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Sommario del 05/04/2012
Il Papa alla Messa Crismale: obbedendo a Dio, possiamo veramente rinnovare la Chiesa
◊ Obbedendo a Cristo possiamo davvero rinnovare la Chiesa: è quanto sottolineato da Benedetto XVI nella Messa del Crisma, celebrata stamani in San Pietro nel Giovedì Santo. Il Papa ha ribadito che i sacerdoti sono chiamati a conformarsi al Signore, rinunciando alla propria autorealizzazione. Dal Papa anche un incoraggiamento ai fedeli a contrastare l’analfabetismo religioso nella nostra società, anche grazie all’opportunità dell’Anno della Fede. Stasera, alle 17.30, il Papa celebrerà in Laterano la Messa in Coena Domini, con la quale inizia il Triduo Pasquale. Sulla Messa Crismale di stamani, il servizio di Alessandro Gisotti:
Siamo davvero uomini “che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo”? E’ l’interrogativo che Benedetto XVI rivolge a sé e ai sacerdoti nella Messa del Crisma. Nella celebrazione in cui, assieme alla benedizione degli Olii sacri, vengono rinnovate le promesse sacerdotali, il Papa chiede a quanti sono consacrati a Dio di rinunciare alle proprie ambizioni per conformarsi intimamente a Cristo, che “non domina, ma serve, non prende ma dà”:
“E’ richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. E’ richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo”.
E’ vero, riconosce il Papa, che ci si domanda come questa conformazione “deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi”. C’è chi, come un gruppo di sacerdoti di un Paese europeo - rammenta - ha pubblicato un appello alla disobbedienza, che “dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero” come per esempio sull’ordinazione delle donne:
“Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di un vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?”
Chi propone questa disobbedienza, osserva, si dice convinto che “si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove - per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi”. Certo, soggiunge il Papa, Cristo “ha corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio”. Ma, in realtà, avverte, Gesù lo ha fatto per “risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio”. A Lui “stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo”:
“Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità e ci indica la strada”.
I sacerdoti sono allora chiamati non ad annunciare “teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa” di cui sono servitori. E a quanti ritengono che “con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione”, il Papa risponde indicando l’esperienza dei movimenti sorti nell’epoca post-conciliare. Un rinnovamento che “ha spesso assunto forme inattese” e che “rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della Santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”:
“E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore”.
Forse, soggiunge, “la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande”. Ma il Signore lo sa e “per questo ha provveduto a ‘traduzioni’ in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi”. E ricorda così la schiera di sacerdoti santi “che ci precedono ad indicarci la strada”, da Policarpo ad Agostino, da Giovanni Maria Vianney a Karol Wojtyla:
“I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape”.
Nell’ultima parte dell’omelia, il Papa si sofferma sull’analfabetismo religioso che si “diffonde nella nostra società così intelligente”. Gli elementi fondamentali della fede che erano in passato conosciuti anche da un bambino, sono ora “sempre meno noti”:
“Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola”.
Ecco allora che l’Anno della Fede può “essere un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia”. Il Papa pone infine l’attenzione sull’anima, “un’espressione fuori moda - afferma con amarezza – che oggi quasi non viene più usata”. In alcuni ambienti, ammonisce, “è considerata addirittura una parola proibita”. Certamente, precisa, dobbiamo occuparci delle necessità fisiche, ma non possiamo preoccuparci soltanto del corpo. Bisogna curarsi “della salvezza degli uomini in corpo e anima”. Quindi, l’esortazione ai sacerdoti a non guardare alla propria missione come fosse un semplice lavoro:
“Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo”.
Dal 4 maggio torna l'apertura notturna dei Musei Vaticani
◊ Si rinnova anche quest'anno l'appuntamento con le visite in notturna dei Musei Vaticani. Dal 4 maggio al 13 luglio e dal 7 settembre al 26 ottobre, i «Musei del Papa» apriranno le loro porte anche al tramonto, tutti i venerdì dalle 19,00 alle 23,00 (ultimo ingresso alle ore 21,30). Un invito, quello delle visite by night, rivolto non solo alle migliaia di turisti che accorrono a visitare un «santuario di arte e di fede» − secondo le parole di Benedetto XVI − ma anche e soprattutto ai cittadini romani che possono riappropriarsi dei propri musei in un’atmosfera serena e familiare.
«Nel vasto dominio delle arti, per amare bisogna prima conoscere. Questo ci hanno insegnato i nostri maestri - sottolinea il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci - Se riusciremo ad accrescere in pochi o in molti, nei cittadini romani e negli ospiti stranieri, la conoscenza e quindi l'amore per i Musei più belli del mondo, il nostro impegno non sarà stato inutile». È obbligatoria la prenotazione online sul sito ufficiale www.museivaticani.va.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ In prima pagina, un editoriale del direttore dal titolo "Nel solco del concilio Vaticano II".
La dinamica del vero rinnovamento: Benedetto XVI durante la celebrazione crismale indica la parola che rivela il Figlio e ci mostra la strada.
Nell'informazione internazionale, un articolo di Pierluigi Natalia dal titolo "11.541 sedie vuote": vent'anni fa cominciava l'assedio di Sarajevo.
Inseriti nella sua sofferenza: in cultura, Inos Biffi sul Venerdì santo e l'"Uomo dei dolori".
Il film dentro al quadro: Emilio Ranzato su "I colori della passione" di Lech Majewski.
Un articolo di Claudia Di Giovanni dal titolo "La Vie e la Passion": nell'archivio della Filmoteca Vaticana il primo vero lungometraggio su Gesù.
Tra quei sassi un germoglio: Giorgio Alessandrini davanti alla "Deposizione" di Caravaggio.
Coscienza inquieta della critica: Claudio Toscani sul centenario pascoliano.
Carità senza confini: nell'informazione vaticana, intervista di Mario Ponzi a mons. Giampietro Dal Toso, segretario del Pontificio Consiglio Cor Unum, al rientro dalla missione in Siria dove ha portato gli aiuti del Papa per una popolazione tanto provata.
◊ “Abbiamo tanta fame e sete di giustizia e di pace”: sono le parole del patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, risuonate questa mattina dal Santo Sepolcro, dove ha presieduto la celebrazione della “Cena del Signore” cui è seguita la processione eucaristica. “Sogniamo di condurre una vita normale, siamo prigionieri dell’odio, della diffidenza e della paura gli uni verso gli altri”, ha affermato spiegando che “Cristo continua a soffrire nelle membra del suo corpo mistico, che ci troviamo di fronte ogni giorno, e che soffrono per mancanza di libertà e di pace, vessazioni di ogni genere, sofferenza e lo stesso martirio”. “Amarsi gli uni gli altri” per il patriarca è la chiave di tutta la Settimana Santa. In particolare domani, Venerdì Santo, ricorre la giornata della Colletta. Fausta Speranza ne ha parlato con padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa:
R. – La giornata della Colletta è una tradizione antica, che risale al ‘500. Quindi, sono circa 400 anni che la Chiesa, ogni anno, in tutto il mondo, ricordando Gesù, pensa alle necessità della terra dove Gesù ha vissuto e alla comunità cristiana che vive dove Gesù ha vissuto e che conserva quella memoria. Gli obiettivi sono sempre gli stessi: la conservazione dei luoghi santi, l’accoglienza dei pellegrini, ma soprattutto il supporto alla comunità cristiana nella creazione di case, nella “job creation” e in tante altre attività che sostengono la piccola e fragile comunità cristiana.
D. – Ci sono stati momenti storici in cui c’era più speranza o più disperazione nel processo di pace, rispetto al conflitto che purtroppo insanguina la zona. Quest’anno qual è la preghiera che sta nel cuore in particolare di chi vive in Terra Santa?
R. – Non è una novità questo altalenarsi, queste tensioni che vanno e vengono. Quindi, fa un po’ parte dell’identità di chi vive qui. La preghiera deve sempre essere la stessa, rivolta al Signore, che poi però ti apra anche gli occhi alle relazioni interreligiose e umane. I cristiani, che sono molto pochi – sono poco più dell’1 per cento della popolazione – credo abbiano proprio questa missione: tenere gli occhi aperti e soprattutto le relazioni aperte a tutti.
D. – Che cosa ricordare a chi non vive la Terra Santa quotidianamente?
R. – Soprattutto la Pasqua ci ricorda che il cristianesimo è incarnazione. Noi crediamo in una rivelazione storica: Gesù non è una teoria, è una persona, è incarnazione, è nato qui, morto e risorto qui. Quindi, guardare a questa terra, ricordarsi di questa terra non è un’opera di devozione, ma è un aspetto fondamentale della nostra vita di fede.
D. – Che cosa dire delle particolarità delle celebrazioni?
R. – Sono uniche e sono molto diverse rispetto a quello che si fa nel resto del mondo, perché, evidentemente, si vive la memoria della morte e risurrezione di Cristo con celebrazioni nello stesso luogo dove ciò è avvenuto, con tradizioni millenarie, che hanno un significato sempre molto bello e commovente. (ap)
Mali, i Tuareg fermano le operazioni militari. Gli scissionisti di al-Qaeda verso il Sahel
◊ In Mali, il movimento nazionale di liberazione dell'Azawad (Mnla), importante componente della ribellione Tuareg, ha proclamato la fine delle operazioni militari nel Nord. Mentre un gruppo scissionista di al-Qaeda ribadisce la volontà di estendere la propria azione in tutta la regione del Sahel. Massimiliano Menichetti:
“Allargheremo le attività del nostro gruppo a tutta la regione del Sahel”. E' quanto ha promesso il gruppo "Monoteismo e Jihad in Africa Occidentale", il movimento islamico noto per essere nato da una scissione di al-Qaeda nel Maghreb e per aver rivendicato il sequestro dell'italiana Rossella Urru. Intanto sul terreno il Movimento nazionale di liberazione dell'Azawad componente importante della ribellione Tuareg - seguita al golpe militare che ha destituito il 22 marzo scorzo il presidente Tourè - ha proclamato la fine delle operazioni militari nel Nord. La decisione, sottolineano, è stata presa “in seguito alla liberazione completa del territorio del Nord e tenuto conto dell’invito alla cessazione delle ostilità espresso dalla comunità internazionale”. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ieri, ha condannato duramente il colpo di Stato, affermando di sostenere le sanzioni economiche e militari imposte dal gruppo dei Paesi dell'Africa Occidentale, Ecowas. In questo scenario la popolazione, duramente messa alla prova dalle violenze e della carestia, sta cercando riparo altrove come conferma Alberto Fascetto cooperante Cisv raggiunto telefonicamente nella capitale Bamako:
R. - Al Nord, la popolazione sta andando via, c’è un esodo di massa verso la Mauritania e l’Algeria. Una fuga dalla situazione di guerra e per la penuria di alimenti e di acqua. Viceversa, le popolazioni che si trovano al limite di quest’area dell’Azawad e quindi le popolazioni della regione di Mopti si stanno dirigendo nelle regioni limitrofe a Sud e quindi nella regione di Segou e nella regione di Sikasso.
D. - Come vive la popolazione questo momento?
R. - Vive ovviamente con molta ansia e aspetta un intervento dell’Ecowas o delle Nazioni Unite, una’azione forte che possa fermare quanto sta accadendo o quantomeno limitare i danni.
D. - Sul Mali impattano anche le sanzioni: nella capitale avete energia elettrica?
R. - Dalle informazioni che abbiamo le riserve di gasolio stanno per finire e quindi al momento stanno cercando di limitare l’utilizzo di carburante, visto che le turbine delle centrali vanno proprio a gasolio. Siamo nella stagione secca ed anche le centrali idroelettriche sono in difficoltà. Quindi abbiamo luce soltanto dopo cena, dalle 19.00 alle 6.00 del mattino.
D. - Una situazione difficile per la popolazione, anche prima del golpe militare del 22 marzo…
R. - Le Nazioni Unite, insieme con diverse ong locali, stavano avviando programmi di intervento per combattere al Nord la situazione di insicurezza alimentare, che stava diventando ormai insostenibile: purtroppo, però, tutto questo è stato messo in standby visti gli ultimi avvenimenti che, via via, si sono succeduti.
D. - Dopo il golpe, i tuareg al Nord e poi anche al-Qaeda: qual è la situazione?
R. - Al-Qaeda Maghreb non è mai andata via dal Mali: il fatto che i militari abbiano lasciato il campo libero all’Mnla di muoversi, ha fatto sì che anche al-Qaeda avesse più libertà di movimento. Nessuno però al momento sa quali sono le vere alleanze che si stanno creando. (mg)
Riforma del lavoro: torna il reintegro. Le Acli: un primo passo nella giusta direzione
◊ All’indomani dalla presentazione del ddl sulla riforma del mercato del lavoro, il premier Monti confida in un percorso parlamentare 'sereno e rapido' per la sua approvazione, dopo che il testo ha raccolto l'adesione della maggioranza. Fra i punti salienti: il nuovo contratto di apprendistato che premia le aziende che assumono a tempo indeterminato, il reintegro - che accende l'opposizione delle imprese - e la riduzione dell’indennizzo da 27 a 24 mensilità. Prevista dunque una stretta alla flessibilità in entrata, mentre sul fronte della conciliazione lavoro-famiglia arrivano la paternità obbligatoria e il contrasto alla pratica delle dimissioni in bianco. Positivi i pareri di Cisl e Uil, negativa l’Ugl, no comment dalla Cgil. Per il ministro del Lavoro Fornero “ci sono vantaggi per tutti”. Di “passo giusto nella direzione giusta” parla il presidente delle Acli Andrea Olivero. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. – Nell’insieme l’opinione è positiva. Noi crediamo che i passi in avanti siano significativi e utili soprattutto perché per la prima volta dopo molti anni si riafferma la centralità del contratto a tempo indeterminato e si iniziano a mettere vincoli sulle tutele per i giovani lavoratori. Certamente non userei troppa enfasi perché purtroppo sappiamo che questo è solo un primo passo e c’è bisogno di ben altro per far ripartire il lavoro nel Paese. Però è un passo giusto, nella direzione giusta.
D. – L’accordo sembrava impossibile: un muro contro muro, invece poi il confronto ha dato i suoi frutti…
R. – Ci sembra anche questo un atteggiamento saggio perché non esistono solo il governo e il cittadino: esiste una società civile articolata che certamente non deve porre veti ma che ha una responsabilità importante anche nell’attuazione delle riforme. Noi crediamo che la concertazione sia un bene.
D. – A giudicare dai contenuti che sono emersi, ritiene che questa riforma vada verso gli obiettivi che si pone, ovvero quelli di realizzare un mercato di lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione in quantità e qualità e alla crescita sociale ed economica?
R. - Certamente, come dicevo, è un segnale nella direzione giusta. Da solo però non basta, lo diciamo con forza: va accompagnato da una profonda riforma del sistema dell’accesso al lavoro pubblico. Ad oggi meno del 5 per cento degli occupati ha trovato lavoro grazie alla intermediazione pubblica. Ci sono da fare passi in avanti perché quello che c’è scritto nella legge si possa tradurre in realtà grazie a servizi e a risposte precise da parte della pubblica amministrazione e di un sistema coerente sussidiario organizzato dallo Stato.
D. – Alcuni punti lasciano ben sperare come il rafforzamento dell’apprendistato o la stretta alla flessibilità in entrata... Possiamo parlare di un’inversione di tendenza dopo anni di precariato?
R. – Sì, questo è il segnale più interessante. Si capovolge la logica: non c’è più la necessità della flessibilità a tutti i costi, come valore in se stesso, ma la necessità di creare una sostenibilità vera che aiuti le persone, i cittadini, a potersi inserire nel mercato del lavoro, a cambiare anche più posti di lavoro ma all’interno della certezza di una continuità del lavoro stesso e quindi del reddito e della propria dignità.
D. – E’ una riforma che tiene conto anche della famiglia, visto che tutela le donne contrastando la pratica delle dimissioni in bianco o prevede l’obbligo di congedo per i padri…
R. – Sì, introduce alcuni elementi interessanti. Naturalmente anche qui siamo ai primi passi. Noi crediamo che sulla conciliazione si debba fare anche molto di più. Però è un primo passaggio utile perché sappiamo bene che l’occupazione femminile così come l’occupazione giovanile sono le grandi sfide per far ripartire il Paese.
D. – Quali le ombre di questo disegno di legge?
R. – Io credo che questo disegno di legge possa essere fragile soltanto nella misura in cui rimarrà solo, se cioè non verrà accompagnato da altri provvedimenti in particolare quelli relativi al rilancio dell’occupazione giovanile.
D. – Il ddl è stato accolto complessivamente in maniera positiva mentre resta un giudizio fortemente negativo da parte delle imprese…
R. – E’ vero. Le imprese chiedevano la flessibilità in uscita e questa viene fortemente ridimensionata, ma attenzione: chiedere la flessibilità in uscita in un momento di crisi come quella che stiamo attraversando e in un momento nel quale non abbiamo alcun servizio vero per quanti perdono il lavoro oltre i 50 anni e nessuna possibilità di un vero reimpiego, ci pare oggettivamente troppo. Credo che le imprese debbano andare a cogliere quello che c’ è di positivo e capire che in questo momento “altro” sarebbe stato “macelleria” sociale. (bf)
Rwanda, 18 anni fa il genocidio. La testimonianza di don Antoine Kambanda
◊ Il Rwanda ricorda il terribile genocidio di 18 anni fa. Il massacro iniziò il 6 aprile 1994: furono barbaramente trucidate oltre 800mila persone: erano uomini, donne, bambini, in gran parte tutsi, ma tantissime sono state le vittime anche tra gli hutu, l'etnia maggioritaria. Nel Paese, la situazione oggi appare più stabile, tuttavia resta grande la povertà e a pagarne le conseguenze sono soprattutto i più piccoli. Ma qual è oggi il rapporto tra le diverse etnie e quale il ruolo della Chiesa? Massimo Pittarello lo ha chiesto a don Antoine Kambanda, rettore del Seminario Maggiore ruandese di Nyakibanda:
R. – Le differenze non sono tante dal punto di vista etnico. Le persone appartengono alla stessa cultura, parlano la stessa lingua, vivono insieme sulle colline. Questo dimostra che la divisione è un male e cercare di esasperare le divisioni è un peccato. La Chiesa, che tocca le coscienze, che tocca il cuore, che sa interpretare questo peccato, riesce a raggiungere la parte più intima delle persone per arrivare ad una riconciliazione profonda, non una riconciliazione politica esteriore, ma una riconciliazione che tocca il cuore, la coscienza, e per ritrovare la comunione e la fratellanza con Dio.
D. – Molte persone hanno subìto violenza, molte altre ne hanno fatte. Chi compie una violenza, quando si accorge del male commesso, è lui stesso a chiedere il perdono. La Chiesa è riuscita in qualche modo ad anticipare la giustizia civile in Rwanda, anche lavorando molto nelle carceri..
R. – Sì, per la giustizia ci vuole una preparazione del cuore, una conversione, e questo ha fatto la Chiesa. Ma la giustizia non basta, dopo la giustizia c’è bisogno anche della riconciliazione.
D. - Oggi il Rwanda, la Regione dei Grandi Laghi, è un territorio pacifico? C’è una pace stabile? Quanto è stato importante il ruolo della Chiesa nella pacificazione?
R. – C’è ancora molto da fare però c’è speranza. In Rwanda adesso la situazione è abbastanza stabile e calma ma non è ancora finito il cammino della riconciliazione. C’è ancora molto da fare, però, vedendo quello che già è stato fatto, c’è speranza.
D. - La comunità internazionale è stata troppo a guardare il genocidio del Rwanda senza fare nulla...
R. – Durante il genocidio, la comunità internazionale non ha reagito come avrebbe dovuto. Per esempio, le truppe dell’Onu hanno lasciato morire le persone.
D. - Perché secondo lei la comunità internazionale non è intervenuta?
R. – E’ avvenuto tutto così rapidamente… E poi, spesso, mentre ancora si discute ... ci sono tanti interessi e la violenza si diffonde. (bf)
L'assedio di Sarajevo, 20 anni dopo. Nadira Sehovic: Sarajevo non dimentica
◊ Il 6 aprile del 1992, dopo l’uccisione il giorno prima da parte dei soldati serbi di due bosniaci che manifestavano contro la guerra, le truppe serbo-bosniache bombardarono Sarajevo: fu ufficialmente la guerra, l’inizio di un assedio che sarebbe durato oltre mille giorni e sarebbe finito nel 1996. Nella sola Sarajevo le vittime, la maggior parte civili, furono quasi 12mila. La città in quegli anni fu completamente isolata, tagliata fuori dai rifornimenti di qualsiasi genere di prima necessità. Si è calcolato che vi fosse una media di oltre 300 bombardamenti giornalieri. Nel 1995 intervennero i jet della Nato, che attaccarono obiettivi militari serbi; nell’ottobre del '95 gli accordi di Dayton ristabilirono la pace. Incriminati per il massacro di Sarajevo furono l'allora leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić e il suo “braccio armato”, il generale Ratko Mladic. Francesca Sabatinelli ha raccolto la testimonianza della giornalista e scrittrice di Sarajevo Nadira Sehovic:
R. – Sarajevo non dimentica! Non ha dimenticato e probabilmente non dimenticherà mai quel che è successo. Non c’è questo senso così spiccato di ricorrenza, come lo è invece sulla stampa occidentale o tra gli inviati che 20 anni fa venivano a Sarajevo e che oggi si sono ritrovati e riuniti qui.
D. – Nadira Sehovic, in questi 20 anni che tipo di cammino ha fatto la città, nel ricordo di ciò che era accaduto?
R. – Quel che è accaduto è sempre presente: è presente anche in novembre o in gennaio, non soltanto il mese di aprile. Sì, tutti noi ricordiamo che è cominciato allora, ma la guerra, l’assedio, le violenze, i morti (solo di civili, in città, più di 11 mila), tutto ciò si ricorda ed è presente nella memoria collettiva della città ogni giorno e condiziona la vita quotidiana di tutti noi ogni giorno, di anno in anno, perché per quanto ci si sia allontanati da quelle tragedie, tutte le nostre vite sarebbero state sicuramente molto diverse se la guerra non ci fosse stata. Oggi, la struttura della popolazione cittadina è cambiata notevolmente, una delle etnie, quella bosniaco-musulmana, è ora l’etnia più numerosa e il motivo è semplice: gli altri avevano dove andare, i musulmani no. Le popolazioni rurali si sono rifugiate a Sarajevo, anche durante la guerra, lo so che può sembrare molto strano dire “si sono rifugiate” a Sarajevo durante la guerra, a Sarajevo che era sotto assedio. Eppure molti profughi sono venuti, o sono stati spinti a entrare in città, anche durante l’assedio, provenienti dai dintorni.
D. – Questa aumentata presenza dei bosniaco-musulmani ha creato nella Sarajevo di oggi uno squilibrio, in qualche modo?
R. – Dipende dalle categorie e dai gruppi di persone, ma a me non sembra molto. C’è un gruppo etnico che è molto prevalente come numero, ma è rimasto comunque il senso della tolleranza, del buon vicinato e di tutto quello che noi chiamavamo lo “spirito di Sarajevo”, che significava appunto la presenza di molte culture e molte religioni.
D. – Lei scelse di restare a Sarajevo in quel periodo, in quegli oltre mille giorni di assedio. Ci ha raccontato di come la città che ne è uscita non è mai più stata la stessa. Ma le persone – proprio come lei, ad esempio – che cosa hanno dentro di sé?
R. – La consapevolezza di quello che è accaduto e che ha cambiato completamente le nostre vite. Inoltre, c’è ancora la grande incredulità che avevamo nell’aprile del ’92 e poi anche nel ’93 e nel ’94. Noi continuavamo a dirci: “Non è possibile che accada questo! Non è possibile che ci siano tali devastazioni e distruzioni! Non è possibile bombardare un ospedale! Non è possibile incendiare la biblioteca!”. Queste sono tutte cose che non credevamo possibili, anche quando le vedevamo con i nostri occhi, non riuscivamo a crederci. Anche adesso, che racconto certe esperienze, mi ascolto e ancora mi dico: “Ma è possibile che sia successa una cosa del genere?”.
D. – Con questi ricordi, con questo dolore e con questa incredulità, come si fa poi a superare, se ci si arriva, quella dimensione di odio che forse può nascere?
R. – E’ difficile, è sempre difficile! Ci sono dei fenomeni in cui si può riconoscere dell’odio e regolarmente sono causati dai traumi veramente terribili che una persona ha vissuto. Però la vita deve andare avanti. Da noi, in questi giorni – soltanto per fare un piccolissimo esempio – abbiamo i veterani di guerra che protestano per le pensioni, che sono molto basse e questo perché il livello di vita in Bosnia è decisamente basso, oltre il 40 per cento delle persone vive o sotto o intorno alla soglia della povertà. Ci sono, quindi, le proteste di persone che si sono sparate, di militari, allora combattenti, che si sono combattuti durante la guerra e che ora fanno queste proteste insieme.
D. – Nadira, lei ha scritto diverso tempo fa che ha provato ad un certo punto il desiderio di lasciare casa, di andare via, però non lo ha fatto ed è rimasta a Sarajevo, dove tutt’ora vive. Perché decise di rimanere?
R. – Intanto, che non si pensi che si tratti di chissà quale coraggio, eroismo o cosa, assolutamente non c’entrano niente! Le ho già parlato dell’incredulità, perché quella c’era tutti i giorni: noi ogni giorno pensavamo che sarebbe finita, perché era inconcepibile che potesse andare avanti. E poi io e la mia famiglia abbiamo scelto di restare semplicemente perché, per sentito dire e non per esperienza personale, conoscevamo abbastanza quale fosse la vita di un profugo e non volevamo farla! Era anche una forma di resistenza quella di voler restare a casa nostra. Perché andare via e lasciare la propria casa? Io non ammetto che qualcuno possa avere il diritto di cacciarmi da casa mia! (mg)
Myanmar: il lungo cammino per la democrazia di Aung San Suu Kyi
◊ "E’ l'inizio di una nuova era", è stato questo il commento di Aung San Suu Kyi, nel suo primo discorso pubblico dopo la vittoria dello scorso primo aprile. Premio Nobel per la pace, leader della Lega nazionale per la democrazia, Aung è riuscita ad aggiudicarsi un seggio nel Parlamento del Myanmar. Ma la strada non sarà certo in discesa per la leader birmana che per le sue idee politiche ha trascorso 15 anni in carcere e agli arresti domiciliari. Sulle prospettive dopo la vittoria di Aung San Suu Kyi, ascoltiamo Paolo Mastrolilli, inviato a New York per "La Stampa", e uno dei pochi giornalisti ad averla incontrata. Il suo racconto nell’intervista di Emanuela Campanile:
R. – Il fatto che adesso entri in Parlamento cambia completamente il suo profilo: non è più il detenuto politico, il leader dell’opposizione che cercava di farsi ascoltare; è un leader del Paese, è un leader politico. La sua vittoria è un primo passo ma non significa che la giunta militare sia effettivamente disposta a cedere il Paese. Lei deve riuscire adesso, in questi anni, a dimostrare che può e che deve avere un ruolo fattivo nella gestione del Paese.
D. – Aung San Suu Kyi ha firmato il patto del perdono e della dimenticanza: di cosa si tratta?
R. – Lei ha detto, durante questa intervista con me, che non ha intenzione di chiedere processi per le persone che l’hanno perseguitata e prima di lei, perseguitato il padre. Ha spiegato in maniera molto chiara che naturalmente lei ha le sue giuste ragioni di risentimento nei confronti delle persone che l’hanno costretta agli arresti domiciliari per tanto tempo, ma il suo obiettivo, a questo punto, è quello di far rinascere il suo Paese, non di ottenere una vendetta personale.
D. – Il suo popolo, lei lo definisce pronto per questa trasformazione, comunque per questo inizio di una nuova era?
R. – Lei ha detto durante questo incontro che il suo popolo, che la Birmania, è in grado di superare, dal punto di vista dello sviluppo – politico ma anche economico – tutti i Paesi dell’Asean, i Paesi della regione asiatica che negli ultimi anni hanno corso molto, dal punto di vista economico. Ha ragione nel senso che la Birmania è un Paese che ha molte risorse naturali importanti che fanno gola un po’ a tutti, alla Cina in particolare, che da tempo ha investito in quel Paese, ma anche ai Paesi occidentali. Lei ritiene che il popolo sia pronto, sia preparato; certamente, però, c’è da fare un grande lavoro perché la Birmania riesca a realizzare tutte queste promesse.
D. – Ci sono due soggetti, a questo punto, che sono forse determinanti per il futuro del Myanmar: la Cina e gli Stati Uniti. Immagino che entrambi non staranno semplicemente a guardare …
R. – La Cina, gli Stati Uniti e io direi anche i Paesi europei, perché anche i Paesi europei hanno un peso importante laggiù. La Cina sicuramente ha un grande vantaggio: è il Paese che, durante gli anni dell’isolamento, gli anni in cui la Birmania era sottoposta alle sanzioni più rigide appunto a causa della dittatura militare e il trattamento riservato ad Aun San Suu Kyi, ha mantenuto i rapporti aperti con Yangoon e ha fatto fortissimi investimenti. Questa presenza così forte della Cina, secondo molti osservatori, è uno degli elementi che ha spinto la giunta militare a cambiare linea e quindi ad aprire alla democrazia e all’Occidente: proprio per cercare di bilanciare questa pressione di Pechino che stava diventando un po’ troppo invadente. Gli Stati Uniti, naturalmente, hanno colto questa occasione e lo hanno fatto con il viaggio molto simbolico del segretario di Stato Hillary Clinton, alla fine dell’anno scorso. Naturalmente, c’è un doppio interesse da parte degli Stati Uniti: economico e politico. L’obiettivo è cercare di bilanciare l’influenza della Cina in questa regione e, in particolare, negare il più possibile alla Cina l’accesso al mare dalla parte birmana, perché questo consentirebbe appunto a Pechino di allargare ancora di più la sua influenza. Sullo sfondo, però, c’è anche l’Europa che ha un ruolo importante da svolgere, perché l’Europa è una grande potenza economica, perché ha una tradizione culturale anche in quella regione, una presenza che c’è stata in passato; ha la possibilità di compiere interventi molto utili, intanto dal punto di vista economico, di cui possono beneficiare i birmani ma anche gli investitori europei; quanto dal punto di vista politico, per cercare appunto di dare una sponda al nuovo governo, al di là di quelle che possano offrire la Cina e gli Stati Uniti. (gf)
Passione, morte e risurrezione in una periferia di Napoli: intervista col parroco di Caivano
◊ “E’ consolante pensare che Gesù sia nato in una periferia come la nostra abitata da poveri, immigrati, rom; una realtà dove spesso i giovani muoiono per overdose o uccisi dalla criminalità. Proprio qui ci può essere la Resurrezione”. All’inizio del Triduo Pasquale vi proponiamo questa testimonianza di don Maurizio Patriciello, parroco della chiesa di San Paolo Apostolo a Caivano, in provincia di Napoli. L’intervista è di Fabio Colagrande:
R. – Io sono parroco in un quartiere di quelli nati dopo il terremoto dell’80, sorti come funghi all’improvviso, senza tradizione, che raccolgono un po’ tutti i poveri della “vecchia Napoli”, dei vicoli della “vecchia Napoli”. La crisi si riversa sulle persone di questi quartieri a rischio, poveri, come una vera e propria mannaia. E’ qualcosa di incredibile. In questi giorni ho trovato nel Messale l’ultima bolletta che mi era stata portata da un fratello che è allo stremo: mi ha chiesto di pagargliela. La parrocchia è veramente la casa di tutti, la casa tra le case. C’è una disoccupazione nei nostri quartieri che credo rasenti la follia. C’è gente che non riesce neanche a mettere un piatto in tavola la sera.
D. - Queste sacche di povertà, di disoccupazione, sono anche sacche molto pericolose…
R. – Sì, sono pericolosissime. Se avessi potuto dare un lavoro a qualcuno lo avrei salvato dalla camorra, lo avrei salvato dalla delinquenza, lo avrei salvato dalla morte. In questi nostri quartieri i funerali di giovani morti per overdose o uccisi dalla polizia, in un conflitto a fuoco, uccisi da bande di camorristi… sono veramente tanti. E’ una tristezza immensa, enorme.
D. – Padre Maurizio, in questo contesto così particolare e difficile, come predicherà la Passione, morte e risurrezione del Signore Gesù ai suoi parrocchiani?
R. – Lei non ci crederà ma abbiamo quattro Messe la domenica, la nostra chiesa è abbastanza capiente. Credo che riesca a contenere anche migliaia di persone. Domenica era strapiena. Passano in tantissimi per la chiesa. Come predicherò… A me non fa piacere essere chiamato il prete “anticamorra”, il prete “di frontiera”, no, no, no. Io sono un prete, un prete e basta. E un prete che vuole bene a Gesù, che vuole bene alla Chiesa, che vuole bene al Papa, che vuole bene alla gente, è un prete e quindi deve predicare Cristo morto e risorto, al di là di ogni altra cosa. Poi deve scendere più in profondità e dire che c’è tanta gente che vive questa Passione di nostro Signore Gesù Cristo.
D. – Lei ci dice che lì nella periferia, dove c’è la sofferenza, lì ci può anche essere la risurrezione…
R. – Certo, ci mancherebbe altro! Noi siamo cristiani non siamo né fatalisti, né pessimisti. La mia parrocchia comprende tutti palazzi di edilizia popolare; credo che in ogni appartamento ci siano almeno due famiglie, la famiglia che lo ha ricevuto e poi un figlio o una figlia che si sono sposati ma che non trovano casa, che non se la possono permettere… Ed ecco che la famiglia fa un po’ quello che ha fatto la Madonna: si mette da parte, fa spazio, accoglie. Quanti termini usiamo anche nella nostra teologia, nella nostra pastorale, nei nostri incontri, che magari ci fanno anche fare bella figura ma spesso non sono termini vissuti: l’accoglienza, per esempio... (bf)
Rapporto Onu: 2,4 milioni di persone vittime nel mondo del traffico di esseri umani
◊ Due su tre sono donne, in totale 2 milioni e 400 mila vittime, per l’80% sfruttate per la prostituzione, e per il resto costrette in massima parte a lavori forzati. Sono i numeri drammatici del traffico di esseri umani nel mondo, resi noti al Palazzo di Vetro dell’Onu. E’ una sfida di “proporzioni straordinarie”, ha dichiarato Yuri Fedotov, responsabile dell’Ufficio dell’Onu contro la droga ed i crimini, durante una riunione ad hoc dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Solo una su 100 tra le vittime di questo turpe commercio viene infatti salvata. ''E’ difficile pensare ad un reato più orribile e scioccante di questo”, ha commentato Michelle Bachelet, a capo dell'Agenzia per le donne delle Nazioni Unite (Un Women), presente al summit. Un traffico, “che peraltro - ha aggiunto Bachelet - è uno dei più redditizi e sta registrando un'ascesa molto rapida''. Del resto questa forma di “schiavitù moderna è battuta solo dal traffico di droga per i profitti'' ha sottolineato l'attrice americana Mira Sorvino, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite. L'intero giro di affari di questi mercanti di esseri umani ruota intorno ai 32 miliardi di dollari all'anno. Sorvino ha quindi criticato i Paesi di investire troppe poche risorse per combattere questa pratica, ''oltre al fatto che mancano leggi efficaci ed una formazione specifica delle Forze dell’ordine”. “Basti pensare - ha spiegato Sorvino dalla tribuna dell’Onu - che anche negli Stati Uniti solo il 10% delle stazioni di Polizia hanno un protocollo riguardante il traffico di esseri umani''. (A cura di Roberta Gisotti)
Siria. Gregorios III: i cristiani contribuiscano alla resurrezione del loro Paese
◊ Contiene un forte invito “alla speranza, alla fede e alla carità”, davanti ai fatti dolorosi e sanguinosi che colpiscono alcune regioni del mondo arabo, Siria in testa, la lettera di Pasqua di Gregorios III Laham, patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente, di Alessandria e Gerusalemme. Il testo, diffuso dal Patriarcato e ripreso dall'agenzia Sir, richiama il significato della Resurrezione che “dona forza nel momento del dolore e della debolezza”.” L’amore di Gesù, più forte della morte - scrive il Patriarca - ci anima. Il suo amore trova espressione nella solidarietà e nella comunione, specie nel tempo della prova”. Per il Patriarca le crisi del mondo arabo sono come “un terremoto” sentito in modo particolare dai cristiani “esposti alla debolezza, alla fragilità e alla vulnerabilità. Ed è proprio in questa situazione che, come cristiani, siamo chiamati a ritrovare il nostro posto, la nostra vocazione e discernere il piano di Dio”. Gregorios III esorta i cristiani ad “essere solidali con il nostro mondo arabo, dove abbiamo radici. È tempo che i cristiani riscoprano l’amore di Dio e si ricordino che sono i figli della Resurrezione. Ciò implica - si legge nel testo - la solidarietà con le realtà e i problemi dei loro Paesi, dei loro concittadini, contribuendo alla resurrezione della loro società dal momento che sono chiamati ad esserne sale e lievito”. “Apparteniamo ad un piccolo gregge che è parte di uno più grande. La protezione del piccolo è per il bene di quello più grande, così che tutti abbiano la vita. Questo è il senso della Resurrezione. In questo tempo preghiamo per coloro che soffrono soprattutto in Palestina, in Iraq, in Egitto e in Siria”. (R.P.)
Baghdad: la Pasqua nel quartiere di Dora, segno di grande speranza
◊ In Iraq le celebrazioni pasquali hanno preso il via già oggi con una messa celebrata nel quartiere di Dora (Baghdad), teatro fino a pochissimi anni fa di violenti attacchi contro i suoi abitanti di fede cristiana ad opera di affiliati di Al Qaeda. “È un segno di speranza poter tornare a celebrare una messa in vista della Pasqua in questo quartiere, che ospitava tra le altre cose anche il seminario patriarcale - dichiara all'agenzia Sir il vicario patriarcale caldeo di Baghdad, mons. Shlemon Warduni - la speranza alimentata dalla preghiera ci ha permesso di tornare. La Settimana Santa si è aperta nelle nostre chiese con una celebrazione delle Palme molto partecipata, nonostante non manchino i motivi di preoccupazione dovuti alla mancanza di sicurezza e quindi a temuti attentati”. Tuttavia, aggiunge il vicario, “al momento non si registrano particolari episodi di violenza e questo fa ben sperare per il prosieguo della Settimana Santa, con la messa crismale, la Via Crucis di Venerdì Santo che si svolgerà all’interno delle chiese, per arrivare alla veglia pasquale e alla Messa della domenica di Pasqua, momento centrale per i cristiani”. Per tutte queste liturgie, conclude mons. Warduni, “abbiamo ricevuto dal Governo assicurazioni di protezione e di sicurezza per i luoghi di culto”. Intanto dalla comunità musulmana giungono attestati di amicizia e di augurio per le imminenti festività. (R.P.)
Laos: i cristiani celebrano la Settimana Santa nonostante il divieto delle autorità
◊ I cristiani laotiani sfidano i divieti delle autorità e officiano i riti legati alla Settimana Santa. Secondo quanto riferiscono gli attivisti di Human Rights Watch for Lao Religious Freedom (Hrwlrf), due comunità protestanti della provincia meridionale di Savannakhet si sono radunate davanti alle loro chiese - sequestrate da tempo - e hanno celebrato la Domenica delle Palme. Il fatto è avvenuto lo scorso 1° aprile, ma è emerso solo ieri grazie alla denuncia del movimento a difesa della libertà religiosa in Laos. In un primo momento era circolata la voce che i fedeli avessero rotto i sigilli. Al contrario - riferisce l'agenzia AsiaNews - le funzioni si sono svolte all'esterno dell'edificio; tuttavia, per la Pasqua essi promettono di rimuovere le catene se le autorità non restituiranno i luoghi di culto. Il 1° aprile la comunità cristiana evangelica di Kengweng si è riunita davanti alla chiesa, per celebrare la Domenica delle Palme e l'apertura della Settimana Santa. Sirikoon Prasertsee, direttore di Hrwlrf, riferisce che "i cristiani sono determinati a far sentire la loro voce", anche a costo di "farsi arrestare e imprigionare". Egli ha quindi precisato che - a differenza delle voci circolate in un primo momento - non sono stati spezzati i sigilli. Tuttavia, la prova di forza è rimandata alla Pasqua se le autorità non restituiranno l'edificio. Una vicenda analoga si è registrata a Dongpaiwan, dove i fedeli hanno indetto una preghiera all'esterno della chiesa, sotto sequestro dal settembre scorso. Nella provincia di Savannakhet, teatro di una feroce repressione anticristiana, il governo ha bloccato - con il pretesto di presunte irregolarità nei permessi - e interdetto al culto tre chiese evangeliche: quella di Dongpaiwan nel settembre 2011, quella di Nadaeng il 4 dicembre e quella di Kengweng il 22 febbraio 2012. Finora il governo laotiano non ha assunto una posizione ufficiale sulla richiesta di restituire i luoghi di culto. Intanto si moltiplicano gli appelli di Ong e attivisti per i diritti umani, che si rivolgono alla comunità internazionale e alle Nazioni Unite perché Vientiane rispetti la Convenzione Onu sui diritti dell'uomo, la Costituzione del Paese e il principio inalienabile della libertà religiosa. In Laos, nazione guidata da un regime comunista, la maggioranza della popolazione (il 67%) è buddista; su un totale di sei milioni di abitanti, i cristiani sono il 2% circa della popolazione, di cui lo 0,7% cattolici. I casi più frequenti di persecuzioni a sfondo religioso avvengono ai danni della comunità cristiana protestante: nel recente passato AsiaNews ha documentato i casi di contadini privati del cibo per la loro fede o di pastori arrestati dalle autorità. (R.P.)
Pasqua in Libano. Il patriarca di Antiochia dei Siri: "Delusi dal mondo ma non da Dio"
◊ “Non possiamo dimenticare che la nostra storia qui in Medio Oriente è stata sempre una Via Crucis, ma come cristiani siamo chiamati a portare, certo, la Croce ma al tempo stesso a guardare alla Resurrezione”. Il patriarca di Antiochia dei Siri (Beirut), Ignace Youssif III Younan, con queste parole descrive all'agenzia Sir con quale spirito la comunità cattolica libanese si appresta a vivere la Pasqua. “La Pasqua - spiega - è per noi un richiamo ad entrare nel mistero della nostra vita e della relazione con Dio. Non possiamo dire che come cristiani del Medio Oriente vivremo appieno la gioia della Resurrezione di Cristo, certamente non ci fermeremo a contemplare solo la sua Passione e Morte”. C’è sofferenza tra i cristiani del Paese, soprattutto, evidenza il patriarca, “per quanto sta accadendo in Paesi come l’Iraq e la Siria. Conosciamo personalmente le sofferenze del popolo siriano, molti sono in fuga costretti a lasciare il loro lavoro, le loro case, le loro famiglie. Qui in Libano ce ne sono diverse migliaia. Chi è rimasto vive nella paura del domani”. Alla vicinanza spirituale si aggiunge anche quella materiale, “la prossima settimana mi recherò ad Aleppo e ad Homs per vedere come alleviare le sofferenze della nostra gente”, ed una denuncia: “il nostro dolore è acuito anche dalla grande delusione che proviene dal disinteresse mostrato dal mondo civile verso i popoli di Siria e di Iraq, per nulla difesi nella loro dignità. Da parte nostra non faremo mai mancare la preghiera e continueremo a dire la verità nella carità su ciò che avviene nei nostri Paesi. Questi non possono essere valutati in base all’oro nero che possiedono. Si deve guardare alla persona umana che soffre e non agli interessi”. “Siamo delusi dal mondo ma non da Dio - conclude - confidare in Lui ci permette di guardare al futuro con speranza. Ed è ciò che faremo anche in questa Pasqua celebrando tutte le messe senza clamori e particolari gesti esteriori. Non abbiamo paura di attentati ma la prudenza non è mai troppa quindi adotteremo delle precauzioni in ordine alla sicurezza delle chiese”. (R.P.)
Myanmar: mons. Bo chiede la fine delle sanzioni per aiutare le riforme
◊ Il Myanmar ha una nuova credibilità a livello internazionale, frutto di cambiamenti importanti, soprattutto in materia di libertà di espressione: lo dice all'agenzia Misna mons. Charles Maung Bo, l’arcivescovo di Yangon, commentando l’annuncio di una parziale revoca delle sanzioni americane ed europee. “Le notizie arrivate ieri da Washington e Londra – sottolinea mons. Bo – sono la presa d’atto dei segnali positivi che si sono susseguiti negli ultimi mesi: le elezioni libere e corrette di domenica scorsa e, più in generale, una nuova libertà di espressione”. Secondo l’arcivescovo, dopo anni difficili gli abitanti dell’ex Birmania possono finalmente discutere dei grandi temi di attualità. Opportunità nuove, dice mons. Maung Bo, si sono aperte per il partito del premio Nobel Aung San Suu Kyi ma anche per la stampa e i mezzi di informazione nel loro complesso. Resta difficile, però, capire i tempi e gli approdi della transizione avviata dai generali golpisti con la nascita di un governo civile alla fine del 2010. “Il percorso è difficile – sostiene l’arcivescovo – e difficile da prevedere”. Incerte sono anche le conseguenze della revoca delle sanzioni americane ed europee. A Yangon molti si chiedono se porteranno a una riduzione dell’influenza esercitata tradizionalmente da Pechino. Secondo mons. Bo, il sostegno alla cancellazione delle misure restrittive ribadito oggi dalla Cina suggerisce che non ci saranno cambiamenti di rotta repentini. “Lo indica – dice l’arcivescovo – anche la prosecuzione del progetto della diga di Myitsone, osteggiato dalle popolazioni locali ma ritenuto strategico da Pechino”. A preoccupare, infine, sono i conflitti tra l’esercito e le formazioni ribelli legate alle minoranze etniche. “Nella regione settentrionale di Kachin – ricorda l’arcivescovo – domenica non si è potuto votare”. (R.P.)
India: vescovo dell'Orissa prega per la liberazione degli ostaggi dei maoisti
◊ "La Chiesa in Orissa si rallegra alla notizia della vicina liberazione degli ostaggi nelle mani dei maoisti. In questi giorni difficili le nostre preghiere sono rivolte a una soluzione del caso sicura". Così mons. John Barwa, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar, commenta all'agenzia AsiaNews gli ultimi sviluppi nei rapimenti di due ostaggi italiani e di un parlamentare indiano da parte dei ribelli. Nel tardo pomeriggio di ieri, il governo dell'Orissa ha accordato il rilascio di 23 prigionieri, in cambio della liberazione di Paolo Bosusco, la guida turistica rapita il 14 marzo scorso insieme a Claudio Colangelo, e Jhina Hikaka, del Biju Janata Dal (Bjd). Colangelo è stato rilasciato dai maoisti il 25 marzo. La liberazione dei prigionieri maoisti dovrebbe avvenire nella giornata di oggi, ma le autorità non ne hanno ancora rivelato i nomi. "Il governo dello Stato - ha dichiarato Naveen Patnaik, chief minister dell'Orissa, in un comunicato scritto - ha deciso di accelerare la scarcerazione di 15 membri del Chasi Mulia Adibasi Sangha e otto elementi dell'estrema sinistra". Patnaik ha inoltre annullato un viaggio in Tamil Nadu, previsto per oggi, per seguire i nuovi sviluppi della vicenda: "Anche se questa visita era in programma da tempo, la situazione è in continua evoluzione ed è giusto che io resti in Orissa". Il Chasi Mulia Adibasi Sangha è un'organizzazione di contadini e operai, sospettati dalle autorità di legami con i maoisti. I membri dell'associazione, per lo più tribali, hanno sempre negato ogni coinvolgimento. "In questa Settimana Santa - conclude mons. Barwa - preghiamo che la pace del Signore, la giustizia e la verità possano prevalere". (R.P.)
Nigeria: preoccupazione dei vescovi per le violenze nel Paese
◊ I vescovi della provincia ecclesiastica nigeriana di Onitsha e Owerri hanno espresso la loro preoccupazione per le violenze compiute negli ultimi tempi dagli estremisti islamici di Boko Haram e che hanno portato alla morte di numerosi fedeli e alla violazione di luoghi sacri. In una dichiarazione congiunta, mons. Anthony Obinna e mons. Valerian Okeke, arcivescovi delle province di Owerri e Onitsha, scrivono: “Non possiamo chiudere gli occhi e restare in silenzio di fronte al male. I membri di Boko Haram fanno rivivere a noi nigeriani i traumi del passato, quando sperimentammo più volte le violenze dei gruppi settari”. Per questo, i due presuli esortano i fedeli a considerare seriamente le gravi conseguenze dei crimini commessi dagli estremisti, che hanno generato un senso di insicurezza nel Paese, portando paura e distruzione tra i cittadini. Inoltre, mons. Obinna e mons. Okeke ribadiscono che “i Boko Haram non devono dare per scontato di poter prendere il controllo della nazione e della popolazione”, anche perché “gli atti terroristici sono una vergogna per loro e per l’Islam, nel nome del quale pretendono di commettere queste atrocità”. Di qui, l’appello a tutti i membri ed i sostenitori di Boko Haram affinché ripensino i loro metodi violenti e intraprendano un cammino di vera pace e di amore fraterno. Invitando, quindi, il governo, i leader islamici, le forze di sicurezza e tutti i nigeriani a contribuire alla sicurezza del Paese favorendo la prevenzione, l’individuazione ed il controllo dei crimini nella società, i presuli nigeriani esprimono la loro vicinanza alle vittime di Boko Haram ed alle loro famiglie. (I.P.)
Carestia nel Sahel: la Caritas chiede di agire subito per evitare il peggio
◊ “La situazione è grave, ma se si agisce subito non è troppo tardi per evitare una crisi umanitaria ben peggiore”. Queste le parole del presidente di Caritas internationalis, il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, a proposito della carestia e crisi alimentare che sta colpendo il Sahel, in particolare Ciad, Burkina Faso, Mauritania, Mali, Niger, Nigeria del Nord, Camerun e Senegal. Niger e Mali sono quelli più colpiti. Sono a rischio malnutrizione 16 milioni di persone e 10 milioni si trovano già in stato di insicurezza alimentare. Particolarmente grave è la situazione dei bambini. Da tempo ormai le popolazioni locali - duramente colpite da siccità, aumento dei prezzi dei beni alimentari, assenza di servizi sanitari di base e condizioni igienico sanitarie disperate - hanno iniziato a vendere gli animali e a muoversi alla ricerca di condizioni migliori. La situazione è aggravata dalla crisi politica in Mali dove il recente colpo di stato e il conflitto con i gruppi tuareg indipendentisti del Nord ha già provocato oltre 200.000 sfollati e profughi. In una nota Caritas italiana si dice oggi “molto preoccupata per la timidezza e la lentezza con cui si stanno muovendo i governi dei Paesi più ricchi, con un copione già visto nel Corno d’Africa dove, proprio l’indifferenza agli allarmi dati da tempo, ha provocato la catastrofe e la morte di oltre 100.000 persone”. Caritas italiana ricorda che il Sahel è una regione tra le più povere al mondo dove la siccità è ricorrente, l’indigenza è strutturale e dove già perdono la vita 200.000 bambini ogni anno a causa della povertà. Senza i necessari interventi per far fronte all’acuirsi della crisi, la situazione rischia di peggiorare ancora. La rete Caritas, attiva da anni in Sahel con programmi di prevenzione e sviluppo, è da tempo mobilitata per rispondere alla crisi. Ha ampliato il suo impegno lanciando nuovi appelli di emergenza in Mali, Niger, Burkina Faso e Senegal per oltre 600.000 persone. Le attività principali sono la distribuzione di cibo e sementi gratuite, o a prezzi agevolati, il rifornimento dei granai di riserva dei villaggi, il sostegno a piccole attività generatrici di reddito e a sistemi di assistenza alternativi, quali “denaro per lavoro” (cash for work) e “cibo per lavoro” (food for work), l’assistenza sanitaria, interventi di riabilitazione idrica e azioni di riabilitazione nel medio termine per aumentare la capacità della popolazione di fronteggiare le avverse condizioni climatiche. Caritas italiana partecipa al piano di intervento nei diversi Paesi ed ha già messo a disposizione oltre 100.000 euro in risposta agli appelli di emergenza. Oltre ad esortare la comunità internazionale “ad un impegno più forte nel Sahel” Caritas italiana invita a non dimenticare altre gravi situazioni in Africa, “per le quali vi è scarsissima informazione sui grandi media”: il Sudan e il Sud Sudan dove sono centinaia di migliaia i profughi in condizioni drammatiche; la Repubblica Democratica del Congo con ancora tensioni e violenze nel Nord Kivu con migliaia di sfollati di bambini e bambini arruolati tra le fila dei ribelli; il conflitto in Somalia tra l’esercito del Kenya e i gruppi al Shabab; la crisi alimentare nel Corno d’Africa che ancora non è stata superata. (R.P.)
Olanda: disponibilità della Chiesa a risarcire e assistere le vittime degli abusi
◊ In una lettera congiunta al Ministro della Giustizia Ivo Opstelten, la Conferenza episcopale e la Conferenza dei religiosi olandesi (Knr), hanno ribadito la propria piena disponibilità a riconoscere le sofferenze subite dalle vittime di abusi commessi da esponenti della Chiesa, a rendere loro giustizia, a risarcirle e a fornire tutta l’assistenza e l’aiuto di cui hanno bisogno. La missiva risponde a una lettera dello stesso Opstelten, in cui, in vista del prossimo dibattito in Parlamento sull’argomento, il ministro ha chiesto precisazioni sulle misure sinora adottate dall’episcopato e dalla Knr dopo la pubblicazione, lo scorso dicembre, del rapporto conclusivo della “Commissione Deetman” sugli abusi sessuali compiuti su minorenni nella Chiesa Cattolica tra il 1945 e il 2010. Nella loro risposta i vescovi e la Knr segnalano diversi passi avanti compiuti nell’attuazione delle raccomandazioni della commissione governativa. A cominciare dal monitoraggio annuale del suo avanzamento: la pubblicazione del primo rapporto è prevista per il 15 maggio. La missiva segnala inoltre quattro nuovi importanti sviluppi: la creazione di un “Gruppo di contatto” presieduto da mons. Hans van del Hende, vescovo di Rotterdam, che opererà in aggiunta agli incontri personali dei vescovi e superiori con le vittime e le associazioni delle vittime come struttura di supporto per i casi più difficili. Il gruppo ha già preso contatto con l’associazione “Klokk”. C’è poi la “Piattaforma di Aiuto” istituita dai vescovi che sta cercando di ottimizzare il suo servizio in collaborazione con le associazioni delle vittime. La Chiesa olandese sta inoltre procedendo ad elaborare un codice di condotta del personale ecclesiastico valido per tutte diocesi olandesi. Tra i progressi compiuti la lettera segnala infine l’obbligo per tutti i futuri sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, religiosi e religiose impegnati in attività pastorali, di presentare uno speciale certificato di buona condotta, già richiesto al personale che lavora nel mondo della scuola. Nella lettera vengono anche pubblicati alcuni dati statistici aggiornati sui casi denunciati e trattati in questi ultimi due anni. Dal 2010 ad oggi sono pervenute 919 denunce. Delle 257 sinora trattate, 157 sono state dichiarate fondate, 57 infondate, 40 sono state ritirate o giudicate inammissibili e le rimanenti si sono risolte con un patteggiamento amichevole. (L.Z.)
Angola: monumento alla pace a 10 anni dalla fine della guerra
◊ Per ricordare i dieci anni dalla fine della guerra civile in Angola, che ha provocato più di 500mila morti, è stato inaugurato ieri dal Presidente della repubblica, Josè Eduardo Dos Santos un monumento alla pace, collocato nella regione di Moxico, nell'est del Paese. Si tratta – riferisce l’agenzia Agiafro - di una grande colomba bianca che poggia su una mano aperta, con incisa sulla base la scritta 'pace'. E' questo l’omaggio che le istituzioni angolane hanno voluto lasciare nella cittadina dove il 22 aprile del 2002 fu assassinato il leader del gruppo ribelle dell'Unita, Jonas Savimbi. Dopo la sua morte fu avviato un processo di pacificazione siglato appunto il 4 aprile del 2002, fra i gruppi armati che si combatterono per 27 anni, dal 1975, dopo l'indipendenza ottenuta dal Portogallo. (R.G.)
Bolivia: Lettera pastorale dei vescovi su ambiente e sviluppo umano
◊ In Bolivia, il vice presidente della Pastorale Sociale Caritas, mons. Jesús Juárez, ha espresso la preoccupazione della Chiesa per le varie situazioni che stanno propiziando la crisi ecologica in Bolivia, un timore condiviso da vari settori della popolazione. Così ha riferito il presule durante la presentazione della Lettera pastorale sull'Ambiente e lo Sviluppo umano in Bolivia, intitolata "L'universo. Dono di Dio per la Vita". “L'habitat della nostra vita subisce danni alle volte irreparabili dall'inquinamento ambientale e la crisi ecologica preoccupa di più i boliviani, le comunità indigene e tutti i settori della popolazione”, ha detto il vescovo di El Alto. Il presule - riporta l'agenzia Zenit - ha aggiunto che attività come lo sfruttamento dei giacimenti di minerali e di idrocarburi, l'uso eccessivo di pesticidi e di fertilizzanti, l'usanza di bruciare le sterpaglie per preparare la terra, l'ammucchiare di rifiuti che avvelena le acque o l'aumento di gas inquinanti sono fattori che intensificano il riscaldamento dell'atmosfera. Mons. Juárez ha sottolineato che la lettera pastorale esprime la preoccupazione che in Bolivia queste situazioni sono già palpabili e quindi già si sentono gli effetti del cambiamento climatico. Queste situazioni si ripercuotono su aspetti sociali. Un'azione che attira l'attenzione e che la lettera menziona è l'aumento delle piantagioni illegali di coca nelle province delle Yungas e nella zona tropicale di Cochabamba, ma che va anche oltre, diffondendosi nei parchi nazionali e nelle riserve forestali di Santa Cruz e del dipartimento di Beni. “I vescovi della Bolivia, attraverso la lettera pastorale, si rivolgono a tutti i credenti e le persone di buona volontà per promuovere una più profonda riflessione, una conversione di mente e cuore che spinga e conduca al desiderato cambiamento di radicate culture umane per aprirsi ad una nuova comunione tra le persone e tutti gli esseri della creazione“, così ha detto mons. Jesús Juárez. (R.P.)
Terremoto in Abruzzo: le celebrazioni per il terzo anniversario
◊ Saranno 12 familiari delle vittime del terremoto a partecipare al rito della lavanda dei piedi durante la “Messa nella Cena del Signore” che verrà celebrata questa sera, alle 21.30, nella chiesa di Santa Maria del suffragio in piazza Duomo a L’Aquila. “Questo - spiega all'agenzia Sir l’arcivescovo, mons. Giuseppe Molinari - vuole essere un segno per sottolineare la vicinanza della Chiesa a chi ha sofferto e sta soffrendo molto”. La scelta di celebrare la Messa in questo luogo e non nella basilica di Collemaggio, dove verrà invece celebrata la Messa di Pasqua, informa l’Ufficio liturgico, nasce dalla volontà della diocesi di “creare una maggior amalgama e vicinanza con la città e le iniziative civili di commemorazione”. Al termine della celebrazione, infatti, inizierà la Veglia all’“Altare della Reposizione”, presieduta dal vescovo ausiliare, mons. Giovanni D’Ercole, inizialmente in forma silenziosa, e a partire dalle ore 24, con l’animazione di gruppi e comunità ecclesiali. La veglia durerà fino alle 03.32. Per quell’ora saranno in piazza Duomo anche i partecipanti alla Fiaccolata della memoria che partirà dalla Fontana luminosa, all’ingresso del Centro storico di L’Aquila, alle 24.30, e attraverserà le vie del centro, toccando alcuni punti significativi, prima di dirigersi proprio in piazza Duomo dove verranno letti i nomi delle 309 vittime. Domani 6 aprile, Venerdì Santo e anniversario del terremoto, l’arcivescovo Molinari presiederà, alle ore 15, nella basilica di Collemaggio, la celebrazione della Passione del Signore, durante la quale avverrà la preghiera per tutti i 309 deceduti a causa del sisma. Alle ore 20 si terrà, invece, la processione del “Cristo morto” che partirà dalla basilica di San Bernardino. La statua del Cristo sarà accompagnata lungo il tragitto dai famigliari delle vittime. Per quanto riguarda le manifestazioni civili sono molti gli appuntamenti in programma nella giornata di domani. Nella notte tra il 5 e il 6 aprile, una “pezza” composta da 55 quadrati, provenienti da tutta Italia e dalla città di L’Aquila verrà posizionata sulle transenne della casa dello studente in memoria dei 55 studenti rimasti uccisi nel crollo. Domani, 6 aprile, alle 10.30 si riuniranno in piazza Duomo i membri dei Comitati di familiari vittime dell’illegalità provenienti da tutta Italia per la definizione dello statuto dell’Associazione nazionale “Noi non dimentichiamo”. Alle 16.30, si terrà a L’Aquila il convegno “La preoccupazione della prevenzione - la Protezione Civile e la cultura della sicurezza in Italia”, a cui parteciperà il capo della Protezione Civile, Franco Gabrielli. Previsto per domani anche il Consiglio straordinario allargato del Consiglio nazionale degli ingegneri. (R.P.)
Italia: a maggio il Forum nazionale per le Settimane Sociali
◊ Educare alla cittadinanza responsabile e all’impegno per il bene comune alla luce della fede. È il “cuore” del Forum nazionale dei giovani per le Settimane Sociali, che si terrà il 5 e 6 maggio a Roma. L’incontro è organizzato dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile (Snpg) e dalle Settimane sociali dei cattolici italiani. L’iniziativa – riferisce l’agenzia Sir - rappresenta un’occasione di formazione in vista della 47esima Settimana Sociale, nell’autunno del 2013 a Torino. “L’attuale dinamica sociale - si legge negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, da cui prende spunto il Forum - appare segnata da una forte tendenza individualistica che svaluta la dimensione sociale. Per questo appare necessaria una seria educazione alla socialità e alla cittadinanza, mediante un’ampia diffusione dei principi della dottrina sociale della Chiesa, anche rilanciando le scuole di formazione all’impegno sociopolitico”. Tra i relatori del Forum di Roma mons. Arrigo Miglio, presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani, il gesuita Giampaolo Salvini, il sociologo Luca Diotallevi ed Edoardo Patriarca, segretario del Comitato per le Settimane Sociali. (G.M.)
San Marino: convegno sul pensiero di Jacques Maritain in rapporto all’arte
◊ Mettere a fuoco l’attualità della filosofia estetica di Jacques Maritain, tra i grandi pensatori cattolici del secolo scorso, è l’obiettivo del Convegno che si terrà il 27 e 28 aprile a San Marino, nell’antico monastero Santa Chiara. La due giorni, dal titolo “Jacques Maritain: le arti figurative, la poesia e la musica”, è organizzata dall’Istituto internazionale che porta il nome del pensatore, allo scopo di ripercorrere l’estetica maritainiana in rapporto alla modernità. Questo, in un momento in cui ravvivato è l’interesse nei confronti del filosofo francese, e del suo pensiero, al quale in larga misura contribuì la moglie Raïssa Oumançoff, poetessa e appassionata di arte. Maritain ebbe innumerevoli contatti e intrattenne profonde amicizie con grandi artisti del suo tempo – Marc Chagall, Gino Severini, Francois Mauriac, Igor Stravinsky – che hanno inciso sulla sua innata sensibilità per l’arte, arricchendo i canoni della sua estetica, senza dimenticare che il pensiero del filosofo ha, a sua volta, influenzato il percorso di vita e l’espressione artistica di queste personalità. Tanti gli interventi di docenti, critici, saggisti di respiro internazionale previsti nel Convegno di San Marino, ad ingresso gratuito. Ad inaugurare i lavori sarà il prof. Roberto Papini, segretario generale dell’Istituto Jacques Maritain. (G.M.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 96