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Sommario del 04/01/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa all'udienza generale: la Chiesa non è la luce, ma riceve la luce di Cristo per diffonderla nel mondo
  • Rinunce e nomine
  • Ordinariato personale negli Usa: intervista con il rev. Steenson
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Afghanistan: talebani pronti a negoziare ma le stragi non si fermano. Gli Usa aprono su Guantanamo
  • Usa: ai caucus in Iowa, Romney vince d’un soffio su Santorum
  • Allarme carestia nel Sahel: 6 milioni a rischio fame. Mons. Dal Toso: la Chiesa in prima fila negli aiuti
  • Myanmar: incontro tra Aung San Suu Kyi e la responsabile internazionale della Cisl
  • Italia: il governo esclude i rifugiati nell'assegnazione dell'8 per mille. Centro Astalli: "Tradite le attese dei donatori"
  • A Genova gli operai Fincantieri occupano l'aeroporto. L'opinione dell'Ucid
  • Jerzy Kluger e il giovane Karol: un ricordo dell'amico ebreo di Papa Wojtyla
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Pakistan: il caso di Asia Bibi, “un ponte fra cristiani e musulmani”, ricordando Salman Taseer
  • India: task-force della Chiesa contro la tratta di ragazze e bambine
  • Somalia: sale il rischio di un’epidemia di colera. Oltre 50 vittime tra i minori
  • Congo: oltre 10 mila sfollati in Katanga dopo la ripresa delle violenze
  • Myanmar: il governo commuta in ergastolo la pena capitale
  • Filippine: aiuti dei vescovi per alloggi agli alluvionati di Mindanao
  • Haiti: a quasi due anni dal sisma del 2010 prosegue ininterrotta l’opera della Caritas
  • El Salvador: a 20 anni dagli Accordi di Pace, la Chiesa chiede un nuovo Patto sociale
  • Colombia: nel 2011 uccisi 117 bambini
  • Zambia. Le Pom: mantenere viva la fiamma della missione
  • Terra Santa. Mons. Twal all'Ordinariato militare per l'Italia: "Non lasciateci soli"
  • Le reliquie di Don Bosco in Etiopia. Mons. Moreschi invita i giovani ad imitare il santo
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa all'udienza generale: la Chiesa non è la luce, ma riceve la luce di Cristo per diffonderla nel mondo

    ◊   Portare nel mondo la luce e la gioia della Nascita di Cristo: è questo in sintesi l’invito che Benedetto XVI ha rivolto davanti a oltre 7mila persone nella prima udienza generale del 2012 che si è tenuta nell’Aula Paolo VI in Vaticano. “Il Natale celebra il fatto storico della nascita di Gesù a Betlemme”, ricorda il Papa, ed è la festa in cui Dio rivela all’uomo “la sua dignità più profonda: quella di essere figlio di Dio”. Il servizio di Debora Donnini.

    Da una parte il nascondimento di Dio nell’umiltà della condizione umana, nel Bambino di Betlemme; dall’altra il suo apparire attraverso questa stessa umanità: due realtà sottolineate rispettivamente nel Natale e nell’Epifania, sottolinea il Papa nella prima udienza generale del nuovo anno. Una festa, l’Epifania, che ricorda l’adorazione dei Magi e, in quanto manifestazione, richiama anche il Battesimo di Gesù e le Nozze di Cana. Benedetto XVI pone l’accento su due aspetti di queste feste: la gioia e la luce. La gioia e lo stupore di contemplare “il volto di quell’umile bambino perché sappiamo che è il Volto di Dio presente per sempre nell’umanità, per noi e con noi”:

    "Il Natale è gioia perché vediamo e siamo finalmente sicuri che Dio è il bene, la vita, la verità dell’uomo e si abbassa fino all’uomo, per innalzarlo a Sé: Dio diventa così vicino da poterlo vedere e toccare".

    La teologia e la spiritualità del Natale parlano di un “mirabile scambio” fra la divinità e l’umanità: Dio assume la nostra umanità, condivide l’atto di nascere e rivela così all’uomo “la sua dignità più profonda: quella di essere figlio di Dio”:

    "E così il sogno dell’umanità cominciando in Paradiso - vorremmo essere come Dio - si realizza in modo inaspettato non per la grandezza dell’uomo che non può farsi Dio, ma per l’umiltà di Dio che scende e così entra in noi nella sua umiltà e ci eleva alla vera grandezza del suo essere".

    Uno scambio che si rende presente in modo reale nell’Eucaristia. L’invito del profeta Isaia: Alzati, rivestiti di luce…” è rivolto alla Chiesa e a ciascuno di noi, ricorda Benedetto XVI. Ed è un invito a prendere sempre più coscienza della missione di portare “la luce nuova del Vangelo”:

    "Il Vangelo è la luce da non nascondere, da mettere sulla lucerna. La Chiesa non è la luce, ma riceve la luce di Cristo, la accoglie per esserne illuminata e per diffonderla in tutto il suo splendore. E questo deve avvenire anche nella nostra vita personale".

    Anche oggi la luce di Cristo dirada le tenebre del mondo, ricorda Benedetto XVI:

    "Celebrare il Natale è quindi manifestare la gioia, la novità, la luce che questa Nascita ha portato in tutta la nostra esistenza, per essere anche noi portatori della gioia, della vera novità, della luce di Dio agli altri".

    L’esortazione centrale di Benedetto XVI è dunque quella di annunciare il Vangelo e accogliere in noi stessi quel Bambino “per vivere della sua stessa vita, per far sì che i suoi sentimenti, i suoi pensieri, le sue azioni, siano i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni”. Infine a tutti i presenti il Papa rivolge i suoi auguri di Natale:

    "Ancora a tutti l’augurio di un tempo natalizio benedetto dalla presenza di Dio!"

    (Applausi)

    Nei saluti finali il Papa rivolge un pensiero ai ministranti della diocesi di Asti e li esorta a svolgere con amore l’importante servizio all’altare che permette di essere particolarmente vicini al Signore. Quindi saluta le Suore Figlie della Misericordia e della Croce che celebrano in questi giorni il loro Capitolo Generale, assicurando la sua preghiera “affinché esso susciti nell’intero Istituto un rinnovato ardore apostolico”. E ancora i gruppi dell’Azione Cattolica di Pompei e di San Marzano sul Sarno e i giovani dell’Oratorio inter-parrocchiale di Mortara.

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    Rinunce e nomine

    ◊   Il Santo Padre ha accettato la rinuncia all’ufficio di Ausiliare dell’arcidiocesi di Los Angeles (U.S.A.), presentata da S.E. Mons. Gabino Zavala, Vescovo tit. di Tamascani, in conformità ai canoni 411 e 401 §2 del Codice di Diritto Canonico.

    Il Santo Padre Benedetto XVI ha nominato Vescovo Coadiutore di San Diego (U.S.A.) S.E. Mons. Cirilo Flores, finora Vescovo tit. di Quiza ed Ausiliare di Orange in California (U.S.A.). S.E. Mons. Cirilo Flores. S.E. Mons. Cirilo Flores è nato a Corona (California) il 20 giugno 1948, nella diocesi di San Bernardino. Ha conseguito il Baccalaureato presso la Loyola Marymount University a Los Angeles e, successivamente, il Dottorato in Giurisprudenza presso la Stanford University a Palo Alto. Dopo aver praticato la professione nell’ambito legale per dieci anni, è entrato nel Seminario Saint John a Camarillo, dove ha ottentuto il Masters of Divinity. Ordinato sacerdote l’8 giugno 1991 per la diocesi di Orange in California, ha poi svolto i seguenti incarichi: Vicario parrocchiale della Saint Barbara Parish a Santa Ana (1991-1995), della Saint Joachim Parish a Costa Mesa (1995-1996), della Our Lady of Mount Carmel Parish a Newport Beach (1996-1997) e della Our Lady of Guadalupe Parish a La Habra (1997-2000); Parroco della Saint Anne Parish a Santa Ana (2000-2008) e della Saint Norbert Parish a Orange (2008-2009). Inoltre, è stato Membro del Consiglio economico della diocesi, della Commissione per le comunicazioni sociali, della Caritas diocesana e del Consiglio presbiterale. Nominato Vescovo titolare di Quiza ed Ausiliare di Orange in California il 5 gennaio 2009, ha ricevuto la consacrazione episcopale il 19 marzo successivo. Attualmente, è Vicario per la Caritas diocesana. Nella Conferenza Episcopale, è membro del Subcommittee on Hispanic Affairs. Conosce l’inglese e lo spagnolo.

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    Ordinariato personale negli Usa: intervista con il rev. Steenson

    ◊   La Congregazione per la Dottrina della Fede ha eretto il primo gennaio scorso un Ordinariato personale nel territorio della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti per i ministri e i fedeli anglicani desiderosi di “entrare nella piena e visibile comunione con la Chiesa cattolica”. Il Papa ha nominato primo ordinario il reverendo Jeffrey Steenson. Già vescovo episcopaliano, il reverendo Steenson ha 59 anni, è sposato e ha tre figli. Nel 2009 è stato ordinato sacerdote cattolico. Christopher Altieri lo ha intervistato:

    R. – In think that in Anglicanism there has always been that deep-seeded desire …
    Credo che nell’anglicanesimo ci sia sempre stato il desiderio profondamente radicato dell’unità nel cattolicesimo. Era nel nostro dna, perché noi veniamo dalla Chiesa cattolica! Mi viene di fare un paragone con l’istinto di un uccello migratore: gli uccelli migratori vogliono tornare a casa. E, in definitiva, questo è il cuore e l’anima dell’Ordinariato: è quello che si trova anche nella Lumen Gentium: la Costituzione apostolica sulla Chiesa parla della dinamica interna che spinge verso l’unità cattolica che esiste in altre tradizioni ecclesiali ed è questa dinamica interna che ci riporta “a casa”, a Roma. E questo è il concetto di fondo dell’Ordinariato, secondo me: è il desiderio di essere uno con Pietro e con gli Apostoli, con i suoi successori e con coloro che sono uniti intorno a lui. Lo scritto che preferisco è quello di Sant’Ireneo di Lione quando afferma la necessità che tutte le Chiese siano in accordo con questa Chiesa: la Chiesa di Roma, proprio per le sue origini apostoliche. Essa è la Chiesa costruita su Pietro e Paolo: questa è la nostra visione, la nostra meta. Vogliamo entrare nella vita piena della Chiesa cattolica con tanta gioia nel nostro cuore!

    D. – Cos’è un Ordinariato personale?

    R. – We are all trying to come to terms with the technical-canonical language …
    Stiamo cercando di venire a patti con il linguaggio tecnico canonico che non è consueto per molti di noi. L’idea dell’Ordinariato, con la sua espressione specifica, è nata perché esiste già nell’ambito militare – l’Ordinariato militare: è la struttura attraverso la quale i cappellani militari rendono il loro servizio al di là di territori e confini. Ecco, a questo modello ci si è ispirati quando la Santa Sede ha istituito il nostro Ordinariato; è “personale” perché riguarda la riunificazione di persone che hanno una cultura liturgica ed ecclesiale distinta dalla Diocesi come governo territoriale, che comprende tutte i fedeli cattolici all’interno di una regione geografica. Quindi, il concetto di “personale” sta ad indicare che fa riferimento ad un gruppo specifico di persone, che sono quelle che provengono dalla tradizione anglicana, ed è un Ordinariato nel senso che esso ha una struttura giuridica simile a quella di una Diocesi.

    D. – Lei è stato chiamato a guidare questo Ordinariato. Una differenza tra lei e – ad esempio – l’ordinario militare consiste nel fatto che lei non è un vescovo cattolico. Eppure lei si occuperà della pastorale delle persone che faranno parte dell’Ordinariato…

    R. – Yes, that’s right. I was ordained in the Catholic Church under the pastoral …
    E’ vero. Io sono stato ordinato in seno alla Chiesa cattolica con un provvedimento pastorale, perché sono un sacerdote sposato. Non posso ricevere l’ordinazione episcopale a motivo delle antiche tradizioni della Chiesa in merito. La gente, però, mi ha detto che, praticamente, è meglio così: ho tutti gli oneri del vescovo, senza averne gli onori … Immagino che però il concetto sia che si preveda la cura delle anime, la preoccupazione per i sacerdoti che saranno incardinati nell’Ordinariato e anche i fedeli laici che ne diverranno membri. Tutte le responsabilità di un vescovo si riuniranno nelle mani dell’ordinario e nel suo lavoro. (gf)

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Quel mirabile scambio tra divino e umano: all'udienza generale il Papa parla della celebrazione del Natale.

    In prima pagina, un articolo di Giulia Galeotti dal titolo "Diritti e doveri a suon di cognomi": la Cassazione italiana fa giustizia di una delle disparità ancora esistenti tra madre e padre.

    In rilievo, nell'informazione internazionale, la carestia nel Sahel.

    In cultura, un articolo di Roberto Pertici dal titolo "Sotto il balcone di Palazzo Venezia respinto indietro di venti secoli": l'antifascismo di Henri-Irénée Marrou tra preoccupazioni religiose e rilievi politico-sociali.

    Dietro la debolezza la dignità dell'uomo: Gaetano Vallini sulle fotografie di Steve McCurry esposte al Macro di Roma.

    Sette note per disegnare lo spazio: nel quarto centenario della nascita, Paolo Portoghesi ricorda l'architetto e musicologo romano Carlo Rainaldi.

    Impronte armene a Venezia: Simona Verrazzo recensisce una mostra sui rapporti tra la Serenissima e la popolazione caucasica.

    L'Amartya Sen (cristiano) del Novecento: Giorgio Napolitano ed Ettore Bernabei a confronto con il pensiero economico di Amintore Fanfani.

    Nell'informazione religiosa, un articolo di Fabrizio Contessa dal titolo "Se oggi don Bosco al centro commerciale": moderni oratori per la nuova evangelizzazione.

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    Oggi in Primo Piano



    Afghanistan: talebani pronti a negoziare ma le stragi non si fermano. Gli Usa aprono su Guantanamo

    ◊   In Afghanistan, i talebani hanno reso noto di aver raggiunto "un accordo preliminare" sull'apertura di un "ufficio politico" in Qatar per far partire negoziati di pace con il governo di Hamid Karzai. E’ la prima volta, dopo dieci anni di violenze, che si registra un’iniziativa in tal senso. Risposta positiva dagli Stati Uniti che sarebbero disposti a liberare alcuni dei capi talebani detenuti a Guantanamo come chiesto dagli stessi ex studenti coranici. Intanto, sul terreno continuano gli attentati: nelle ultime 24 ore nella regione di Kandahar, roccaforte dei talebani, sono morte 12 persone. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Andrea Margelletti presidente del Centro Studi Internazionali:

    R. - Il primo punto è che il Quatar sta diventando sempre più uno degli attori principali degli scenari internazionali dal Medio Oriente al Nord Africa. Ricordiamo l’impegno non formale che il Quatar ha avuto durante il conflitto in Libia che ha portato alla caduta di Gheddafi. Dall’altro punto di vista, è un segnale di indiscutibile forza del gruppo dei talebani, che sanno e sentono che la coalizione internazionale sta per lasciare l’Afghanistan, e quindi sono pronti per darsi nuovamente una "patina" di legalità.

    D.- Dieci anni di violenze nel Paese, la presenza della coalizione internazionale che cosa ci dice questa iniziativa che guarda al Quatar?

    R. – Per l’Occidente è comunque il segnale di un’occasione perduta: la coalizione internazionale per molti anni ha fatto sì che tutti si focalizzassero solo sull’aspetto strettamente militare del conflitto, quando in realtà la soluzione non poteva essere che politica, e a livello soprattutto regionale. E’ un’occasione persa per fare qualcosa di diverso rispetto al passato. Qualunque governo italiano – lo ha sempre sostenuto - bisognava stare in Afghanistan insieme agli afghani: è stato fatto, ma probabilmente ci hanno ascoltato tardi.

    D. - Gli Stati Uniti si sarebbero detti disposti a liberare alcuni dei capi talebani detenuti a Guantanamo, richiesta avanzata proprio dagli ex studenti coranici…

    R. - Da parte dell’amministrazione americana c’è la voglia di chiudere la parentesi afghana che in un momento di drammatica crisi economica e internazionale pesa moltissimo sul bilancio. La decisione è poi calata all’interno di un anno elettorale, dove l’amministrazione americana, vuole capitalizzare al meglio qualunque risultato pur di essere rieletta. Quanto accade fa capire come gli Stati Uniti, in questo momento, siano in debito di ossigeno e come anche tanti altri Paesi stiano cercando in qualche maniera, di uscire dal pantano afghano.

    D. - Da una parte la strategia delle bombe, ma in realtà il dialogo con gli insorti comunque non è mai cessato..

    R. - Non è mai cessato a livello di diplomazia parallela, di intelligence… Questo dialogo inizia a portare alcuni frutti.

    D. - Ma il governo Karzai quanto sarà forte, in questa tornata di colloqui?

    Il governo Karzai sta già guardando agli altri attori regionali come l’India e come la Cina e alla Russia, perché sanno bene che i Paesi dell’occidente sono intenzionati a dare un supporto poco più di facciata nei prossimi quindici, venti anni, a differernza dei russi, dei cinesi, degli indiani e dei pakistani che rimarranno lì, anche geograficamente naturalmente. Ribadisco è un’occasione persa per l’Occidente, la seconda grande occasione persa dopo l’Iraq. (bi)

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    Usa: ai caucus in Iowa, Romney vince d’un soffio su Santorum

    ◊   Negli Stati Uniti, Mitt Romney ha vinto la prima tappa della corsa alla Casa Bianca. Nei “caucus” repubblicani in Iowa, l’ex governatore del Massachusetts ha prevalso per soli 8 voti sull’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, vera sorpresa di questa tornata. Mitt Romney si rafforza nel ruolo di avversario di Barack Obama per le presidenziali del 6 novembre prossimo. Si evidenzia tuttavia la frammentarietà dell’elettorato repubblicano. Un dato su cui si sofferma il prof. Ferdinando Fasce, americanista dell’Università di Genova, intervistato da Alessandro Gisotti:

    R. – Questo è un dato interessante perché conferma in realtà la travagliata ricerca di un candidato ampiamente condiviso da parte dei repubblicani. Contemporaneamente mostra questo scontro fra un’ala che tenta di raggiungere, anche in parte, il centro, che è quella di Romney, e l’ala, che invece ha una più forte connotazione conservatrice, che è quella di Rick Santorum.

    D. - Rick Santorum cattolico, Romney mormone, l’importanza del voto degli evangelici… La religione è sempre in primo piano nelle presidenziali americane?

    R. - Sicuramente si riconferma la centralità del fenomeno religioso nell’intera esperienza statunitense e quindi inevitabilmente anche in campo politico, come del resto è stato, con forza, negli ultimi 30, 40 anni.

    D. - In questo senso ci può essere però una differenziazione tra le primarie e poi le elezioni vere e proprie?

    R. – Sì. In questo caso non bisogna dimenticare che per Romney uno dei problemi è proprio quello della religiosità peculiare, la religiosità mormone, molto identificata. L’altro problema è che venendo dal mondo manageriale, in particolare dal mondo della finanza, può essere vittima di una campagna negativa nel senso di vedere in lui uno dei responsabili della situazione finanziaria odierna.

    D. – L’economia, dunque, resta il tema dominante di queste elezioni…

    R. – Direi senz’altro di sì. Anche il “New York Times” stamattina parlava di campagna all’insegna dei posti di lavoro. In questo caso si tratta di vedere come andrà l’economia nel corso dell’anno e questo sarà con tutta probabilità l’elemento dirimente. (bf)

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    Allarme carestia nel Sahel: 6 milioni a rischio fame. Mons. Dal Toso: la Chiesa in prima fila negli aiuti

    ◊   Nuovo allarme carestia nella regione africana del Sahel: a lanciarlo sono diverse organizzazioni non governative impegnate in quell’area estesa dall’Oceano Atlantico fino al Corno d’Africa. Un’emergenza che tocca in particolare Mauritania, Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Roberta Gisotti ha intervistato mons. Giampietro Dal Toso, segretario della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel presso il Pontificio Consiglio Cor Unum:

    D. - Abbiamo letto che 11 milioni di abitanti nella fascia del Sahel sono già a rischio malnutrizione e metà potrebbero a breve soffrire la fame. Quali notizie dal vostro osservatorio?

    R. - Effettivamente, quello che Lei dice è vero: quella situazione di gravità che avevamo, e che abbiamo ancora in parte, nel Corno d’Africa di fatto si è estesa anche ai Paesi del Sahel, a sud del deserto del Sahara. Paesi che da sempre sono in difficoltà da questo punto di vista, ma in questo momento sono in maggiore difficoltà per la mancanza di acqua, mancanza di piogge e quindi difficoltà per la coltivazione e per il raccolto, che quest’anno si fa sentire in maniera particolarmente forte. Per cui, siamo in una situazione critica che nei prossimi mesi potrebbe sfociare in una crisi che arriva alla fame per diversi milioni di persone. Ovviamente, in questo momento la crisi è causata in maniera specifica dalla mancanza di acqua però - come ricordavo - è una crisi che ha radici lontane: non è un caso se già nell’Ottanta, Papa Giovanni Paolo II viaggiò nel Sahel - esattamente nei Paesi allora più poveri del mondo - e lanciò, a suo tempo, un appello contro la sete, contro la siccità, contro la desertificazione da Ouagadougou. E in base a quell’appello, si costituì poi la "Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel".

    D. - Dall’anno di fondazione della vostra istituzione, nel 1984, sono passati 28 anni: sono migliorate le condizioni di questi Paesi e la macchina degli aiuti internazionali si è fatta più efficiente?

    R. - Sono reduce da una visita in Burkina Faso, dove sono stato all’inizio di dicembre. Posso dirle che la situazione varia ovviamente da Paese a Paese, però c’è attenzione internazionale verso questi Paesi o per lo meno verso alcuni. Ci sono infatti dei Paesi che sono più stabili e altri meno stabili politicamente, per cui è più facile o più difficile intervenire secondo le situazioni. Di certo, c’è attenzione su questi Paesi da parte della Chiesa. In particolare, la nostra Fondazione nell’anno 2010 ha fornito aiuti per quasi due milioni di dollari in 176 progetti di aiuto. Questo è un esempio del vastissimo impegno della Chiesa con associazioni, uffici, Caritas e vari organismi internazionali presenti. L’attenzione c’è, l’aiuto c’è, quindi. Tuttavia, queste emergenze richiedono sempre una grande attenzione, un coinvolgimento, una presenza, ricordando pure che si tratta di problemi strutturali che un po’ alla volta devono essere risolti e che la loro soluzione richiede tempo.

    D. - È dunque bene preallertare la comunità internazionale, prima che sia troppo tardi per la vita di tante persone...

    R. - È assolutamente necessario, perché questa emergenza arriverà in maniera drammatica, e se non ci si prepara fin da adesso, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche per milioni di persone.(bi)

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    Myanmar: incontro tra Aung San Suu Kyi e la responsabile internazionale della Cisl

    ◊   Nei giorni scorsi, una delegazione della Cisl ha incontrato in Myanmar, Aung San Suu Kyi. La leader democratica birmana ha sottolineato la necessità di garantire la libertà di associazione e il rispetto dei diritti individuali e sociali. La delegazione era guidata dalla responsabile internazionale del sindacato italiano, Cecilia Brighi, che al microfono di Amedeo Lomonaco ricorda i temi chiave dell’incontro:

    R. – Questo è stato il primo incontro tra Aung San Suu Kyi ed una rappresentante sindacale a livello internazionale. Sono stata la prima sindacalista che ha potuto incontrare Aung San Suu Kyi. Abbiamo discusso di alcune tematiche fondamentali per noi: l’attuazione immediata della legge sulla libertà di organizzazione sindacale, che è stata approvata a settembre ma ancora non è stata implementata dal governo birmano.

    D. – La leader birmana ha indicato proprio nel diritto del lavoro lo strumento principe per promuovere il cambiamento in un Paese teatro di gravi violazioni, tra cui la piaga dei bambini soldato ed il fenomeno del lavoro minorile …

    R. – Aung San Suu Kyi ha sottolineato l’importanza di una presenza forte del sindacato in Birmania per poter migliorare le drammatiche condizioni di lavoro presenti nel Paese: i lavoratori e le lavoratrici lavorano 10 ore al giorno per sette giorni alla settimana, guadagnando al massimo 30-40 Euro al mese. Quindi sono condizioni di lavoro che rasentano la schiavitù lì dove non c’è il lavoro forzato.

    D. – Allo stato attuale, quindi, manca ancora un sindacato birmano per migliorare proprio queste durissime condizioni di lavoro...

    R. – Il sindacato birmano esiste già, ma è clandestino. Una delle richieste che io ho riproposto ad Aung San Suu Kyi è il sostegno affinché il sindacato birmano, oggi considerato un’organizzazione terroristica, possa lavorare liberamente in Birmania e che tutte le accuse di terrorismo possano essere rapidamente cancellate. Il segretario generale del sindacato birmano ed altri sindacalisti sono in esilio. Bisogna fare in modo che possano tornare e lavorare liberamente nel Paese.

    D. – Un altro punto centrale è il taglio richiesto alla spesa militare per investire in sanità, istruzione e lavori pubblici …

    R. – Ancora oggi il nuovo bilancio nazionale della Birmania prevede ingenti risorse per la spesa per la difesa. Noi, anche all’interno dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), abbiamo sempre chiesto un ribaltamento della spesa nazionale perché vengano attribuite forti risorse per i lavori pubblici: questo non solo incrementerebbe l’occupazione, ma permetterebbe alle autorità locali e all’esercito di pagare i lavoratori, invece di utilizzare il lavoro forzato.

    D. – Questo del lavoro forzato è un fenomeno dilagante nelle aree di conflitto dove, tra l’altro, nessuna organizzazione è in grado di monitorare la situazione …

    R. – Aung San Suu Kyi ha sottolineato che ancora oggi alla Lega nazionale per la democrazia viene inibito l’accesso a queste zone; va anche detto che le altre organizzazioni e agenzie delle Nazioni Unite, come l’Acnur – l’agenzia per i rifugiati – ed altre si rifiutano, ad oggi, di ricevere le denunce di lavoro forzato, per timore che le loro attività possano essere limitate. Va anche detto che il governo birmano sta rivedendo la legislazione sui diritti dei minori insieme all’Unicef, e noi siamo estremamente preoccupati perché tale legislazione prevede anche la questione del lavoro minorile che è molto pesante. Noi chiediamo che venga vietato il lavoro minorile così come previsto dalle norme internazionali dell’Ilo. Io ho verificato in varie zone che, visto il gravissimo livello di povertà diffusa, quasi tutti i bambini dei villaggi lavorano nelle fabbriche o in agricoltura. E questa cosa va ribaltata attraverso grandi investimenti per l’educazione e la sanità, spostando il lavoro dal lavoro minorile al lavoro degli adulti, ben retribuito e nel pieno rispetto del diritto internazionale. (gf)

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    Italia: il governo esclude i rifugiati nell'assegnazione dell'8 per mille. Centro Astalli: "Tradite le attese dei donatori"

    ◊   Il Centro Astalli critica la decisione della presidenza del Consiglio dei ministri italiano di escludere i rifugiati dall’assegnazione dei 145 milioni di Euro dell'otto per mille gestito direttamente dallo Stato, come invece era previsto dalle finalità iniziali. ll servizio dei Gesuiti per i Rifugiati parla di "attese tradite" e di gestione arbitraria dei fondi. Sulla questione, Marco Guerra ha intervistato Bernardino Guarino, responsabile progetti del Centro Astalli:

    R. – Ci sembra molto scorretto che questa scelta venga fatta dopo che gli italiani hanno destinato il loro 8 per mille allo Stato, sapendo che questi soldi sarebbero serviti per tre cose, tra cui l’accompagnamento dei rifugiati. Tra l’altro erano stati già presentati progetti per l’utilizzo di questi fondi e perfino fatte le graduatorie.

    D. - Che cosa si rischia con questa decisione?

    R. – Questi erano tra i pochissimi fondi che servivano all’assistenza, attraverso la concessione di generi primari, alloggi notturni, aiuti per l’autonomia abitativa - caparre, fideiussoni… - quindi erano tra i pochissimi fondi che potevano essere erogati direttamente ai rifugiati per aiutarli nei primi mesi della loro permanenza in Italia. Tenendo conto che la situazione di queste persone è già complessa - a Roma ci sono cinque, seimila rifugiati che non hanno una dimora fissa -, è un ulteriore duro colpo per queste persone.

    D. – C’è ancora margine per recuperare risorse in favore dei rifugiati?

    R. – Noi speriamo proprio di sì perché, tra l’altro, la destinazione di questi fondi doveva essere sottoposta al parlamento che avrebbe dovuto valutare. Improvvisamente, ieri, la presidenza del Consiglio ha comunicato che queste graduatorie in parlamento non sarebbero mai arrivate. Per cui noi auspichiamo che attraverso l’iniziativa parlamentare almeno una parte di questi fondi possa essere destinata alle finalità per cui la legge li prevede. L’auspicio è che questa sia veramente l’ultima volta in cui questa procedura poco trasparente viene applicata. Molto meglio comunicare agli italiani, dall’inizio, la destinazione del proprio 8 per mille. (bf)

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    A Genova gli operai Fincantieri occupano l'aeroporto. L'opinione dell'Ucid

    ◊   Secondo l'Inps, nel 2011 sono state autorizzate complessivamente 953 milioni di ore di cassa integrazione, il 20,8% in meno rispetto al 2010. Intanto sembra avvitarsi la vertenza Fincantieri. Circa 300 tute blu hanno occupato l’aeroporto di Genova, protestando contro la riorganizzazione del gruppo. A rischio il traffico aereo. Come uscire da questa crisi? Alessandro Guarasci ha intervistato il presidente dell’Ucid Liguria, Davide Viziano:

    R. – Ci sono gli ammortizzatori sociali, ci possono essere le manutenzioni, i ripristini di navi già esistenti. Naturalmente tutto questo richiede uno sforzo di fantasia, un po’ di spirito di sacrificio - perché è chiaro che la situazione da un punto di vista economico è veramente complessa e grave - e un’attenzione alla città di Genova, che ha nei pilastri economici cittadini una realtà, che è quella di Fincantieri, importante.

    D. – In merito alla riforma degli ammortizzatori sociali, bisogna tutelare tutta una serie di lavoratori, che attualmente sono fuori dalle tutele, e rivedere l’intero sistema, secondo lei?

    R. – Lo stato di malessere sugli ammortizzatori sociali in questo momento fa pensare che una ricaduta a pioggia, che vada a coprire sempre qualcosa, evidentemente non sia la soluzione giusta. Ci possono essere soluzioni di riqualificazione, di modifiche, di cambiamenti anche incentivati di lavorazioni.

    D. – Lei teme l’esplodere di nuove tensioni sociali in Italia se non si ricerca in modo convinto la crescita?

    R. – Io ero presente il 31 dicembre alla tradizionale predica che il cardinale arcivescovo di Genova fa nella chiesa dei gesuiti. Una delle cose che il cardinale Bagnasco ha detto – e che mi ha trovato assolutamente d’accordo – è il tema delle imprese e del mondo nel quale le imprese lavorano, che deve essere fatto di chiarezza da un punto di vista burocratico, di attenzione agli investimenti, di facilitazioni che devono essere offerte alle imprese per crescere. Ecco, questo a Genova, secondo me, in particolare, è un tema che va affrontato con molta attenzione. Lo spirito anti-impresa della città di Genova è uno spirito che deve essere superato e l’attenzione a chiunque, dalla Fincantieri – una delle espressioni numericamente forse più importanti della città – all’ultimo artigiano, credo che in questo momento debba essere massima. Se il prodotto interno lordo nazioanle non cresce e non consente di migliorare la situazione economica, evidentemente c’è qualcosa che si avvita e dall’avvitamento nasce la tensione sociale. Serve che si attivi il governo, con gli enti locali e la coscienza degli imprenditori. Ognuno deve fare la sua parte in uno spirito di crescita economica che consenta di invertire un trend che è negativo, perché diventi positivo.

    D. – In passato la concertazione ha dato i suoi frutti. Bisogna continuare su quella strada, secondo lei?

    R. – Certamente bisogna imparare a parlarsi, ma bisogna anche superare i pregiudizi, in particolare sulla flessibilità del lavoro, sulla disponibilità a sistemi nuovi di contrattazione di lavoro. Se la concertazione in questo momento è fatta a senso unico – una parte dice di sì e l’altra dice di no – mi pare molto difficile trovare delle soluzioni. Se invece la concertazione è un modo intelligente di confrontarsi, dove ognuno – governo, sindacato e imprenditori – ha la capacità e la voglia di fare un piccolo passo indietro in uno spirito di crescita, questo mi sembrerebbe molto utile. (ap)

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    Jerzy Kluger e il giovane Karol: un ricordo dell'amico ebreo di Papa Wojtyla

    ◊   Amici d’infanzia, provati e divisi dalle tragedie del conflitto mondiale, e poi di nuovo insieme negli anni della maturità. È la parabola che in tanti in questi giorni hanno ricordato di Jerzy Kluger, il compagno di giochi ebreo di Karol Wojtyla scomparso il 31 dicembre scorso all’età di 90 anni. Alessandro De Carolis ripropone un ricordo di quel rapporto attraverso le parole dello stesso Kluger:

    Si è spento con i ricordi non lontani da “Lolek” e dai tempi in cui una fede diversa non rendeva più fragile il cemento dell’amicizia. Jerzy Kluger, hanno detto le persone a lui vicine negli ultimi istanti, conservava lucidi nei frammenti della memoria fiaccata dall’Alzheimer i ricordi di sé stesso e del giovane Karol. Lui ebreo e Karol cattolico, spesso insieme sugli sci o dietro un pallone. Insieme anche quella volta, quando Jerzy entra dove non era ovviamente mai entrato, in una chiesa, nella quale Karol sta servendo Messa e al quale vuole portare subito la notizia della loro promozione scolastica. In quel mentre, una donna gli chiede perché un ragazzino ebreo si trovi lì. Ed ecco come lo stesso Kluger ha rievocato alcuni anni fa questo episodio:

    "Lui [Karol Wojtyla] finisce, viene da me e io gli dico: 'Guarda che siamo stati ammessi'. 'Sì, sì, ma senti: quella donna che cosa voleva da te? Perché ti ha attaccato così?', mi domanda. 'Mi ha chiesto: cosa ci fai in chiesa?', gli dico. E lui: 'Questa gente non capisce che siamo figli dello stesso Dio'... Aveva dieci anni".

    La guerra li divide: Karol seminarista clandestino, Jerzy combattente contro i nazisti che gli hanno sterminato la famiglia nei lager. Ventisette anni di silenzio, poi l’amicizia ritorna salda com’era nata grazie al Vaticano II che li fa reincontrare: Karol un vescovo, Jerzy un ingegnere stabilitosi a Roma, che un giorno vedrà l’amico chierichetto diventare Papa. Un amico di entrambi, il prof. Stanislaw Grygiel, ricorda al microfono dei colleghi della nostra redazione polacca:

    “Jerzy Kluger viveva sempre del ricordo della sua amicizia con Karol Wojtyla che è nata nella scuola di Wadowice. Quest’amicizia era molto profonda nonostante le differenze religiose e culturali. Quello che li univa era l’identità polacca di ambedue. Per lui non c’è stata una contraddizione: era un polacco-ebreo e questa sua identità forse l’ha portato più vicino alla Chiesa cattolica e allo stesso Wojtyla. Parlava sinceramente della sua amicizia con Wojtyla. Penso che questa sua amicizia potrebbe essere un segno indicativo anche per i dialoghi ebreo-cattolici, mai conclusi”.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Pakistan: il caso di Asia Bibi, “un ponte fra cristiani e musulmani”, ricordando Salman Taseer

    ◊   Il caso di Asia Bibi, vittima innocente dell’abuso della legge sulla blasfemia, dev’essere “un ponte, non un muro, tra musulmani e cristiani”, che possono allearsi “per salvare insieme una vita umana”. Lo afferma, in una nota inviata all’agenzia Fides, la “Masihi Foundation” (Mf), Ong che difende in Pakistan i diritti dei cristiani e che si occupa dell’assistenza legale di Asia Bibi. La Fondazione ha organizzato oggi a Lahore una conferenza e una veglia di preghiera in ricordo del governatore Salman Taseer, un musulmano, nel primo anniversario del suo omicidio, avvenuto il 4 gennaio 2010 a Islamabad, per mano della guardia del corpo Mumtaz Qadri. La Fondazione ricorda che, a un anno al delitto, “l'assassino reo confesso è stato condannato, ma è considerato da alcuni un eroe, mentre un ex giudice capo dell’Alta Corte di Lahore lo sostiene nel ricorso all’Alta Corte per la sua liberazione”. Come riferito a Fides, una parte della conferenza è stata dedicata al caso di Asia Bibi. Era infatti presente l’avvocato della donna, S.K. Chaudhry, un musulmano, che ha raccontato: “Sto portando avanti il caso, per conto della Masihi Foundation . Priorità è la sicurezza di Asia, la sua vita e la sua libertà, che perseguiremo con tutti i mezzi legali. Stiamo preparando il ricorso all’Alta Corte. Abbiamo fiducia nel sistema legale del Pakistan, al fine di dimostrare con delle prove che Asia è innocente”. “Nel caso di Asia Bibi – spiega la nota della Mf – la legge sulla blasfemia è stata abusata. La Mf vuole solo salvare una vita innocente. Questo non è "contro" qualcuno: noi abbiamo molto rispetto nei confronti dell'Islam, verso il profeta Maometto e verso ogni religione. Per questo invitiamo tutte le persone buona volontà, musulmani e cristiani, a difendere Asia Bibi e quanti che, come lei, sono innocenti. Molti musulmani sono stati vittime ingiuste della legge sulla blasfemia: sono la maggioranza nei circa 1.000 casi registrati dal 1986 a oggi”. La Mf si dichiara “pronta a difendere un musulmano, vittima innocente della blasfemia”, affermando che “intende promuove il dialogo interreligioso e colmare le distanze tra comunità diverse”. “Ringraziamo tutti coloro che si sono interessati al caso di Asia. Siamo particolarmente grati a Papa Benedetto XVI per la preghiere ma anche a Vescovi, preti, suore cristiani di tutto il mondo, ma anche ai fedeli musulmani, che continuano a mostrare supporto spirituale ad Asia bibi”, conclude la nota della Mf. Haroon Barkat Masih, Direttore della Mf, commenta: “Il caso di Qadri e il caso di Asia Bibi sono speculari. Tutti e due mostrano l’immobilismo del governo che resta bloccato dai condizionamenti dei partiti e dei gruppi religiosi islamici estremisti, anche perché nel paese si avvicinano le elezioni. Le minoranze religiose, intanto, sono sempre all’ultimo posto della società. Confidiamo nella giustizia, ma chiediamo un aiuto alla comunità internazionale”. Dal canto suo il domenicano padre James Channan, direttore del “Dominican Peace Center” di Lahore afferma che “a un anno dalla morte del governatore Salman Taseer, ucciso il 4 gennaio 2011, nulla è cambiato. I difensori dei diritti umani hanno paura e sono ridotti al silenzio. La legge sulla blasfemia appare intoccabile. Nulla è cambiato – spiega – perché gli estremisti sono molto forti. Il governo non è capace di fermarli. E’ gente che si fa giustizia da sola. In questa fase non si può fare nulla. I fanatici hanno potere, la politica e il sistema giudiziario stanno dalla loro parte”. (R.P.)

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    India: task-force della Chiesa contro la tratta di ragazze e bambine

    ◊   La Chiesa indiana in prima linea nella lotta contro lo sfruttamento di donne e ragazze e nel loro reinserimento nella società civile. Come riferisce l’agenzia Fides, l’arcidiocesi di Calcutta ha attivato un’autentica “task-force” per fermare il traffico di “piccole schiave”: “Seva Kendra Calcutta”, Centro di servizio sociale diocesano, ha formato 50 comitati di vigilanza nelle diverse comunità. I Comitati, a loro volta, formano gruppi di 30 giovani in ogni villaggio del Bengala occidentale, per monitorare e contrastare il fenomeno. Vi sono, inoltre, 50 gruppi di ragazze adolescenti, che agiscono da “antenne” nei loro villaggi. Il Centro “Seva Kendra Calcutta” sfrutta anche i moderni mezzi tecnologici: è collegato in rete con il dipartimento governativo, con altre associazioni e con i capi dei villaggi: questo facilita e semplifica gli interventi, che sono soprattutto preventivi. Il traffico di esseri umani è una forma moderna di schiavitù che include sfruttamento sessuale, lavoro forzato, la frode e la violenza. È una piaga sociale che in India, a seconda delle stime, tocca dai 20 ai 60 milioni di vittime, e su cui prospera la criminalità. Ne sono vittime soprattutto bambini e donne a causa di ignoranza e disperata situazione nelle famiglie. Falsi “mediatori”, infatti, li attirano con illusorie promesse, per farli cadere in trappole da cui è difficile uscire. (M.G.)

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    Somalia: sale il rischio di un’epidemia di colera. Oltre 50 vittime tra i minori

    ◊   È il colera la nuova emergenza che si trova fronteggiare la Somalia già flagellata da siccità, carestia e 20 anni di guerra civile. Secondo alcuni dati riportati dall'agenzia Fides finora 55 bambini sono morti a causa di questa malattia. Nella regione meridionale di Bay, circa 250 chilometri a nordovest di Mogadiscio, sono stati riscontrati altri 35 casi di colera tra minori. Almeno 425 persone colpite da diverse malattie sono state ricoverate negli ospedali locali per le cure mediche. Intanto non allenta la morsa della fame: 20 bambini sono morti di fame e altre migliaia sono sul punto di morire per la stessa causa. La Somalia registra il tasso di mortalità infantile più elevato del mondo, con almeno un bambino su cinque che muore prima di aver compiuto 5 anni di età. Secondo gli ultimi dati dell’Inter-agency Group for Child Mortality Estimation delle Nazioni Unite, il tasso di mortalità nel 2010 era di 180 morti ogni 1000 nati vivi. La maggior parte della Somalia meridionale soffre la carestia e, secondo le Nazioni Unite, 750 mila persone a rischiano di morire. Secondo l’organizzazione nel Paese sono stati vaccinati meno di un terzo dei bambini con un’età inferiore ad un anno, oltre il 70% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, e solo 3 bambini su 10 sono iscritti alla scuola elementare. (M.G.)

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    Congo: oltre 10 mila sfollati in Katanga dopo la ripresa delle violenze

    ◊   Nella regione congolese del Katanga torna lo spettro della guerra civile dopo l’evasione del capo ribelle Gedeon Kyungu Mutanga. Mons. Fulgence Muteba Mugalu, vescovo di Kilwa-Kasenga, nel nord della provincia meridionale del Katanga, ha riferito all'agenzia Misna che “diversi villaggi dell’Haut Katanga si sono svuotati dei loro abitanti, fuggiti in seguito a violenti scontri verificatisi a Mubidi, tra miliziani agli ordini di Mutanga e soldati dell’esercito regolare: in totale si tratta di oltre 10mila civili sfollati”. “La regione sta sprofondando nella violenza, nella psicosi e nella paura – aggiunge il presule –. Oltre a quelli di Mubidi, anche gli abitanti dei villaggi di Kwiyongo, Kwisinga, Kapanda, Kamakumbi, Tombwe stanno scappando dalle case per nascondersi nella foresta”. Gli sfollati, tra cui oltre 6000 bambini, si troverebbero in sistemazioni di fortuna. “Sono senza assistenza umanitaria ed esposti alle intemperie – sottolinea mons. Mugalu – poiché siamo nel pieno della stagione delle piogge. Non hanno cibo, medicinali, né coperte. Episodi di diarrea e vomito hanno già causato due vittime tra gli sfollati e una nel villaggio di Kasongo-Mwana”. Consegnatosi il 12 maggio 2006 alle forze Onu dispiegate a Mitwaba, Gedeon era stato condannato dalla corte militare di Lubumbashi alla pena capitale per crimini contro l’umanità commessi tra il 2001 e il 2006 nella diocesi di Kilwa-Kasenga. La sua evasione dal carcere di Kasapa a Lubumbashi, alcune settimane fa, ad opera di un commando che aveva consentito la fuga di centinaia di detenuti, ha destato sospetti e timori. “Lo credevamo definitivamente sconfitto. Si pensava anche che si fosse convertito alla fede cristiana, dopo essersi fatto ostentatamente battezzare da una setta, ma si è trattato di un’amara commedia” osserva il presule. L’inchiesta sulla sua fuga non mostra progressi “come del resto non ha dato alcun esito l’inseguimento lanciato dai militari all’indomani dell’evasione” si lamenta il vescovo, invocando un’inchiesta approfondita sull’intera vicenda che smascheri “coloro che si servono di Gedeon, fornendogli i mezzi per uccidere il proprio popolo”. (M.G.)

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    Myanmar: il governo commuta in ergastolo la pena capitale

    ◊   Svolta sul fronte dei diritti umani nel Myanmar: a tutti i condannati a morte la pena è stata commutata in ergastolo, in quella che gli osservatori definiscono “una abolizione di fatto della pena capitale”. L’annuncio si inserisce nell’ambito del nuovo provvedimento di amnistia, annunciato dal governo, che ha riguardato centinaia di prigionieri. Se si pensa che ciò avviene in un Paese dove la repressione violenta è stato uno strumento utilizzato in modo feroce per decenni, rileva l’agenzia Fides, il provvedimento adottato dal presidente Thein Sein è realmente significativo. Per Stefano Argentino, coordinatore della Campagna per l’abolizione della pena di morte, per l’area Europa e Asia, della Comunità di Sant’Egidio, questa notizia “rappresenta una vera svolta per il pieno rispetto del diritto alla vita e dei diritti umani”. “Si tratta – spiega a Fides – di un provvedimento importantissimo, inatteso e sorprendente. Solo fino a pochi mesi fa si pensava che la pena capitale fosse intoccabile in Myanmar. Questo è un segno di speranza che conferma l’avvio di un nuovo corso, in cui si affermi il pieno rispetto della dignità dell’uomo”. In Myanmar, nonostante le continue condanne, la pena capitale non viene applicata di fatto dal 1988. (A.G.)

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    Filippine: aiuti dei vescovi per alloggi agli alluvionati di Mindanao

    ◊   La Conferenza episcopale filippina (Cbcp) lancerà una raccolta di fondi per costruire un migliaio di alloggi per le vittime della violenta tempesta tropicale "Washi" che prima di Natale ha messo in ginocchio le città costiere di Mindanao, provocando più di 1.200 morti accertati e centinaia di migliaia di sfollati. Il progetto - riferisce l’agenzia Ucan - prevede la costruzione di 400 abitazioni definitive a Cagayan de Oro City 400 container a Iligan City e di altre 200 abitazioni temporanee Mumaguete City. Per la sua realizzazione – ha precisato il segretario esecutivo della Commissione episcopale per l’azione sociale, la giustizia e la pace, padre Edwin Gariguez - i vescovi si sono rivolti alla Caritas Internationalis che dovrebbe stanziare 70 milioni di pesos (pari a 1,6 milioni di dollari). Una volta approvato lo stanziamento i lavori dovrebbero cominciare a metà febbraio. Anche l’Università dei Gesuiti di Manila ha in programma la costruzione di circa 200 alloggi nell’area investita dal tifone. Intanto continua la mobilitazione delle autorità filippine e delle varie agenzie umanitarie per alleviare le sofferenze della popolazione civile. Tra le Ong cattoliche – riferisce l’agenzia Cns - figurano i “Catholic Relief Services”, l’opera caritativa della Chiesa statunitense, che finanzierà la costruzione di 800 alloggi temporanei. Oltre alla distribuzione di cibo, acqua e medicine e altri generi di prima necessità, la principale emergenza è infatti quella abitativa, come conferma l’Unicef: “Anche a causa di ulteriori piogge il numero degli sfollati – racconta l’organizzazione - è salito nelle ultime ore a 465.000, circa 200mila dei quali sono bambini. Di essi, 14.700 si trovano nei 55 centri di accoglienza predisposti dalle autorità, mentre gli altri hanno trovato ospitalità presso parenti o amici”. Due terzi dei senzatetto sono nelle due principali città colpite: Cagayan de Oro e Iligan. (A cura di Lisa Zengarini)

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    Haiti: a quasi due anni dal sisma del 2010 prosegue ininterrotta l’opera della Caritas

    ◊   Ad Haiti continua l’impegno della Caritas per portare aiuto alla popolazione a quasi due anni dal terribile terremoto che il 12 gennaio 2010 ha colpito il Paese, provocando circa 230 mila vittime, oltre 300 mila feriti e un milione e mezzo di senza tetto. Le generose offerte venute da tutto il mondo in questi due anni hanno permesso all’organizzazione caritativa cattolica di realizzare numerosi progetti per la ricostruzione del Paese – dove il 90% delle infrastrutture sono state distrutte dal sisma - e per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Dopo gli interventi per l’emergenza (distribuzione di cibo, acqua potabile, medicine, tende e altri generi di prima necessità), la Caritas si è concentrata sui progetti a lungo termine. A cominciare dalla ricostruzione: migliaia di case sono state ricostruite, il che, come sottolinea Caritas Haiti, rappresenta da sola “una vittoria sul terremoto e un nuovo inizio per le famiglie più vulnerabili”. Un’altra priorità è stata quella di permettere un migliore accesso della popolazione all'assistenza e alle strutture sanitarie, una priorità che si è fatta pressante dopo l’epidemia di colera che ha colpito l’isola nell’ottobre 2010. Ma l’impegno dell’organizzazione ha riguardato anche l’educazione: la Caritas ha finanziato la ricostruzione di numerose scuole e diversi programmi per promuovere l’accesso all’educazione di base dei bambini più poveri. A questo vanno varie iniziative per dare assistenza psicologica alle persone traumatizzate dalla catastrofe, a cominciare dai bambini; progetti di sostegno agli agricoltori per prevenire la malnutrizione; aiuti agli anziani soli e programmi per promuovere la piccola imprenditoria femminile. (L.Z.)

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    El Salvador: a 20 anni dagli Accordi di Pace, la Chiesa chiede un nuovo Patto sociale

    ◊   Il bilancio di un ventennio è positivo ma oggi al Paese occorre “una marcia in più”: a pochi giorni dal 20mo anniversario degli storici “Accordi di pace” firmati il 16 gennaio 1992 a Chapultepec, in Messico, mons. José Luis Escobar, arcivescovo di San Salvador, ha tracciato un bilancio, mostrando quanto questi accordi sono stati rispettati e rimarcando quello che oggi serve al Paese. Gli Accordi misero fine a 12 anni di guerra civile nel paese. In una nota inviata all’agenzia Fides, l'arcivescovo di San Salvador afferma: “Noi come Chiesa abbiamo sempre apprezzato gli Accordi di pace. In gran parte essi sono stati applicati e possiamo tracciare, in generale, un bilancio positivo. E’ importante non essere tornati alla guerra, solo per questo il Paese merita un riconoscimento mondiale, anche se oggi il Paese vive una nuova fase di violenza”. A questo riguardo, dinanzi alla più grande crisi criminale che vive il Paese, la Chiesa propone un nuovo patto sociale nazionale per eliminare la violenza e la povertà dalla società salvadoregna. Secondo l'arcivescovo, i due elementi sono in relazione: “Non possiamo pensare che tutto vada bene. Nel fare il bilancio dobbiamo ammettere che ci sono stati progressi, ma bisogna riconoscere con molto rammarico la violenza e la povertà in cui viviamo. Non possiamo dimenticare le tante vittime della violenza odierna. E' una cosa che dobbiamo risolvere”, ha detto. Alla fine della nota si legge: “La celebrazione dei 20 anni degli Accordi di pace ci deve invitare a riflettere sul pieno rispetto della pace. Ma c'è tuttora un debito verso la società, perché la situazione non è definitivamente risolta e la società del tutto pacificata”. (R.P.)

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    Colombia: nel 2011 uccisi 117 bambini

    ◊   Nel 2011 sono stati assassinati in Colombia 117 bambini, 41 dei quali con meno di 5 anni. E’ quanto emerge dalle statistiche sui bilanci diffusi alla fine del 2011 sulle morti violente in America. In Colombia, in modo particolare, questa violenza si è accanita contro i più deboli: secondo informazioni inviate all'Agenzia Fides , la metà dei bambini uccisi nel Paese nel 2011 è stata vittima di armi da fuoco, secondo un rapporto offerto dalla senatrice Gilma Jimenez. Il Rapporto informa che su 117 bambini sotto i 14 anni, 65 sono stati uccisi da arma da fuoco e altre violenze da parte di familiari o amici. Le zone in cui il maggior numero di bambini sono stati uccisi, sono Antioquia, Valle, Risaralda e Bogotà. Sul totale dei morti, 48 erano ragazze e 69 ragazzi, e 41 di loro sotto i 5 anni. Il Congresso della Colombia ha approvato la proposta del sindaco di Bogotà, Gustavo Petro, sul disarmo e ha chiesto un coordinamento di tutti i sindaci per evitare che questo provvedimento si adotti solo in alcuni comuni, il che lo renderebbe inefficace. (R.P.)

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    Zambia. Le Pom: mantenere viva la fiamma della missione

    ◊   “Mantenere viva la fiamma della missione”: è l’invito che le Pontificie Opere Missionarie (Pom) dello Zambia lanciano per il 6 gennaio, in occasione dell’Epifania e della Giornata mondiale dell’infanzia missionaria. “La festa dell’Epifania del Signore – scrive in una nota padre Bernard Makadani Zulu, direttore nazionale delle Pom zambiane – esprime la vocazione della Chiesa e la sua missione universale. La solennità dell’Epifania è una festa per i bambini che sono chiamati a vivere con gioia il dono della fede ed a pregare affinché la luce di Cristo possa raggiungere tutti i giovani del mondo”. In questo senso, continua padre Makadani Zulu, tutti sono chiamati “ad intensificare la cura pastorale dell’infanzia per aiutarla a realizzare la sua missione, cioè diffondere la Buona Novella del Signore in tutto il mondo”. Spiegando poi la scelta del tema per la Giornata 2012, il direttore delle Pom zambiane scrive: “Noi che abbiamo visto la luce di Cristo abbiamo l’obbligo di far conoscere la sua presenza fino agli estremi confini della terra” ed è proprio “attraverso le Pom che la Chiesa dà ai bambini una speciale responsabilità nell’ambito della missione e si aspetta da loro una risposta generosa”. Di qui, la sottolineatura forte sul fatto che “l’Infanzia missionaria è diventata l’icona dell’impegno dei bambini cristiani che aiutano la Chiesa nel suo compito evangelizzatore attraverso la preghiera, il sacrificio e i gesti concreti di solidarietà”. In fondo, ribadisce ancora padre Makadani Zulu, il motto delle Pom è “I bambini aiutano i bambini” e la Chiesa lo mette in pratica “educando i più piccoli all’apertura verso il mondo intero e verso le condizioni critiche dei loro coetanei più svantaggiati”. Ringraziando, poi, tutti coloro che operano nel settore, il responsabile delle Pom zambiane sottolinea l’importanza di tenere i ragazzi “al centro delle missioni, assistendoli ed accompagnandoli lungo la strada della generosità, della fraternità e della fede gioiosa che genera speranza”. Infine, padre Makadani Zulu ricorda l’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI dall’11 ottobre prossimo al 24 novembre 2013 per celebrare il 50.mo anniversario del Concilio Vaticano II: un’iniziativa che vuole “aiutare i cattolici ad apprezzare il dono della fede, ad approfondire il loro rapporto con Dio ed a rafforzare l’impegno a convivere la fede con gli altri”. Un impegno, conclude il direttore delle Pom zambiane, sul quale i più giovani devono essere sempre più sensibilizzati. (I.P.)

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    Terra Santa. Mons. Twal all'Ordinariato militare per l'Italia: "Non lasciateci soli"

    ◊   “Non ci lasciate soli per carità. Vi ringrazio per l’amore per la Terra Santa. Vengono pochi militari qui, anche se ne vediamo molti ai check point…”. Lo ha detto il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ai circa 80 pellegrini dell’Ordinariato militare per l’Italia che ieri, nella città santa, hanno chiuso il loro pellegrinaggio guidato dall’arcivescovo castrense, mons. Vincenzo Pelvi. “Siete venuti a conoscere le vostre radici e la vostra Chiesa madre – ha detto Twal - vi chiedo, al vostro ritorno, di parlare della Terra Santa ai vostri amici e familiari, dite loro che la Chiesa madre li aspetta. Non dimenticate la Chiesa di Gerusalemme”. Nel corso dell’incontro il patriarca latino ha tratteggiato la situazione dei cristiani “10 mila in tutta Gerusalemme, schiacciati tra una massa musulmana ed una ebraica. Ma noi – ha aggiunto – siamo chiamati ad essere sale e lievito, così come dovete esserlo voi in un Continente cosiddetto cristiano come l’Europa. I fedeli alla Chiesa e al magistero sono sempre meno ma non dobbiamo complessarci per questo. Siate sale e lievito per dare gusto a tutti e a tutto”. Twal ha ribadito che “ciò di cui abbiamo bisogno fortemente in Terra Santa è la pace. Vogliamo una vita normale” ha spiegato riferendosi all’occupazione israeliana. “Qui tutto funziona ma solo con permessi”. “I permessi sono necessari per andare a scuola, per spostarsi, per lavorare, per visitare i luoghi santi. Desideriamo una vita normale senza check point, senza muri. Non viviamo una vita normale ma la croce fa parte della vita quotidiana nostra ed anche vostra”. “Ci sarà sempre una Croce. Non esiste gente senza croce, senza sfida”. Per superare queste difficoltà occorre, secondo mons. Twal, “istruzione, formazione ed educazione”, quello che fanno le scuole cristiane in Terra Santa, ma soprattutto “fede, identità ed ideali”. “Guardiamo la Primavera araba – ha dichiarato il patriarca – a quanto è importante avere ideali, avere una causa per cui spendersi. Come cristiani abbiamo una causa e siamo disposti a pagare un prezzo per essa. Ai nostri fedeli raccomandiamo di avere fede, senso di appartenenza alla chiesa e di non lasciare il Paese, di non emigrare. Viviamo un tempo di scelte e di impegno. Non servono cristiani all’acqua di rose”. Al termine dell’incontro con il patriarca latino, mons. Pelvi ha annunciato il lancio di un progetto di solidarietà a favore della chiesa di Gerusalemme nato da un’idea dello stesso patriarca. Si tratta di devolvere “l’equivalente di un cappuccino all’anno” a favore di un’azione solidale che verrà presto definita di concerto con il Patriarcato. (R.P.)

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    Le reliquie di Don Bosco in Etiopia. Mons. Moreschi invita i giovani ad imitare il santo

    ◊   Un’atmosfera di grande festa e un sentimento di grande devozione hanno accolto il passaggio delle reliquie di Don Bosco nella città etiope di Gambella durante le celebrazioni della solennità del Natale. L’aereo che trasportava le reliquie del santo, custodite nella statua di vetroresina, è atterrato nel primo pomeriggio del 24 dicembre all’aeroporto di Gambella. Ad attenderlo un comitato d’accoglienza di sacerdoti, religiosi e laici guidato dal vicario apostolico di Gambella, mons. Angelo Moreschi. Un corteo di vetture ha poi scortato la statua verso la cattedrale della città dove erano riuniti molti fedeli che l’hanno accolta con danze e canti tradizionali. Mons. Moreschi ha incensato la statua e invocando la benedizione del santo sulla gente, sul clero e i giovani del vicariato apostolico. All’evento è intervenuto anche il vice governatore di Gambella che ha ringraziato Don Bosco e i Salesiani per il loro prezioso contributo allo sviluppo della regione e, in particolare, per il lavoro che svolgono per i giovani. Ha fatto seguito una veglia di preghiera animata dalle varie associazioni della parrocchia. Nella celebrazione del giorno di Natale, mons. Moreschi ha tratteggiato brevemente la vita e l’operato di Don Bosco invitando i giovani ad imitarlo. Al termine della messa la statua è stata portata presso la “Don Bosco School” dove, dopo mezzogiorno, circa 2000 ragazzi e giovani si sono incontrati per far festa. Il salesiano, don Giorgio Pontiggia, impegnato nel vicariato apostolico, ha parlato di Don Bosco e della sua dedizione ai giovani. La giornata si è conclusa con un incontro di preghiera per gli operatori pastorali di Gambella sul tema “La passione pastorale di Don Bosco”. In questa circostanza i salesiani che operano nell’area hanno rinnovato la loro professione religiosa. Il 26 dicembre la statua-urna è partita per Addis Abeba. (M.G.)

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Vera Viselli.