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Sommario del 13/03/2012
Benedetto XVI sul tema dell'acqua: è un diritto fondamentale per la dignità delle persone
◊ Prosegue in questi giorni a Marsiglia il Forum Mondiale dell’Acqua, cui partecipa anche una delegazione della Santa Sede. In particolare, il Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace” ha pubblicato per l’occasione il documento “Acqua, un elemento essenziale per la vita” nel quale viene ribadita la necessità di una migliore gestione delle risorse idriche, ipotizzando anche un’“eventuale tassazione sulle transazioni finanziarie” da reinvestire in favore dei Paesi in via di sviluppo. Sul tema dell’accesso all’acqua e dell’uso corretto delle risorse naturali, Benedetto XVI è intervenuto in più occasioni. Ricordiamo alcuni suoi pronunciamenti nel servizio di Alessandro Gisotti:
È necessaria una “coscienza solidale” che consideri “l'accesso all'acqua” come diritto universale di tutti gli esseri umani, “senza distinzioni né discriminazioni”. Benedetto XVI sottolinea con forza questo principio nell’Enciclica Caritas in Veritate, testo in cui una parte importante è dedicata proprio all’equilibrato accesso alle risorse naturali. E non dimentica, parlando nel gennaio del 2010 al Corpo diplomatico, che oggi in molte aree del mondo la “lotta per l’accesso alle risorse naturali è una delle cause di vari conflitti”. Alla base di questa situazione, denuncia il Papa, ci sono le speculazioni e un’iniqua distribuzione delle risorse della terra:
“Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di gravi precarietà”. (Discorso per il 50.mo della Mater et Magistra, 16 maggio 2011)
Non solo crisi finanziaria, avverte dunque il Pontefice, che mette in guardia anche dal rischio che i Paesi sviluppati possano “allearsi” a danno dei popoli già afflitti dalla povertà:
“Nell’attuale situazione economica, la tentazione per le economie più dinamiche è quella di rincorrere alleanza vantaggiose che, tuttavia, possono risultare gravose per altri Stati più poveri (…) Inoltre, malgrado la crisi, consta ancora che in Paesi di antica industrializzazione si incentivino stili di vita improntati ad un consumo insostenibile che risultano anche dannosi per l’ambiente e per i poveri”. (Angelus, 14 novembre 2010)
Già nel 2008, del resto, in un messaggio all’Expo di Saragozza, proprio incentrato su “Acqua e sviluppo sostenibile”, il Papa aveva evidenziato che il diritto all’acqua “ha il proprio fondamento nella dignità della persona umana”. In questa prospettiva, scriveva il Papa, l’uso dell’acqua deve “essere razionale e solidale, frutto di un’equilibrata sinergia fra il settore pubblico e quello privato”. Un dovere, ribadisce Benedetto XVI, che abbiamo sia nei confronti dei popoli in difficoltà che delle generazioni future:
“I costi economici e sociali, derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni, riconosciuti in maniera trasparente, vanno supportati da coloro che ne usufruiscono, e non da altre popolazioni o dalle generazioni future. La protezione dell’ambiente, la tutela delle risorse e del clima richiedono che i responsabili internazionali agiscano congiuntamente nel rispetto della legge e della solidarietà, soprattutto nei confronti delle regioni più deboli della terra” (Udienza generale, 26 agosto 2009)
E un segno di speranza, nella direzione auspicata dal Papa, è la notizia di questi giorni che sull’accesso all’acqua è stato raggiunto l’Obiettivo di sviluppo del Millennio. Tra il 1990 e il 2010, infatti, oltre due miliardi di persone hanno avuto accesso all’acqua potabile. “Un grande traguardo per tutte le persone del mondo”, ha detto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, “specialmente per i bambini”.
Il dolore del Papa per la morte di Franco Lamolinara: ha contribuito alla pace tra i popoli
◊ Un uomo distinto dalla “generosa disponibilità verso il prossimo” e dal contributo offerto “alla pacifica convivenza tra i popoli”. Sono questi i tratti che Benedetto XVI mette in risalto di Franco Lamolinara, l’ingegnere italiano rapito dieci mesi fa e ucciso giovedì scorso in Nigeria, durante il blitz condotto contro i sequestratori da forze britanniche e nigeriane. In un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il Papa esprime ai familiari sentimenti di “vivo cordoglio” per il “grave lutto che li ha colpiti”, assicurando preghiere ed estendendo la sua benedizione a coloro che ieri hanno preso parte alla “celebrazione esequiale ed ai concittadini di Gattinara”.
Il cardinale Bertone conclude il telegramma facendosi vicino, scrive, ai familiari e agli amici di Lamolinara, "incontrati in agosto per sostenere la loro speranza in questo momento tanto difficile”. Il primo agosto 2011, il porporato aveva incontrato la famiglia Lamolinara in occasione della Messa per il suo 20.mo di ordinazione episcopale, presieduta nel Duomo di Vercelli. (A cura di Alessandro De Carolis)
◊ Il Pontificio Consiglio della Cultura ha annunciato la costituzione di un "Comitato scientifico-organizzativo" per la realizzazione di eventi ed iniziative in vista delle celebrazioni del VII Centenario della morte di Dante Alighieri, che ricorrerà nel 2021. Il Comitato esprime la volontà della Santa Sede di celebrare degnamente, come già in passato, il Sommo Poeta, ed è presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nonché neopresidente della "Casa di Dante" in Roma. Previste iniziative di ricerca, anche in campo teologico, e l’individuazione di nuovi metodi di insegnamento per far appassionare i giovani alla figura di Dante. Sulle motivazioni di fondo della costituzione del Comitato, Fabio Colagrande ha intervistato il cardinale Ravasi:
R. - C’è un dato di fatto iniziale abbastanza curioso. Io sono contemporaneamente presidente di un’istituzione dedicata a Dante, propria della comunità civile italiana, cioè la "Casa di Dante", e dall’altra parte sono presidente, per ragioni anche d’ufficio, di questa Commissione dantesca istituita dalla Santa Sede, dal Pontificio Consiglio della Cultura, per queste celebrazioni. E questo è significativo perché Dante è “nostro” nel senso che è proprio del mondo ecclesiale: pensiamo alla sua grande figura teologica, ma anche alla sua passione ecclesiale, anche critica, pensiamo alla sua testimonianza di credente adamantino. Ma, dall’altra parte, è anche certamente il grande padre della cultura non solo italiana. È una delle grandi figure universali della cultura e della poesia in particolare. Credo che per questo motivo sia significativo che questo avvio sia condotto in parallelo e io cercherò sempre di dialogare con tutte le istituzioni dello Stato italiano o di altre nazionalità proprio perché Dante costituisce forse il nodo d’oro che tiene insieme le diversità culturali, che tiene insieme le diverse ricerche. Abbiamo davanti ormai 8-9 anni di tempo per poter camminare fare un vero e proprio itinerario e arrivare a quella data del 2021, nella quale forse potremmo ripetere quello che è stato fatto nel 1921, quando in quell’occasione Benedetto XV scrisse e mise, notiamo bene, un’Enciclica su Dante Alighieri. Noi speriamo che la Chiesa in quel momento, dopo aver fatto tante celebrazioni, possa anche presentare Dante al mondo intero come un soggetto, un tema che è non soltanto culturale ma anche strettamente teologico.
D. - A prima vista, si stratta di un personaggio fin troppo conosciuto, fa parte della nostra formazione scolastica. C’è la necessità di dare un nuovo volto a questo autore...
R. - Io penso che il nuovo volto potrebbe essere lungo due lineamenti. Il primo è quello di cercare in tutti i modi di curare l’elemento didattico, quasi didascalico. Purtroppo Dante, spesse volte, nella scuola viene presentato non in maniera affascinante, come merita, come è lui oggettivamente. Per questo, sarà opportuno impegnarci molto per la formazione dei docenti, ma soprattutto stimolare l’attenzione dei ragazzi nelle scuole e anche del grosso pubblico. L’emblema Benigni ne è la testimonianza. E' possibile che milioni e milioni di persone si fermino a una lettura di Dante, tutto sommato, neppure tanto esplicativa, direi quasi narrativa: proporre la parola in sé di Dante. Il secondo lineamento è quello di riportare ancora l’arte a confrontarsi con la Divina Commedia, l’arte in tutte le sue forme. Posso annunciare, per esempio, che si sta pensando, attraverso un mio amico molto celebre, Riccardo Muti, di coinvolgere anche Arvo Pärt facendogli preparare un testo musicale su una pagina dantesca. Ma penso anche alla pittura, alla scultura, alla fotografia stessa che sappia evocare le grandi emozioni di quel poema. (bf)
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ In prima pagina, un articolo di Cristian Martini Grimaldi dal titolo “La speranza in un abbraccio: nessuno è prigioniero del proprio ristretto orizzonte di vita”.
Quel cielo limpido sopra Berlino: Gianluca Biccini intervista il cardinale Rainer Maria Woelki.
Operazione Drago: nell'informazione internazionale, il Giappone ottiene da Pechino il via libera per l'acquisto di titoli di Stato cinesi.
Un vero piano di sviluppo per superare le divisioni: Giuseppe Caramazza sulla situazione in Nigeria.
La grande rete di monsignor Palatucci: Giovanni Preziosi sui nuovi documenti riguardanti gli aiuti prestati dal vescovo agli internati ebrei e politici del campo di concentramento di Campagna.
Quegli stili che cambiano la vita: stralci da un articolo del vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, sulla famiglia, il lavoro e il tempo della festa.
Come si salva l'Italia: Francesco Maria Greco, Ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, sul rapporto tra vangelo e dimensione etica della politica.
Sviluppo sociale e unità nel Brasile di Chiara Lubich: Carla Cotignoli ricorda la fondatrice del Movimento dei focolari a quattro anni dalla morte.
Preti sul lettino (chiedendo le risposte a Dio): Giulia Galeotti su un seminario promosso dall’Istituto di psicologia della Pontificia università salesiana.
Il nunzio a Damasco, mons. Zenari: mondo diviso sulla Siria, a Homs orribile massacro
◊ La Siria continua ad essere terreno di scontro. Secondo gli ultimi dati Onu, sarebbero ottomila le persone che hanno perso la vita dall’inizio delle proteste. Secondo gli oppositori del regime, invece, il numero delle vittime è superiore a novemila. All'inviato di Onu e Lega Araba, Kofi Annan, che li ha incontrati a Istanbul, i rappresentanti dell'opposizione siriana hanno assicurato cooperazione politica. Sulla situazione nel Paese, Salvatore Sabatino ha intervistato mons. Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco:
R. – Qualche giorno fa, mi ha colpito una preghiera di un giovane che diceva: “Allah, solo tu puoi aiutarci”. Mi ha colpito vedendo in questi giorni l’esodo delle migliaia di persone, vedendo le immagini di quel terribile massacro di un paio di giorni fa a Homs – massacro di cui ciascuna parte in conflitto getta la responsabilità sull’altra parte. Mi ha colpito constatando quello che ci dicono i media e le testimonianze per quanto riguarda la difficoltà di soccorrere i feriti, di curarli. Constatando – anche sentendo le testimonianze – il rischio che la gente corre addirittura per raccogliere e seppellire i morti che in alcuni casi vengono ammassati – queste decine e decine di morti – nelle moschee, perché è difficile seppellirli, si rischia la vita. In alcuni casi, come qualche testimonianza credibile mi ha detto, ad Homs addirittura per pulire la strada dai cadaveri che rimangono lì per diversi giorni, qualcuno li mette intanto, provvisoriamente, nei cassonetti… Di fronte a queste immagini, a me viene spontaneo – in questo tempo di Quaresima e avvicinandosi la Settimana Santa – il richiamo a l’espressione del Signore in Croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Non vorrei fare alcun commento per non far svanire la profondità di questo mistero. Come è stato ben detto di quella celebre espressione, “Gesù è in agonia fino alla fine del mondo”. Ecco, il Signore suda ancora sangue e sta a noi rimanere svegli: a noi tutti, uomini, credenti di qualsiasi fede, rimanere svegli di fronte a questo mistero della passione di Cristo che ancora ha luogo sulle strade del mondo e, direi, in maniera particolare qui, in questi giorni, in Siria. Come conclusione, vorrei fare un unico commento a tutto questo: vorrei citare quanto alcune ore fa Kofi Annan, l’inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba, ha detto: “L’uccisione del civili deve cessare immediatamente. Il mondo deve inviare un messaggio chiaro che questa situazione è semplicemente inaccettabile”. E vorrei ancora augurare che le Nazioni Unite, che stanno cercando di trovare un accordo su come risolvere questa crisi, possano finalmente trovarsi unite. A volte si ha l’impressione – beninteso, la situazione è molto complicata, non è semplice – ma alle volte vien da pensare che questo termine “Nazioni Unite” non sia adeguato, ma piuttosto talvolta – talvolta – verrebbe da dire “Nazioni Disunite”. Speriamo che la comunità internazionale riesca finalmente a parlare ad una sola voce e ad agire concordemente.
D. – Mons. Zenari, lei faceva riferimento al ritrovamento dei 47 corpi di donne e bambini a Homs: una strage che ha sconvolto il mondo. Vedere quelle immagini è stato veramente duro per tutti noi. Come è stata percepita in Siria, questa strage?
R. – Devo dire che le due parti in conflitto si gettano responsabilità le une sulle altre. Io mi auguro che le istituzioni internazionali preposte possano trovare un giorno anche i responsabili di questi terribili massacri, e auguriamoci che sia l’ultimo massacro di questo genere. Un massacro orribile… Preghiamo perché non si debbano più vedere queste immagini. Purtroppo non sono le uniche: qua e là ce ne sono di questi atti di atrocità, atti di violenza. Direi che è questo clima infernale, questa spirale di violenza che porta a galla questi fatti.
D. – Mons. Zenari, vuole lanciare un appello? Cosa si può fare concretamente per far tacere le armi?
R. – Io credo che tutta la gente in Siria voglia arrivare alla pace. Io farei un richiamo affinché si raddoppino gli sforzi concreti a tutti i livelli, che ciascuno si senta impegnato a rompere questa spirale di violenza. Un appello anche alla comunità internazionale, perché nei debiti modi possa aiutare la Siria ad uscire da questa spirale di violenza e ritrovare il cammino della riconciliazione e della pace. (gf)
Afghanistan: attaccata delegazione governativa che indaga sulla strage di Kandahar
◊ Tensione altissima in Afghanistan dopo la strage a Kandahar. Un soldato afghano è stato ucciso e un poliziotto è rimasto ferito in un attacco contro la delegazione governativa durante la visita al luogo dove, domenica scorsa, 16 civili sono stati trucidati da un soldato americano. I talebani hanno minacciato rappresaglia, mentre un centinaio di leader tribali e cittadini del distretto di Panjwaj, luogo in cui è avvenuto il massacro, parlano di una vendetta dei militari americani e non di un raptus di un soldato. Intanto, sul fronte internazionale la Cina si dice “scioccata” per l’accaduto, più della metà dei britannici pensa che le proprie truppe vadano immediatamente ritirate dal Paese, e il presidente Usa Obama ha assicurato che non ci sarà nessuna corsa al ritiro dei contingenti, anche se si dice determinato ad assicurare il ritorno a casa dei soldati in un quadro “graduale e responsabile”. Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Alessandro Politi, analista di strategia militare:
R. – Purtroppo la ricaduta peggiore è che dal punto di vista politico e del consenso della popolazione locale, si è persa la guerra. Si sperava di comporre un ritiro basato su uno stallo tra le forze governative di Kabul e quelle dei talebani – uno stallo anche dagli esiti incerti, che potevano essere tanto positivi quanto negativi – ma adesso dobbiamo prepararci a gestire una sconfitta. Perché ormai la popolazione locale, per dirla in modo molto diplomatico, è estremamente diffidente nei confronti dei contingenti della Nato.
D. – Continuano le manifestazioni nel Paese contro gli stranieri; attaccata anche la delegazione del governo afghano, incaricata di far luce sul massacro di domenica …
R. – E’ una situazione che sulla superficie si può continuare a gestire, finché restano i contingenti, ma che ormai è estremamente difficile da recuperare.
D. – Oltre il 50 per cento dei britannici pensa che sia necessario ritirare le proprie truppe dal Paese. Il presidente Usa Obama ribadisce che non ci sarà nessuna corsa per ritirare i soldati, ma si dice determinato ad assicurare un ritorno a casa dei militari …
R. – Gli inglesi avevano già ragione nel 2004, quando scongiurarono gli americani di fare presto delle elezioni in Iraq; non furono ascoltati e gli americani "persero" la guerra. E’ giusto pensare ad un ritiro accelerato, più di quanto non avessimo previsto, desiderato e voluto.
D. – Secondo lei, la posizione degli Stati Uniti nei confronti del teatro afghano, in un certo modo risente anche del consenso di Obama all’interno degli Stati Uniti in vista delle presidenziali?
R. – Credo che Obama non sia un politico che si faccia influenzare dai sondaggi delle primarie repubblicane, o anche dai sondaggi di opinione in genere. Però è chiaro che c’è un problema su quanto sia importante il risultato in Afghanistan e su come questo si combini con gli esiti economici in quel Paese. Agli americani interessa soprattutto recuperare lavoro, economia e prosperità. E’ chiaro che passare non alla storia, ma alle elezioni come il curatore fallimentare di due guerre iniziate da George W. Bush, non è esattamente un biglietto da visita brillante per Obama. Credo quindi che ci siano delle considerazioni di questo tipo, ma non credo che a condizionare sia un generale sentimento nell’opinione pubblica quanto, più concretamente, l'agire del Congresso.
D. – Oltre cento leader tribali, ma anche la popolazione, non crede che la strage sia opera di un singolo soldato …
R. – Dobbiamo distinguere due livelli. Cominciamo da quello della percezione dei notabili afghani: come in tanti Paesi esiste la dietrologia. Se questa dietrologia non viene sconfitta rapidamente con un'efficace azione – non solo di comunicazione ma proprio con fatti di trasparenza – poco importa quale sarà la verità giudiziaria ufficiale di questa strage. Il secondo piano è che non sappiamo nulla di quello che è successo in quella zona prima dell’atto di apparente follia di questo soldato. Il fatto che questo soldato sia potuto impazzire non è affatto straordinario (è un fatto ricorrente, non solo nell’esercito americano. Ci sono ferite psicologiche profonde che si producono durante le guerre), quello che è abbastanza straordinario è che un soldato, da solo, in una zona comunque potenzialmente ostile, se ne esca per fare una passeggiata senza che nessuno gli dica niente e senza che nessuno esca per proteggerlo. Qui credo che avremo bisogno di ulteriori chiarimenti. (cp)
Il ricordo del rapimento e della morte dell'arcivescovo Rahho nelle parole di mons. Warduni
◊ L’Iraq ricorda oggi il quarto anniversario della morte di mons. Paulos Faraj Rahho, arcivescovo caldeo di Mossul. Il presule - già molto malato, con problemi cardiaci - era stato rapito il 29 febbraio 2008 al termine della Via Crucis celebrata nella locale chiesa del Santo Spirito. Il suo corpo senza vita venne ritrovato il 13 marzo. Durante il sequestro vennero uccisi anche l’autista e due guardie del corpo. “Un atto di disumana violenza”: così Benedetto XVI definì la morte dell'arcivescovo caldeo, esprimendo il proprio profondo dolore e la particolare vicinanza alla Chiesa caldea e all’intera comunità cristiana irachena. Ma come quella stessa comunità ricorda oggi mons. Rahho? Risponde mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del patriarca di Babilonia dei Caldei. L’intervista è di Giada Aquilino:
R. - Lo ricorda con grande ansia, con grande dolore. E con lui ricorda tutti gli innocenti che sono stati uccisi, rapiti o risultano ancora dispersi a causa degli attentati. Quando mi riferisco a mons. Rahho, preferisco parlare di “morte”, perché all'ospedale non è mai stata dichiarata una “uccisione”. Questo lo so, perché ero io che trattavo con i malviventi. Lui era malato, gli mancavano le sue medicine durante il rapimento. Io ho detto ai rapitori: "Per favore lasciatelo, se volete vengo io al suo posto, ha bisogno di un dottore”. E invece loro un giorno mi hanno telefonato, dicendomi che era morto. Egli non voleva che si intavolassero trattative economiche per la sua liberazione. Diceva sempre: “I nostri nemici sono amici, perché il Signore ci ha comandato di amare anche i nemici”. Per questo, noi lo ricordiamo con grande amore. Gli chiediamo di pregare per noi tutti, affinché possiamo vivere la nostra fede, radicarci alla nostra terra, alla nostra Chiesa, al nostro Cristo che è morto per noi. Tutti coloro che sono morti insieme a mons. Rahho o in altre circostanze sono stati veramente testimoni della fede cristiana, per amore di Cristo.
D. - Cosa ha significato, per i cristiani d'Iraq, il sacrificio di mons. Rahho?
R. - Un’oblazione per il popolo di Dio, per Cristo stesso. Lui diceva: “Siamo sempre pronti a morire per Cristo, siamo pronti a tutto", perché la situazione era ed è ancora difficile. Mi riferisco a quel periodo in cui ci sono stati tanti rapimenti, tante uccisioni. Questo è quello che noi vogliamo ricordare: il suo coraggio.
D. - Qual è oggi la realtà dei cristiani di Iraq?
R. - È una realtà molto precaria, molto difficile, perché non c’è legge, non c’è un governo stabile, capace di guidare il popolo e la nazione. I politici sono in disaccordo tra loro. Ci sono tanti interessi che vanno a danneggiare la popolazione e non solo i cristiani. Siccome siamo una minoranza - siamo veramente un numero esiguo di credenti - se manca qualcuno si nota subito. L’Iraq ha dunque bisogno di pace per il bene di tutta la nazione e non solo per un gruppo, per un’etnia, per una religione o una confessione.
D. - Allora, qual è il suo auspicio per il futuro dell’Iraq?
R. - Il mio auspicio è che avvenga una riconciliazione interna, appunto tra i politici, tra le religioni, tra le confessioni, fondata sull’amore. Dopo dieci anni, abbiamo ancora solamente otto-dieci ore di elettricità al giorno: è pensabile ciò? Ci vuole tanto sacrificio da parte di tutti. Che il Signore illumini le menti di tutti, perché veramente si possa vivere la sua volontà. (bi)
Uganda. La Chiesa in aiuto dei bambini soldato. Mons. Franzelli: con loro dal trauma alla rinascita
◊ Ha avuto decine di milioni di visualizzazioni in pochi giorni, il video “Kony 2012”, realizzato dall’organizzazione non governativa americana “Invisible Children”. L’iniziativa, che ha coinvolto anche numerose celebrità, si inserisce in una campagna per chiedere l’arresto del sanguinario signore della guerra ugandese Joseph Kony, dal 1986 responsabile tra l’altro del reclutamento di migliaia di bambini soldato. Un crimine contro cui la Chiesa locale è da sempre mobilitata, come testimonia, nell’intervista di Davide Maggiore, il vescovo della diocesi ugandese di Lira, mons. Giuseppe Franzelli:
R. - Noi non stiamo interessando a questi bambini solo ora, perché l’Occidente ancora una volta si è accorto di questi ragazzi. Noi ce ne occupiamo da anni, e facciamo questo, attraverso l’istituzione dei centri d’accoglienza, ma anche per esempio attraverso la radio diocesana “Radio Wa”, la nostra radio, cercando di lanciare messaggi con un particolare programma “Benvenuto torna a casa” che è diretto specificatamente a loro, in cui coloro che mandavano messaggi erano, appunto, alcuni di questi ragazzi che erano riusciti a fuggire, e che accolti in questi centri di recupero, veniva data loro la possibilità di ricominciare la loro formazione scolastica di cui erano stati derubati. Il risultato è che un po’ alla volta, la maggior parte è tornata. Sono accompagnati durante la fase di reinserimento, perché si tratta di gente rimasta traumatizzata dalla violenza subita e da quello che loro stessi sono stati costretti a compiere verso altri.
D. - Cosa significa per la Chiesa essere vicini alla popolazione, in questo contesto?
R. - Quando si parla di ricostruzione la gente pensa prima di tutto alle infrastrutture, alle strade che non ci sono e che vanno costruite, alle cappelle che son state bruciate, alle scuole e alle case distrutte… Abbiamo avuto, inoltre, anche il problema dei campi per sfollati, in cui la gente ha vissuto per anni. Ora che questi attacchi ininterrotti sono terminati - il gruppo dei ribelli rimasti si è spostato verso la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan e il Congo - la ricostruzione più profonda, più necessaria è proprio quella della libertà morale e spirituale della gente. Ridare loro una speranza e un senso della propria dignità, del proprio valore. Ed è in questo senso, che adesso più di prima, l’evangelizzazione è necessaria. Una buona notizia è che Dio è Padre di tutti, noi siamo fratelli e sorelle e che dobbiamo imparare a vivere insieme come famiglia. Il primo Sinodo sull’Africa ha parlato della “Chiesa come famiglia di Dio”: è questa la sfida che come Chiesa stiamo affrontando, sebbene in una situazione difficile per la mancanza di personale innanzitutto e per mancanza di mezzi.
D. - L’attenzione del mondo è stata riportata sull’Uganda anche grazie al video dell’organizzazione non governativa americana “Invisible Children”. Come è stata accolta questa iniziativa nel Paese?
R. - È un fatto mediatico di notevole rilievo. È senz’altro positivo: attira l’attenzione su una tragedia che un po’ alla volta - visto che ora la presenza dei ribelli è molto diminuita, almeno qui in Uganda - rischia di essere dimenticata. Da noi è stato accolto con reazioni diverse: direi quasi che a prevalere sia il sentimento di “fastidio” da parte di coloro che non amano che il Paese venga presentato in questo modo, ma anche da parte delle vittime stesse, almeno per quanto riguarda la popolazione nel Nord dell’Uganda. Le cose che sono dette sono vere, ma non costituiscono tutta la verità. Ci sono molti aspetti del fenomeno che andrebbero affrontati, perché le responsabilità e le atrocità, non furono solo a carico dei ribelli, ma ci sono altre complicità, come accade sempre nelle situazioni di guerra. Inoltre, c’è il fatto - che lascia un po’ perplessi - di tutti questi soldi spesi per la pubblicità e il sostegno di questa ong. Solo una percentuale piuttosto bassa, alla fine, va ad aiutare direttamente le vittime della tragedia che si sono viste portare alla ribalta dell’attenzione mondiale. (bi)
Iran. Onu: crescono le esecuzioni capitali. L'esperto: sintomo di crisi del regime
◊ Impennata di esecuzioni capitali in Iran, 670 nel 2011 come documenta il Rapporto presentato ieri al Consiglio dell’Onu per i diritti umani, organismo politico intergovernativo, composto da 47 Stati eletti con un mandato triennale dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il servizio di Roberta Gisotti:
421 condanne ufficiali, 249 segrete in gran parte connesse all’uso di stupefacenti, una ventina per offese contro l’Islam. Proprio oggi la notizia di altre due impiccagioni pubbliche, 15 dall’inizio dell’anno. Il Rapporto Onu denuncia molte altri delitti: persecuzione di minoranze, abusi sugli omosessuali, repressione dei sindacati. Forse siamo troppo abituati ad accettare le violazioni dei diritti umani, in particolare in Medio Oriente? Il prof. Vincenzo Pace, ordinario di Sociologia delle religioni all’Università di Padova esperto di diritti umani:
R. – Nel caso dell’Iran, c’è un’aggravante, perché in qualche modo passa nei media come un regime non democratico, tuuttavia non passano molto notizie relative a gravissime violazioni come quella della libertà religiosa. Lo dimostrano gli ultimi casi di persecuzione aperta verso pastori evangelici iraniani che si sono convertiti, o la storica persecuzione nei confronti del movimento Baha’i, che viene considerato una eresia intollerabile. Quindi, siamo di fronte a un regime che ha grandi problemi interni: rispetto ad altri Paesi che hanno conosciuto movimenti di sollevazione - la cosiddetta 'Primavera araba' - in Iran questi movimenti ci sono stati a più riprese e nel 2009 sembrava che l’"onda verde" dovesse effettivamente destabilizzare il regime. Invece, questo movimento è stato represso e oggi ci sono parecchie migliaia di detenuti, in prigione, che fanno parte della dissidenza politica.
D. – Come lei ha notato, ancora una volta la religione è un alibi per la repressione delle libertà fondamentali…
R. – Sì, senz’altro, come rivela in particolare questa vicenda di alcuni pastori evangelici: uno è in attesa dell’esecuzione che sarebbe dovuta avvenire in febbraio, ma poi è stata posticipata perché c’è stato un minimo di circolazione della notizia nei siti evangelici, per cui c’è stata una prima pressione sui governi, che a loro volta hanno fatto un tentativo di bloccare l’esecuzione. Ma ci sono altre storie di questo genere. Quindi, c’è anche un uso meditato del ricorso alla pena di morte, perché evidentemente c’è una "smagliatura" nel sistema religioso musulmano imposto dal regime: ci sono cioè persone che si convertono, che non si riconoscono più nella tradizione sciita… E si utilizzano le pene di morte per ripristinare un reato che è odioso in tutta la legislazione coranica, che è il reato di apostasia: queste persone vengono trascinate davanti ai tribunali, accusate di apostasia e quindi automaticamente o si pentono pubblicamente o, se non si pentono – come ormai avviene in molti casi – vengono condannate a morte. Quindi, la condanna a morte per impiccagione pubblica è una sorta di ammonimento feroce a chi, in qualche misura, anche attraverso la religione cerca di smarcarsi dal regime.
D. – L’Onu ha chiesto, infatti, una moratoria sulla pena di morte e di consentire rappresentanti legali per le persone che vengono accusate a tutti i livelli. Ma, dobbiamo dire, saranno richieste destinate a cadere nel vuoto. Che cosa possiamo, invece, sperare per sovvertire questa situazione?
R. – E’ una situazione molto difficile, perché da un lato ci sono le sanzioni economiche, con gli organismi internazionali che stanno già cercando di premere anche per evitare che si arrivi a una drammatica deriva militare. Non dobbiamo nasconderci che ci sono ambienti della destra israeliana che pensano sia ormai maturo e necessario un intervento militare, e dunque si profilerebbe un’altra catastrofica guerra in quell’angolo di mondo già martoriato. Quello che possiamo fare è far circolare queste notizie, far montare nell’opinione pubblica un po’ di indignazione e su queste cose forse le persone forse più avvertite del regime iraniano potrebbero essere sensibili. Certo, l’aumento abbastanza vertiginoso delle esecuzioni capitali è ovviamente legato a un altro fenomeno, che è un altro indicatore di grandissimo disagio sociale dell’Iran, e cioè che l’Iran, dopo l’avvento al potere di Khomeini, nel 1979, decise di distruggere tutti i campi di papavero, cioè di condurre una lotta senza quartiere alla droga. Ma, in realtà, sappiamo che dal 1999 ad oggi l’Iran è diventato uno dei maggiori mercati, crocevia di traffico di eroina e tutte queste esecuzioni che vengono eseguite in modo drammatico, in pubblico, per terrorizzare gli spacciatori, i grandi narcotrafficanti, in realtà non servono a niente. La moratoria in questo caso avrebbe anche il significato di dire: cosa sta succedendo nella nostra società? Perché c’è tutta questa eroina? Non è magari un sintomo gravissimo, questo, di un disagio sociale che monta, di gente che non crede più negli ideali della rivoluzione, di gente che sta male perché la vita media delle persone, dal punto di vista economico, ha subito un declassamento?. Insomma ci sono dei sintomi. Attraverso queste notizie che filtrano - che poi le reti di amici, colleghi che sono in collegamento con l’Iran ci confermano - si evince che la situazione economica sta degradando e che quindi il regime risponde con forza, con ferocia, dimostrando, in qualche modo, di non riuscire a gestire una situazione politica ed economica, interna ed esterna, sempre più complicata.
D. – Quindi, se l’Iran lo permettesse, le Nazioni Unite potrebbero sostenerlo nella lotta contro le coltivazioni della droga?
R. – Eh, sì…
D. – Questo gioverebbe alla popolazione, soprattutto?
R. – Sì, ma finché c’è questo regime, così tetragono, che ritiene di essere autosufficiente, di poter giocare un ruolo di leader che però non riesce più a giocare nella regione e al quale rimane solo una Siria, che è quella che è, e un pezzo di Libano dove sono gli Hezbollah e dove anche lì è in gravissima difficoltà... Insomma, l'Iran è consapevole di essere sull’orlo di una grave crisi e quindi anche questa retorica dell’atomica serve semplicemente a dimostrare, all’opinione pubblica interna e internazionale, che comunque si è in grado di essere autosufficienti. Ma la verità è un’altra.
D. – Quindi, queste tante esecuzioni sono il sintomo di una crisi crescente nel Paese?
R. – Sì, sì, senz’altro. (gf)
Allerta in Brasile per la vendita di terreni amazzonici ad una società irlandese
◊ Si torna a parlare di land grabbing: la razzia di terre coltivabili nei Paesi poveri da parte di multinazionali occidentali. Questa volta a far discutere è l’acquisto di un’azienda irlandese che ha pagato 120 milioni di dollari per i diritti di sfruttamento di 23 mila km quadrati di una riserva indigena, con l’intento di perseguire la sua politica di affari nel mercato mondiale dei crediti di carbonio. Il governo brasiliano prende le distanze mentre la comunità Indios è già in rivolta. Cecilia Seppia ha raccolto il commento di Franca Roiatti giornalista di "Panorama" e autrice del libro “Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili”:
R. – Innanzitutto, questo è un esempio di land grabbing un po’ diverso rispetto a quelli di cui abbiamo sentito parlare negli ultimi anni, ovvero è un esempio di acquisizione di foreste, in questo caso, per abbattere le emissioni di Co2, quindi rientra nel campo del mercato dei crediti di carbonio, nello schema che tra l’altro è stato lanciato dalle Nazioni Unite – lo schema Redd (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) – che significa sostanzialmente: acquisire delle foreste – in particolare nell’area tropicale – per conservarle. La multinazionale coinvolta in questo affare, è di fatto attiva nel mercato dei crediti di carbonio.
D. – Si salvaguarda la foresta, però i contadini vengono completamente estromessi dall’utilizzo delle terre e soprattutto si impedisce lo sviluppo della regione ed emergono altri rischi …
R. – Ovviamente tutti siamo felici quando si salvaguarda un pezzo di Amazzonia; ma siccome – i primi dettagli stanno emergendo – chi decide che cosa si possa fare o meno in quell’area, è soltanto la società che ha sede in Europa e non le persone che vivono nella foresta, è chiaro che questo è un limite molto grande allo sviluppo delle popolazioni locali, che proprio da quell’ecosistema traggono il loro sostentamento.
D. – Questo esproprio, questa razzia di terre spesso avviene con la complicità dei governi, soprattutto nei Paesi più poveri che cercano ovviamente in questo modo di far ripartire l’economia. Pensi che sia anche il caso del Brasile?
R. – La situazione è un po’ strana. In realtà, il Brasile è stato probabilmente il primo Stato – se non uno dei primi, soprattutto uno dei grandi Stati con una grande disponibilità di terra arabile – a porre un freno o a cercare di porlo. E’ da sei mesi, in realtà, che va avanti un grande dibattito all’interno del Paese. Da quello che sono riuscita a capire, questa multinazionale ha avuto un dibattito con le comunità indigene, che però naturalmente non si è risolto nel modo auspicato dalla società stessa.
D. – La comunità Indios, infatti, ancora una volta si sta letteralmente spaccando su questa vicenda. Un problema economico produce quindi un danno a livello della pacifica convivenza?
R. – Assolutamente sì. Se poi l’ombra che si sta allungando su questo affare è proprio quello della bio-pirateria, è ancora più drammatico. Questo fenomeno riguarda lo sfruttamento di piante tradizionali, di solito usate nella medicina tradizionale, sulle quali porre dei brevetti.
D. – Il land grabbing è un fenomeno che coinvolge molte aree del mondo; in particolare, però, affligge l’Africa, l’India, la Cina, il Brasile e sta spingendo sempre più contadini verso la povertà. Quali sono le misure più urgenti da adottare proprio per difendere questa categoria, che alla fine è quella più colpita?
R. – Lo scorso venerdì alla Fao, la Commissione per la Sicurezza Alimentare ha concluso un percorso iniziato due anni fa, che si è tenuto per scrivere le linee guida volontarie sulle risorse agricole, sulla terra e sulle risorse ittiche. Questo è quindi un primo importante passo - chiaramente è solo il primo - perché ora questa direttiva va fatta applicare all’interno degli Stati, va recepita con leggi che poi, a loro volta, devono essere rispettate. Certo, le organizzazioni non governative chiedono molto di più: hanno chiesto in vari momenti una moratoria contro il land grabbing, hanno chiesto che i governi dove hanno sede le multinazionali - responsabili di queste acquisizioni - siano messe di fronte alla responsabilità di capire di che tipo di investimenti si tratta. Nel momento in cui però i governi dei Paesi poveri, quelli in via di sviluppo, aprono le porte e stendono tappeti rossi agli investitori, è molto difficile riuscire a trovare un terreno comune per tutelare chi ha i diritti più deboli. (cp)
Banco informatico: tecnologia per il no-profit e le parrocchie
◊ Recuperare i computer dismessi dalle amministrazioni pubbliche per donarli alle Ong e alle parrocchie. Questo l’obiettivo della Onlus Banco informatico, tecnologico e biomedico che si occupa anche di raccogliere materiale tecnologico ospedaliero da destinare a progetti nel Sud del mondo e nell’est europeo. Eugenio Bonanata ne ha parlato con Bruno Calchera, direttore generale della struttura:
R. – In Occidente, c’è un ritmo incalzante per l’innovazione tecnologica e spesse volte i prodotti che vengono dismessi sono ancora buoni. Noi cerchiamo allora di dare una seconda vita a tanta tecnologia, che può funzionare in altre realtà che non hanno bisogno di una tecnologia molto forte, molto sviluppata. Questa soluzione va bene per i computer e va bene anche per i prodotti biomedici, i prodotti cioè che vengono dismessi dagli ospedali. Noi li rigeneriamo e li mandiamo alle ong dei Paesi piùpoveri o, ad esempio, nell’Europa dell’est, dove c’è una fame importante di tecnologia.
D. – Come funziona il sistema? Cosa può fare per esempio una parrocchia per poter usufruire dei vostri servizi?
R. – Per poter accedere al servizio, soprattutto informatico, basta accreditarsi. Noi abbiamo bisogno che chi desidera accedere al Banco vada sul sito e dichiari che tipo di status giuridico abbia, perché non possiamo donare le nostre attrezzature ai privati e alle aziende ma possiamo darle solo a coloro che hanno una situazione particolare: il terzo settore, il mondo del no-profit, le parrocchie… Questa è una situazione giustamente privilegiata per coloro che fanno un servizio sociale importante.
D. – E’ una donazione, quindi, a carattere gratuito?
R. – Sì è gratuito, anche se noi chiediamo un piccolo rimborso per poter vivere, altrimenti non possiamo pagarci le attrezzature e le tecnologie necessarie a riallestire i computer. Sostanzialmente, se uno fa un’offerta intorno ai 40-50 euro la cifra per noi fa la differenza e in questa cifra ci sta dentro tutto, compreso il video lcd. E’ un “contributo di bandiera”: meno di questo c’è solo la gratuità, ma dovremmo avere i soldi dallo Stato, cosa che non avviene.
D. – Avete tante richieste annualmente, mensilmente?
R. – Diciamo che dipende un po’ dalla comunicazione. Ci accorgiamo che non tutti sanno dell’esistenza del Banco. Se la comunicazione viene meno molti non sanno neanche che esistiamo.
D. – In definitiva, qual è il messaggio alle associazioni e alle parrocchie?
R. – Il messaggio è questo: prima di fare investimenti tecnologici che costano, date un’occhiata a quello che offre il Banco e sappiate che quello che offre il Banco sono cose di cui ci si può fidare. Se uno deve fare degli acquisti, acquisti solo strumenti veramente indispensabili. Molto meglio risparmiare sulla tecnologia e spendere i soldi per la “mission” ddell'ong e della parrocchia. Per esempio, venendo al Banco, costruire un’aula informatica nella parrocchia è molto semplice ed molto meglio spendere i soldi per i formatori che non per la tecnologia. (bf)
La Giornata di primavera del Fai: aperti centinaia di luoghi d'arte italiani
◊ Far scoprire agli italiani luoghi e tesori nascosti del patrimonio artistico italiano, altrimenti inaccessibili. E’ questo lo scopo della Giornata di primavera organizzata dal Fondo Ambiente italiano e che quest’anno festeggia il suo ventesimo compleanno. Presentata oggi a Roma al Ministero dei beni e le attività culturali, l’iniziativa si svolgerà sabato 24 e domenica 25 marzo in tutte le regioni d’Italia, con l’apertura di 670 beni tra chiese, palazzi, ville e musei. Il servizio di Irene Pugliese:
E’ al suo ventesimo compleanno e, proprio per questo, sarà dedicata ai giovani. Molti dei beni del patrimonio artistico italiano, solitamente inaccessibili, saranno aperti al pubblico il 24 e il 25 marzo in 256 località italiane, per festeggiare la Giornata di primavera organizzata dal Fondo ambiente italiano (Fai). Un’occasione importante, secondo il ministro per i Beni e le attività culturali, Lorenzo Ornaghi, per sensibilizzare gli italiani, soprattutto i più giovani, sul tema della protezione delle ricchezze culturali del Paese:
“Credo anch’io sia importante non solo attrarre - il che non è sempre facile - l’attenzione dei giovani, ma soprattutto farli essere protagonisti. Credo che i giovani non possano vivere nella aspettativa, sempre differita, di diventare essi stessi protagonisti dell’azione sociale”.
Dall’eccezionale visita a Villa Madama a Roma all’apertura di uno dei rami chiusi del carcere di San Vittore a Milano, fino alla Biblioteca di casa leopardi a Recanati. Sono 670 i beni che potranno essere visitati in questi due giorni. Mostrare agli italiani dei posti magnifici, ma anche renderli consapevoli che il patrimonio artistico è un bene importante. E’ questo, secondo la presidente del Fai, Ilaria Borletti Buitoni, la forza di questa iniziativa:
“Io credo ci sia veramente maggior consapevolezza, perché credo che gli italiani hanno voglia di ripartire con orgoglio da questa terribile crisi che stiamo vivendo. C’è un ambito in cui noi non abbiamo concorrenza al mondo ed è quello del nostro patrimonio culturale. Penso che ripartire da lì sia quello che molti italiani vogliono ricominciare a fare”.
A ribadire l’importanza del rapporto pubblico-statale e privato, con le grandi associazioni. È di nuovo il ministro Ornaghi:
“La collaborazione con attori sociali, con associazioni, organismi, in modo primario con il Fondo ambiente italiano, è una necessità se si guarda al futuro. Altrimenti, nessuna struttura statale potrà reggere e sostenere anche economicamente tutte le forme di welfare che saranno necessarie alle collettività nazionali del futuro. E’ importante sotto il profilo economico e finanziario, certamente, ma è importante anche sotto il profilo educativo”.
India: cristiano ucciso in Orissa, il secondo in un mese
◊ Stillicidio di cristiani uccisi in Orissa: un cristiano di nome Nayak Suryakant è stato assassinato nel villaggio di Bakingia, nei pressi della città di Raikia, che si trova nel distretto di Kandhamal, teatro dei noti massacri anticristiani del 2008. Come riferisce all'agenzia Fides la Chiesa locale, l’omicidio è avvenuto nella notte del 2 marzo, ma solo ora la notizia è stata diffusa. Si tratta del secondo omicidio in un mese, dopo che un cattolico è stato ucciso nei giorni scorsi, per accuse di stregoneria. Suryakant, operaio a giornata, era un fedele della “Chiesa dell'India del Nord”, di confessione Battista. Viveva con la madre e tre figlie di 5, 7 e 9 anni. Secondo la ricostruzione riportata dalla Chiesa locale, il 2 marzo, si trovava a Raikia, insieme con la madre e le tre figlie e, dopo aver ritirato 1.500 rupie (circa 33 dollari) da una banca, ha fatto delle compere. Sulla via del ritorno, a circa un chilometro dalla sua abitazione, Nayak si è fermato in casa di un uomo che produce e vende liquori artigianali, mentre il resto della famiglia è rientrato a casa. Da quel momento si sono perse le sue tracce. L’indomani i parenti e gli abitanti del villaggio hanno iniziato a cercarlo, denunciando la scomparsa alla polizia, mentre alcuni abitanti del villaggio riferivano di averlo visto ubriaco. Dopo altri due giorni di ricerche, il 6 marzo, il suo cadavere è stato rinvenuto in un pozzo a Pajumaha, nelle vicinanze. Il corpo riportava fratture a entrambe le mani e ai polsi. La bocca e le labbra erano gravemente ferite e non aveva più i denti, mentre numerosi lividi erano chiari segni di percosse. Secondo i parenti della vittima “certamente si tratta di un caso di omicidio”. Sulla tesi concorda padre Prabodh Pradhan, parroco di Nostra Signora del Rosario a Raikia: “Questo è il sesto omicidio di cristiani nel distretto di Kandhamal durante gli ultimi 14 mesi. E’ una questione molto preoccupante”. La comunità locale è allarmata e impaurita per una serie di omicidi che restano impuniti. (R.P.)
India: la Chiesa in Kerala è “per i diritti dei pescatori”, non “contro i marò”
◊ “La Chiesa in Kerala è accanto ai poveri pescatori. Non ha manifestato contro nessuno, né contro lo Stato, né contro i soldati italiani. Ha espresso vicinanza e solidarietà verso le famiglie di tutti i pescatori che lottano per la sopravvivenza”: è quanto puntualizza mons. Maria Callist Soosa Pakiam, arcivescovo Latino di Trivandrum, raccontando all’agenzia Fides la manifestazione che ieri lo ha visto sfilare pacificamente a Trivandrum, dopo l’ennesimo episodio in cui 5 pescatori locali sono morti (fra loro tre cristiani), in seguito a un incidente con una nave commerciale indiana. “E’ stata una manifestazione pacifica – afferma – organizzata dai sindacati e associazioni dei pescatori. Come Pastore della diocesi, ho voluto esprimere il mio appoggio a queste famiglie che chiedono sicurezza e protezione. Altre vite sono state perse e questo è molto triste. Abbiamo invocato una legislazione giusta, che tuteli questa gente”. L’arcivescovo spiega a Fides: “La maggior parte dei fedeli della diocesi è fatta da pescatori. Nelle ultime settimane la loro vita, sempre ai limiti della sopravivenza, è balzata alla ribalta internazionale. Spesso muoiono per incidenti in mare, le loro barche vengono distrutte nell’indifferenza totale e le famiglie sprofondano in miseria. La Chiesa vuole dire loro che non li abbandona. Abbiamo molti programmi pastorali e sociali per il loro sostegno e sviluppo”. Sull’incidente che vede coinvolti due marines italiani e la petroliera “Enrica Lexie”, in cui sono morti due pescatori indiani, l’arcivescovo afferma: “Speriamo in una soluzione pacifica, nel rispetto della legalità, delle leggi nazionali e del diritto internazionale”. Anche padre Charles Irudayam, segretario della Commissione “Giustizia e Pace” della Conferenza episcopale rimarca: “La vicenda è ora in mano alla magistratura e attendiamo fiduciosi che faccia il suo corso, secondo un criterio di giustizia. Intanto auspichiamo un rapido risarcimento economico per le famiglie delle vittime”. (R.P.)
Unicef e Save the children chiedono la fine delle violenze contro i bambini ad Homs
◊ “È difficile venire a patti con una tale ferocia soprattutto quando sono i bambini a pagare il prezzo più alto per eventi su cui non hanno alcun controllo”: lo ha dichiarato il Direttore regionale Unicef, Maria Calivis, denunciando ieri l‘uccisione in Siria di bambini e donne, i cui corpi sono stati trovati domenica nella città di Homs. “Chiediamo a tutte le parti coinvolte in questa crisi di non venire meno alla loro responsabilità di salvaguardare i bambini" ha aggiunto Calivis che ha espresso analoga preoccupazione per l’escalation di violenza nella Striscia di Gaza e in Israele. Lunedì un ragazzo palestinese di 15 anni è stato ucciso e altri quattro sono stati feriti in un‘esplosione a Gaza dove domenica un palestinese di 12 anni è stato ucciso a seguito di un attacco aereo. Domenica scorsa in Israele, un razzo ha colpito una scuola in quel momento vuota. Le lezioni sono state annullate nel sud del Paese, con problemi per oltre 200.000 studenti israeliani. “Deve essere fatto tutto per proteggere la sicurezza e la vita dei bambini innocenti - ha detto Jean Gough, rappresentante Unicef nei Territori Palestinesi - chiediamo a tutte le parti di proteggere i bambini e di mettere fine alla violenza". Lo scorso anno, 20 bambini palestinesi e 5 israeliani sono stati uccisi a seguito di incidenti legati al conflitto, altri 448 bambini palestinesi e 2 israeliani sono stati feriti. Dal canto suo Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia ha affermato che in Siria è arrivato il momento di fermare questo eccidio: molti bambini hanno perso la vita e tanti altri vivono quotidianamente sotto la minaccia della violenza, chiusi in casa, tremendamente impauriti da quello che stanno vivendo, e bisognosi di aiuti immediati”. Molte famiglie che hanno lasciato il Paese per rifugiarsi in Libano hanno riferito ai membri dello staff di Save the Children, che sta portando loro assistenza al confine, che ormai la popolazione è allo stremo, senza cibo, acqua e medicine. (R.P.)
Pakistan: rilasciato l’uomo accusato di omicidio di una giovane cattolica
◊ La stazione di polizia di Sadar Samundari, nei pressi di Faisalabad, ha rilasciato il 28enne Muhammad Gujjar Arif, di Samundari, presunto assassino di Amariah Mansha, 18enne cattolica barbaramente uccisa il 27 novembre 2011, in un terreno di proprietà di Gujjar. Secondo la famiglia della ragazza, soprannominata “la Maria Goretti del Pakistan”, i funzionari della polizia locale hanno cercato di comprare il silenzio e il ritiro della denuncia da parte della famiglia. “E’ un delitto che resta impunito”, nota la Chiesa locale. Secondo informazioni raccolte dall'agenzia Fides, la ragazza è stata uccisa per aver rifiutato il matrimonio e la conversione forzata all’islam. La comunità locale la definisce “una martire della fede”. Come riferito a Fides dalla Commissione “Giustizia e Pace” della diocesi di Faisalabad, la polizia ha scagionato l’uomo grazie ad alcuni testimoni musulmani dello stesso villaggio. Fra Arif Gujjar e Amariah Mansha, si afferma, vi sarebbe stata “una relazione affettiva”. Gujjar ha detto di avere avuto un fitta comunicazione con la ragazza e che Amariah stessa gli avrebbe più volte chiesto di sposarla. Negando ogni addebito sul delitto, Gujjar ha detto che, nel momento in cui Amariah è stata ritrovata, era con il padre della vittima, impegnato a cercarla. Secondo altri testimoni, al momento del ritrovamento, la ragazza giaceva a terra, con vicino una pistola, e non c’era nessuno sul luogo del delitto, tanto che sembrava un suicidio. Mansha Masih, il padre di Amariah, ha bollato come “false” tali testimonianze, ricordando che sua figlia aveva denunciato abusi e minacce già un mese prima di morire, anche da parte di amici di Arif. Mansha Masih ha detto a Fides: “Funzionari della polizia locale mi hanno offerto 500.000 rupie pakistane (oltre 5.000 dollari) per trovare un compromesso, ma ho rifiutato e ho chiesto giustizia. L’indagine che hanno compiuto è stata tutta a favore del colpevole e ora lo hanno rilasciato”, anche “grazie all’appoggio politico di alcuni potenti uomini musulmani locali, come Rao Kashif, che ha fatto di tutto per farlo liberare”. Secondo il padre della vittima, “la polizia non ha preso le impronte digitali sull’arma del delitto e dichiara di non aver ancora avuto il referto medico sul cadavere”. Per questo Mansha Masih ha presentato un ricorso all’Ufficio regionale di Polizia, denunciando la manipolazione delle indagini. (R.P.)
Pakistan. I senatori: "sì" all'accesso alle più alte cariche dello Stato delle minoranze religiose
◊ Sì alla possibilità di avere un Presidente cristiano o indù: si fa strada nel Senato pakistano, appena rieletto, la proposta di eliminare dalla Costituzione una clausola (la seconda dell’articolo 41) che vieta l’accesso ai non-musulmani alle alte cariche dello Stato, come quella di Presidente e di Primo Ministro. Come riferiscono fonti dell'agenzia Fides nel mondo politico pakistano, il senatore musulmano Haji Adeel, dell’Awami National Party (Anp), ha definito “ingiusta” l'ineleggibilità dei non musulmani per la carica di Presidente o Primo Ministro, notando che “questo divieto è discriminatorio, è contro i diritti politici fondamentali e va abolito”. Haji Adeel lo ha dichiarato subito dopo la cerimonia di giuramento di 54 nuovi membri del Senato, fra i quali vi sono quattro seggi riservati alle minoranze, occupati, per la prima volta nella storia della nazione, da un cristiano, Kamran Michael, da due senatori di fede indù e da un sikh. La proposta ha trovato il consenso di Raza Rabbani, senatore del Pakistan People’s Party (Ppp), che ha guadagnato 41 seggi in Senato. Secondo Rabbani “la clausola dovrebbe essere abolita, in quanto le minoranze hanno gli stessi diritti: sarebbe un buon segnale per l’intero Paese”. Anche un altro senatore del Ppp, Aitzaz Ahsan, ha espresso il suo sostegno, rivendicando uguaglianza per i cittadini pakistani delle minoranze religiose. Il neoeletto senatore cristiano Kamran Michael, della Pakistan Muslim League-N, approvando con decisione la campagna, ha ricordato che “i non-musulmani del Pakistan amano la loro patria quanto gli altri” e “la loro lealtà verso il Paese non deve essere messa in dubbio”. Dopo il dibattito in aula, il nuovo Presidente del Senato, Nayyar Husain Bukhari, ha suggerito la presentazione di un emendamento alla Costituzione, esortando a raggiungere il consenso di tutti i partiti politici. (R.P.)
Irlanda: la Chiesa pronta a collaborare alla nuova inchiesta sugli abusi negli istituti religiosi
◊ La Chiesa cattolica irlandese è pronta a prestare piena collaborazione alla nuova inchiesta governativa sugli abusi commessi nelle istituzioni residenziali gestite da istituti religiosi in Irlanda del Nord. Lo ha dichiarato il cardinale Sean Brady, arcivescovo di Armagh, al termine di un incontro ieri con un gruppo di vittime nord-irlandesi, il “Survivors and Victims of Institutional Abuse in Northern Ireland” (Savia). La decisione di Dublino di istituire la nuova commissione di inchiesta, segue il clamore suscitato dalla pubblicazione nel 2009 del cosiddetto “Rapporto Ryan” sulle violenze e gli abusi commessi negli istituti residenziali religiosi in Irlanda. “Desidero confermare che crediamo alle esperienze che le vittime ci hanno raccontato e riconosciamo che esse hanno lasciato un segno profondo nelle loro vite e chiediamo perdono con tutto il nostro cuore e senza riserve per gli abusi che hanno subito quando erano bambini”, ha dichiarato al termine dell’incontro con le vittime del Savia il cardinale Brady, accompagnato da suor Marianne O’Connor, direttrice generale della Conferenza dei Religiosi d’Irlanda (Cori) e da quattro religiose delle Suore del Buon Pastore, delle Suore di San Luigi, delle Suore della Misericordia e delle Suore di Nazareth. Il porporato ha confermato quindi “l’impegno a una piena collaborazione nella nuova inchiesta”. Soddisfazione per l’esito del colloquio è stata espressa dal rappresentante Jon McCourt che ha parlato di un incontro positivo e “stimolante”: “Come ha detto il cardinale Brady, è stato l’incontro più intenso mai avuto su questo argomento”, ha dichiarato McCourt citato dall’agenzia Cns. “Tutti gli ordini religiosi coinvolti hanno riconosciuto la verità dei racconti che hanno ascoltato e il cardinale ha garantito la sua piena collaborazione”. Nella sua dichiarazione, l’arcivescovo di Armagh, ha da parte sua ringraziato il Savia per la disponibilità dimostrata e per il “generoso riconoscimento” che le vittime hanno conosciuto anche persone buone durante la loro infanzia negli istituti religiosi. Con la creazione della nuova Commissione di inchiesta salgono a cinque le inchieste commissionate dal Governo sugli abusi commessi nella Chiesa in Irlanda. Sinora sono stati pubblicati quattro rapporti governativi: quello sugli abusi nella diocesi di Ferns (2005), il Rapporto Ryan (2009) il Rapporto Murphy sugli abusi nella diocesi di Dublino (2009) e quello sugli abusi nella diocesi di Cloyne (2011). (A cura di Lisa Zengarini)
Messico. “Messaggero di pace”: presentato l’Inno ufficiale del viaggio del Papa
◊ “Messaggero di pace, messaggero d’amore, che doni la speranza al mio cuore, questo popolo ti è fedele”: questo l’emozionante inciso dell’Inno ufficiale che accompagnerà la visita di Benedetto XVI in Messico, in programma dal 23 al 26 marzo. Il canto, presentato ieri dalla Conferenza episcopale messicana, si intitola “Messaggero di pace”; la musica è di Carlos Lara, mentre il testo è interpretato da diversi cantanti, tra cui l’italiana Filippa Giordano. “Speriamo – spiega il Comitato organizzatore della visita del Papa – che questo canto d’amore, con il quale si darà il benvenuto al Pontefice, possa essere per la Chiesa e la società del Messico e dell’America Latina un punto di riferimento per stringere legami di cordialità, solidarietà e fraternità fra le famiglie, gli amici, i colleghi, in generale in tutta la società”. “Le parole e la musica di questo inno – dice ancora il Comitato organizzatore – possano inaugurare nuove e migliori vie di pace, fede e speranza”. Da ricordare che, conclusa la visita in Messico, Benedetto XVI proseguirà il suo 23.mo Viaggio apostolico internazionale recandosi a Cuba dal 26 al 28 marzo. Il ritorno in Vaticano è previsto per il 29 marzo. (I.P.)
L’Onu in Libia: abolite alcune sanzioni, resta embargo delle armi
◊ Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all'unanimità una risoluzione sulla Libia. Il documento estende il mandato della Missione Onu (Unsmil) per ulteriori dodici mesi, revoca l'autorizzazione concessa agli Stati membri di ispezionare navi e aeromobili da e per la Libia, e abolisce le sanzioni nei confronti della Libyan Investment Authority e della Libyan Investment African Portfolio. Rimane in vigore l'embargo sulle armi. Il testo sottolinea l'attesa delle elezioni in programma per il prossimo mese di giugno, e accoglie con favore i recenti sviluppi positivi nel Paese, in prospettiva di un futuro democratico, pacifico e prospero. I Quindici invitano altresi' le autorità libiche a promuovere e proteggere i diritti umani conformandosi alle norme del diritto internazionale in materia e assicurando alla giustizia i responsabili di tali violazioni. Nella risoluzione si esprime inoltre grave preoccupazione per le continue segnalazioni di rappresaglie, maltrattamenti e ingiuste detenzioni sul territorio, invitando le autorita' libiche ad assumere tutte le misure necessarie per impedire il verificarsi di situazioni di questo tipo. E in questo senso va la decisione di estendere per un anno il mandato della missione di assistenza dell'Onu (Unsmil), che avra' il compito di promuovere lo Stato di diritto e monitorare la situazione sui diritti umani, oltre a sostenere i libici nella gestione del processo di transizione democratica e nel tentativo di ripristinare la sicurezza pubblica. (F.S.)
Brazzaville ancora sconvolta dalle esplosioni del 4 marzo
◊ A Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, si procede in questi giorni all’identificazione e alla sepoltura delle vittime delle esplosioni avvenute domenica 4 marzo. Due giorni fa ci sono stati i funerali delle prime 145 persone identificate e sepolte al cimitero del centro della capitale. Ma poi c’è stato il ritrovamento di altri 27 corpi sotto le macerie. Le esplosioni sono avvenute nel deposito di armi e munizioni di Mpila, un quartiere nord-orientale di Brazzaville. Il quotidiano locale ‘Les dépêches de Brazzaville’, ripreso dall'agenzia Misna, riferisce che da ora in poi i corpi delle altre vittime verranno tumulati nello stesso luogo man mano che saranno identificati. Il giornale precisa che “i morti della tragedia di Mpila vengono sepolti accanto a quelli della strage aerea del velivolo della compagnia francese Uta nell’attentato del 19 settembre 1989 che fece 48 vittime”. Domenica è stata la giornata dell’omaggio ufficiale della nazione con una cerimonia tenutasi sulla spianata del Palazzo dei congressi, nel centro della capitale, in presenza delle massime autorità congolesi, dei rappresentanti di Paesi africani ma non solo. Un corteo di dieci veicoli che trasportava le bare, ricoperte di fiori e della bandiera congolese, ha attraversato le vie di Brazzaville sotto gli occhi di migliaia di cittadini, tutti vestiti di nero e di bianco. I media locali sottolineano che la cerimonia si è svolta in presenza di un folto numero di agenti di polizia e militari dispiegati dalle autorità che temevano possibili incidenti a causa del sentimento crescente di rabbia e ingiustizia tra la popolazione. La cerimonia ‘ufficiale’, durata due ore, è stata seguita da un culto ecumenico per i fedeli delle tre principali confessioni: cattolica, protestante e africana Kibanguiste. Omelie e preghiere sono state pronunciate dall’arcivescovo di Brazzaville, mons. Anatole Milandou, e dal responsabile delle ‘Chiese del risveglio del Congo’, Germain Loubota. Mons. Milandou ha invitato i fedeli a “non sprofondare nella disperazione”. Loubota ha chiesto perdono per “tutti gli errori dei dirigenti del Paese che hanno ripercussioni sul popolo”. A dieci giorni dall’incidente, dopo il panico e l’emergenza umanitaria, sta crescendo il malcontento nei confronti del governo che custodisce grandi quantità di armi in condizioni precarie e in zone densamente popolate. In base all’ultimo bilancio diffuso dal governo le vittime accertate sono 223; più di 2300 persone sono ferite e 14.000 sono senzatetto. Per l’Ong britannica ‘Mag’, che collabora con l’esercito congolese, “è ancora troppo pericoloso intervenire in alcune zone per lo sminamento: servono tante precauzioni per l’incolumità degli agenti e per evitare nuovi incidenti ai danni dei civili”. (F.S.)
Madagascar: commozione della popolazione per l’appello del Papa
◊ “Ringrazio in modo particolare il Santo Padre, che nel suo appello domenicale si è fatto ‘voce di chi non ha voce’. Un ringraziamento sentito da parte della mia comunità, cristiana e civile, a cui ho letto il suo messaggio: la gente era veramente commossa.” Sono le parole del vescovo di Moramanga, mons. Gaetano Di Pierro, raccolte dall’agenzia Fides, dopo l’appello di Benedetto XVI per il Madagascar, lanciato all’Angelus di domenica scorsa. La popolazione del Paese africano infatti continua a vivere difficoltà enormi in seguito al passaggio del ciclone Giovanna, che il 13 febbraio ha causato gravi danni in diverse zone del Paese. “Qui in Madagascar - dice mons. Di Pierro all’agenzia Fides - la gente si dà da fare, ci sono stati dei piccoli aiuti che tuttavia non risolvono il problema della sopravvivenza di questa popolazione. Ringrazio, a nome della mia comunità cristiana, tutte le persone, sia qui sul luogo come quelle dall’esterno, che hanno saputo ‘donare’: il Signore le ricompensi. Anche la nunziatura qui sul posto ha dato il suo appoggio, sia spirituale che materiale. L’organismo Crs si è fatto presente fin dal primo momento ed ha dato il suo contributo. La popolazione ha bisogno di sentirsi amata prima di tutto, e quindi di avere qualche aiuto materiale, come delle lamiere, che qui costano un quarto dello stipendio di un operaio, per riparare i loro tetti. Tra le altre necessità, occorrerebbero semi di legumi di ogni genere, per poterli ripiantare ed avere così un piccolo raccolto assicurato per quest’anno”, conclude mons. Di Pierro. (R.P.)
Senegal: appello della Chiesa per il secondo turno delle presidenziali
◊ Il 25 marzo prossimo i cittadini senegalesi torneranno alle urne per il secondo turno delle elezioni presidenziali in cui dovranno scegliere tra il Presidente uscente Abdoulaye Wade e il suo ex Primo Ministro Macky Sall. In vista dello scrutinio, i vescovi, attraverso la Commissione Giustizia e Pace (Cjp), hanno rivolto un nuovo appello per un voto calmo e pacifico. In un comunicato ripreso dall’agenzia Apic, la Commissione episcopale invita inoltre gli elettori “a guardare non solo a quello che dicono i candidati e a come si presentano, ma a verificare quanto hanno fatto concretamente nei loro precedenti incarichi”. I cittadini senegalesi – afferma – devono chiedersi quali dei due candidati sia in grado di assicurare la pace e la concordia nel Paese, di rispondere meglio ai suoi bisogni e quanto sia capace di dare attenzione ai poveri, ai giovani, ai disoccupati, ai bisogni del mondo rurale e dei piccoli artigiani. Il comunicato ribadisce infine l’importanza della capillare opera di informazione e sensibilizzazione dei cittadini avviata in questi mesi dalla stessa Commissione, in tutti gli ambiti: tra i musulmani (la maggioranza della popolazione), come tra i cristiani, nelle chiese come nelle moschee, presso i sindacati, le associazioni giovanili, le scuole e i capi-villaggio. Un’opera - precisa la Cjp - finalizzata non ad indicare il candidato da votare, ma ad esortare tutti ad adoperarsi insieme per un voto senza violenza e corruzione, libero e sicuro. Il primo turno delle presidenziali del 26 febbraio scorso non ha provocato le violenze che si erano temute alla vigilia. Lo scrutinio era stato infatti preceduto da contestazioni e disordini contro la ricandidatura per il terzo mandato del Presidente uscente Wade. Anche per il ballottaggio, la Chiesa cattolica senegalese ha messo nuovamente in campo 850 osservatori per contribuire a garantire un voto corretto e risultati senza contestazioni. (L.Z.)
Yemen: migranti africani torturati da trafficanti di esseri umani
◊ Il ritrovamento di 70 uomini e donne maltrattate, tenuti prigionieri a Hajjah, una zona remota del Governatorato dello Yemen, nei pressi del confine saudita, ha determinato un'inchiesta sulla tortura e sull’estorsione di cui sono vittime gli immigrati africani da parte di bande criminali. Secondo le autorità locali - riferisce l'agenzia Fides - queste persone, di etnia Oromo e Somala della regione etiope somala, sono stati tenuti prigionieri, con indosso solo la biancheria intima, in una casa allestita da trafficanti di esseri umani nell’area Sharqia della città di Haradh. Alcuni di questi, scavalcando gli alti muri di recinzione, sono riusciti a fuggire dando l’allarme e riferendo alle autorità di essere stati picchiati selvaggiamente dai loro rapitori con tubi, di aver subito ustioni con le sigarette e altre atrocità. Molte delle vittime, secondo il responsabile del Distretto di Sicurezza di Haradh, stavano cercando di trovare lavoro in Arabia Saudita, ma purtroppo sono poi finiti nelle mani di criminali che per liberarli chiedevano loro migliaia di dollari di riscatto. Gli immigrati continuano ad essere torturati fino a quando i familiari non pagano, o fino all’arrivo di nuovi immigrati che cadono nella rete. Secondo un recente rapporto del Ministero degli Interni, tra gennaio 2011 e febbraio 2012, 170 africani sono stati tenuti prigionieri, torturati e maltrattati da banditi ad Haradh. Le vittime sono 91 giovani uomini, 10 donne, 50 bambini e 19 uomini anziani, spesso picchiati e malmenati fino alla perdita della vista e dell’udito. La polizia di Haradh ha arrestato un paio di sospetti che teneva in stato di detenzione 49 e 79 immigranti illegali etiopi. Altre 20 donne etiopi a rischio di essere torturate e violentate continuano ad essere ricercate. Lo stupro è uno dei metodi più diffusi di tortura. Secondo le testimonianze, sembra che la maggior parte delle 3 mila donne tenute prigioniere ad Haradh nel corso dell’ultimo anno, siano state ripetutamente stuprate, alcune erano incinte. Altre vittime sono state mutilate in diverse parti del corpo, occhi, schiena, gambe, oltre ad essere sfregiate sul viso e sulla testa e lasciati sanguinanti. In seguito ad altre ricerche, il distretto di sicurezza di Haradh ha identificato altri centri di detenzione in villaggi fuori città. Secondo l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (Iom), nonostante il diffuso malcontento registrato lo scorso anno nello Yemen, c’è stato un aumento di circa il 100% di etiopi provenienti dal Corno d’Africa: oltre 65 mila rispetto ai 34.422 del 2010. L’Unhcr ha dichiarato che ogni anno entrano illegalmente a Heradh tra i 10 mila e 15 mila immigrati, lungo la costa occidentale dello Yemen. (R.P.)
Perù: solidarietà all’arcivescovo di Huancayo, minacciato di morte
◊ "A nome della Direzione generale dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, con sede a Roma, desidero esprimere il nostro sostegno al presidente del Dipartimento Giustizia e Solidarietà del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), mons. Pedro Barreto Jimeno, arcivescovo dell’arcidiocesi di Huancayo e vice presidente della Conferenza episcopale peruviana, e al team tecnico del Progetto ‘Mantaro Revive’, per le minacce di morte ricevute per telefono il 2 marzo 2012". Così inizia la lettera di solidarietà a mons. Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo, da parte della direzione generale dei Missionari Oblati di Maria Immacolata (Omi), firmata da padre Gilberto Piñón Gaytán, 2° Assistente generale, indirizzata "all'opinione pubblica, alle autorità politiche e civili del Perù". Il testo della lettera, arrivata all'agenzia Fides, ricorda che le minacce sono arrivate 2 giorni dopo la dichiarazione "Dinanzi al male, non si può tacere" sull'attività del Complesso metallurgico di La Oroya. L'arcivescovo aveva detto in una conferenza stampa che era favorevole alla ripresa del lavoro del complesso, purché fosse garantita la vita, la salute e un lavoro degno per gli operai e la popolazione di La Oroya. “Dinanzi a questo fatto intimidatorio – prosegue la lettera -, che abbiamo appreso attraverso diversi media, e dopo aver ricevuto le dichiarazioni ufficiali dell'arcidiocesi di Huancayo, esprimiamo la nostra preoccupazione per la vita dell'arcivescovo e per tutti coloro che operano nel progetto ‘Mantaro Revive’, che lottano per la verità, la pace e la giustizia. Pertanto esortiamo le autorità politiche e le forze di polizia a svolgere le rispettive indagini per identificare i responsabili di questi atti, che denigrano l'immagine della democrazia peruviana. Restiamo in attesa che le autorità competenti coinvolte nella questione riescano a ripristinare la pace e il libero sviluppo delle organizzazioni della società civile e della Chiesa in Perù.” (R.P.)
Romania: "no" dei vescovi alla legge sulla procreazione assistita con terzo donatore
◊ “Un attacco alla dignità della persona, all’integrità della famiglia ed in modo implicito all’equilibrio della vita sociale”. Così mons. Cornel Damian, vescovo ausiliare di Bucarest e presidente della Commissione per la famiglia della Conferenza episcopale romena definisce il “Progetto di legge riguardo la riproduzione umana assistita con terzo donatore” varato dal Governo e che ora si trova al Senato per essere adottato con procedimento di urgenza. In una lettera aperta indirizzata a Mihai-Răzvan Ungureanu, primo ministro della Romania, a Vasile Blaga, presidente del Senato, a Claudia Boghicevici, ministro del Lavoro, la Famiglia e la Solidarietà Sociale e a Ladislau Ritli, ministro della Sanità, la Conferenza episcopale romena esprime il suo disaccordo per il “Progetto di legge” sollecitandone il suo ritiro. “La Chiesa - si legge nella lettera ripresa dall'agenzia Sir - è stata ed è sempre vicina a quei genitori che desiderano, ma non possono avere dei figli a causa dell’infertilità, e comprende la loro sofferenza. Nello stesso tempo, la Chiesa desidera ricordare che il dono inestimabile della maternità e della paternità non può essere ottenuto ad ogni costo. Il bambino rimane sempre una persona umana e non può essere considerato un prodotto di laboratorio”. E’ alla luce di tale considerazione che i vescovi chiedono il ritiro della legge “per il bene comune della società e della famiglia, come anche per la dignità di ogni persona”, del ritiro del “Progetto di legge”. (R.P.)
Slovacchia: proventi della Campagna natalizia per il Sud Sudan
◊ Ammonta a più di 900mila euro la somma raccolta l’anno scorso dalla campagna natalizia “Dobra Novina” (Buona Novella), l’iniziativa promossa nelle parrocchie slovacche dalla Comunità dei Bambini Cristiani (eRko), in collaborazione con le Associazioni della Missione Pontificia della Slovacchia. Da 17 anni ormai nel periodo compreso tra il 25 dicembre e il 7 gennaio gruppi di bambini e giovani fanno visita nelle case di tutto il Paese per cantare canti di Natale raccogliendo offerte a sostegno di progetti di sviluppo nei territori missionari. Nel corso degli anni la campagna ha contribuito a migliorare le condizioni di vita dei bambini di strada, degli orfani, delle donne in stato di necessità, e ad offrire sostegno per le necessità elementari e l’istruzione di bambini e adulti nei Paesi poveri. Anche quest’anno - sottolinea il direttore di Dobra Novina Marián Čaučík - tante famiglie slovacche hanno contribuito generosamente nonostante la crisi. A questa 17.ma edizione hanno partecipato 26mila bambini e ragazzi suddivisi in 2.719 gruppi che hanno fatto visita a 80mila famiglie. A questi, per iniziativa della Missione cattolica Slovacca a Bruxelles si sono aggiunti i figli di espatriati residenti nella capitale belga a Strasburgo e Lussemburgo. Della somma complessiva raccolta, 878.903 euro, sono venuti dalle famiglie, mentre 29.247 sono stati offerti da donatori privati. I fondi raccolti saranno dedicati quest’anno in particolare a progetti contro la povertà nel nuovo Sud Sudan. In particolare “Dobra Novina”, in collaborazione con l’omologa austriaca “Dreikonigsaktion, finanzierà la ricostruzione di un ospedale rurale a Marial lou, nello Stato del Warrab, cotruito da Medici senza frontiere (Msf) durante gli anni della guerra in Sudan. “Dobra Novina” sostiene anche un altro ospedale a Mapuordit nella diocesi di Rumbek. In ambedue gli ospedali lavorano come volontari giovani medici slovacchi dall’Università di Santa Elisabetta a Bratislava. Tra gli altri progetti di successo c’è il St. Peter Claver Technical and Ecological Training Centre che forma giovani studenti sudanesi alle nuove tecnologie ambientali. (L.Z.)
Consiglio Mondiale delle Chiese: violazioni dei diritti umani in Papua
◊ Il Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc) denuncia le continue violazioni ai diritti umani nella Papua indonesiana - la “Nuova Guinea Olandese” ai tempi del colonialismo - e chiede a Jakarta di prendere le “misure necessarie” per smilitarizzare l'area, liberare i detenuti politici e rimuovere il bando alle assemblee pacifiche. Lo rende noto l'agenzia AsiaNews che riassume il contenuto del documento diffuso dal movimento per il dialogo interreligioso Interfidei (con base a Yogyakarta). I leader di Wcc raccolgono le proteste dei papuani “per il sottosviluppo” di una regione pur ricca di materie prime e risorse naturali, unito alla mancanza di strutture sanitarie, educazione di base e degrado ambientale. “I papuani – si legge nel documento - sono molto preoccupati per la mancanza di opportunità di lavoro a favore delle popolazioni indigene”. Un recente progetto promosso da Jakarta incentiva la migrazione verso Papua, in particolare dalle province di Java e Sulawesi. L'iniziativa ha favorito la nascita di nuove attività economiche, a discapito della perdita di porzioni sempre maggiori di territorio per i nativi e la progressiva erosione della loro identità culturale. Essi diventano sempre più “emarginati nella loro stessa terra” e ancora oggi, secondo organizzazioni per i diritti umani, sono vittime di torture, maltrattamenti e arresti arbitrari da parte delle autorità indonesiane. Nel 2001 le autorità di Jakarta hanno concesso ai locali per legge una “autonomia speciale” per la provincia; tuttavia, una sua applicazione pratica non si è mai concretizzata e le popolazioni indigene continuano a denunciare “trattamenti ingiusti”. Ora, il Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc) ha raccolto le rimostranze e, insieme con esponenti della società civile, chiede la cancellazione della norma e la concessione di un vero e proprio “diritto all'auto-determinazione”. Il documento pubblicato da Wcc richiama anche alla memoria la brutale repressione di un'assemblea pacifica nell'ottobre dello scorso anno e invoca misure urgenti perché vengano ripristinati il diritto e la giustizia, al fine di ottenere “una soluzione pacifica”. Ai tempi del colonialismo, Papua era sotto l'influenza olandese ma non è mai stata “occupata” a livello politico. La provincia orientale dell'Arcipelago indonesiano, un tempo nota come Irian Jaya, è ricca di risorse naturali ed è stata teatro di una violenta campagna militare ai tempi di Sukarno, che ha determinato l'annessione nel 1969 sfruttando una direttiva temporanea delle Nazioni Unite. Sukarno è stato il primo Presidente dell’Indonesia. Fu presidente dal 1945 al 1967, assistendo in quel ruolo all'alterno successo nella turbolenta transizione all'indipendenza dai Paesi Bassi. Sukarno fu costretto ad abbandonare il potere da uno dei suoi generali, Suharto, cui venne concesso il titolo formale di presidente nel marzo 1967. Il pugno di ferro usato dal regime di Suharto fra il 1967 e il 1998 e la massiccia invasione di multinazionali straniere e compagnie indonesiane hanno favorito la nascita di un movimento separatista. L'attuale denominazione di Papua è stata sancita nel 2002 dall'ex presidente Abdurrahman Wahid. (F.S.)
Italia: i vescovi a un anno dalla "Rivoluzione del Nord Africa" e sbarchi a Lampedusa
◊ I vescovi della Cemi (Commissione episcopale italiana per le migrazioni), ricordano il cammino di speranza che ha portato, attraverso la rivoluzione che ha investito il Nord Africa, oltre 62.000 persone a sbarcare in Italia nel 2011, 52.000 dei quali avendo come primo approdo l'isola di Lampedusa. A un anno di distanza, al termine dell’incontro che hanno avuto ieri, i vescovi, con un messaggio, hanno richiamato alla mente di tutti le immagini di quei numerosi barconi carichi di uomini, donne e bambini, i numerosi cadaveri nella stiva di un barcone o trascinati dalle onde del mare sulla costa. Così come non si possono dimenticare – sottolineano i vescovi - la solidarietà, la generosità di tanti volontari, il lavoro di tanti marittimi, l'accoglienza di Lampedusa e di molte parrocchie e diocesi italiane, unite a momenti di insofferenza e di paura. “Lampedusa – affermano - è stata un 'segno di contraddizione' di un'Italia e di un’Europa che da una parte ha una ricchezza straordinaria di cultura, una profonda consapevolezza dei diritti, una ricca tradizione cristiana e che, in questa circostanza, ha rischiato di rinchiudersi, di respingere, di ricusare, di sollevare paure anzichè accompagnare nuove e disperate storie di persone e famiglie”. I vescovi spiegano che “le contraddizioni di Lampedusa sono, talvolta, le contraddizioni delle nostre comunità cristiane, incerte nella lettura di un fenomeno che sempre più cresce e investe i luoghi quotidiani della nostra vita, quale è la mobilità delle persone: dal Sud al Nord dell'Italia, dall'Est all'Ovest dell'Europa, dal Sud al Nord del mondo”. I vescovi invitano tutti a “leggere in questi numeri dell'immigrazione che crescono non solo un dato statistico nuovo, ma un nuovo Esodo di persone che cercano pace, reclamano diritti, fuggono dalla fame e dalla sete, fratelli in cammino”. Spiegano che “significa interpretare la storia con gli occhi della fede e costruire le nostre comunità come case, tende in cui ognuno possa trovare ospitalità”. Resta da dire che il rinnovato statuto della Migrantes, che il Consiglio permanente del 23-26 gennaio scorso ha approvato, vuole ridare a questo organismo, che compie quest'anno 25 anni di vita, un ruolo importante a livello nazionale, regionale e diocesano per aiutare a leggere un fenomeno, qual è quello della mobilità e in esso della fragilità e della minoranza. E’ una mobilità che oggi coinvolge soprattutto persone e famiglie immigrate e rifugiate nel nostro Paese da 198 Paesi del mondo, gli emigranti italiani, ancora oltre 4 milioni nel mondo, sempre più giovani e donne, la gente dello spettacolo viaggiante, che chiedono attenzione alla comunità civile e cristiana nel breve tempo del loro passaggio, le minoranze rom e sinte, che nel contesto italiano ed europeo sono una storica presenza non riconosciuta come popolo. “Di tutte queste persone e famiglie, di questi popoli in cammino – affermano i vescovi - la Migrantes è chiamata ad aiutare le Chiese locali a conoscere la storia e la cultura, a considerare l'esperienza cristiana come valore aggiunto nelle nostre parrocchie e comunità o unità pastorali, a tutelare i diritti e a promuovere la cittadinanza, a costruire percorsi di dialogo ecumenico e religioso nel quotidiano”. Con una convinzione: “la storia migratoria attuale del nostro Paese, la collocazione dell’Italia al centro del Mediterraneo, la fa ancora essere un luogo importante di evangelizzazione e di promozione umana”. (F.S.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 73