chiesa a pregare "per ringraziare Gesù per il felice esito di un esame". Durante l'omelia, mons. Sako ha ricordato il sacrificio del giovane "martire" cristiano irakeno; la sua morte e il sangue versato, ha spiegato il prelato, sono "un invito a perseverare" di fronte alle "sfide" che la comunità si troverà ad affrontare. "Il nostro numero sta diminuendo - ha aggiunto l'arcivescovo - a causa dell'emigrazione, ma la nostra presenza, la testimonianza e i risvolti che genera dipendono dalla qualità, dal livello culturale, morale e spirituale che sapremo offrire per una partecipazione dinamica nella società". "La diminuzione nel numero dei cristiani - ha concluso mons. Sako - non deve far abbassare l'influenza della minoranza sulla società irakena. Dobbiamo ripensare hic et nunc il senso della presenza cristiana e il modo in cui testimoniamo la nostra fede". (R.P.)
Cina: entro 5 anni "finiranno gli espianti di organi dai condannati a morte"
◊ Il governo cinese ha intenzione di mettere al bando "entro 5 anni" la pratica che prevede l'espianto degli organi dei condannati a morte. Il regime comunista ha ammesso lo scorso 17 marzo questa pratica, dopo aver sempre evitato di rispondere sull'argomento, ma ha sottolineato che gli espianti "sono praticati soltanto sui volontari che ne esprimano la volontà". Lo scrive oggi la Xinhua, che cita il vice ministro della Sanità Huang Jiefu. La decisione non deriva da intenzioni umanitarie ma dagli enormi problemi di sicurezza e sanità che i trapianti dai condannati comportano. Huang ha dichiarato che "le donazioni dai prigionieri non sono affatto ideali perché i detenuti tendono ad avere alti tassi di infezioni di funghi e di batteri. Dunque, i tassi di sopravvivenza dei soggetti con organi trapiantati in Cina risultano essere stabilmente al di sotto di quelli negli altri Paesi". Il governo cinese - riferisce l'agenzia AsiaNews - si è trovata più volte nel mirino della comunità internazionale per questa pratica. Secondo le Nazioni Unite, che nel 2009 inviarono un loro membro a visitare le galere cinesi, Pechino "fa pressione sui detenuti per ottenerne la disponibilità alla donazione degli organi". "Le donazioni degli organi da parte dei prigionieri condannati sarà abolita entro cinque anni", e sempre per Xinhua gli ospedali si affideranno "ad un sistema di donazione" promosso a livello nazionale, con 16 province che fanno già parte dei progetti pilota. (R.P.)
Romania: marcia per la vita in 17 città contro l’aborto
◊ Oggi in 17 città della Romania si “marcia per la vita”. Il Paese dell’ex cortina di ferro, infatti, dove l’interruzione volontaria di gravidanza fu approvata nel 1958, causando, da allora, più di 22 milioni di aborti, è in testa alla classifica dei Paesi europei con il maggior numero di aborti praticati. Ciò, negli anni, ha causato un preoccupante calo delle nascite che costituisce attualmente il principale fattore di crisi demografica. Per riaffermare il diritto alla vita dei bambini a partire dal concepimento, dunque, come riporta la Zenit, è stata organizzata questa marcia cui hanno aderito anche i vescovi delle chiese cattolica, greco-cattolica, ortodossa bizantina, protestante ed evangelica, che promuove come alternativa all’aborto il sostegno delle donne in crisi e riforme economiche che favoriscano la natalità, oltre a respingere ogni forma di eugenismo e selezione delle nascite. Tra le richieste alla politica delle organizzazioni pro-vita c’è anche la lotta alla pornografia e alla cultura della banalizzazione e della promiscuità della vita sessuale, riconoscendo, invece, il ruolo primario dei genitori nell’educazione dei figli. Ad aggravare la situazione, in Romania come in altri Paesi europei, è in atto il tentativo di legalizzare la produzione di vite in provetta: a questo proposito l’8 marzo scorso la Conferenza episcopale cattolica romena ha inviato una lettera al presidente e alle più alte cariche dello Stato affinché respingano la proposta di legge che prevede la libera fecondazione in vitro con un terzo donatore e la madre surrogata. Tale proposta è “un attacco alla dignità della persona, all’integrità della famiglia e implicitamente una minaccia alla stabilità della società – ha detto mons. Cornel Damian, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Bucarest – il bambino è sempre una persona umana e non può essere considerato un prodotto di laboratorio”. (R.B.)
Madagascar. I vescovi del Secam su riconciliazione, giustizia e pace
◊ L’Africa deve sperimentare una sincera conversione del cuore per ottenere davvero la riconciliazione, la giustizia e la pace: è quanto affermano i vescovi del Secam – il Simposio delle Conferenze dell’Africa e del Madagascar – al termine dell’incontro svoltosi, nei giorni scorsi, ad Antananarivo, in Madagascar. Il convegno ha visto riuniti i Segretariati regionali del Secam ed ha dedicato ampio spazio all’Esortazione apostolica post-sinodale Africae Munus, siglata da Benedetto XVI nel novembre scorso. A concludere i lavori, è stata una Messa solenne presieduta da mons. Benjamin Marc Ramaroson, vescovo della diocesi malgascia di Farafangana: nella sua omelia, il presule ha puntato il dito contro l’egoismo, l’avidità, la gelosia, la brama di potere e l’avidità che ostacolano lo sviluppo dell’Africa. “Si tratta di fattori – ha detto il presule – che contribuiscono alla corruzione, alla cattiva governance, a pratiche non democratiche e ad una pessima gestione delle risorse umane e materiali del continente”. Per un “significativo sviluppo socio-economico e politico di tutta la popolazione – ha continuato mons. Ramaroson – è quindi necessario che tutti gli africani rifuggano seriamente da questi vizi”. Poi, il presule ha sottolineato l’importanza di attuare le linee dettate dall’Africae Munus “a tutti i livelli della Chiesa e della società in generale”. E in effetti, gran parte dei lavori del Convegno è stata dedicata alla condivisione, tra le Conferenze episcopali membri del Secam, dei metodi di implementazione dell’Esortazione apostolica, nell’ambito del “Piano attuativo continentale” stilato dallo stesso Simposio episcopale. In quest’ottica, è stato raccomandato il contributo di professionisti cattolici di diversi settori, un maggior coordinamento tra i vari organismi della Chiesa, una revisione dei metodi di evangelizzazione, della catechesi e della formazione degli agenti pastorali, con particolare riferimento al Sinodo generale sulla nuova evangelizzazione, indetto da Benedetto XVI per il prossimo ottobre. (I.P.)
Camerun: arrestato senza motivo un parroco. La Chiesa lancia l’allarme sicurezza
◊ La Chiesa del Camerun è seriamente preoccupata per l’insicurezza crescente nel Paese e per i sempre più frequenti abusi di potere anche tra le forze di sicurezza. La denuncia arriva all’agenzia Misna dal cancelliere dell’arcidiocesi di Douala, padre Joseph Ndoum, che segue la pubblicazione di un documento sul tema firmato dal vicario generale dell’arcidiocesi, Fidèle Mabegle, che sta avendo una grande risonanza sulla stampa africana. La lettera aperta, apparsa sul giornale della Conferenza episcopale camerunense, “L’effort camerounais”, esprime la forte preoccupazione dei vescovi per il destino di una “terra di pace e rispetto per la dignità umana che si sta trasformando in terra di nessuno dove l’impunità genera insicurezza e lascia la porta aperta ad abusi di potere e ingiustizie”. Dal giugno 2010, infatti, circa 12 parrocchie sono state attaccate e derubate a Douala: perciò il clero della città chiede una maggiore responsabilità delle forze di sicurezza e punta il dito contro “il silenzio di alcune autorità pubbliche che non conoscono i fatti o rimangono indifferenti”. L’iniziativa è nata in seguito all’arresto arbitrario, a fine gennaio, di padre François Marie Gnammi Kasco, parroco in una chiesa vicino all’aeroporto di Douala, prelevato da due gendarmi con l’accusa di “manipolazione spirituale” ai danni di una studentessa, e condotto a Yaoundé senza alcun mandato ufficiale e dove avrebbe subito maltrattamenti. Dopo l’interessamento dell’arcivescovo di Douala, mons. Samuel Kleda, il sacerdote è stato rilasciato, ma il suo caso è solo “la punta dell’iceberg – sostiene padre Ndoum – come lui tanti civili anonimi vengono trattati allo stesso modo”. A due mesi da questa vicenda, infine, ancora nessuna sanzione è stata stabilita dal governo per i colpevoli dell’abuso. (R.B.)
Sud Corea: arrestati un sacerdote e un pastore contrari alla base di Jeju
◊ La Chiesa della Corea del Sud chiede a gran voce il rilascio del sacerdote cattolico Kim Jeong-uk e del pastore protestante Yi Jeong-hun, colpevoli, per le autorità, di opporsi alla costruzione di una nuova base navale a Jeju, isola a sud del Paese, retta da un governo provinciale autonomo. I due prelati si sono fatti portavoce della popolazione locale contraria alla base, il cui progetto fu presentato nel 2008 e costerebbe 970 milioni di euro, per salvaguardare l’ecologia e il turismo, ma per questo sono stati prelevati mentre cercavano di evitare l’esplosione di alcune mine nell’area di Gureumbi, sull’isola. L’agenzia AsiaNews riferisce di una grande celebrazione organizzata dalla Conferenza coreana dei Superiori degli Istituti di vita religiosa e dalle Società per la vita apostolica, che si è svolta presso il Centro di apostolato dei gesuiti a Seoul alla presenza di 60 sacerdoti concelebranti e di oltre 500 fedeli che difendono i due religiosi, i quali avrebbero agito secondo la propria coscienza religiosa e convinzione evangelica e ne chiedono il rilascio, sostenendo che l’arresto è contrario alla libertà religiosa sancita nella Costituzione sudcoreana. (R.B.)
Consiglio delle Chiese: missione ed evangelizzazione al centro della Conferenza di Manila
◊ È dedicata alla missione e all’evangelizzazione cristiana la conferenza organizzata in questi giorni a Manila dal Consiglio ecumenico delle Chiese. In corso fino al 27 marzo, l’incontro raduna circa 400 esponenti cristiani provenienti da tutto il mondo; a conclusione dei lavori, verrà diffuso un documento ufficiale sul tema della missione e dell’evangelizzazione oggi, in particolare di fronte alle sfide degli ultimi trent’anni. “Siamo qui per proclamare la nostra comune fede in Gesù Cristo – ha detto in apertura della Conferenza l’arcivescovo di Manila, Luis Antonio Tagle – così che possiamo lavorare insieme alla nostra missione in un mondo in cui dominano la competizione, la frammentazione e la divisione”. Una realtà, ha continuato il presule, che si riscontra un po’ ovunque, “nel divario tra ricchi e poveri, tra colti ed analfabeti e tra schieramenti politici”. L’auspicio degli organizzatori è che comunque il convegno “segni una nuova fase per favorire l’ecumenismo”, anche in vista della Plenaria del Consiglio ecumenico delle Chiese, che avrà luogo nel 2013 a Busan, in Corea del Sud. (I.P.)
Austria: a Vienna Via Crucis ecumenica dei giovani
◊ Si è svolta ieri, a Vienna, la tradizionale Via Crucis ecumenica dei giovani. La celebrazione si è tenuta nel centro storico della capitale austriaca e intende costituire “un segno chiaro di ecumenismo dei giovani di Vienna”, ha affermato Sylvia Lang, presidente del Consiglio giovanile ecumenico, in un’intervista all’agenzia di stampa cattolica Kathpress. La Via Crucis - riferisce l'agenzia Sir - è stata organizzata da giovani delle Chiese veterocattolica, battista, evangelica, metodista evangelica, neo-apostolica e cattolica romana. “Non è facile conquistare i giovani all’ecumenismo” ha riconosciuto Lang, sottolineando la necessità che, in una prima fase, i giovani siano già inseriti nella propria Chiesa di origine. “Da questa posizione consolidata è poi possibile spaziare al di là della propria Chiesa” e “chi è stato colpito una volta dal ‘bacillo dell’ecumenismo’, continua”. Il Consiglio giovanile ecumenico esiste in Austria dal 1958. Ne fanno parte le organizzazioni giovanili cristiane, anche quella siro-ortodossa. L’organizzazione giovanile neo-apostolica è presente in qualità di osservatore. (R.P.)
Belgio: appello di vescovi e laici per un mondo più equo e vivibile
◊ Un appello per un mondo più equo e vivibile, in cui venga privilegiata “la pratica della solidarietà, della giustizia e del servizio nei confronti dei più deboli”: a lanciarlo sono la Conferenza episcopale del Belgio (Ceb) ed il Consiglio interdiocesano dei Laici (Cil). In un documento pubblicato in questi giorni, la Ceb e il Cil esprimono la loro indignazione per un mondo in cui dominano “meccanismi di esclusione e sfruttamento delle persone in nome del profitto”, in cui “gli uomini e le donne sono ridotti a produttori o consumatori”, e dove “un’economia di mercato esacerbata pone il veto a pratiche e regole che assicurino l’accesso ai beni fondamentali per la maggioranza della popolazione”. Inoltre, i vescovi ed i laici del Belgio criticano “l’esaltazione pericolosa ed ingiusta del benessere materiale”, insieme alla “messa in discussione della protezione e della sicurezza sociale”. Di qui, l’appello a tutti i cristiani e a tutti i cittadini perché “propongano “un’etica del bene comune, consapevole dell’essere umano” e si impegnino a favore “di una vita degna della persona e del rispetto del Creato”. In sostanza, la Ceb ed il Cil invitano a pensare ad “un modo diverso di vivere, in cui si possa consumare meno per condividere di più”, anche perché “sono i poveri di tutto il mondo a porci questa sfida”. In vista di un mondo “più giusto e più umano”, quindi, gli esperti e i responsabili dell’economia, della politica, della cultura e della società sono chiamati ad “elaborare delle alternative”. Infine, i vescovi ed i laici belgi ricordano che “le comunità cristiane hanno la missione di testimoniare un Dio di amore e di giustizia” ed è quindi per questo che si auspica un mondo più solidale, giusto e a servizio dei più deboli. (I.P.)
Roma: lunedì riunione del Consiglio permanente della Cei
◊ Da lunedì 26 a giovedì 29 marzo i rappresentanti del Consiglio episcopale permanente della Cei, Conferenza episcopale italiana, si riuniranno a Roma per preparare l’Assemblea generale che si terrà nel mese di maggio e per scegliere il tema del Convegno ecclesiale di metà decennio che avrà luogo a Firenze nel 2015. Tra gli altri temi in agenda, precisa la Zenit, l’approvazione del programma dell’assemblea, la costituzione di un Ufficio nazionale per l’apostolato del Mare e la proposta di un documento pastorale sugli oratori. “La situazione del mondo del lavoro costituisce un assillo costante dei vescovi – anticipa, inoltre, mons. Domenico Pompili, portavoce della Cei – la dignità della persona passa per il lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale”. Perciò i vescovi seguono con attenzione le trattative in corso e auspicano che si raggiunga una soluzione il più largamente condivisa possibile. Infine, il Consiglio permanente esaminerà anche una proposta di ripartizione dei fondi dell’8 per mille, organizzerà la logistica della 47.ma Settimana Sociale e affronterà i materiali complementari della terza edizione italiana del Messale Romano; i lavori, infine, saranno aperti dalla prolusione del cardinale presidente Angelo Bagnasco. (R.B.)
◊ Alle ore 2.00 di domani notte, domenica 25 marzo, entrerà in vigore l’ora estiva europea, con conseguente spostamento in avanti di un’ora delle lancette degli orologi. L’ora legale resterà in vigore fino alla notte tra il 27 e il 28 ottobre. Non vi saranno cambiamenti di rilievo per il nostro Radiogiornale, che andrà in onda alle stesse ore.
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 84