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Sommario del 08/03/2012
Pubblicato un nuovo documento della Commissione Teologica Internazionale
◊ La Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato oggi sul suo sito un nuovo documento, redatto in inglese, intitolato “Teologia oggi: Prospettive, Principi e Criteri”. Il testo esamina alcune questioni attuali della teologia e propone, alla luce dei principi costitutivi della teologia, i criteri metodologici che sono determinanti per la teologia cattolica rispetto ad altre discipline affini, come le scienze religiose. Il testo è distribuito in tre capitoli: la teologia presuppone l’ascolto della Parola di Dio accolta nella fede (capitolo 1); la si esercita nella comunione della Chiesa (capitolo 2); e mira a dare ragione di un modo scientifico di accostarsi alla verità di Dio in una prospettiva di autentica saggezza (capitolo 3). Ma qual è l’obiettivo di questo documento? Sergio Centofanti lo ha chiesto a mons. Krzysztof Charamsa, segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale:
R. – La Commissione teologica internazionale, formata di per sé da 30 teologi che provengono da diverse nazioni, che sono di diverse lingue e di diversa formazione teologica, ma distinti comunque per la scienza teologica, per la loro fedeltà al Magistero della Chiesa, in realtà proponendo i documenti, che oggi sono già 25 nella Storia quarantennale della Commissione, ha lo scopo di offrire un aiuto alla Santa Sede, in particolare alla Congregazione per la Dottrina della Fede, esaminando le questioni teologiche di particolare importanza e di particolare attualità. I testi, come noto, vengono di solito approvati in due forme: o a maggioranza assoluta, riguardo all’intero testo – così è stato approvato anche il testo che oggi viene reso di dominio pubblico: “Teologia oggi: prospettive, principi e criteri” – oppure solo in forma generica, quando i membri si esprimono favorevolmente solo riguardo alle idee principali del testo. Il nostro testo è stato approvato il 29 novembre dell’anno scorso, nella sessione plenaria, e poi sottoposto al presidente della Commissione, che è sempre il prefetto della Congregazione, il cardinale William Levada, che ha approvato e autorizzato la pubblicazione del documento. In realtà, c’è anche un altro scopo: quello di offrire alla comunità teologica intera, sparsa nel mondo, un testo che in un certo senso vuole dare un denominatore comune, vuole affrontare una questione a partire dalla prospettiva dell’unità della scienza teologica, e così suscitare anche una riflessione approfondita e un dibattito costruttivo nel mondo teologico di oggi. Forse vale la pena ricordare che i documenti della Commissione non sono testi del Magistero della Chiesa. Si presentano teologicamente autorevoli, non di meno sono i testi sui quali i teologi sono invitati a dibattere, a confrontarsi positivamente e costruttivamente. Direi che ogni documento della Commissione è, in un certo senso, frutto tangibile della collaborazione tra i teologi – tra di loro – e di collaborazione dei teologi con il Magistero, in un servizio comune, in una responsabilità che condividono davanti alla verità del deposito della fede.
D. – Nel testo si esaminano alcune questioni attuali della teologia…
R. – La questione di fondo è una sola: proprio l’identità della teologia rispetto a scienze affini o a tutto l’universo delle scienze di oggi, con i rispettivi criteri del metodo di procedere in questa scienza che a suo tempo San Tommaso chiamava “scienza sacra”, ed è una questione di primaria importanza per la stessa identità del pensiero teologico. La Commissione ha trattato questo tema, attenta alla situazione attuale, nei decenni successivi al Concilio Vaticano II, che ci hanno portato un arricchimento straordinario alla teologia, con nuove voci, con scuole teologiche diversificate nei nuovi contesti culturali, continentali, con nuovi temi di riflessione e l’approfondimento di quelli antichi … ma in realtà, ci ha fatto vedere anche una certa frammentazione della scienza teologica, la quale – invece – dovrebbe sempre, e in particolare oggi, ritrovarsi davanti alla sfida di mantenere la propria identità cattolica, di mantenere ciò che è essenziale nella propria missione. Dunque, la domanda di fondo, la questione di fondo del documento sarebbe: se c’è qualcosa che in mezzo alla molteplicità di legittimi approcci di varie scuole teologiche, c’è qualcosa che è indispensabile per tutti i teologi e le teologhe cattolici; qualcosa che dev’essere conservato da ogni cultore di questa scienza, un po’ come radice comune, come guida e criterio di ogni riflessione coerente con il deposito della fede. Questo, direi, è il tema di fondo del testo; di per sé, come noto, la Commissione ha trattato già varie volte i temi della teologia in sé, del suo metodo. Basti ricordare tre testi molto importanti: del ’72, dal titolo significativo: “L’unità della fede e il pluralismo teologico”; quello del ’75, sul rapporto tra Magistero e teologia; nel ’90 è uscito un testo molto importante sull’interpretazione dei dogmi … Non di meno, per la prima volta la Commissione affronta il tema della teologia come tale, nel suo insieme. E il frutto viene offerto proprio oggi alla comunità teologica sparsa nella Chiesa, a tutti i fedeli che sono interessati delle questioni di conoscenza di Dio.
D. – Il testo propone i criteri metodologici che sono determinanti per la teologia cattolica. Quali sono questi criteri?
R. – Questo è il cuore del documento: i criteri, i principi metodologici della teologia. E direi che sono offerti – e questo vale la pena di sottolineare – non tanto come una disciplina quasi imposta dall’esterno, ma piuttosto come tratti familiari di un’opera comune della comunità teologica, della stessa casa che i teologi abitano con il loro servizio ecclesiale, corrispondendo alla vocazione ecclesiale del teologo. Dunque, non tanto imposizione quanto la lettura dell’identità stessa di ciò che la teologia è e che ci impone dei criteri e dei principi metodologici. Devo dire che proprio a questo punto il testo mi ha colpito per la sua chiarezza di esposizione, per un modo quasi luminoso e sintetico nell’esprimere, in un documento tutto sommato lungo, di 100 punti, quei principi indispensabili, quei criteri che costituiscono l’essere stesso della riflessione teologica. Il primo, ovviamente, per i cattolici, non può essere altro che il riconoscimento del primato della Parola di Dio, di quel Dio che ha parlato molte volte, in diversi modi, e definitivamente ci ha parlato attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Se la Parola di Dio deve essere accolta dal teologo nell’obbedienza della fede, come sottolinea il documento – perché ogni conoscenza di Dio, anche quella scientifica, teologica appunto, presuppone la fede – allora il teologo in primis deve essere un uomo credente e così la teologia può essere ciò che è per la sua natura, intelligenza della fede. Ma una risposta di fede alla Parola di Dio non è mai un atto solo individualistico, quasi racchiuso nell’orizzonte del singolo, è sempre un atto anche comunitario. Così nasce il secondo criterio della teologia, che è la sua ecclesialità, il criterio costitutivo dell’impegno, della riflessione sulla fede, perché la rivelazione è rivolta alla convocazione del popolo di Dio, di una comunità, è l’oggetto anche della ricerca stessa. I teologi la ricevono attraverso la Chiesa e non ci potrebbe essere un’altra via. Il che, dunque, presuppone la fedeltà alla tradizione apostolica, che non è separabile dal magistero della Chiesa, a cui l’ufficio d’interpretazione autentica è stato affidato rispetto alla Parola di Dio scritta e trasmessa. Il richiamo, dunque, di un’adesione responsabile al magistero, nelle sue diverse gradazioni, è un criterio indispensabile alla teologia cattolica, che serenamente viene riaffermato, a partire dalla natura stessa della scienza, e che in realtà alla fine è la vera garanzia della libertà della ricerca teologica. I teologi cattolici, per essere fedeli alla natura della loro vocazione, devono riconoscere la competenza dottrinale dei vescovi, in particolare nel collegio dei vescovi con il Papa a capo. In questo carattere ecclesiale della teologia non va però trascurata anche la dovuta attenzione al “sensus fidelium”, il cui significato non è stato sempre rettamente compreso. Infatti, c’è il senso soprannaturale della fede, del popolo di Dio, che però non va confuso con un’opinione di maggioranza, ma che è un senso soprannaturale della fede nell’obbedienza alla Parola di Dio e sotto la guida dei pastori, che diventa un luogo di confronto per la riflessione teologica: la scrittura, la tradizione, il magistero, i primi luoghi dell’alto impegno teologico, che nel documento vengono riaffermati con particolare incisività e attualità, non come qualcosa del passato, ma come qualcosa di costitutivo per il momento presente, come per ogni epoca della teologia.
D. – Il documento parla anche delle prospettive della teologia oggi. Cosa dice in proposito?
R. – Tra le varie prospettive, io vorrei sottolinearne una sola, che mi è particolarmente cara ed è un aspetto importante che viene richiamato dal testo: quando si sottolinea l’importanza della comunità dei teologi, di coloro che in vari contesti culturali, nazionali, in vari contesti ecclesiali esercitano la scienza divina e che non sono mai dei liberi battitori, quasi privati, ma coltivano la loro scienza in modo comunitario e collegiale, in una sorta di solidarietà con la Chiesa, all’interno della Chiesa, ma anche tra di loro. Uno dei mezzi di questo confronto vicendevole, di maturazione, anche di correzione fraterna, è la discussione costruttiva, positiva, un po’ riprendendo la scia della medievale “disputatio”, che non va mai dimenticata del tutto. Anzi, direi che proprio un rilancio dell’importanza della “disputatio”, della discussione, per il coerente sviluppo teologico, all’interno della comunità dei teologi, viene ribadita dal documento, come una sfida che sta davanti a questa scienza che, non di rado, rischia frammentarietà, come dicevamo. Devo dire che la Commissione Teologica Internazionale, quel corpo di 30 teologi che si incontrano regolarmente e collaborano nell’arco di tutto l’anno alla preparazione dei testi, in realtà, in un certo senso, è proprio esempio di una comunità teologica, con un libero e rispettoso dibattito, in un clima di grande serenità, ma anche grande responsabilità dei teologi, delle teologhe davanti alla verità della fede, e che potrebbe essere anche esempio per il mondo teologico di una collaborazione, di una riflessione comune, in cui ci incontriamo – coloro che sono chiamati a svolgere un impegno teologico – proprio come dottori della verità cattolica, come diceva San Tommaso nel prologo alla prima parte della “Somma Teologica”. Questa alta chiamata dei teologi all’interno della Chiesa riceve nel documento della Commissione una nuova spinta e una riflessione, che sicuramente susciterà un dibattito e speriamo anche un approfondimento.
Il testo viene pubblicato nella pagina internet della Commissione Teologica Internazionale sul Sito Vaticano (www.vatican.va) aggiornato negli ultimi mesi: i testi in italiano e spagnolo sono già tutti consultabili, mentre crescono quelli nelle altre lingue. Il documento appare anche sulla rivista "Origins. CNS Documentary Service" e sul sito internet della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d’America. Una traduzione italiana sarà prossimamente disponibile su La Civiltà Cattolica e successivamente sono previste anche le traduzioni nelle principali lingue. (gf, ap)
◊ Benedetto XVI ha ricevuto questa mattina in udienza: David McAllister, ministro presidente del Land Niedersachsen (Bassa Sassonia), e seguito; un gruppo di presuli della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti d’America, in Visita "ad Limina Apostolorum"; il signor Nikola Kaloudov, ambasciatore di Bulgaria, con la Consorte, in visita di congedo.
Negli Stati Uniti, il Santo Padre ha nominato vescovo di Baker il reverendo Liam Stephen Cary, del clero dell’arcidiocesi di Portland in Oregon, finora Parroco della Saint Mary Parish a Eugene.
Vescovi del Sud-Est Europa a Strasburgo. Mons. Giordano: la fede rinsalda il continente
◊ Un incontro di formazione e informazione per capire il complesso meccanismo delle istituzioni europee così da poter rendere più incisiva al loro interno la presenza della Chiesa. È stato questo l’obiettivo di fondo che ha visto i vescovi del Sud-Est europeo incontrarsi da lunedì scorso a Strasburgo. A invitarli è stato mons. Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa. L’incontro ha ribadito, fra l’altro, il ruolo della religione come fattore di coesione continentale. Al microfono di Alessandro De Carolis mons. Giordano traccia un bilancio dei lavori:
R. – Un primo tema è stato quello della questione del ruolo della religione. Da una parte, si è preso coscienza che la religione ha un ruolo fondamentale per la coesione sociale, per il dialogo interculturale. Quindi, da ciò, deriva l’esigenza di fare tutti gli sforzi per la libertà religiosa, per il riconoscimento giuridico delle comunità delle Chiese che ancora oggi, in alcuni Paesi del Sud-Est dell’Europa è un problema, e anche per arginare la discriminazione per motivi religiosi. Un altro tema è stato quello della constatazione del dialogo con le persone in questi Paesi che sono ancora in una fase di transizione verso una democrazia matura. Noi sappiamo che esistono ancora dei grossi limiti in tali Paesi, e anche conflitti. Ad esempio, la situazione di Cipro rappresenta un conflitto grave per l’Europa intera, ma non dimentichiamo la situazione del Kosovo, della Transnistria in Moldavia, o anche la situazione del conflitto tra Georgia e Russia.
D. – Uno dei suoi auspici, prima di questo incontro, era che la Chiesa in Europa sia presente là dove si prendono le decisioni. Alla luce di questo incontro, è un auspicio che sente rafforzato?
R. – È stato certamente un incontro importante, significativo, perché è stato prima di tutto di informazione. È importante che i vescovi siano informati sul modo di funzionamento delle istituzioni europee e che entrino nella complessità del meccanismo europeo, quindi si è trattato di informazione e di formazione. Poi si è creata di fatto, durante l’incontro, una reale piattaforma di rapporto tra i presidenti delle Conferenze episcopali e personaggi autorevoli delle istituzioni. I vescovi, alla fine, hanno testimoniato un grande interesse e anche una certa serenità, perché conoscendo meglio le istituzioni, e soprattutto conoscendo meglio persone, hanno preso una nuova coscienza delle possibilità di intervenire. Ad esempio, nelle sentenze della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che riguardano libertà di religione. Vedere come le sentenze creino giurisprudenza ha dato una coscienza: si possono preparare soprattutto dei laici, si possono avere delle persone competenti che seguono questi capitoli e che possono esplicitare i problemi, riuscire a portare ad esempio a Strasburgo delle cause. Questo sembra essere uno strumento per poter essere protagonisti.
D. – Alla Messa per l’Europa, celebrata ieri, Lei ha detto fra l’altro all’omelia, che “se ci si basa solo su rapporti regolati da diritti e doveri non si va lontano e che c’è invece bisogno di relazioni gratuite e di misericordia”: come dire che non può esserci Europa senza valori cristiani...
R. – Certamente. Credo che l’evento della Messa, sia stato - anche grazie a una grande partecipazione da parte di persone delle istituzioni - l’occasione per dire che Dio deve avere una presenza nello spazio pubblico e che la religione ha un contributo enorme da dare alla società. E ribadire anche la coscienza che una società capace di vivere in pace, capace di solidarietà, è una società che deve invocare questo come dono: creare un luogo di preghiera, perché questo dono può venire solo dall’Alto, solo un Altro può salvarci. (bi)
Ieri sera, dunque, lo stesso mons. Giordano ha tenuto l’omelia alla Messa per l’Europa, presieduta nella Cattedrale di Strasburgo dall’arcivescovo della città, Jean-Pierre Grallet. folta la partecipazione di ambasciatori e funzionari del Consiglio d'Europa, giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo, membri di comunità e organismi ecclesiali particolarmente impegnati nel cammino europeo. Il servizio di Adriana Masotti:
L’eterna lotta del male contro il bene, libertà individuale e rapporto con Dio, potere e servizio i temi affrontati da mons. Giordano. Se guardiamo al primo cristianesimo, ha esordito, scopriamo che esso ha avuto una grande diffusione grazie al sangue dei martiri. Anche oggi molti sono perseguitati o uccisi a causa della loro fede. Basta ricordare le persecuzioni dei regimi comunisti nel passato e più recentemente i cristiani uccisi in Iraq, in Nigeria o in Pakistan. Come ieri anche oggi non è facile dire al mondo la Parola di Dio, perché il male è potente e non sopporta il bene, non sopporta la luce. E continua: più le tenebre sono fitte, più siamo sfidati a cercare la luce. Nella vita personale come nelle difficoltà del mondo. Commentando la pagina del Vangelo letta poco prima che racconta del viaggio di un gruppo di uomini e donne verso Gerusalemme, e della rivelazione che Gesù fa loro della sua prossima morte e resurrezione, mons. Giordano dice che quei compagni di viaggio non sembrano interessati all’annuncio, sono presi piuttosto da preoccupazioni di carriera e di potere. Gesù contraddice le loro aspettative, spiega che coloro che fanno la vera storia non sono i prepotenti, “ma coloro che hanno il coraggio di scegliere di servire”. E’ una visione rivoluzionaria del potere quella vissuta da Gesù stesso: Egli decide liberamente di “servire” il Padre, perché lui è il Figlio, e di servire gli uomini per ridare anche a noi la possibilità di vivere come figli. Ma non sempre l’uomo accetta questo rapporto di figliolanza: “Il serpente delle origini ha spinto Adamo ed Eva e spinge anche oggi l’Europa sulla strada della autonomia, della separazione dal Padre per cercare di realizzarci e salvarci da soli, dice mons. Giordano, ma la solitudine è triste e la libertà da sola, non è capace di salvarci. Perciò “affidarsi ad un Altro che appare in grado di realizzare la nostra aspirazione all’eterno, alla bellezza, alla verità, all’amore, alla vita, è il grande atto intelligente della libertà”. Il vivere da figli dello stesso Padre ci rende poi fratelli e tra fratelli il potere vero è quello dell’amore”. “La verità cristiana, conclude mons. Giordano, non può allearsi a forme violente di potere, non può dare spazio al fanatismo”. La città dell’uomo non è costituita solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancora di più, da relazioni gratuite, di misericordia e di comunione. Il vivere insieme pacificamente è per i credenti innanzitutto un dono che va invocato, ecco il senso di questa preghiera per l’Europa e cita Benedetto XVI che nella “Caritas in Veritate” scrive: “Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera”.
Mons. Tomasi: i migranti sono fermento per la nuova evangelizzazione
◊ “Costruire ponti di opportunità”: è il titolo di un Convegno sulle migrazioni svoltosi oggi al Pontificio Collegio Nord Americano e promosso dall’ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede. All’evento, moderato dall’ambasciatore americano Miguel H. Diaz, sono intervenuti il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra, e Demetrios G. Papademetriou, presidente del “Migration Policy Institute” di Washington. Al microfono di Alessandro Gisotti, mons. Tomasi si sofferma sulle sfide che il fenomeno migrazione pone alla Chiesa:
R. – Oggi abbiamo il più alto livello di migrazioni internazionali di ogni tempo. Si parla di almeno 215 milioni di persone che vivono e lavorano in un Paese diverso da dove sono nate. Questa tendenza della mobilità umana a crescere, continuerà. Davanti a questa realtà la Chiesa vuole dare una risposta positiva e costruttiva. Prima di tutto, la Chiesa dice: “Noi siamo una sola famiglia umana e come tale siamo solidali gli uni con gli altri e dobbiamo – al di là dei confini e delle frontiere create dall’uomo – cercare di vedere qual è il bene comune: non in senso egoistico, limitato al mio piccolo angolo dove vivo, ma che mette in equilibrio tutta la famiglia umana”.
D. – La Santa Sede – ora membro dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – cosa può fare per favorire anche un atteggiamento globale rispetto ad un fenomeno globale? Spesso le risposte sono molto frammentate …
R. – C’è una certa contraddizione. Le regole che guidano e gestiscono le migrazioni sono le leggi nazionali, perché ogni Paese è gelosamente guardiano della sua identità, della sua sicurezza. Allo stesso tempo, il fenomeno delle migrazioni va al di là di un solo Paese, perché c’è il Paese di origine, il Paese di transito, il Paese di arrivo. Questo implica che ci sia una collaborazione più ampia a livello regionale e a livello globale, per gestire questo fenomeno in maniera razionale. Di fatto, a lungo andare, se le migrazioni sono gestite bene portano beneficio ai Paesi di origine, attraverso le rimesse che vengono mandate. Gli emigrati stessi trovano una qualità di vita migliore, quindi possono formare la loro famiglia e possono realizzarsi anche professionalmente. Nei Paesi di arrivo quindi possono contribuire al lavoro quotidiano, nelle professioni o nei lavori manuali in cui sono ingaggiati. La presenza della Santa Sede nell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni rappresenta una voce etica, che ricorda prima di tutto, che al centro di tutte queste preoccupazione ci deve essere la persona umana, con la sua dignità e le sue esigenze; in secondo luogo, che dobbiamo lavorare insieme, a livello sempre più largo data la globalizzazione in corso, per trovare delle regole, delle formule che rendano il movimento dei migranti una forza costruttiva ed un bene per tutti.
R. – Quale particolare sfida pone il fenomeno della migrazione alla nuova evangelizzazione, che sta così a cuore di Benedetto XVI …
D. – Nella Storia della Chiesa, fin dai tempi di Gerusalemme, la prima comunità cristiana perseguitata è stata dispersa ai quattro venti, per così dire, e dove sono arrivati i cristiani hanno creato nuove comunità. Oggi i filippini, ad esempio, che migrano negli Stati del Golfo, hanno creato nuove comunità di fede in questi Paesi, dove la presenza cristiana non c’era. Gli emigrati possono essere fermento di evangelizzazione nei luoghi dove emigrano. D’altra parte, nei Paesi come l’Italia o la Francia, dove arrivano ogni anno varie migliaia di emigrati, che vengono da Paesi che non sono di tradizione cristiana, ci fanno vedere che le missioni sono venute a noi. Una volta mandavamo missionari in questi Paesi, adesso è la gente di quei Paesi che viene qui. Allora la sfida per le nostre parrocchie, per i sacerdoti, per i laici impegnati, è quella di vedere come riusciamo a fare una proposta di fede a queste nuove popolazioni, in modo che - liberamente ed in maniera cosciente – possano anche optare per vivere una vita cristiana nel nuovo contesto in cui sono presenti. (cp)
◊ “L’Eucaristia. Grembo della Chiesa, in cammino verso il 50.mo Congresso eucaristico internazionale di Dublino”: è il titolo del volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana e presentato ieri presso la Sala Marconi della nostra emittente a poco più di tre mesi dall'importante evento ecclesiale. C’era per noi Benedetta Capelli:
Mancano ormai cento giorni al Congresso eucaristico internazionale di Dublino, in programma dal 10 al 17 giugno in Irlanda. Un appuntamento – ha detto mons. Piero Marini, presidente del Pontificio Comitato per i Congressi eucaristici internazionali – che è l’occasione per la Chiesa di riunirsi intorno all’Eucaristia. Dei congressi del passato parla il volume presentato alla Radio Vaticana, in esso è contenuto anche il testo base preparato dal comitato irlandese nel quale si spiega il tema del congresso: “L’Eucaristia, comunione con Cristo e tra di noi”. Evidente il richiamo alla “Lumen Gentium” a 50 anni dal Concilio Vaticano II. Mons. Piero Marini:
“Viviamo in un mondo globalizzato e noi stessi siamo quasi costretti ad incontrarci con gli altri. Allora Dublino dovrebbe insegnarci che l’Eucaristia è proprio questo: incontrarci con gli altri, fare comunione, partendo dalla comunione, per chi ha fede, con il Cristo, che è il fondamento della nostra comunione con gli altri. Essere cristiani non significa solo aprire la bocca per fare la comunione o ricevere la comunione. Il Signore viene in noi nella comunione per trasformare la nostra vita, per fare della nostra vita una comunione con gli altri. Il Signore che abbiamo ricevuto, che abbiamo visto nell’Eucaristia lo possiamo riconoscere anche al di fuori, sul volto dei fratelli che soffrono, quando troviamo delle culture diverse dalla nostra, quando vediamo l’intolleranza e diamo una testimonianza positiva del dialogo. Tutto questo dovrebbe essere lo scopo di questo Congresso eucaristico di Dublino, che va oltre naturalmente il Congresso stesso; è il tema fondamentale che ha legato tutti i documenti del Concilio Vaticano II: il tema della comunione”.
Il titolo del volume è stato ispirato da Benedetto XVI e dalla sua omelia a conclusione del Congresso eucaristico in Quebec. Il richiamo al grembo della Chiesa, all’efficacia salvatrice della comunione, al sacramento che contiene il mistero della salvezza. Balsamo per una Chiesa ferita come quella irlandese dopo lo scandalo degli abusi sessuali ma ricca di una storia di fede millenaria. Padre Kevin Doran, segretario del comitato locale irlandese per il Congresso eucaristico:
“Siamo molto coscienti della necessità di rinnovamento, un rinnovamento non solo nel senso di ristrutturazione, ma un rinnovamento del cuore. Il programma del Congresso è tutto orientato a questo. Tanti pellegrini che vengono, arrivano da Paesi che sono stati evangelizzati dagli irlandesi, sia nel primo millennio in Europa che più tardi in Asia, in America Latina, in Africa. Loro adesso vengono da noi, in solidarietà, con la loro freschezza di fede, in un momento in cui noi, come tanti Paesi in Europa, siamo stanchi e abbiamo bisogno di questo flusso di fede da parte loro. Siamo noi, dunque, che riceviamo, che diamo ospitalità, ma anche loro ci portano i loro doni”.
L’auspicio – ha detto padre Vittore Boccardi, officiale del Comitato per i Congressi eucaristici internazionali – è che a Dublino la Chiesa proponga il suo tesoro più grande: la celebrazione dell’Eucaristia e a partire da lì potrà trovare un cuore ardente e coraggioso per annunciare il messaggio di salvezza portato da Dio a tutta l’umanità”.(ap)
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Nell’informazione internazionale, in rilievo lo Yemen: offensiva di Al Qaeda nel sud del Paese.
Svolta nella politica economica: Lagarde nomina segretario dell’Fmi il cinese Jianhai Lin.
La mostra al Senato italiano sullo Stato unitario e su “L’Osservatore Romano”. Gli interventi del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, del presidente del Senato, Renato Schifani, e del direttore del giornale. Sull'esposizione, un articolo di Giulia Galeotti dal titolo “Come andare avanti senza far torto a Dio e a Cesare”.
Il segno più alto della libertà: l’incontro del presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, con i parlamentari italiani.
Un mondo libero dalle armi nucleari: nell’informazione religiosa, l’auspicio ribadito in una lettera dei vescovi degli Stati Uniti.
Modalità diversa dello stesso annuncio: stralci da un intervento dell’arcivescovo Salvatore Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.
Cosa si prova a fare la predica al Papa: Gianluca Biccini intervista padre Raniero Cantalamessa.
Ancora sangue in Siria. Si dimette il viceministro del petrolio
◊ In Siria non si ferma la repressione di Bashar al Assad contro gli oppositori. Scontri e bombardamenti si registrano ad Homs, città simbolo della rivolta e definita dalla responsabile Onu per gli Affari Umanitari Valerie Amos, che oggi è entrata, insieme ad esponenti della Mezzaluna Rossa, nel quartiere devastato di Bab Amro, “citta fantasma”. E mentre si lavora per ottenere corridoi umanitari, dal Cairo l’inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba, in Siria, Kofi Annan, ha chiesto all'opposizione di Damasco di collaborare per risolvere il conflitto che ha già lasciato 7500 morti sul terreno, secondo i dati Onu. In questo scenario il governo di Assad perde il viceministro del Petrolio, Abdo Hussameldin, che ha annunciato le sue dimissioni e l'adesione all'opposizione parlando di “ingiustizia” e di una “campagna brutale del regime''. Sul fronte internazionale il presidente Usa Obama è tornato a ipotizzare opzioni militari, pur ribadendo la convinzione che ci sia ancora spazio per una soluzione diplomatica con Damasco. Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento del prof. Massimo Campanini, docente di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento:
R. – Indubbiamente la defezione sembrerebbe indicare che la solidità del regime di Assad si stia sgretolando, anche perché un viceministro, sia pure non particolarmente importante negli equilibri del potere, è sempre una persona di prestigio all’interno della politica siriana. Tuttavia, io andrei cauto a giudicare che ormai il regime di Assad si stia effettivamente sfaldando, perché bisognerebbe innanzitutto chiedersi se queste dimissioni sono frutto di un’iniziativa personale oppure di un malessere più ampio, che si trova all’interno della compagine dirigente siriana. E, in secondo luogo, è importante capire fino a che punto quello che sta andando in crisi sia il blocco di potere, che fino a questo momento ha sostenuto Assad, cioè quel blocco di potere, che unisce insieme una parte degli alawiti, una parte dell’esercito, una parte dei sunniti, una parte della borghesia imprenditoriale e commerciale del Paese. Quindi, bisogna vedere se questo blocco di potere si sta disgregando effettivamente o se l’iniziativa del viceministro è soltanto qualcosa che indica un disagio e un malessere, ma non un effettivo momento di caduta, di crollo, di implosione dall’interno del regime. Questo ce lo dirà soltanto il trascorrere del tempo.
D. – Kofi Annan, che ricordiamo essere l’inviato speciale delle Nazioni Unite della Lega Araba in Siria, dal Cairo ha chiesto proprio all’opposizione di Damasco di collaborare per risolvere il conflitto. Insomma, finora si è parlato direttamente con Assad, adesso si parla con l’opposizione. Si sta tentando questa nuova via, avrà un esito?
R. – Se si vuole risolvere la situazione, da un punto di vista dialogico, è evidente che bisogna mantenere aperti entrambi i canali. L’iniziativa di Kofi Annan potrebbe essere intesa anche in senso favorevole ad Assad, nel senso che, in qualche modo, gli apre una via d’uscita, mettendo l’opposizione di fronte alle sue responsabilità di evitare un’opposizione intransigente per, appunto, convergere su un piano dialogico e di intesa bilaterale.
D. – Russia e Cina sono cauti nei confronti della Siria. Obama continua a parlare di possibile attacco militare, ma ribadisce la convinzione che ci sia ancora spazio per una soluzione diplomatica ...
R. – Stiamo assistendo ad un gioco di rivalità tra le potenze, che hanno trovato dopo la Libia un altro terreno per potersi incontrare e scontrare. Io ritengo che il gioco sia un gioco di equilibri sul piano geostrategico internazionale, anche se non penso né che Russia e Stati Uniti possano arrivare ad un vero e proprio scontro definitivo sulla questione siriana né che il regime di Assad potrà essere abbattuto da un intervento militare diretto. Le condizioni sono diverse rispetto a quelle che c’erano in Libia, quando c’è stato un intervento della Nato.
D. – Nel senso che lei crede che non si arriverà mai ad un accordo di questo tipo, o perché se ci fosse un intervento militare questo, di fatto, complicherebbe la situazione creando aggregazioni militari che sosterrebbero Assad?
R. – Mi sembra più pericolosa la seconda, cioè il fatto che un intervento militare potrebbe avere conseguenze imprevedibili, ripeto, non senza arrivare ad uno scontro di dimensioni internazionali tipo quello della Guerra Fredda. Perché io credo che se gli Stati Uniti insistessero su una posizione di rigidità, prima o poi la Russia dovrebbe fare un passo indietro. Anche perché un intervento militare, probabilmente, convincerebbe altre forze – penso soprattutto all’Iran – ad intervenire in qualche modo, se non a livello militare, sicuramente a livello diplomatico, per sostenere un regime che ormai da lungo tempo è alleato e sostenitore dell’Iran e dello Stato degli ayatollah. In questo senso, direi. (ap)
Sudafrica: sciopero di massa contro il precariato e pedaggi autostradali
◊ Circa 100 mila manifestanti sono scesi nelle strade di 32 diverse città del Sudafrica. Il Cosatu, il sindacato confederale del Paese che ha organizzato la protesta, si oppone all’introduzione di pedaggi sui nuovi tratti autostradali che collegano Johannesburg alla capitale Pretoria. Ma le tensioni sono alte per molte altre ragioni, tra le quali il precariato. Massimo Pittarello ha chiesto a Raffaella Chiodo, giornalista attivista per i diritti umani in Sudafrica dai tempi dell’Apartheid, quali siano le questioni in gioco:
R. – La manifestazione viene dopo una serie di manifestazioni e di scioperi, nel senso che lo Stato ha promosso questa manifestazione non tanto contro i pedaggi autostradali, ma per tutta una serie di questioni, che poi in qualche modo si vanno a collegare anche alla questione del pedaggio autostradale. Oggi, pare sempre più evidente che la parte più povera della popolazione rimane un po’ più ai margini dell’accesso ai servizi. In generale, è una questione che riguarda elementi di discriminazione economica che si vanno a sommare ad altri.
D. – Qualcuno già paragona queste proteste a quelle contro l’apartheid...
R. – Purtroppo, ai tempi dell’apartheid le manifestazioni sono finite nel sangue e i paragoni con quella pagina di storia li eviterei. Sicuramente, c’è stata una grande mobilitazione, ma non è il pedaggio autostradale la causa di essa, bensì – al centro – c’è la questione della “labour broker”, che è una forma di agenzia di lavoro interinale. (ap)
Il Sudafrica a 100 anni dalla nascita dell’African National Congress
◊ L’African National Congress di Nelson Mandela ha compiuto 100 anni, ricordando al mondo la battaglia contro l’apartheid che ha fatto del Sudafrica un Paese simbolo. In questi giorni, si è riparlato del movimento divenuto partito perché ha decretato l’espulsione di Julius Malema, considerato il leader "ribelle" della Lega giovanile. Si avverte un braccio di ferro interno tra alcune anime del partito e la leadership del presidente Zuma. In tutto questo, l’apprensione per le condizioni di salute del Premio Nobel, Mandela. Ma come si presenta oggi il Sudafrica, a 100 anni dalla nascita dell’Anc? Fausta Speranza ha intervistato l’africanista Aldo Pigoli, docente all’Università Cattolica di Milano:
R. – Come ogni data simbolica, c’è una forte carica emotiva, evidentemente. L’Anc ha una storia lunghissima, una storia anche differenziata, che ha vissuto varie fasi. E’ un soggetto che ha attraversato la vera storia del Sudafrica che non è solo la storia dell’apartheid: è la storia di come l’apartheid è nato, di come è stato vissuto e di come è terminato.
D. – Oggi però, qual è la condizione dei bianchi e dei neri in Sudafrica?
R. – La condizione dei bianchi e dei neri in Sudafrica è quella di due popolazioni che ancora sono separate, ancora sono distinte dal punto di vista socio-economico e dal punto di vista politico. Socio-economico perché, nonostante l’evoluzione degli ultimi decenni, la ricchezza è ancora nelle mani di una parte della popolazione bianca e l’accesso alla ricchezza da parte della popolazione nera è tuttora limitato o frammentato. Dal punto di vista politico, al contrario, la leadership dell’Anc – che è al potere dagli anni ’90 – attraverso una serie di misure di politiche economiche e di decisioni ha cercato di ribaltare la situazione di disparità di trattamento che c’era nel periodo dell’apartheid. Chiaramente, ha cercato di compensare e recuperare il terreno perso, creando una serie di modalità diverse di accesso, ad esempio, alle cariche pubbliche, alle cariche amministrative o al mercato del lavoro, che viene regolamentato ed è stato regolamentato per far beneficiare maggiormente la popolazione nera, che fino ai decenni scorsi era fondamentalmente esclusa da tutta una serie di aree e di attività economiche e chiaramente politiche.
D. – Diciamo che la storia dell’African National Congress prosegue e tanti obiettivi devono ancora essere perseguiti, nel senso che non è stato raggiunto un vero equilibrio nella società del Sudafrica…
R. – E’ un percorso complesso. L’Anc ha anche una memoria storica molto forte, è un soggetto che è nato in un contesto storico particolare e si è sviluppato durante l’apartheid come movimento politico e militare di contrasto alla leadership bianca, e parallelamente, come simbolo dell’emancipazione nera nel continente africano, in anni dove la presenza bianca e il colonialismo e il neocolonialismo erano ancora forti. L’Anc deve trasformare il suo interno in realtà democratica e aperta a tutte le componenti. E’ di questi giorni la notizia, ad esempio, dell’allontanamento dal partito di Julius Malema, che è leader dello Youth League, del gruppo giovani dell’African National Congress: lui è un po’ il simbolo di questa spaccatura e diversificazione che è in corso da anni all’interno dell’Anc e di questa difficoltà di integrare le varie anime. Bisogna tenere presente che le prossime generazioni saranno sempre più lontane dal periodo dell’apartheid e quindi avranno un retaggio culturale, storico, ma non avranno personalmente vissuto l’apartheid. Quindi, bisognerà capire che tipo di Sudafrica vorranno e che tipo di Anc vorranno e, quindi, di governo.
D. – Prof. Pigoli, Nelson Mandela è simbolo non solo per il Sudafrica e per l’Africa, ma anche per il mondo intero di un certo tipo di battaglia…
R. – Mandela è sicuramente un elemento, il collante della cosiddetta “rainbow nation” la nazione arcobaleno: quel fenomeno straordinario che è stato il passaggio dall’epoca dell’apartheid a una fase di transizione che non è stata violenta. E’ stata una fase caratterizzata da un grande processo di osmosi all’interno della popolazione, fatto di perdono, fatto di cancellazione della parte negativa del ricordo dell’apartheid e quindi di un successo vero e proprio. Tanto che è un esempio a livello mondiale di come si possano superare tragedie come quella dell’apartheid. (bf)
Giornata della donna. La testimonianza di un'imprenditrice italiana
◊ “Impegnarsi di più per l'uguaglianza e il rafforzamento delle prerogative delle donne come diritto umano fondamentale da cui tutti possono trarre beneficio”. E’ l'appello lanciato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel messaggio per l’odierna Giornata internazionale della donna. Nel mondo, cresce l’influenza femminile nella politica e negli affari, ma tanto resta da fare, dice, specie nei contesti rurali, nei quali bisogna investire per lo sviluppo delle nazioni. Tra le tante testimonianze da noi raccolte sull’impegno e la vita delle donne nel mondo, proponiamo una figura femminile di imprenditrice del sud Italia, Irene Giordano, che a Enna gestisce uno studio di consulenza per il lavoro e che ha scelto insieme con altre 200 attività italiane di aderire al progetto Economia di comunione del Movimento dei focolari. In che modo, dunque, una donna legge la crisi economica attuale e quali le risposte possibili? L’intervista è di Gabriella Ceraso:
R. – A mio avviso, si tratta particolarmente di una crisi di rapporti, di capacità reciproca di relazione, che è poi quella che crea dinamiche positive dentro ai gruppi di lavoro, nelle aziende, e quindi anche nel più ampio contesto sociale. Penso che questa crisi sia sicuramente un’occasione per rivalutare e rivedere le contrapposizioni tra le parti sociali, le dinamiche tra imprenditori e lavoratori. E in questo l’Economia di comunione ha anche una parola da spendere.
D. – L’economia di comunione a cui lei aderisce come imprenditrice prevede la suddivisione degli utili tra azienda, formazione e anche fondo di solidarietà. Si riesce a far fronte alla crisi con questa logica, che non è quella del profitto?
R. – Restando ai dati, sono aumentate le aziende che aderiscono al progetto ed è aumentata la quantità di utili che sono stati condivisi nello scorso anno. Certo, le difficoltà ci sono, però probabilmente la disponibilità a essere più essenziali nelle attese di ritorno del lavoro che si fa – a condividere di più, a innovare e a coinvolgere tutte le potenzialità, quindi anche giovani e persone in disagio – in questo momento premia.
D. – Che effetto le fa sentire che al Sud lavora solo una donna su quattro, nonostante il 19 per cento, secondo gli ultimi dati, sia laureato contro il 12 per cento degli uomini? Come far fronte a questo che sembra un potenziale di crescita sprecato?
R. – Sicuramente, ci vuole più coraggio. Innegabilmente, al Sud ci sono anche meno strutture, meno supporti per la donna che lavora e un po’ sta venendo meno anche quell’apporto fornito dalle relazioni familiari e sociali. Per una donna, conciliare il lavoro con i tempi della famiglia sinceramente è ancora difficile. Tuttavia, questa situazione si può correggere e vedo anche segni di crescita e di cambiamento.
D. – Come donna imprenditrice, quali priorità indicherebbe per una sana crescita oggi?
R. – Ci vuole più capacità di donarsi e meno attese, meno pretese. Le priorità, sicuramente sono la condivisione e poi dare tanto spazio alla formazione, cioè crescere nel senso culturale, prepararsi e cercare di guidare il cambiamento verso mete positive.
D. – In questo il ruolo positivo delle donne qual è?
R. – La capacità di rilevare i bisogni e di avere quella attenzione in più nel suggerire modalità di risposta. Sicuramente, in questo tempo ci può giovare una sensibilità più alta. (bf)
La storia di suor Christine: lavoro per strappare i giovani albanesi dalla "vendetta di sangue"
◊ Nel giorno delle celebrazioni internazionali per la donna, proponiamo la testimonianza di suor Maria Christina Färber, religiosa tedesca della Comunità dell’accompagnamento spirituale. Da anni, suor Christina vive e lavora a Shkodra, nel Nord dell’Albania, una delle regioni più povere dell’Europa meridionale, dove esercita tra l’altro un particolare impegno nella lotta alla cosiddetta “vendetta di sangue”, un’antica usanza che prevede il diritto di vendicare l'uccisione di un proprio familiare, colpendo fino al terzo grado i parenti maschi dell'assassino. Suor Christina ha partecipato ieri all’udienza generale del Papa. Al termine è stata intervistata da Christine Seuss della nostra redazione tedesca:
R. – Unterstützung von Menschen in Blutrache ist ein…
Il sostegno alle persone perseguitate dalla "vendetta di sangue" è un progetto sostenuto da molte persone. Noi abbiamo deciso di voler vivere con queste persone, di farci carico dei loro affanni e di essere presenti gli uni per gli altri. Ci siamo scontrati con questo fenomeno della "vendetta di sangue" da quando io sono in Albania, cioè dal 1999. Tale fenomeno, conosciuto come “codice delle montagne”, ci ha colpito ogni volta che siamo venuti in contatto con persone che vi sono coinvolte. Lo specifico progetto di recupero che è venuto sviluppandosi negli ultimi dieci anni è nato dal percorso che i giovani coinvolti dal fenomeno hanno compiuto insieme con noi: allora erano bambini, che noi abbiamo portato via dal loro isolamento, con le macchine li abbiamo portati nel nostro centro dove abbiamo lavorato molto con loro. Oggi, siamo a un punto in cui è avvenuto un cambiamento nella presa di coscienza in questi che ora sono giovani uomini e donne: un anno e mezzo fa hanno deciso di non voler più essere vittime sacrificali, di voler spezzare questo “codice delle montagne”, sapendo di mettere a rischio la loro stessa vita. Hanno deciso di vivere in termini “biblici”: vivere la Buona Novella e non dare più credito al codice "Kanun". Questo significa che non è necessario vendicarsi, che non è necessario picchiare una donna perché una donna ha gli stessi diritti e noi siamo tutti creature di Dio. C’è voluto molto tempo, perché questo era un obbligo sacro. Questi giovani oggi non credono nemmeno più che l’anima sia libera solamente quando è stata vendicata. Questi giovani stanno partendo per compiere un viaggio a tappe in Germania, dove parleranno della loro storia. Non si vergognano più: normalmente, le persone che vivono in questa situazione di “vendetta di sangue” sono banditi. Noi lavoriamo con tutte le famiglie, lavoriamo con i bambini che non hanno nulla a che vedere con la “vendetta di sangue”, che fin dall’inizio sono integrati nel gruppo - un gruppo grande di persone che non vive nella “vendetta di sangue” - dove hanno iniziato a parlare della loro sorte e dove imparano a comprendere che non è necessario vivere in quel modo. Ogni volta che un ragazzo esce da questo meccanismo, è uno in più. Per ogni persona che lo comprende – e spesso si affrontano lotte interiori lunghissime – per ogni giovane che rinuncia all’uso della violenza, abbiamo ottenuto una vittoria. E i giovani reagiscono velocemente. Noi confidiamo molto nello Spirito Santo e sull’aiuto di Dio e ogni persona che si impegna in questo ambito contribuisce a compiere un ulteriore passo contro questa legge che nega la vita. Il "Kanun" non prevede solamente l’esecuzione della punizione: non ha nulla a che fare con la punizione. Ne va del ristabilimento dell’onore: è un mito, è il culto degli antenati secondo cui l’anima è libera solo dopo essere stata vendicata, e questo comporta un profondo smarrimento dell’animo umano. Se noi siamo autentici con il messaggio che portiamo – insegnando loro che non hanno bisogno del sangue del prossimo né della vendetta, insegnando loro a credere nel sacrificio di Gesù che ha perdonato tutto – allora saremo un passo avanti. E questo è il messaggio che noi poche suore, nella nostra piccolezza, opponiamo al "Kanun" con la nostra vita. Per me è stato come deporre tutta quella parte del popolo albanese colpito da questo fenomeno ai piedi del Santo Padre, che è rappresentante di Cristo in terra, consegnandola a Dio. Dovranno accadere molti miracoli. Ma accadranno. (gf)
Appello di Save the Children: sconfiggere la mortalità materno-infantile
◊ Nel mondo, 48 milioni di donne partoriscono senza alcuna assistenza, oltre 350 mila muoiono al momento del parto, mentre sono 800 mila i bambini che alla nascita non sopravvivono. In occasione della Festa della Donna, l’organizzazione Save the Children ci ricorda che “essere donna in molte parti del mondo significa oggi ancora vedere a rischio o negato il diritto alla vita per se stessa e per il proprio bambino”. Valerio Neri, direttore generale Save the Children Italia, ne parla al microfono di Francesca Sabatinelli:
R. – Milioni di persone vivono in aree del mondo dove non c’è assistenza sanitaria e nessun concetto di igiene fondamentale. Vi sono parti del pianeta dove nessuno dice a una donna che aspetta un bimbo quali siano i rischi che corre a causa della sua condizione di puerpera. Per milioni e milioni di donne questo non avviene. Vi sono inoltre milioni e milioni di donne che vivono nell’analfabetismo più totale, che quindi non hanno le minime concezioni igieniche che potrebbero permettere loro di salvare la propria vita e quella dei loro bambini.
D. – Save the Children, in occasione di questa Giornata, ha scelto di ricordare al mondo questa tragedia sottolineando che è evitabile. Come?
R. – Abbiamo dimostrato che lo è. Save the Children è una grande organizzazione internazionale, ma siamo piccoli rispetto alle Nazioni Unite, ai grandi governi. Ebbene noi, nella nostra semplicità di privati, riusciamo a salvare migliaia, centinaia di migliaia di vite addestrando, a nostre spese, il personale locale su ciò che è fondamentale per un infermiere. Si tratta di persone capaci di insegnare a loro volta alle donne dei villaggi le regole fondamentali, capaci di seguire le donne che si avvicinano al parto e mandarle eventualmente negli ospedali – generalmente molto lontani – se si prevede che si possa trattare di parti pericolosi. Queste persone noi le chiamiamo i “volontari della salute”, "health worker". E’ una cosa estremamente semplice: questi operatori della salute, con la loro bicicletta, con l’asino, con i sandali ai piedi, camminano per decine e decine di chilometri, raggiungono paesetti non raggiungibili altrimenti e lì portano soccorso, salvano realmente le vite. E’ una cosa che se riesce a fare Save the Children, perché il mondo ricco, opulento, non può impegnarsi a farlo?
D. – Parliamo di un altro dramma: quello dei bambini che muoiono entro i cinque anni di età, colpiti da malattie qui da noi paragonabili a semplici raffreddori...
R. – Sì, pensiamo solo a chi di noi non ha avuto il proprio figlio affetto da una semplicissima diarrea. Ebbene, nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nella fascia sub-sahariana dell’Africa, i bambini muoiono per semplici diarree non gestite correttamente. Per esempio, il bambino ha la diarrea ma la mamma continua a fargli la pappa con l’acqua non bollita e chiaramente il problema, invece di risolversi, si aggrava e il bambino, pian piano, arriva alla morte. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di bambini morti così per ogni Paese. I bambini muoiono perché noi non riusciamo – ricchi e opulenti come siamo – a portare quelle banali informazioni salvavita che in questi Paesi potrebbero risolvere semplicemente la situazione, ripeto, per milioni di mamme e bambini.
D. – Save the Children continua il suo intervento per cercare di abbattere la mortalità materna infantile in decine di Paesi attraverso la campagna “Everyone”. State promuovendo una raccolta di fondi, come procedete?
R. – Acqua Lete è lo sponsor che ha voluto dedicare tutta una campagna pubblicitaria, che adesso è sulle maggiori reti italiane, proprio alla nostra campagna. Come si fa? Con un sms solidale inviato al 45595. Con questo semplice sms di un euro, dal cellulare oppure dal telefono di casa, noi possiamo raccogliere ulteriori fondi da destinare al fine che abbiamo detto. Vorrei solo far notare una cosa: 45595 vale un euro. In Italia, un euro è circa un caffè, ma nei Paesi in cui noi andiamo a lavorare con un euro compriamo le medicine, gli antimalarici, lo zinco, le vitamine. Un euro per noi è una sciocchezza, nel mondo in cui andiamo a lavorare, invece, fa la differenza reale tra la vita e la morte di un neonato. Quindi, prego tutti di darci una mano: 45595. (ap)
Tra i Paesi più colpiti dalla mortalità materno-infantile vi sono l’Afghanistan, il Niger, l’Eritrea, il Mali, la Sierra Leone. Proprio in quest’ultimo ha operato il ginecologo Giuseppe Canzone, della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), che con l’Unicef ha avviato un’intesa per tutelare la salute di madri e neonati. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – In Sierra Leone, abbiamo trovato una situazione veramente drammatica, perché quel Paese, come tutti sanno, è uscito da poco da una guerra civile, da sette-otto anni, che ha messo il Paese in ginocchio. Ci sono strutture di assistenza sanitaria assolutamente fatiscenti. In quel Paese, vivono circa sei milioni di abitanti e si realizzano circa 230 mila parti l’anno: duemila donne muoiono ogni anno di parto e per ognuna di loro almeno altre 30 – quindi nell’ordine di 60 mila donne – avranno sequele invalidanti legate alle condizioni precarie in cui avviene il parto, come infezioni, dolori cronici, fistole, incontinenze di vario tipo. Diciamo, quindi, che una donna su quattro che partorisce in quel Paese o muore o rimane invalida per la vita a causa del parto.
D. – Per quanto riguarda invece i bimbi, sappiamo che un’alta percentuale muore alla nascita e poi un altissimo numero entro i primi cinque anni di vita...
R. – Proprio così. La proporzione delle morti dei bambini è quattro volte superiore alla morte materna. Quindi, per duemila donne l’anno che muoiono di parto, ottomila bambini l’anno muoiono o durante il parto o nelle fasi immediatamente post-parto. Quindi, una percentuale di morte altissima, che avviene anche per malattie che possono essere endemiche, come per esempio la malaria, o la diarrea, che uccide moltissimi bambini. Diciamo che, giustamente, l’Organizzazione mondiale della sanità ha messo al primo posto, come obiettivo del Millennio, la riduzione della mortalità materna ed infantile nei Paesi in via di sviluppo. Noi, come Sigo, abbiamo voluto contribuire a questo obiettivo, unendo i nostri sforzi a quelli che sta facendo l’Unicef, cercando quindi di inviare delle nostre energie sul campo, in maniera da dare una formazione anche a questi medici, che sono 60 per tutta la Sierra Leone, e fra loro uno solo è un ginecologo. Significa che quando la paziente arriva in ospedale trova un medico che, se va bene, fa tutto: il chirurgo, il ginecologo, l’internista e quant’altro. Lì si muore soprattutto per quella che loro chiamano la “triade della morte”. Mi spiego: la gran parte di queste gravidanze intervengono in donne molto giovani e vengono vissute in villaggi periferici, per cui la prima causa di morte materno-infantile è che le donne non si accorgono di essere in gravidanza e di avere un problema; se hanno un problema emorragico a livello periferico muoiono. Il secondo problema è la viabilità, raggiungere l’ospedale. Bisogna quindi vedere in che stagione sono, com’è la viabilità e come raggiungono – il più delle volte a piedi – l’ospedale di riferimento più vicino. La terza problematica è che, se anche queste donne giungono in ospedale, non trovano strutture idonee ad affrontare l’emergenza, perché non ci sono le unità di sangue e non c’è l’esperienza da parte dei medici in grado di gestire l’emergenza e risolverla.
D. – Torniamo al discorso del basso numero di medici presenti nel Paese: la vostra intenzione è quella di formare personale del luogo, oppure vorrete chiedere l’intervento di medici italiani e portarli lì?
R. – Noi abbiamo provato a proporre che qualche medico venisse qua da noi a formarsi, ma questa cosa non è stata accolta positivamente dalle autorità locali, perché dicono che appena qualcuno esce dalla Sierra Leone poi non torna più. Il nostro obiettivo è quello di inviare sul campo delle équipe, formate da medici e ostetriche, che possano andare a formare le ostetriche che risiedono in Sierra Leone. Per questo abbiamo pensato che, intanto, per iniziare questo percorso, prenderemo un paio di strutture come riferimento. Quindi, se qualche radioascoltatore – ginecologi o ostetriche con adeguata preparazione – intendesse partecipare ad un progetto, può contattare la nostra segreteria della Sigo e saremo noi poi a coinvolgerlo nei percorsi che sono in via di definizione. (ap)
Il cardinale Bagnasco ai parlamentari: il Paese a rischio individualismo
◊ Il cardinale Angelo Bagnasco, confermato ieri alla guida della Cei per un altro quinquennio, ha ribadito il valore della domenica, momento in cui la famiglia si ritrova. Per il porporato “indebolire la famiglia significa attentare alla società”. Occasione è stato un discorso ai parlamentari tenuto ieri sera alla Pontificia Università della Croce. Nel suo intervento, netto il "no" all’individualismo e al consumismo. Il servizio di Alessandro Guarasci:
Il cardinale Angelo Bagnasco parla davanti a una trentina di politici e mette in luce come l’Italia viva un “preoccupante calo delle nascite”, un “suicidio demografico”. E' “il suicidio di una Nazione che non guarda avanti perché ha paura del futuro''. Più in generale, la Nazione corre il pericolo di un individualismo esasperato, che concepisce tutto in una logica utilitaristica, che alla fine ha anche altri pesanti riflessi:
“Ne vediamo i frutti nella piaga dell’evasione fiscale e nell’impiego, a fini personali, di beni pubblici, nella corruzione e nell’indifferenza verso i poveri e verso gli indifesi, verso i deboli. In sintesi, l’individualismo genera solitudine”.
L’esperienza religiosa, poi, va tutelata, rafforzata, perché anche in uno Stato laico rappresenta il segno più alto della libertà dell’uomo. No dunque a un “ateismo pratico” che rischia di avere pesanti ricadute concrete:
“I giorni festivi. Quando si sottrae, alla famiglia in particolare, la possibilità o non si favorisce l’incontro in tempi distensivi nel proprio interno per ritrovarsi, per confermarsi, la si rende debole, la si rende più fragile, ma si attenta alla società nel suo insieme”.
E poi un appello direttamente ai parlamentari: fate della carità il principio ispiratore del vostro agire, oltre che delle scelte politiche. Per i prossimi cinque anni, il presidente della Cei delinea due priorità: l'aiuto della Chiesa alla popolazione italiana colpita dalla crisi economica e l'impegno nella sfida educativa.
Giornata mondiale del rene: intervista con il prof. Gambaro
◊ Oggi ricorre la Giornata mondiale del rene, una patologia che tende a peggiorare fino ad arrivare ad una situazione in cui questo organo diventa totalmente insufficiente, tanto da rendere necessaria la terapia di dialisi. Come riconoscere l'insufficienza renale e quali sono le nuove frontiere scientifiche della nefrologia? Ce ne parla il prof. Giovanni Gàmbaro, direttore dell'Unità Operativa di nefrologia e dialisi del Policlinico Universitario Agostino Gemelli/Complesso integrato Columbus. Intervista di Eliana Astorri:
R. – Sono legati alle complicanze, ai problemi che si instaurano gradualmente con l’insufficienza renale. Quindi, sono sintomi che dipendono dall’anemia: infatti, questi pazienti diventano gradualmente anemici e questo può provocare senso di affaticamento e riduzione della forza. Ci sono poi manifestazioni legate all’aumento di alcuni sali nell’organismo, ad esempio il potassio. Nelle gravi insufficienze renali ci possono essere concentrazioni così elevate di potassio - quindi non lievi aumenti ma aumenti significativi - che possono provocare anche l’arresto cardiaco, aritmie, riduzione della forza … Abbiamo poi problemi che possono essere legati all’accumulo di fosforo e alla riduzione del calcio nell’organismo: il rene, in un certo senso, produce la vitamina D attiva e quando c’è un’insufficienza renale si produce meno vitamina D attiva e questo implica alterazioni del metabolismo del calcio, del fosforo e dell’osso. E’ una condizione che noi chiamiamo di “iperparatiroidismo secondario” che ha conseguenze importanti sia sull’osso, sia sul sistema vascolare, in quanto determina calcificazioni vascolari. I pazienti con insufficienza renale cronica sviluppano un’ateriosclerosi più severa che in assenza di insufficienza renale cronica e questo spiega il fatto che queste persone hanno un rischio maggiore di andare incontro a malattie cardiovascolari - infarto, ictus, problemi di circolazione agli arti inferiori, necessità di amputazioni degli arti - rispetto alla popolazione che non ha insufficienza renale cronica.
D. – Quali sono le prospettive della nefrologia in Italia e nel mondo? Perché ovviamente avete dei protocolli comuni a tutti ...
R. – Certo. Dobbiamo dire che la nefrologia italiana è molto avanzata sia in termini di qualità delle cure che di qualità scientifica, della ricerca e dobbiamo essere orgogliosi di ciò. I nostri risultati sono per molti aspetti all’avanguardia nel panorama della nefrologia mondiale. Diciamo che purtroppo non abbiamo ancora all’orizzonte terapie che consentano di modificare l’evoluzione e di curare in maniera definitiva alcune patologie che portano all’insufficienza renale cronica. Per cui gran parte del nostro impegno e del nostro sforzo dovrà essere incentrato sull’assistenza, e sulla prevenzione e sulla diagnosi precoce: perché ci sono strumenti, terapie e interventi che possono realmente modificare la storia naturale di queste malattie, altrimenti molto severe.
La Fondazione italiana del rene e la Società italiana di nefrologia hanno previsto molte iniziative per questa Giornata. Basta visitare i siti: www.fondazioneitalianadelrene.org, www.sin-italy.it. (cp)
L'America Latina a duecento anni dall'indipendenza nel libro di Guzman Carriquiry
◊ “Il bicentenario dell’indipendenza dei Paesi latinoamericani” è il titolo del libro di Guzman Carriquiry, segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina, presentato ieri a Roma presso l’Istituto italo-latino americano. Il volume, pubblicato in Italia da Rubettino, è una lucida sintesi sulla situazione del continente sudamericano, fra occasioni perse e prospettive di rilancio. Il servizio di Michele Raviart:
Raccontare l’indipendenza di un continente senza cadere nella retorica nazionalista e nei luoghi comuni. Questo l’obiettivo che si pone Guzman Carriquiry nel narrare i processi di emancipazione dell’America Latina, tra il 1809 e il 1824, dalle prime insurrezioni lealiste scatenate dall’invasione napoleonica della Spagna, alle guerre di popolo dei libertadores Bolìvar e San Martìn. Un periodo storico spesso interpretato ingenuamente, tanto dagli storici quanto dalle istituzioni, ma profondamente sentito nelle celebrazioni per il bicentenario, cominciate nel 2010. Guzman Carriquiry, autore del volume:
“E’ un evento importante per i latinoamericani: da una parte aiuta a ricapitolare il passato storico, ma dall’altra deve affrontare tutte le questioni, le sfide e i compiti che l’indipendenza ha lasciato irrisolti. Bolivar facendo una sorta di bilancio nel 1830 della sua impresa di emancipazione diceva: 'Arrossisco nel dirlo, l’indipendenza è l’unico bene che abbiamo ottenuto a costo di tutti gli altri'. In fondo, voleva dire che neanche l’indipendenza era stata garantita, come abbiamo verificato nella storia posteriore”.
Un’indipendenza, spiega l’autore, che ha sempre dovuto confrontarsi con situazioni di squilibrio sia all’esterno, con l’ingerenza delle potenze anglosassoni in campo economico e politico, sia all’interno, con le popolazioni indigene, discriminate e costrette a vivere in condizioni degradanti. A unire un continente che si sarebbe progressivamente frammentato in diverse unità statuali, il cristianesimo: mai messo in discussione e i cui valori umani e spirituali sono stati spesso convertiti in diritto positivo nelle Costituzioni di questi Paesi, come ci spiega mons. Marcelo Sanchez, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali:
“Una delle cose fondamentali nel contesto del mondo globale è che in fondo l’America Latina ha radici cristiane che si sono molto sviluppate dall’evangelizzazione: sono passati 400 anni. E non le hanno cancellate neanche i diversi processi per forza contraddittori che ci sono stati al momento dell’indipendenza. E’ una forza enorme per dare la fede e per dare anche quell’ordine dei beni del Regno che vengono col Vangelo”.
Per la sua posizione tra le civiltà atlantiche e i Paesi del Pacifico, il ruolo cruciale dell’America Latina, spiega ancora mons. Sanchez, diventa allora quello di promuovere il cristianesimo e il suo umanesimo di libertà, democrazia, dignità della persona e centralità della famiglia. In questo senso, l’imminente viaggio di Benedetto XVI in Messico e Cuba assume una valenza speciale. Ancora Guzman Carriquiry:
“Il Santo Padre ha annunciato questo viaggio il 12 dicembre scorso nella Basilica di San Pietro, nella festività di Nostra Signora di Guadalupe, patrona dell’America Latina, a motivo del bicentenario dell’indipendenza. La prima Messa che presiederà in terra messicana sarà nel parco del Bicentenario, nel municipio di Silao, nel Guanajuato. Certo, il Papa abbraccerà con la sua sollecitudine pastorale il popolo messicano e quello cubano in modo molto speciale, per confermare e rivitalizzare in questi popoli la fede in Cristo, Ma, allo stesso tempo, guarderà e si rivolgerà a tutta l’America Latina che sta vivendo una fase storica molto favorevole e molto promettente”.
Dal 2003 ad oggi, l’America Latina ha avuto il processo di crescita economica di maggior durata e consistenza degli ultimi 50 anni e da 40 vive un processo di democratizzazione costante, che, afferma l’autore, “ha lasciato alle spalle politiche di morte che sono state la morte di ogni politica”. Il continente sudamericano, che ha reagito meglio di altre regioni del mondo alla crisi economica, ha oggi l’occasione di scrollarsi di dosso l’etichetta di “continente delle occasioni perse” e può guardare con ottimismo fondato al proprio futuro.
A Milano, il cardinale Scola ha inaugurato le riflessioni di Quaresima del Pime
◊ È stato il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo scola, a inaugurare ieri sera il ciclo di Quaresima 2012 “Non di solo pane”, organizzato dal Centro di Cultura e Animazione Missionaria del Pime. Tema della meditazione proposta dal capo della Chiesa ambrosiana è stato “Fame di Mistero”. Il servizio di Fabio Brenna:
Il mistero è un bisogno fondamentale di ogni cuore: desiderio di Dio, che in termini umani si potrebbe dire desiderio di compimento della propria vita. In questa prospettiva, il cardinale Angelo Scola ha affrontato quella “fame di mistero” dove – ha detto – si intrecciano i due termini di felicità e di libertà. Il Pime milanese propone come percorso quaresimale l’evoluzione della sua campagna “Contro la fame, cambio la vita”, e ha affidato all’arcivescovo di Milano di scandagliare questa fame spirituale, relazionale, dialogica che è dunque presente in tutti gli esseri umani. Una ricerca che prende strade diverse, che in taluni casi non imbocca la ricerca di Dio, frenata da quello che già il cardinale Montini, futuro Papa Paolo VI, definiva “frattura fra fede e vita”:
“Moltissimi nostri fratelli battezzati non praticano più perché non vedono più il nesso. Cioè, sono sopraffatti dal mestiere di vivere, soprattutto le generazioni di mezzo, e non vedono più in che senso sia 'conveniente' celebrare l’Eucaristia con i fratelli, vivere insieme”.
Costante del Magistero di Papa Benedetto XVI, ha aggiunto il cardinale Scola, è il richiamo alla gioia, quella che con la fede diventa anticipazione della definitiva gioia del Paradiso. Un anelito, quello alla gioia, che l’umanità intera può conseguire con l’incontro con la persona viva di Gesù:
“La fede nel Dio dal volto umano – Cristo Gesù – questa fede porti la gioia nel mondo. La fame del mistero, quando trova soddisfazione, sprigiona gioia da tutte le parti”.
Dopo l’incontro con il cardinale Scola, intervenuto a compimento della ricorrenza del 50.mo anniversario di fondazione del Centro Pime, verranno analizzati altri tipi di fame metafisica: quella per la parola che salva, la fame di relazioni e infine quella di dialogo. (gf)
Hong Kong: il neo cardinale Tong chiede di pregare per il dialogo Vaticano-Cina
◊ L’Evangelizzazione, la promozione delle vocazioni dei sacerdoti e dei religiosi/e, la cura dei cattolici non cinesi della diocesi e la Chiesa in Cina: sono i quattro impegni pastorali fondamentali della diocesi di Hong Kong indicati dal neo cardinale John Tong, durante la Messa di ringraziamento per la nomina a cardinale, che ha celebrato il 3 marzo nella cattedrale dedicata all’Immacolata Concezione. Secondo quanto riferisce l'agenzia Fides, hanno concelebrato mons. John Hung, arcivescovo di Taiwan e presidente della Conferenza episcopale regionale di Taiwan: mons. José Lai, vescovo di Macao; mons. Paul Russell, incaricato d’Affari della Santa Sede presso Taiwan; il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, e un centinaio di sacerdoti. Hanno preso parte alla celebrazione un migliaio di fedeli, oltre ai pastori della Chiesa Anglicana e Protestante di Hong Kong. Durante la celebrazione il neo porporato ancora una volta ha ribadito l'importanza della Chiesa del territorio come "Chiesa ponte" e ha chiesto ai fedeli di pregare per la riapertura dei dialoghi fra Cina e Vaticano. Grazie al suo ruolo di " Chiesa ponte", la comunità di Hong Kong aiuta la Chiesa in Cina ad avere una migliore formazione, a riconciliarsi all'interno e giungere alla piena comunione con il Papa e con la Chiesa universale, facendo questo in modo "prudente e discreto". Il 2 marzo - riferisce l'agenzia AsiaNews - il nuovo cardinale, incontrando i media, ha dichiarato di aver parlato con alcune personalità del govenro cinese ed aver sottolineato l'importanza dello scambio e del dialogo. La Cina - ha spiegato - si muove verso una sempre più grande libertà economica, ma la sua politica religiosa è ancora chiusa. Nonostante ciò, egli è ottimista sia riguardo la Cina che per la libertà religiosa. "Se ai cattolici in Cina viene data piena libertà religiosa anche nelle attività - ha sottolineato - non solo essi potrebbero contribuire con più frutto al benessere della società, ma farebbero guadagnare alla loro patria una reputazione più alta nella comunità internazionale". Per la diocesi di Hong Kong, egli ha detto che la Chiesa è impegnata a "stabilire una società che rispetti i diritti umani, con una speciale cura per i deboli e gli emarginati", come è evidente dalla dichiarazione pubblicata il 19 febbraio scorso, in cui egli ha espresso la speranza per un pieno sviluppo democratico del territorio e una più solida politica a favore della società. Il cardinale Tong ha parlato anche della necessità di celebrare una Messa in lingua inglese in ogni parrocchia, per dare la massima attenzione pastorale ai lavoratori stranieri immigrati. Secondo il cardinale “un terzo dei 540 mila cattolici di Hong Kong non sono cinesi, e sono soprattutto collaboratori domestici filippini. Attualmente 35 parrocchie su 51 offrono la Messa domenicale in inglese. Ma ogni parrocchia deve avere una Messa in inglese per rispondere alle esigenze sprituali dei lavoratori immigrati. Se per qualche parrocchia è impossibile, almeno offra le strutture della chiesa o della scuola cattolica per la celebrazione religiosa degli immigrati”. (R.P.)
Congo-Brazzaville: sabato i funerali delle vittime
◊ Saranno seppellite sabato nel cimitero centrale di Brazzaville le oltre 200 vittime delle esplosioni avvenute domenica scorsa in un deposito di munizioni nel quartiere di Mpila, a poca distanza dal centro della capitale. Il funerale - riferisce l'agenzia Misna - è stato annunciato stamani dalla radio di Stato, mentre nel Paese si osservano giorni di lutto nazionale. Oltre alle perdite di vite umane – alcune fonti parlano di 246 morti – si contano 1300 feriti, migliaia di persone con traumi psicologici e danni materiali considerevoli. Centinaia di case, una chiesa, un liceo, un ospedale sono stati interamente distrutti. “Nonostante accogliamo con favore l’apertura di un’inchiesta sull’accaduto, ci interroghiamo sulle motivazioni dello stoccaggio, in piena città, di armi di guerra e di distruzione di massa. La presenza di un arsenale del genere in una delle zone come questa, è prova di negligenza e di mancanza di politiche di prevenzione delle crisi” sottolinea la ‘Rencontre pour la paix et les droits de l’Homme’ (Rpdh), un’organizzazione locale per i diritti umani, ricordando le esplosioni in depositi di armi o munizioni avvenute a Brazzaville nel 2010 e a Pointe-Noire nel 1987. Per il nunzio apostolico a Brazzaville mons. Jan Pawlowski, “l’urgenza più grave è l’acqua. Quella potabile si è risolta perché si è creata una catena di distribuzione di bottiglie, ma manca l’acqua per lavarsi, così come per le toilette. In questo momento la cosa più necessaria sono i medicinali. Quelli più semplici si trovano sul posto, anche noi siamo riusciti a racimolare un po’ di fondi per comprare alcuni farmaci per trattare la malaria, oltre a bende disinfettanti. Il problema si proporrà una volta finita l’ondata di emergenza, quando la solidarietà internazionale si sarà affievolita ma le necessità perdureranno” afferma il nunzio. (R.P.)
Congo: la Chiesa promuove il dialogo per uscire dalla crisi politica
◊ “Il dialogo tra gli attori politici e tra tutte le forze vive della società al servizio del bene comune e dell’interesse superiore della nazione congolese è rimasta l’unica via per risolvere le attuali difficoltà socio-politiche”: lo hanno detto i vescovi della Repubblica Democratica del Congo ai protagonisti delle elezioni presidenziali del 28 novembre, il capo di Stato rieletto Joseph Kabila, il candidato arrivato secondo Joseph Tshisekedi, il terzo, Vital Kamerhe, e un rappresentante del candidato arrivato quarto, Leon Kongo wa Dondo. Una delegazione di sei arcivescovi, in rappresentanza del Comitato permanente della Conferenza episcopale (Cenco), ha avviato colloqui con i leader politici questa settimana. “I presuli - ha scritto in una nota padre Leonard Santedi, segretario generale della Cenco - si sono messi in ascolto di tutti per valutare insieme come ricostruire insieme il nostro paese nella pace, nella giustizia e nella verità. Tutti hanno apprezzato l’iniziativa, ancora in fase iniziale”. Secondo l’emittente Radio Okapi - riferisce l'agenzia Misna - Kabila e gli esponenti dell’opposizione sono d’accordo sull’idea di dialogare, ma non su un’eventuale condivisione del potere. “Abbiamo detto di sì al dialogo, ma nel rispetto delle leggi e della Costituzione. Non intendiamo dialogare con persone che hanno posizioni anticostituzionali e che vorrebbero incoraggiare irregolarità” ha detto Raphael Luhulu, uno dei consiglieri di Kabila. La rielezione del presidente, alla guida del Paese dal 2001, è stata contestata dall’opposizione e in particolare da Tshisekedi, che si è autoproclamato capo dello Stato. (R.P.)
Appello della Caritas italiana per la carestia nel Sahel
◊ «C’è il rischio di una nuova catastrofe umanitaria; per questo ascoltiamo e condividiamo l’appello delle popolazioni colpite e cerchiamo di rispondere rapidamente, intensificando gli aiuti immediati per prevenire una crisi più grave». Questo il messaggio lanciato da Caritas Italiana e dalle altre Caritas del “Gruppo di lavoro sul Sahel” riunitosi a Bamako, capitale del Mali. L’allarme alimentare tocca ormai circa 10 milioni di persone, che rischiano di diventare il doppio se non verranno prese urgentemente misure efficaci. I Paesi maggiormente colpiti sono: Mali, Niger e Burkina Faso e, in misura minore, Senegal e Ciad. Le piogge del 2011 sono state insufficienti e hanno generato un raccolto deficitario (25% in meno rispetto all’anno precedente), a cui è seguito l’aumento dei prezzi dei beni alimentari, soprattutto cereali, che ha colpito in modo drammatico le popolazioni del Sahel, che dal 2000 subiscono ciclicamente crisi alimentari. A queste cause contingenti si uniscono fattori socio-politici come povertà cronica, forte pressione demografica, basso tasso di alfabetizzazione, debolezza delle economie locali e loro dipendenza dai mercati internazionali, oltre alle recenti crisi politiche in Costa d’Avorio, e Libia e al conflitto nella zona nord del Mali. La rete Caritas ha messo in atto una strategia d’intervento comune, attivando sin dai primi mesi di siccità un sistema di allerta delle diocesi e delle parrocchie, per poter avere informazioni precise e capillari e dare rispose adeguate. Sono stati così avviati i primi interventi di emergenza, che prevedono la distribuzione di cibo e sementi gratuite o a prezzi agevolati, il rifornimento dei granai di riserva dei villaggi, il sostegno a piccole attività generatrici di reddito e a sistemi di assistenza alternativi quali “denaro per lavoro” (cash for work) e “cibo per lavoro” (food for work). Caritas Italiana partecipa attivamente al piano di emergenza, anche grazie alla presenza di un’operatrice nella zona, e ha subito messo a disposizione 100.000 euro a sostegno delle attività della rete Caritas nel Sahel, destinandone in particolare 30.000 in risposta all’appello di emergenza di Caritas Mali. Inoltre, mentre rinnova l’invito alle istituzioni governative e internazionali ad un’azione immediata per evitare un’altra catastrofe umanitaria come quella che ha già colpito il Corno d’Africa, rilancia nel contempo l’appello alla solidarietà verso le popolazioni del Sahel. (I.P.)
Vertice Italia-Serbia a Belgrado
◊ L'Italia "continua ad essere al fianco" della Serbia supportando le ambizioni serbe "per una veloce integrazione di Belgrado" nell'Unione Europea. Lo ha detto il premier italiano, Mario Monti, giunto oggi nella capitale serba per un vertice bilaterale di primo piano. Accompagnato da una folta delegazione di ministri, il premier Monti è stato accolto dal presidente della Repubblica serba, Boris Tadic, e dal premier, Mirko Cvektovic. L’arrivo era stato preceduto da un’intervista rilasciata dal presidente del Consiglio italiano al quotidiano “Blic”, in cui aveva affermato che "la Serbia appartiene alla famiglia europea; se Belgrado continua a lavorare in questo modo – aveva poi aggiunto – penso che otterrà una data per l'inizio dei negoziati entro l'anno". Dal canto suo, il presidente Tadic ha ringraziato l'Italia per il forte sostegno di Roma all'ingresso di Belgrado nell'Unione Europea. Dopo gli incontri bilaterali, verranno siglate sei intese in materia di cooperazione economica e lotta alla criminalità. L'Italia, dopo la Germania, è il secondo più importante partner economico del Paese balcanico con un interscambio che è ammontato nel 2011 a 2,2 miliardi di euro. (A cura di Salvatore Sabatino)
Usa. I vescovi: dialogo e non l'uso delle armi contro l'Iran
◊ “Esplorare tutte le soluzioni possibili per risolvere il conflitto con l’Iran attraverso la diplomazia, piuttosto che con le armi”. È il pressante appello rivolto dai vescovi americani all’Amministrazione Obama per uscire dall’attuale crisi del nucleare iraniano, sulla quale peraltro in queste ultime ore sembra essersi aperto qualche spiraglio. L’appello è contenuto in una lettera del Presidente della Commissione per la giustizia internazionale e la pace della Conferenza episcopale (Usccb), mons. Richard E. Pates, al Segretario di Stato Hillary Clinton. Nella missiva si esprime “profonda preoccupazione” per le chiusure delle autorità iraniane, ma anche per “l’escalation dei toni e delle tensioni” registrati in questi ultimi giorni con la minaccia di un attacco preventivo contro Teheran. Un attacco – ricorda la missiva - che solleverebbe “serie” questioni morali e sarebbe in contrasto con l’insegnamento della Chiesa secondo la quale nessuna azione militare è giustificabile senza avere prima esperito tutte le possibili vie alternative. Tra queste, “sanzioni efficaci e mirate” in aggiunta a quelle già esistenti e “incentivi” affinché l’Iran intraprenda la via della diplomazia e collabori con gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Secondo mons. Pates un’azione militare sarebbe “poco saggia e potrebbe essere controproducente”, anche perché rafforzerebbe l’attuale regime iraniano isolando quelle forze nel Paese aperte al dialogo. La lettera chiede quindi alle autorità di Teheran di dimostrare con i fatti le loro buone intenzioni, ribadendo le preoccupazioni già espresse dai vescovi sul programma nucleare iraniano che contribuirebbe a minare ulteriormente i già fragili equilibri nella regione e gli sforzi internazionali per la non-proliferazione nucleare. Di qui, in conclusione, l’appello all’Amministrazione Obama a continuare l’impegno per trovare una soluzione che allo stesso tempo “riduca la minaccia della proliferazione nucleare e mantenga la stabilità in Medio Oriente”. Intanto, dopo le sanzioni occidentali e le minacce di ritorsioni dall’Iran, in queste ultime ore sembra essersi aperta una nuova fase distensiva: Teheran consentirà agli ispettori dell’Aiea di accedere al complesso militare di Parchin di recente negato a una sua delegazione, mentre l’alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha proposto all’Iran una ripresa del dialogo con il gruppo cinque più uno (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina più la Germania). (A cura di Lisa Zengarini)
Iraq: convivenza fra cristiani e musulmani e la pace passano attraverso le donne
◊ Il ruolo "chiave" ricoperto dal clero islamo-cristiano nella "diffusione della cultura dei diritti umani per il raggiungimento della pace e della stabilità". Ne hanno discusso i leader religiosi cristiani e musulmani - sunniti e sciiti - irakeni, alla 19ma sessione del Consiglio per i Diritti Umani, in programma fino al 23 marzo al Palazzo delle nazioni di Ginevra, in Svizzera, sede europea della rappresentanza Onu. Durante la sessione sono stati molti i temi affrontati: promuovere l'unità nazionale, eliminando i concetti di "maggioranza e minoranza"; garantire il rispetto della legge, il principio dello Stato civile; diffondere lo spirito di tolleranza e accettazione mediante incontri e seminari; valorizzare, al contempo, il ruolo della donna in famiglia e nella società. Tutti questi punti sono stati inseriti in una dichiarazione di intenti sottoscritta dai partecipanti. Al simposio di Ginevra hanno partecipato tre figure di primo piano del Paese arabo: l'arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako; Munir Sheikh Turaihi, ricercatore irakeno sciita che vive a Londra e Shiekh d. Nassif Jubouri, studioso sunnita e imam con base in Francia. A loro si sono uniti anche mons. Silvano Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni a Ginevra; l'ambasciatore irakeno in Svizzera, Abdull Amir Hashim rappresentante della al-Hakim Foundation all'Onu e Claire Amos, rappresentante del Consiglio mondiale delle Chiese, insieme a rappresentanti e delegati di diversi Stati. Tra i vari elementi presi in esame l'agenzia AsiaNews annuncia che è emersa anche l'importanza delle donne irakene, alle quali è chiesto di "adottare per i figli una visione educativa aperta e adeguata", che sia basata sui principi di "pace, dialogo e non violenza". Alla vigilia della festa dell'8 marzo, in cui si celebra la Giornata mondiale della donna, i delegati hanno voluto rilanciare il ruolo dell'universo rosa - anche nelle società arabe o a maggioranza musulmane - nella costruzione di un clima di convivenza e di armonia. A questo si aggiunge il valore della famiglia, quale primo centro educativo della persona umana. A conclusione dell'incontro, i leader religiosi presenti hanno diffuso un comunicato che traccia le linee guida per un futuro Iraq all'insegna della convivenza pacifica fra fedi diverse. Per ottenere questo traguardo è necessario: diffondere il principio "dell'unità nazionale" senza discriminazioni e rimuovere i concetti "di maggioranza e minoranza"; stabilire uno "Stato civile", basato sulla legge e le istituzioni; ai capi religiosi delle comunità viene chiesto di "approfondire il principio di fratellanza", che garantisce "coesistenza e coesione nazionale"; propagare lo "spirito di tolleranza e accettazione" attraverso seminari interattivi e programmi volti a sostenere la "cultura del dialogo"; infine, organizzare "incontri regolari" fra leader religiosi, per chiarire "visioni e prospettive". (S.S.)
Pakistan: Pastore protestante accoltellato da estremisti islamici, salvo per miracolo
◊ Il Pastore cristiano evangelico John Pervaiz è stato aggredito e accoltellato da un gruppo di estremisti islamici che volevano ucciderlo. L’aggressione è avvenuta nei giorni scorsi, per motivi del tutto ignoti, a Kasur, nella provincia del Punjab, dove il Pastore risiede. Come riferito all'agenzia Fides dall’Ong pakistana Lead (“Legal Evangelical Association Development”), il Pastore ha subìto diverse ferite da taglio all'addome e, condotto in ospedale, è stato alcuni giorni fra la vita e la morte, in prognosi riservata. Ora sembra fuori pericolo, “è salvo per miracolo”. Tali attacchi immotivati, notano fonti Fides, “avvengono per odio religioso, per accuse di proselitismo o perché i cristiani sono malvisti dai fondamentalisti islamici”. Il Pastore Pervaiz è membro della “Chiesa del Pakistan”, denominazione cristiana protestante per cui, da 14 anni, guida il culto a Kasur, sotto la guida del vescovo Robert Azraiya, noto attivista per la pace, l’armonia e i diritti delle minoranze. Come riferito da alcuni fedeli locali, i due aggressori sono stati identificati come Ghulam Muhammad e Ashfaq Rassol, ma si sono dati alla fuga e per ora non sono stati rintracciati. L’organizzazione Lead ha già presentato una denuncia ufficiale alla polizia (First Information Report) per chiedere l’arresto dei colpevoli, mentre la famiglia del Pastore è terrorizzata a causa dell’attacco. La comunità locale prega incessantemente per la salvezza del Pastore, perchè “la sua missione di annuncio del Vangelo possa continuare”. I fedeli chiedono il sostegno di tutti i cristiani, nel Paese e all’estero, “per sostenere le Chiese perseguitate in Pakistan”. (R.P.)
Crisi economica: dai vescovi spagnoli cinque milioni di euro alla Caritas
◊ Cinque milioni di euro donati alla Caritas per far fronte alla crisi che attanaglia la Spagna. Lo ha deciso la Conferenza episcopale spagnola, intendendo questo atto non solo come donazione, ma come richiesta di aiuto per un Paese fortemente piagato dalla disoccupazione e dal deficit. "Vogliamo lanciare un appello a tutta la società e a tutta la Chiesa - ha affermato mons. Antonio Martinez Camino, segretario generale dei vescovi spagnoli - perchè collaborino con la Caritas". Sono un milione e mezzo le famiglie del Paese iberico che vivono senza un lavoro per tutti i componenti; oltre 5 milioni i disoccupati, tanti perderanno a breve i sussisi statali. Ed inoltre molte persone hanno già abbandonato le loro case, perchè non ce la fanno a pagare il mutuo. Il profilo delle persone in difficoltà, inoltre, è molto cambiato rispetto a pochi anni fa. A soffrire oggi sono soprattutto coppie con studi superiori, qualificate, con figli, ma senza occupazione. E la cosa peggiore è che la fine di questa crisi senza precedenti non è ancora chiara. Di certo si sa che l'attività della rete di accoglienza e Assistenza della Caritas si è moltiplicata: nel 2007 sono state 400mile le persone aiutate; nel 2009 la cifra è salita fino a toccare quota 950mila, con un incremento pari al 104%. In questa situazione di disagio totale, avvertono i responsabili della Caritas, la Chiesa non può assumersi responsabilità sociali che non le corrispondono, ma che dovrebbero essere priorità delle amministrazioni pubbliche. (S.S.)
Svizzera: alla plenaria dei vescovi si parla di fame nel mondo e questione educativa
◊ La Conferenza dei vescovi svizzeri (Ces) ha tenuto, dal 5 al 7 marzo, la sua 295.ma Assemblea ordinaria. Al centro dell’incontro, innanzitutto, la campagna ecumenica di Quaresima, sul tema “Più eguaglianza, meno fame”: “Al giorno d’oggi – scrivono i vescovi nel comunicato finale dei lavori – il diritto all’alimentazione non è garantito per più di un miliardo di esseri umani”. Per questo, i presuli guardano con favore al fatto che la campagna ecumenica di Quaresima, quest’anno, metta l’accento su “un aspetto essenziale delle disparità tra uomo e donna, ovvero sul fatto che il 60-70% delle persone che patiscono la fame è donna, come riportano le statistiche dell’Onu”. Proprio le donne, quindi, “che nutrono il mondo, sono coloro che hanno meno da mangiare”. In questo senso, la Ces ribadisce il suo sostegno “a tutte quelle iniziative che si adoperano per l’uguaglianza sociale tra uomini e donne, in accordo con la visione cristiana dell’essere umano”. Allo stesso tempo, però, i vescovi elvetici “rifiutano l’ideologia di genere e le forme di femminismo estremo che considerano la differenza di ruoli tra uomo e donna come una costruzione e una convenzione sociale ed eludono il fondamento della rivelazione biblica”. “Il termine ‘genere’ – si legge ancora nel comunicato finale della Plenaria – dovrebbe essere usato unicamente quando il suo utilizzo non possa essere inteso come un’approvazione dell’ideologia di genere”. Altro tema centrale affrontato dall’Assemblea episcopale, quello dell’educazione sessuale nelle scuole pubbliche: in un’apposita dichiarazione adottata per l’occasione, i presuli ribadiscono che “la scuola non deve mai limitare i diritti dei genitori, ai quali spetta la responsabilità primaria dell’educazione dei figli”. Infine, la Plenaria si è conclusa con l’annuncio di alcuni importanti eventi: l’8 e il 9 maggio prossimi, avrà luogo il primo incontro tra la Ces e l’Assemblea dei vescovi ortodossi della Svizzera; il 1.mo agosto i presuli elvetici renderanno noto un messaggio sulla crisi finanziaria attuale, alla luce della visione cristiana e della dottrina sociale della Chiesa; infine, il 2 giugno del 2013, la Conferenza episcopale svizzera celebrerà il suo 150.mo anniversario attraverso una Messa solenne. (A cura di Isabella Piro)
Family 2012: Fondo di accoglienza per le famiglie povere del mondo
◊ Nasce il “Fondo accoglienza Famiglie dal mondo”, gestito dalla Fondazione Milano Famiglie 2012, per consentire a chi è in difficoltà di partecipare al VII Incontro Mondiale delle Famiglie a Milano. A meno di un mese dalla chiusura delle iscrizioni, sono 73 i Paesi di provenienza delle famiglie già registrare. C’è chi partirà da Haiti, dallo Zimbabwe, dalla Malaysia. Al Fondo - riferisce l'agenzia Sir - possono contribuire singoli, famiglie, parrocchie, movimenti, effettuando un versamento sul conto corrente dedicato. Le risorse raccolte saranno gestite dalla Fondazione Milano Famiglie 2012 e saranno destinate alla copertura delle spese di viaggio dei pellegrini in condizioni di difficoltà, provenienti dai Paesi poveri, indicati dai missionari o dagli esponenti delle chiese locali che certificheranno il loro stato di bisogno. Da qui l’invito: “Abbiamo bisogno del tuo aiuto economico per offrire un‘esperienza di gioia a chi non se la può permettere, per regalare la viva voce dei testimoni del nostro tempo a chi è costretto a concentrarsi solo sul quotidiano, per lasciare un ricordo indimenticabile a chi non sa ancora di meritarlo. Aiuta una famiglia non italiana a mettersi in cammino verso Milano. Aiutaci a non escludere nessuno. Succede se lo vuoi”. I versamenti vanno effettuati sul conto corrente: IT16Q0306901629100000014189; causale: Gemellaggi for Family 2012. (R.P.)
Africa Orientale: seminario di studio sull’"Africae munus"
◊ “Progettare il destino dei popoli dell’Africa Orientale”: su questo tema è in corso a Limuru, in Kenya, un seminario di studi organizzato dall’Amecea, l’Associazione dei membri delle Conferenze episcopali dell’Africa Orientale, che comprende nove Paesi (Kenya, Tanzania, Uganda, Etiopia, Eritrea, Malawi, Sudan, Sud Sudan e Zambia). L’evento, che si concluderà domani, vede la presenza di circa settanta arcivescovi, vescovi, religiosi, religiose e laici, tutti riuniti per approfondire la riflessione sull’Africae munus, l’Esortazione apostolica post-sinodale, siglata da Benedetto XVI nel novembre 2011. “Il documento pontificio - ha detto mons. Tarcisius Gervazio Ziyaye, arcivescovo di Blantyre, in Malawi – rivela la ricchezza dottrinale con cui il Papa sottolinea la missione evangelizzatrice della Chiesa in Africa”. L’Esortazione apostolica, ha aggiunto il presule, “dona molta enfasi al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace, così da aiutare la costruzione di un nuovo Continente, polmone spirituale dell’umanità”. Per questo, mons. Ziyaye ha ribadito: “Questa Esortazione è un dono alla Chiesa in Africa ed uno strumento molto importante per l’opera di evangelizzazione”. Dal suo canto, mons. Alain Paul Lebeaupin, nunzio apostolico in Kenya, nel suo intervento ha richiamato la necessità, per la Chiesa africana, di fare in modo che tutti, religiosi e laici, siano coinvolti nell’attuazione del documento pontificio. “C’è una speranza, in Africa, in termini di crescita dei cristiani – ha concluso – ma essa dipenderà dall’impegno della Chiesa locale”. (I.P.)
Rwanda: l’impegno della Chiesa nella lotta alle violenze contro le donne
◊ La Chiesa in Rwanda e la Polizia di Stato ruandese hanno siglato un importante accordo di collaborazione per intensificare la lotta alle violenze contro le donne. L’accordo – riferisce l’agenzia cattolica africana Cisa - giunge a due anni dal lancio di un programma triennale promosso dalla Chiesa locale e finanziato dall’Unione Europea e dalla Caritas Internationalis per sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno e garantire assistenza sanitaria e legale alle vittime, in linea con quanto richiesto dalla risoluzione 1325 dell’Onu nella parte che riguarda la protezione delle donne e delle ragazze contro la violenza di genere durante e dopo i conflitti armati. Il programma ha già dato risultati significativi, anche se resta ancora molto da fare, come ha sottolineato il coordinatore del programma mons. Servilien Nzakamwita, vescovo di Byumba, a un incontro con le autorità di polizia rwandesi a Kacyriru: “Ci sono persone che non sanno neanche che esiste una legge che punisce i responsabili di violenze di genere, mentre altre non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto”, ha rilevato il presule, denunciando che alcune vittime non ricevono l’assistenza necessaria e diversi colpevoli non vengono assicurati alla giustizia, perché protetti da funzionari pubblici che li aiutano a fuggire, senza contare i casi di corruzione. “Le violenze di genere esistono ancora e siamo impegnati a difendere i diritti delle vittime perché giustizia sia fatta”, ha concluso mons. Nzakamwita. Come evidenziano i dati Onu e di altre organizzazioni internazionali, uomini e donne sono colpiti in modo diverso durante i conflitti armati, essendo queste ultime più vulnerabili alla violenza fisica, alle intimidazioni e alle discriminazioni, mentre gli uomini rischiano piuttosto di essere arruolati nei gruppi militari o uccisi. La tutela delle donne e delle ragazze contro la violenza di genere, in particolare contro lo stupro, nelle situazioni di emergenza è solo uno dei punti affrontati dalla risoluzione 1325 del 2000. L’obiettivo generale della risoluzione è di promuove la piena partecipazione delle donne nella prevenzione dei conflitti, nel mantenimento della pace e nella ricostruzione delle comunità devastate dalla guerra. (L.Z.)
Costa d'Avorio. Mons. Kouadio: abbandonare sincretismo religioso e pratiche pagane
◊ Nella Costa d’Avorio molti cristiani mescolano la fede in Cristo con riti pagani e si assiste al sincretismo tra cristianesimo, sette e movimenti esoterici. E’ l’allarme lanciato dal vescovo della diocesi di Yamoussoukro, mons. Marcellin Yao Kouadio, che domenica scorsa, durante la messa officiata nella parrocchia di Toumodi ha esortato i fedeli a vivere il senso profondo della Quaresima cristiana, come tempo profondo di conversione e di penitenza. Il presule, riferisce il portale notrevoie.com, ha inoltre sottolineato che nella Costa d’Avorio oggi si registra la perdita di punti di riferimento e che alla vita umana non viene più dato alcun valore. “Si uccide il prossimo così come si sgozza la propria gallina” ha detto il presule aggiungendo che la violenza è ormai un fatto banale. Mons. Kouadio ha inoltre criticato le usanze che derivano dal sincretismo religioso, ha esortato i fedeli a guardare Gesù Cristo come unico Salvatore e ad evitare ostentazioni di atteggiamenti di contrizione e pentimento. “Non si tratta di lacerare le vostre vesti, ma di lacerare il vostro cuore” ha concluso il vescovo di Yamoussoukro. (T.C.)
Giappone: il memoriale dei martiri di Nishizaka diventa santuario nazionale
◊ La Conferenza episcopale del Giappone ha deciso di designare il memoriale di Nishizaka, nei pressi di Nagasaki, come santuario nazionale. In quel luogo, nel 1597 furono crocifissi il padre gesuita Paolo Miki ed altri 25 cristiani per volere di Toyotomi Hideyoshi, il leader dell'epoca, intenzionato ad instaurare definitivamente il buddhismo nel Paese. Prima di essere messi a morte, i 26 martiri furono costretti ad intraprendere una lunga marcia da Kyoto a Nagasaki. Sei di loro erano francescani, tre appartenevano alla Compagnia di Gesù, mentre gli altri erano laici. La designazione di Nishizaka a Santuario nazionale avviene quest’anno, in concomitanza del 150.mo anniversario dalla canonizzazione dei 26 martiri, saliti agli onori degli altari nel 1862. Allo stesso tempo, i vescovi giapponesi hanno stabilito di creare una “rete” tra Kyoto, Osaka, Hiroshima, Fukuoka e Nagasaki, ovvero le cinque diocesi situate lungo la strada percorsa da San Paolo Miki e dai suoi compagni. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di trasformare tale percorso in una meta di pellegrinaggio. (I.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 68