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Sommario del 04/04/2012
◊ Il ricordo del recente viaggio apostolico in Messico e Cuba e un pensiero al Triduo pasquale, che da domani proietterà la Chiesa nel mistero della morte e Risurrezione di Gesù. Sono stati questi i due temi che hanno caratterizzato la catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale presieduta stamattina in Piazza San Pietro. Il servizio di Alessandro De Carolis:
La “spia” della grande soddisfazione di Benedetto XVI è riassunta nella composta chiosa finale: il viaggio in Messico e a Cuba “ha avuto la desiderata riuscita pastorale”. Ma dietro la breve annotazione messa a consuntivo, c’è un mondo di immagini e di sentimenti che il Papa non ha voluto mancare di radunare e restituire a cinque giorni dal suo rientro a Roma, riservando alla riflessione sul Triduo Pasquale – di solito proposta il Mercoledì Santo – solo gli ultimi minuti della catechesi.
Due Paesi, due contesti diversi, e un’unica cifra riscontrata in entrambi: la fede genuina e il calore dell’accoglienza. Andando in Messico e a Cuba, “ho voluto – ha esordito il Papa – abbracciare idealmente l’intero continente”. Ma è indubbio che quella parte di continente abbia abbracciato con enorme affetto Benedetto XVI, sin dal suo arrivo nella città di León:
“In quelle mani protese in segno di saluto e di affetto, in quei volti lieti, in quelle grida di gioia ho colto la tenace speranza dei cristiani messicani, speranza rimasta accesa nei cuori nonostante i momenti difficili delle violenze, che non ho mancato di deplorare e alle cui vittime ho rivolto un accorato pensiero, potendone confortare personalmente alcune”.
Nonostante queste ferite, e anzi facendo leva sulla naturale "alegria" del popolo messicano, il Pontefice ha invitato a rendere visibile una dote tipicamente cristiana:
"I discepoli del Signore devono far crescere la gioia di essere cristiani e la gioia di appartenere alla sua Chiesa. Da questa gioia nascono anche le energie per servire Cristo nelle situazioni difficili e di sofferenza. Ho ricordato questa verità all'immensa folla convenuta per la celebrazione eucaristica domenicale nel Parco del Bicentenario di León (...) I messicani hanno risposto con la loro fede ardente e, nella loro adesione convinta al Vangelo, ho riconosciuto ancora una volta segni consolanti di speranza per il Continente”.
Uno dei motivi che aveva spinto Benedetto XVI a raggiungere il Messico è stato l’invito a celebrare il bicentenario dell’indipendenza, peraltro comune ad altri Stati latinoamericani. Quello che lo ha portato subito dopo a Cuba è stato invece il 400.mo anniversario del rinvenimento di una statuetta mariana, la Virgen della Caridad del Cobre, che è l’amatissima Patrona dell’Isola. Ai suoi piedi, il Papa ha lasciato i migliori auspici per il presente e il futuro dei cubani:
“Ho rivolto l’invito a dare nuovo vigore alla loro fede e a contribuire, con il coraggio del perdono e della comprensione, alla costruzione di una società aperta e rinnovata, dove vi sia sempre più spazio per Dio, perché quando Dio è estromesso, il mondo si trasforma in un luogo inospitale per l’uomo”.
Affermazione, quest’ultima, che vasta eco ha suscitato e che ha preparato in certo modo il terreno alla successiva tappa de L’Avana. Qui, al cospetto delle autorità del Paese, è stato posto con chiarezza – e già anticipato in Messico – un tema caro a Benedetto XVI, quello della tutela della libertà religiosa, che a Cuba ha compiuto dei passi apprezzabili ma non definitivi:
“A tutti ho ricordato che Cuba e il mondo hanno bisogno di cambiamenti, ma questi ci saranno solo se ognuno si apre alla verità integrale sull’uomo, presupposto imprescindibile per raggiungere la libertà, e decide di seminare attorno a sé riconciliazione e fraternità, fondando la propria vita su Gesù Cristo (...) Ho voluto altresì ribadire che la Chiesa non chiede privilegi, ma di poter proclamare e celebrare anche pubblicamente la fede, portando il messaggio di speranza e di pace del Vangelo in ogni ambiente della società”.
Distillate le emozioni ancora fresche, Benedetto XVI ha poi voltato pagina, concentrandosi sull’imminente Triduo Pasquale. Con l’Ultima Cena – ha affermato il Papa – inizia l’“ora” di Gesù. Tutta la sua vita, ha ribadito, “è orientata a questa ora”. Un passo verso l’abisso della morte cui segue “l’uscita verso lo ‘spazio’ nuovo della Risurrezione”:
“Gesù oltre-passa i limiti della condizione umana segnata dal peccato e supera la barriera che tiene l’uomo prigioniero, separato da Dio e dalla vita eterna (...) Ognuno di noi è stato amato da Gesù ‘fino alla fine’, cioè fino al dono totale di Sé sulla croce, quando gridò: ‘E’ compiuto!’. Lasciamoci raggiungere da questo amore, lasciamoci trasformare, perché veramente si realizzi in noi la risurrezione”.
Al termine delle catechesi nelle altre lingue, Benedetto XVI ha rivolto saluti particolari, tra gli altri, agli universitari di vari Paesi che partecipano al congresso internazionale promosso dalla Prelatura dell’Opus Dei, e i religiosi dell’Ordine dei Ministri degli Infermi.
Giornata contro le mine. Il Papa: liberare l’umanità da questi terribili e subdoli ordigni
◊ Nella Giornata internazionale per la lotta contro le mine antipersona, il Papa - al termine dell'udienza generale - ha espresso la sua vicinanza alle vittime e alle famiglie di quanti sono stati colpiti da questi ordigni. Quindi ha lanciato un accorato appello:
"Incoraggio tutti coloro che si impegnano per liberare l’umanità da questi terribili e subdoli ordigni, i quali, come disse il Beato Giovanni Paolo II in occasione dell’entrata in vigore della Convenzione per il loro bando, impediscono agli uomini di camminare assieme sui sentieri della vita senza temere le insidie di distruzione e di morte'".
“Mine e residui bellici ostacolano lo sviluppo e metto in pericolo la vita”: lo afferma il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon nel suo messaggio per questa Giornata. A oggi, molti sono gli Stati che hanno aderito alla Convenzione internazionale contro questi ordigni - siglata ad Ottawa nel 1994 - che comunque continuano a minacciare diverse aree del pianeta nonostante l’intenso lavoro di sminamento. Secondo i dati diffusi dalla Campagna internazionale contro le mine nel 2007, Africa, Asia, Russia, ma anche Ecuador, Perù Colombia e Cile sono contaminati da mine e ordigni inesplosi. Le Nazioni Unite hanno ricordato anche la recente tragedia di Brazzaville, in Congo, dove è esploso un deposito di armi, tragico richiamo alla difficile gestione di tali ordigni. Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Giuseppe Schiavello direttore della Campagna italiana contro le mine:
R. – E’ incoraggiante il fatto che, oramai, 159 Stati abbiano aderito a questo Trattato per la messa al bando delle mine. Ad oggi ne mancano 37 all’appello, ed il commercio e l’utilizzo delle mine é pressoché fermo.
D. – Ci sono ancora, però, delle mine sotterrate. E questo è un grave problema...
R. – Come diciamo spesso noi, “le mine non sanno di essere state messe al bando”. Diciamo che, quando è iniziata questa campagna, più di 90 Paesi erano affetti dal problema delle mine antipersona. Oggi si contano 70 Paesi interessati dove, peraltro, molte delle zone sono state messe comunque in sicurezza.
D. – Azioni di sminamento e stoccaggio hanno recentemente coinvolto Albania, Costa d’Avorio e Repubblica Democratica del Congo. In questi giorni, però, giunge notizia della Siria, la quale sta seminando bombe lungo i confini per evitare sia la fuoriuscita di profughi dal proprio Paese, sia per un’eventuale difesa. La situazione è ancora grave...
R. – ... gravissima! Il confine con la Giordania era già minato, per cui non sappiamo se adesso abbiano posizionato altre mine, mentre i confini con la Turchia e con il Libano sono stati “ri-minati”. La Campagna internazionale per la messa al bando delle mine – di cui facciamo parte, come braccio italiano – ha infatti richiamato tutti gli Stati che fanno parte di questo Trattato a pronunciarsi in maniera molto dura rispetto a questo atteggiamento da parte della Siria. La Siria, lo ricordiamo, non fa parte del Trattato, ma queste armi producono effetti indiscriminati e violano i diritti umani.
R. – Allo stato attuale, quali sono i Paesi dove sono maggiormente presenti le mine?
R. – Ci sono tutti i recenti scenari di guerra. L’Afghanistan è sicuramente uno dei Paesi più afflitti dal problema delle mine, degli ordigni inesplosi ed anche degli ordigni improvvisati, che spesso vengono utilizzati dalle forze ribelli. La Colombia è un altro di questi Paesi dove i conflitti interni con le Farc, l’Esercito di liberazione nazionale e gli stessi narcotrafficanti, spesso vede l’uso di mine, che vanno poi a colpire la popolazione civile.
D. – Le mine antiuomo richiamano immediatamente le "cluster bombs", ovvero le bombe cosiddette "a grappolo". Sono ordigni che, quando vengono lanciati, si aprono in tante altre piccole bombe che cadono sul terreno...
R. – Il Trattato sulle "cluster" è decisamente più giovane: è entrato in vigore nell’agosto del 2010 e vede l’adesione di meno della metà di quei Paesi che hanno aderito al Trattato per le mine antiuomo. E’ anche vero, però, che si tratta di un Trattato decisamente figlio di quell’impegno e quindi, di conseguenza, nel tempo si è cercato di produrre l’evidenza per poter dimostrare che anche le "cluster bombs" hanno degli effetti indiscriminati.
D. – I bambini, spesso, sono delle vittime di questi ordigni ...
R. – Assolutamente. I bambini tendono a giocare con tutto quello che è colorato. Ricordiamo che in Afghanistan ci fu quel grave problema dei pacchi alimentari lanciati dagli aeroplani, che erano gialli, com’era gialla anche buona parte delle "cluster bombs"...
D. – La Giornata richiama anche alla necessità di aiutare le vittime delle mine e delle "cluster bombs"...
R. – Le vittime sono ciò che resta per i molti anni di trascuratezza di questo problema. Ricordiamo che le vittime sono centinaia di migliaia e che spesso la disabilità, all’interno di questi Paesi, è qualcosa che marginalizza a dei livelli di cui non riusciamo veramente a renderci conto. In questi Paesi, dove le attività per sopravvivere sono spesso di carattere pastoral-rurale, una persona disabile è avvertita come un peso per la famiglia e per la comunità.
D. – Qual è, dunque, la sfida che emerge da questa Giornata internazionale?
R. – Lavorare sulla civiltà giuridica, affinché gli Stati che hanno firmato questo trattati, e anche quelli che non ne fanno ancora parte, siano in qualche modo instradati ad un sostegno concreto delle vittime. Generare, quindi, delle condizioni di accettabilità e di inclusione che, forse, ancora oggi sono dichiarazioni di intenti. (vv)
◊ In Italia, Benedetto XVI ha nominato Vescovo di Oppido Mamertina-Palmi il Rev.do Mons. Francesco Milito, del clero dell’arcidiocesi di Rossano-Cariati, finora nella medesima Vicario Episcopale per l’Ecumenismo e la Cultura e Direttore dell’Archivio Storico diocesano. Il Rev.do. Mons. Francesco Milito è nato a Rossano, provincia di Cosenza, il 7 luglio 1948. Entrato nel Seminario Arcivescovile di Rossano, ha poi seguito i corsi di preparazione al sacerdozio presso il Pontificio Seminario Regionale "San Pio X" di Catanzaro. È stato ordinato sacerdote il 12 agosto 1972, per l’arcidiocesi di Rossano-Cariati. Nel 1988 ha conseguito il Diploma di Archivistica presso la Scuola dell’Archivio Segreto Vaticano e, nel 2003, quello di Teologia Pastorale al Pontificio Istituto Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha ricoperto nell’arcidiocesi di Rossano i seguenti incarichi pastorali: Animatore nel Seminario Arcivescovile (1972-1975); Responsabile dell’Archivio Storico diocesano (1974-1978); Assistente spirituale del Settore Giovani di Azione Cattolica (1974-1978); Rettore del Seminario Arcivescovile (1975-1978). Dal 1978 al 1985 è stato Rettore del Pontificio Seminario Regionale "San Pio X" di Catanzaro e Direttore dello Studio Teologico Calabrese. Cappellano di Sua Santità dal 1983, è stato Officiale della Segreteria di Stato dal 1985 al 1988. Rientrato in diocesi, è stato Parroco del Sacro Cuore a Rossano Scalo (1988-1991); Vicario Generale di Rossano-Cariati (1988-1992); Segretario e poi Delegato Generale del Sinodo diocesano (1989-1992); Presidente dell’Associazione Culturale Roscianum (1989-2005). Docente di Storia della Chiesa e di Archivistica presso l’Istituto Teologico Calabro "San Pio X" di Catanzaro dal 1992; Canonico Arcidiacono del Capitolo Cattedrale di Rossano dal 1994, è stato Direttore del mensile diocesano "Camminare insieme" dal 2000 al 2008. Dal 1993 al 2006 è stato Vicario Episcopale per l’evangelizzazione, la catechesi, la cultura e la scuola dell’arcidiocesi di Rossano-Cariati. Dal 2007 è Vicario Episcopale per l’ecumenismo e la cultura e Direttore dell’Archivio Storico diocesano. È autore di numerose pubblicazioni, tra saggi ed articoli, riguardanti la storia ecclesiastica e culturale calabrese.
In Bolivia il Papa ha nominato Vescovo Ordinario Militare per la Bolivia S.E. Mons. Oscar Omar Aparicio Céspedes, finora Vescovo titolare di Cizio e Ausiliare di La Paz. Mons. Oscar Omar Aparicio Céspedes, è nato il 26 settembre 1959 a La Paz (Bolivia). Nel 1982 ha iniziato la sua formazione e gli studi di filosofia e teologia presso il Seminario Maggiore "San Jerónimo" di La Paz ed il 29 novembre 1987 ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale. Ha frequentato in seguito gli studi di teologia nella Pontificia Università Gregoriana di Roma (1992-1994) e ha ottenuto la Licenza in Teologia Dogmatica. Negli anni 1988-1989 a La Paz è stato parroco a Huarina (zona rurale) e formatore nel Seminario Maggiore "San Jerónimo". Dal 1990 al 1992 è stato formatore del Seminario Maggiore Nazionale "San José", Cochabamba. Al suo ritorno da Roma è stato nominato Parroco della Parrocchia "S. Antonio", in La Paz (1994-1995); in seguito è stato Formatore nel Seminario Maggiore "San Jerónimo", Direttore Spirituale (1996-1997) e Rettore del medesimo Seminario (1998-2002). Il 29 maggio 2002 è stato eletto Vescovo titolare di Cizio e nominato Ausiliare di La Paz. Ha ricevuto l’ordinazione episcopale il 25 luglio successivo. Nel 2009 è stato nominato Segretario Generale della Conferenza Episcopale Boliviana.
In Venezuela, il Pontefice ha nominato Vescovo Ausiliare dell’arcidiocesi di Caracas (Venezuela) il Rev.do Mons. Tulio Luis Ramírez Padilla, del clero dell’arcidiocesi di Valencia en Venezuela, finora Vicario Generale, assegnandoli la sede titolare di Ausuccura. Il Rev.do Tulio Luis Ramírez Padilla è nato a Caracas il 28 febbraio 1960. Ha compiuto gli studi ecclesiastici di Filosofia nel Seminario Maggiore Interdiocesano di Caracas, e quelli teologici nel Seminario di "San Idelfonso" a Toledo (Spagna). Ha ottenuto la Licenza in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 5 agosto 1984 per l’arcidiocesi di Valencia en Venezuela. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha svolto i seguenti incarichi: Viceparroco di "San Agustín" a Guacara, Parroco di "Nuestra Señora de Carmen" a Miranda, Parroco di "San Diego de Alcalá" a San Diego, Parroco di "Nuestra Señora de Begoña" a Naguanagua, Professore del Seminario Maggiore, Giudice del Tribunale ecclesiastico arcidiocesano, Parroco di "San Agustín" a Guacara. Dal 2001 è Vicario Generale dell’arcidiocesi di Valencia en Venezuela e Moderatore della Curia.
◊ Il cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano, ha presieduto stamani nella Basilica di San Pietro la Santa Messa per i dipendenti vaticani alla vigilia del Triduo Pasquale. Ce ne parla Sergio Centofanti.
Il cardinale Comastri commenta nella sua omelia il Vangelo odierno che racconta il tradimento di Giuda per trenta monete d’argento. Parla dell’attaccamento al denaro, dell’orgoglio, della vendetta. “E’ possibile diventare Giuda - afferma - è possibile cioè diventare traditori di Dio, traditori della bontà, traditori dell’umiltà, traditori della carità”:
“Giuda è sempre presente nella storia della Chiesa come rischio reale di ciascuno. Don Primo Mazzolari, con incisivo realismo, un giorno disse: ‘Attorno ad ogni Mensa eucaristica aleggia l’ombra di Giuda’. Dobbiamo pertanto vigilare, perché la sua ombra non coincida con la nostra ombra”.
Ma “ugualmente – sottolinea il cardinale - è possibile non diventare Giuda”. Come? Misurandoci continuamente con il metro della verità che è Gesù. Confrontandoci con Lui capiamo chi siamo e da che parte stiamo e quale cammino ci resta ancora da fare”:
“Gesù è la terapia della nostra malattia interiore, Gesù è la bontà che si è fatta vicina alla nostra cattiveria per poterla curare, per poterla guarire. Gesù infatti è Dio che salva! Questo è il senso del suo nome. Ma come è possibile il miracolo della nostra guarigione interiore? Come è possibile essere guariti dalla nostra guariti dalla nostra cattiveria? C’è una sola via: il pentimento. Il pentimento apre a Dio uno spazio dentro di noi, affinché Egli possa guarirci e renderci felici”.
Il porporato pone una domanda: “ma noi siamo veramente e sinceramente pentiti dei nostri peccati? Abbiamo veramente preso la distanza dalla nostra cattiveria, dall’orgoglio, dall’arroganza, dalla vendetta, dall’egoismo? Vogliamo veramente essere sanati, curati, salvati da Gesù? C’è veramente dentro di noi questa disponibilità?”. E’ l’amore vissuto, il grande comandamento che Gesù ci ha lasciato, che mostra la nostra sincerità:
“Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. Se manca quest’amore, nessuno ci può riconoscere come cristiani. Dio ci conceda di aprire oggi il nostro cuore al dono della carità. Riconosciamolo umilmente: siamo tutti poveri di bontà; siamo tutti poveri di umiltà; siamo tutti poveri di carità. Per questo motivo non sentiamo talvolta la presenza di Gesù in mezzo a noi. E per lo stesso motivo nascondiamo Gesù a coloro che ci avvicinano per incontrarlo”.
Infine, il cardinale Comastri eleva la sua preghiera per questa Pasqua:
“Questa nuova Pasqua ci scuota veramente, faccia cadere il muro dell’orgoglio, della resistenza e ci renda capaci di prendere in mano la brocca della lavanda dei piedi che Gesù ci ha lasciato in eredità. Se faremo così, sentiremo sbocciare dentro di noi la stessa gioia di San Francesco d’Assisi, la stessa gioia di Madre Teresa di Calcutta e di tutti i veri discepoli del Signore”.
Violenze in Nigeria. Il cardinale Tauran: i nigeriani vogliono vivere insieme
◊ Il cardinale Jean-Louis Tauran è rientrato a Roma dalla Nigeria, dove ha compiuto un viaggio all’insegna del dialogo interreligioso. Il presidente del dicastero vaticano, che si occupa di promuovere l’amicizia tra le varie confessioni, ha incontrato numerose personalità politiche e religiose in un momento difficile, caratterizzato da violenze interetniche che oppongono gruppi cristiani e musulmani. Olivier Bonnel ha chiesto al cardinale Tauran di parlarci dei suoi incontri in Nigeria:
R. – Je ne m’attendais pas d’abord à trouver une Eglise aussi vivante, et parce-que …
Intanto, non mi aspettavo di trovare una Chiesa così viva, anche perché leggendo la stampa occidentale mi aspettavo di trovare una società con forti divergenze a tutti i livelli, mentre ho visto rapporti di amicizia profonda e sincera tra i capi religiosi cattolici e quelli musulmani. Sul posto, poi, le persone che ho incontrato e le comunità che ho visitato mi sono apparse serene, seppur consapevoli dei pericoli che sono in agguato nonché del fatto che il dialogo avviene sempre ai vertici ma si è ancora lontani dal dialogo con la base. Direi che quello che conta è la volontà di non accettare che la violenza prenda il sopravvento su tutto quello che di positivo si compie nella vita quotidiana: quello che mi ha colpito, in questi giorni, è stato constatare che i nigeriani – tutti! – vogliono vivere insieme. E questo è fondamentale. E’ evidente che ci sono alcuni gruppi musulmani che non condividono questo desiderio, come ci sono anche alcuni cattolici che non sono d’accordo. Ma – come dico sempre – noi siamo “condannati” al dialogo dato che viviamo in una società pluralista.
D. – Quali incontri l’hanno più colpita?
R. – Je dirais que la chose la plus émouvante pour moi ça a été la visite …
L’esperienza più emozionante è stata la visita alla chiesa di Santa Teresa di Madalla, il luogo nel quale è esplosa la bomba durante la Messa di Natale dello scorso anno: ho incontrato alcune famiglie che mi hanno raccontato il loro dramma … Eppure, bisogna pensare al futuro, e quindi proprio pensando al futuro sono stato positivamente colpito dalla visita ad un centro di formazione professionale nella diocesi di Jos, dove il vescovo ha riunito – fuori dalla città – giovani musulmani e giovani cristiani che imparano il mestiere di falegname: questi sono i nigeriani di domani! Il vescovo mi ha spiegato il perché di questa iniziativa: perché – ha detto – credo che non sia sufficiente condannare la violenza; è necessario che i giovani, che sono il futuro del Paese, possano incontrarsi tra di loro, in uno spazio di pace e di dialogo e così mettere insieme quello che hanno di positivo. (gf)
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Giorni di gioia e speranza: nell'udienza generale alla vigilia del Triduo pasquale il Papa ricorda il viaggio in Messico e a Cuba.
In prima pagina, un editoriale di Lucetta Scaraffia dal titolo "Lettera dal deserto".
In rilievo, nell'informazione internazionale, la situazione dei profughi in Mali.
In cultura, sulla conclusione ufficiale della revisione del processo-farsa inscenato dal regime di Rakosi, un articolo di Andrea Possieri dal titolo "Giustizia per Mindszenty".
L'agnello che ha sconfitto il drago: Inos Biffi sul Giovedì Santo.
Fabrizio Bisconti sulla Passione nell'iconografia dei primi secoli cristiani.
Un articolo di Timothy Verdon dal titolo "Il gran teatro di Tintoretto dall'Ultima Cena all'Ascensione": nei capolavori della Scuola Grande di San Rocco a Venezia.
E Burri non si fece mettere nel sacco: Sandro Barbagallo sulle opere dell'artista umbro in mostra alle Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra.
Continua l'emergenza in Mali, al Qaeda si rafforza nella regione
◊ Continua la crisi politica ed umanitaria in Mali, attraversato da combattimenti tra esercito e ribelli tuareg: da gennaio, secondo le Nazioni Unite, sono circa 200 mila i profughi costretti alla fuga, mentre la comunità internazionale teme il ruolo crescente dei combattenti legati ad al-Qaeda. Ma qual è l’origine del radicalismo islamico nel Paese e nella regione circostante? Davide Maggiore lo ha chiesto a Marco Massoni, analista di politica estera del Centro alti studi per la Difesa:
R. – I tuareg sono sempre stati marginalizzati dalle autorità centrali di questi Paesi della fascia saheliana dell’Africa occidentale e, se vogliamo, anche al confine con quella settentrionale. Questo ha fatto sì che, negli anni passati, i tuareg avessero già tentato ribellioni in diversi Paesi: l’attenzione internazionale è rivolta nei confronti di queste situazioni, che però, fino a poco tempo fa, hanno subito una speculare disattenzione. Motivo per cui il radicalismo islamico ed il terrorismo hanno avuto modo di radicarvisi più facilmente.
D. – Qual è quindi il peso della componente islamica, in quello che sta accadendo?
R. – In questo contesto, è venuto a instaurarsi un insediamento del terrorismo – di origine inizialmente algerina, andato poi trasformandosi nel cosiddetto movimento di Al Qaeda, nel Maghreb islamico – che ha saputo approfittare della disattenzione da parte delle autorità centrali di questi Paesi, Mali in primis. Di modo che, il tentativo di collegamento non solo in termini di supporto logistico, ma anche in termini di creazione di un’identità nuova, sulla base di un islam radicale, è in corso in tutta la fascia saheliana.
D. – Che influenza può avere l’emergere di questo elemento sull’intero movimento ribelle?
R. – Uno scontro interno, tra coloro i quali hanno voluto approfittare del rinforzo delle armi e dei compatrioti provenienti dalla Libia, con altri che hanno visioni più fondamentaliste, è evidentemente in corso. Sta di fatto che la confusione regna.
D. – I fatti maliani possono avere ripercussioni sui Paesi limitrofi, o addirittura, innescare un effetto contagio?
R. – I confini sono porosi, anche nella visione del mondo dei tuareg. Le relazioni tra clan, familiari, fanno sì che siano presenti in territori e in Paesi tra loro confinanti, ad esempio Mauritania, il nord del Burkina Faso e lo stesso Niger. Quindi, evidentemente, ci potrebbe essere quello che lei sta paventando. Allo stesso tempo, non dimentichiamoci che, l’onda lunga del venir meno della vecchia dittatura libica – nei termini in cui l’avevamo conosciuta, nel corso di quei 42 anni – determinerà cambiamenti notevoli. Attenzione però anche ai movimenti più oscuri, ci sono altre forze destabilizzanti, che si muovono nell’area: per esempio, almeno nel corso degli ultimissimi anni, un inedito innesto tra una matrice sunnita ed una sciita sta cercando di farsi strada…
D. – Che ripercussioni possono avere le vicende maliane sulla situazione degli ostaggi che sono in mano agli islamisti nella regione, tra cui ci sono le italiane Rossella Urru e Maria Sandra Mariani?
R. – Purtroppo, il tentativo di liberazione – almeno nei confronti della cooperante del Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli), la Urru – è avvenuto in concomitanza dell’esplosione del conflitto e sicuramente effetti ci sono stati, in termini di prolungamento dei tempi di liberazione, anche perché – proprio per una grande dinamica di riassestamento dei poteri di chi effettivamente comanda in quelle zone – non si capisce più chi divenga l’interlocutore più affidabile. E’ evidente anche che avere e scambiarsi ostaggi, in una situazione di questo genere, consente un maggiore potere. (cp)
Afghanistan: attacco suicida contro la Nato. Gli Usa: in missione fino al 2014
◊ E’ salito ad almeno dodici il numero dei morti accertati in Afghanistan, provocati da un attentato suicida contro le truppe occidentali. L’attacco è avvenuto nella parte settentrionale del Paese, a ridosso della frontiera con il Turkmenistan. Solo poche ore prima, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, aveva confermato che la missione militare andrà avanti fino al raggiungimento dell’obiettivo di stabilizzazione dell’Afghanistan, nel 2014. Stefano Leszczynski ha intervistato Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali, appena rientrato da Kabul:
R. – E’ un Paese che deve imparare ad avere fiducia in se stesso, perché molto, moltissimo ha fatto la coalizione internazionale, ma molto, moltissimo devono fare gli afghani. E’ un Paese ancora estremamente fragile, con una democrazia in erba e dove il presidente Karzai in alcuni contesti stenta a imporre il controllo dello Stato rispetto ai più tradizionali legami di tipo tribale dei “signori della guerra”.
D. – Nonostante i recenti attacchi contro i militari della Nato, c’è la ferma intenzione di rimanere fino al termine del mandato nel 2014, quindi di completare la missione. Questo sarà possibile? Si riuscirà a raggiungere il risultato di rafforzare la sicurezza nel Paese prima che venga lasciato?
R. – Difficile vedere quanto sarà perfettamente realizzato. Certamente, l’esercito afghano sta facendo molti sforzi e così le forze di polizia, pure in un contesto oggettivamente di aperta conflittualità. Ricordiamo che l’esercito afghano rappresenta il vero e proprio "collante" tra le diverse realtà tribali ed etniche del Paese, ma si ha un disperato bisogno del supporto occidentale, anche se da parte della coalizione internazionale si è già passati in molti casi a un trasferimento di autorità.
D. – Tuttavia, i talebani continuano ad avere il controllo di una grossa parte del territorio e non soltanto in Afghanistan. Qual è la direzione corretta per contrastare l’influenza dei talebani sulla popolazione civile?
R. – Diciamolo sinceramente: la coalizione internazionale ha pochi, pochissimi soldati per un territorio così vasto e particolare come quello dell’Afghanistan. Dall’altra parte, ci sono attori regionali che giocano una loro partita che non è necessariamente quella di vedere, alla fine del percorso, un Afghanistan stabile. Proprio per questo, è necessario un coinvolgimento sempre più ampio con le realtà che circondano il Paese che, è bene ricordarlo, ha bisogno di uno sviluppo economico e che senza i vicini – in assenza di uno sbocco al mare – non è in grado di avere un commercio autonomo. Quindi, è necessario coinvolgere tutti in un processo di pace in maniera tale che chi non lo vuole fare potrà assumersene la responsabilità di fronte al mondo.
D. – Il presidente Karzai spesso è stato contestato, anche all’interno dell’Afghanistan, e spesso è stata messa in dubbio la sua capacità di controllo effettivo del territorio della politica afghana. In questo senso, c’è una ragione per cui questo tipo di governo afghano debba rimanere in piedi?
R. – Ho incontrato il presidente pochi giorni fa e ha assicurato di fare il massimo sforzo per un processo democratico in Afghanistan, oltre a rimarcare il determinante ed efficace ruolo del sistema italiano, sia dal punto di vista militare sia – naturalmente – diplomatico. Dall’altra parte, gli afghani devono fare molto, moltissimo, in particolare proprio l’establishment governativo: la corruzione continua a essere una piaga devastante per il Paese oltre, naturalmente, alla coltivazione del papavero da oppio. Grande supporto a Karzai, quindi, che però deve cominciare seriamente a rendersi conto che la credibilità non è un assegno in bianco.
D. – Una riflessione sulla geopolitica del futuro: l’Occidente sta spendendo molto in Afghanistan in termini finanziari, in termini di vite umane. Perché è così importante l’Afghanistan per l’Occidente, in futuro?
R. – L’Afghanistan è da secoli la chiave di volta della stabilità centroasiatica. Non il controllo dell’Afghanistan, ma un Afghanistan stabile rappresenterebbe un passaggio essenziale per una vera fascia di pace in quell’area. Ricordiamo che sono molte le tensioni: ci sono quelle con il Pakistan, con l’Iran, ma non soltanto. Ci sono India e Cina… insomma, l’Afghanistan al centro dello scacchiere è determinante. Se quel Paese riuscirà a essere autonomo, e non soltanto realtà dove tutti gli Stati passano per tradizione e ne escono sconfitti, molto cambierà. L’Afghanistan dev’essere attore e partner, non soltanto subire le influenze esterne. (gf)
Appello del vicario apostolico di Aleppo per una Pasqua senza violenza in Siria
◊ Secondo la Russia, la Siria ha iniziato ad attuare il piano di pace proposto dall'inviato internazionale Kofi Annan. Tuttavia, in attesa di un pronunciamento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Amnesty International, in un documento, denuncia ancora violenze: dal 27 marzo, quando Damasco ha accettato il piano, sono almeno 232 le persone rimaste uccise, tra cui 17 bambini. E in queste ore si è saputo del ritrovamento di almeno 75 corpi nell’ospedale di Homs. Intanto c’è da registrare l’appello per una Pasqua senza violenza lanciato dal vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Giuseppe Nazzaro. Sentiamolo al microfono di Eugenio Bonanata:
R. – Questa occasione di Pasqua - anche se loro non la festeggiano - è sempre una giornata di pace, di speranza, di amore: che accolgano questo momento che i loro fratelli cristiani festeggiano affinché trovino un accordo per poter ridare al Paese la pace e la stabilità; che queste situazioni incresciose di attacco dell’uno contro l’altro con le armi in mano vengano messe da parte; che mettano da parte le armi perché con le armi, con la guerra, è tutto perduto. Lo diceva già Giovanni Paolo II: “Con la guerra non guadagniamo nulla. Perdiamo soltanto.” L’uomo perde la sua pace, perde la sua tranquillità ma soprattutto, perde la sua dignità e noi dobbiamo oggi riacquistare la dignità dell’uomo per ridare ai siriani la loro dignità di uomini e di figli di Dio.
D. - Come vivranno i cristiani siriani la Pasqua 2012?
R. - È chiaro che la situazione non sia delle migliori; però noi per quanto riguarda la vita cristiana, assicuriamo lo svolgimento delle cerimonie religiose. Lo abbiamo già fatto domenica scorsa – Domenica delle Palme - quando abbiamo festeggiato in chiesa con la massima solennità. Ieri, per esempio, qui nella nostra cattedrale, abbiamo anticipato la cerimonia per la Messa Crismale per permettere a tutti i parroci del rito latino della Siria di partecipare e poi tornare alla rispettive parrocchie. Quindi è una Pasqua di gioia, come tutti gli altri anni, forse in un tono un po’ minore, un po’ velato, però noi sentiamo la gioia interiore che esiste in ciascuno di noi e che vogliamo trasmetterla agli altri. (bi)
Colombia: il commento dei vescovi sulla liberazione degli ostaggi delle Farc
◊ Soddisfazione internazionale è stata espressa dopo il rilascio di dieci ostaggi da parte delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. L’auspicio generale è che a questo gesto faccia seguito la liberazione di tutti le persone nella mani dei gruppi guerriglieri. Sulla vicenda sono intervenuti anche i vescovi delle regione colombiana dell’“Eje Cafetero”. Il servizio di Giancarlo La Vella:
L’Unione Europea, gli Stati Uniti e l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) hanno espresso soddisfazione per la notizia del rilascio da parte delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, degli ultimi dieci ostaggi, appartenenti alla forza pubblica, nelle loro mani e chiedono la liberazione incondizionata di tutti gli altri prigionieri civili, che ancora si trovano in mano all’organizzazione. Il presidente colombiano Santos giudica importante, anche se insufficiente per il dialogo il gesto delle Farc. Intanto, sulla vicenda hanno detto la loro i vescovi della zona colombiana del “eje Cafetero”, così chiamata per la particolare produzione di caffè. I presuli ritengono che la decisione di un possibile dialogo del governo con i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia dovrebbe essere presa con serenità e moderazione, e non essere il risultato dell’euforia per la liberazione degli ostaggi. Questo episodio, dicono i vescovi in un comunicato, va considerato certamente un evento importante, ma esso era una risposta ovvia a una forte richiesta nazionale ed internazionale. In particolare l’arcivescovo di Manizales, mons. Gonzalo Restrepo, ha detto che la pace è allo stesso tempo un diritto e un dovere, che non deve essere imposto come una condizione nelle richieste gestite esclusivamente dallo Stato o dai gruppi armati illegali, come le stesse Farc.
Violenza e razzismo: l’America si interroga dopo l’uccisione di un giovane di colore
◊ Negli Stati Uniti, è tornato prepotentemente in primo piano il confronto su violenza e razzismo. A innescare il dibattito, che è arrivato fino ad un pronunciamento del presidente Obama, è stata la tragica uccisione di un giovane 17.enne afroamericano, Trayvon Martin, in un sobborgo vicino Orlando, in Florida. Il ragazzo, inerme, è stato ucciso il 26 febbraio scorso con un colpo d’arma da fuoco da un 28.enne latinoamericano, ancora a piede libero, che stava svolgendo attività di vigilanza, autorizzata, nel suo quartiere. Al momento è in corso un’indagine, mentre si moltiplicano le iniziative che chiedono giustizia per Trayvon Martin e la sua famiglia. Alessandro Gisotti ha raccolto la testimonianza di Deborah Stafford Shearer, responsabile dell’ufficio “Giustizia e Protezione” della diocesi di Orlando:
R. – We reacted as, I am sure, most communities that heard…
Noi abbiamo reagito come la maggior parte delle comunità che hanno sentito di questa tragedia: è sconvolgente e ne siamo molto preoccupati e rattristati. Ovviamente, tutti noi preghiamo per le famiglie coinvolte, per tutte e due le famiglie. Non conosciamo tutti i dettagli del caso, perché è in fase investigativa. Siamo preoccupati anche per le conseguenze di tutto questo. C’è tanta animosità tra i diversi gruppi razziali, e questo mi provoca un po’ di sconcerto perché in realtà ancora non conosciamo i dettagli di questo caso.
D. – Molti ora dicono che razzismo e discriminazione sono ancora una ferita aperta nella società americana …
R. – I agree with that. I think there is still a strong sense…
Sono d’accordo. Credo che ci sia ancora un forte sottotono, per così dire, di razzismo e di discriminazione. Ma non è direttamente contro la comunità afroamericana. Credo che si rilevi in molte comunità. Quindi, sì, io credo che la discriminazione e un certo senso di razzismo sia piuttosto vivo nel mondo: questa è una delle cose per cui noi preghiamo sempre, e cioè di riuscire a conoscere la gente, stabilire rapporti con le persone e così mettere un freno alla violenza. La violenza nasce quando non si conosce il prossimo e quando non ci si interessa al prossimo.
D. – Qual è il contributo della comunità cattolica nella riconciliazione tra le diverse comunità razziali?
R. – In our diocese, we have made a great effort over the last few years…
Nella nostra diocesi abbiamo, negli ultimi anni, compiuto un grande sforzo per coordinare la preghiera con la comunità interreligiosa. Cerchiamo di portare insieme gruppi con diverse tradizioni religiose, gruppi etnici diversi, cerchiamo di riunire le Chiese afroamericane e Chiese di altre denominazioni, preghiamo insieme per la pace. Nel 1994, i vescovi cattolici statunitensi scrissero una lettera pastorale dal titolo: “Confronting a culture of violence” (“Confrontare una cultura della violenza”), nella quale si trattano proprio questi argomenti: l’odio, l’incomprensione… E’ qualcosa che non è scomparso. Noi continuiamo a lavorare con grande impegno – i nostri vescovi, la nostra Chiesa e la nostra comunità – per costruire una migliore comprensione e attenzione al prossimo. (gf)
Arcidiocesi di Milano: riforma sull'acquisizione della cittadinanza italiana
◊ Si deve promuovere una riforma delle norme sull’acquisizione della cittadinanza italiana, riconoscendola ai minori stranieri nati in Italia, senza dover attendere la maggiore età. E l’appello che la Giunta del Consiglio pastorale diocesano dell’arcidiocesi di Milano rivolge ai politici, in un documento stilato alla fine di un lavoro del giugno scorso sul tema “I migranti: per una pastorale e una cultura del viver insieme”. Basta affrontare le sfide dell’immigrazione solo sul piano degli interventi caritativi ed emergenziali, spiega il Consiglio, che chiede di muoversi sul piano educativo, culturale e pastorale per porre le condizioni del vivere insieme. Francesca Sabatinelli ha intervistato Alberto Fedeli, segretario del Consiglio pastorale diocesano dell’arcidiocesi ambrosiana:
R. – Non trattiamo più la questione immigrati con interventi caritativi ed emergenziali, ma cerchiamo di porre le condizioni, come comunità cristiana, di quel vivere insieme, di quella convivenza che è il principale obiettivo da perseguire davanti all’attuale fenomeno migratorio. Questo impegno rischia di essere un po’ astratto e forse inutile, se il contesto sociale e giuridico porta a una non effettiva accoglienza di chi è già presente in Italia: nel nostro caso, l’attenzione sui minori stranieri nati in Italia. E qui, allora, abbiamo ritenuto opportuno anche rivolgere un appello ai parlamentari, al legislatore, perché si affronti anche questa questione. Senza indicare noi soluzioni legislative: lo “ius soli” piuttosto che altri criteri. Senz’altro, non l’attesa della maggiore età per chi è nato in Italia, con la forte integrazione scolastica che poi i nostri ragazzi hanno, l’integrazione con le nostre famiglie italiane. Ci sono situazioni di oggettiva ingiustizia che non si capiscono perché debbano essere perpetrate per una mancanza di cittadinanza non riconosciuta fino alla maggiore età.
D. – Negli ultimi tempi, sono state consegnate moltissime firme di italiani pronti a chiedere che si risolvesse la questione della cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia. Sembra che su questo tema i cittadini siano molto più pronti e molto più predisposti rispetto alla politica…
R. – Io direi di sì. Perché? Al di là delle strumentalizzazioni politiche, di tante parole spese per creare percezione di pericolo di fronte allo straniero, c’è la realtà concreta delle famiglie che si vedono tranquillamente frequentarsi. Tra l’altro, i minori sono quell’elemento che crea maggiore integrazione tra le famiglie: sono spesso i piccoli che sanno parlare la nostra lingua e purtroppo dimenticano la loro lingua d’origine e fanno da mediazione culturale con la propria famiglia. Sono un elemento di forte integrazione, i nostri minori, e in molti sono presenti ormai nei nostri oratori lombardi, dove accogliamo anche stranieri di altre religioni. Nella chiarezza della proposta educativa che si fa, laddove emerge l’umano condiviso, soprattutto a livello di famiglia, le preoccupazioni e le differenze possono essere vissute come ricchezza. Se si passa, purtroppo, alla politica e soprattutto alla lettura che ne fanno i mass media – sempre in termini emergenziali, di ordine pubblico o altro – allora si rischia di riportare una percezione di paura e di diffonderla. E questo non è vero. Noi a Milano stiamo per ospitare l’Incontro mondiale delle famiglie, quindi con tante famiglie straniere. Vogliamo non prendere posizione anche su questa questione: sarebbe paradossale.
D. – Voi avete preso in esame anche quelli che potrebbero essere gli eventuali rischi e le eventuali ricadute patite dai minori stranieri nella relazione con i loro coetanei italiani, cioè con persone che hanno fatto lo stesso percorso di vita ma che, più avanti, diventano quasi degli antagonisti, di fronte a difficoltà tangibili…
R. – Vedere situazioni di ineguaglianza per quanto riguarda le condizioni di partenza, un conflitto rischia di crearlo: questo è inevitabile. Perché ho meno diritti e meno possibilità, rispetto all’italiano, io che ho fatto il tuo stesso percorso scolastico formativo e culturale? E’ chiaro che bisogna cercare di superare questo, perché il conflitto potrebbe anche deflagrare e diventare anche effettivo. Anche se credo che, come società italiana, abbiamo degli anticorpi per evitarlo. Ma attenzione: se si acuisce, rischiamo situazioni di mancanza di coesione sociale. (gf)
Vent'anni fa l'assedio di Sarajevo. Il cardinale Puljic ne ricorda gli orrori
◊ Tra il 5 e il 6 aprile 2012 ricorrono i venti anni dall’assedio di Sarajevo, la città martire della Bosnia ed Erzegovina. Ancora oggi, la data precisa dell’inizio di questa tragedia è contesa tra serbi, croati e bosgnacchi, i bosniaci musulmani. Al 29 febbraio 1996, quando a seguito dell’accordo di Dayton (che divise il Paese in due entità, la Federazione croato-musulmana di Bosnia e la Repubblica serba di Bosnia), si mise fine all’assedio - il più lungo della storia bellica moderna - si contarono oltre 12 mila morti, di cui 1500 bambini, e più di 50 mila feriti. Durante quegli anni, furono commesse atrocità gravissime: tutto era sotto il controllo dei serbi, guidati da Radovan Karadžić, che bloccarono le principali strade dirette in città, i rifornimenti di viveri e medicine e che tagliarono acqua, elettricità e riscaldamento. I ricordi sono ancora vivi nella memoria del cardinale Vinko Puljic, che in quegli anni era arcivescovo di Sarajevo. Durante l’assedio, si ripeterono i suoi molti appelli di pace e di difesa dei diritti umani. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – Io sono molto grato a Dio perché sono sopravvissuto a queste brutte cose e sono sempre rimasto a Sarajevo come pastore. Anche quando sono cadute tante, tante granate questo popolo - il popolo che viveva a Sarajevo - è sopravvissuto. Il fatto che il vescovo fosse presente a Sarajevo è stato un segno di speranza, anche perché altri capi religiosi non erano presenti durante la guerra. Mancava l’elettricità, mancava il riscaldamento, mancava l’acqua, mancava anche il cibo. A tutto questo non è stato facile sopravvivere. Io, assieme a una piccola comunità di giovani, pregavo e questa preghiera mi dava la forza per avere speranza: non soltanto a me, ma anche ai miei fedeli, ai miei sacerdoti. Giravo per la città, cercando di far coraggio ai miei sacerdoti e al popolo. Bisognava portare un messaggio di pace, di speranza, cercando di difendere i diritti umani. Quella guerra è stata molto brutta e oggi io non voglio parlare di quello che abbiamo vissuto, perché il ricordo ancora non mi fa dormire: ho visto tante brutte cose, ho visto tanto sangue e tanti feriti, ho sentito cadere tante granate. Per questo io dico grazie a Dio: perché io sono ancora “normale”, malgrado tutte quelle brutte cose. Durante la guerra, la mia prima preoccupazione era di riuscire a rafforzare questa speranza. Dopo la guerra, invece, la più grande preoccupazione era quella di riuscire a creare un’uguaglianza, perché non esisteva. In questo Paese il popolo è composto da tre etnie, con quattro religioni: musulmani, ortodossi, cattolici e ebrei. Era necessario creare uno Stato in cui tutti fossero uguali. Gli accordi di Dayton, però, non si fondavano sull’uguaglianza. Questo era un problema. Grazie a Dio, questi accordi hanno fermato la guerra, ma non sono riusciti a creare una pace stabile in questo Paese, dove vivere insieme e in uguaglianza. Senza l’uguaglianza non è facile arrivare alla fiducia, arrivare al perdono. Noi, nella Chiesa, sosteniamo il popolo, lo aiutiamo a “pulire” il suo cuore. E’ molto importante il perdono per vivere poi senza odio. Ancora però, in pubblico, non c’è stato questo perdono. Ancora in tanti, tra politici e mass media, lanciano provocazioni, non creano un clima di convivenza e di tolleranza.
D. – Vent’anni fa, Sarajevo era effettivamente la città simbolo della convivenza: in questi venti anni, quindi, è fallito l’esempio della Sarajevo multiculturale?
R. – Questa città è stata capitale di tutta la Bosnia ed Erzegovina e sempre simbolo di convivenza fra tutte le etnie. Oggi, in questa città vivono in maggioranza i musulmani, che rappresentano l’85 per cento della popolazione. Ci sono poi una piccola comunità cattolica e una ortodossa e poche altre etnie. Questa città è interamente sotto la guida musulmana: questo crea una realtà in cui i diritti non sono uguali per tutti. Dopo la guerra, il mio desiderio era quello di costruire una chiesa parrocchiale, dopo più di 13 anni non ho ancora ricevuto il permesso per farlo. Lo Stato ha occupato tanti nostri spazi. Se trovo uno spazio per una chiesa, devo pagare molto: ma se io come arcivescovo non ricevo i permessi, come può allora il semplice popolo avere uguali diritti a livello statale? Durante la guerra e dopo la guerra è arrivata una nuova mentalità dai Paesi arabi, quella dei wahabiti, che non è quella che io ho conosciuto a scuola, crescendo con gli altri musulmani: questa è molto diversa. Appena io ho detto questo, c’è stata subito la reazione dei capi musulmani.
D. – Eminenza, qual è il problema principale che i cattolici di Sarajevo si trovano ad affrontare? Sappiamo che il loro numero è diminuito moltissimo negli ultimi vent’anni…
R. – Sì, sì. Prima della guerra in Bosnia ed Erzegovina erano presenti 820 mila cattolici. Oggi, in tutta la Bosnia, vivono approssimativamente circa 446 mila cattolici. Nella mia arcidiocesi, quella di Sarajevo, che è la più grande, prima della guerra c’erano 528 mila cattolici, oggi sono soltanto 192 mila cattolici. Dopo la fine di questa guerra, non c’è stata alcuna volontà da parte dei politici per cercare di far rientrare i profughi, non c’è stato alcun appoggio per cercare di far rimanere le persone, specialmente quando trovano lavoro. Questo è un problema.
D. – Vuol dire che c’è discriminazione da parte delle autorità?
R. – Qualche discriminazione c’è, è vero, certo non pubblicamente. Sono fatte “sotto il tavolo”, laddove noi viviamo come minoranza: nella Republika Srpska, da parte dei serbi, e dove viviamo con i musulmani è da parte della maggioranza.
D. – Adesso, quali sono i problemi per tutti gli abitanti?
R. – Il primo problema è il lavoro: quasi il 43 per cento non ha possibilità di lavorare. Un altro problema è, come ho già detto, che non esiste un’uguaglianza in tutta la Bosnia ed Erzegovina.
D. – C’è un messaggio particolare che vuole lanciare?
R. – Per questa Pasqua, come pastore, voglio chiedere ai cattolici dell’Europa di aiutarci a sopravvivere in questo Paese. Il Beato Giovanni Paolo II era a Sarajevo il 12 e il 13 aprile (quando consegnò al card. Puljic la "Lampada della pace", ndr). Questa Lampada della pace è sempre in cattedrale e ci ricorda questo messaggio di pace. Tutti i cattolici – e non soltanto io – non possiamo dimenticare questo grande Papa così vicino a noi. (mg)
Triduo Pasquale in Uganda: grande partecipazione dei fedeli
◊ La Chiesa in Africa si appresta a celebrare i riti del Triduo Pasquale: un momento vissuto in modo molto intenso da queste comunità ecclesiali, come ci conferma, al microfono di Fausta Speranza, padre Torquato Paolucci dei missionari comboniani, che ha trascorso 30 anni in Uganda del Nord:
R. – Dall’esperienza che ho avuto in Africa, soprattutto nel Nord Uganda, dove sono stato per più di trent’anni, per la comunità cristiana questo è il periodo più importante dell’anno. Natale è un po’ la festa dei bambini, ma questa è la festa di tutta la comunità cristiana. E questo in particolare perché finisce il cammino di preparazione al Battesimo e il cammino di coloro che fanno l’anno di penitenza. E’ stata infatti introdotta una particolare pastorale, dedicata a coloro che da diversi anni non ricevono più i sacramenti. Viene chiesto a questa persona, per tornare alla vita sacramentale, un anno di preparazione - che poi diventano nove mesi - fatto di preghiera, di catechesi, di lavoro comunitario. Questo cammino si conclude proprio in questa settimana con la riconciliazione e poi, nella notte di Pasqua, ricevendo di nuovo il sacramento dell’Eucaristia. E’ una cosa stupenda! E’ entrata in modo così forte nella gente. nel momento in cui vengono riammessi nella vita sacramentale e nella comunità c’è uno scoppio di gioia. Ho vissuto delle esperienze bellissime in questo senso…
D. – Padre Torquato, qual è la ricchezza della comunità cristiana in Uganda e quali le sfide?
R. – La ricchezza delle nostre comunità è soprattutto l’entusiasmo di aver scoperto Gesù, che Lui è la risposta ai tanti problemi e alle tante sofferenze di questa gente: Gesù dà speranza! Le sfide sono enormi: c’è, prima di tutto, la povertà che blocca tantissime cose; c’è un tasso di mortalità molto forte e la mortalità infantile è altissima, proprio perché non ci sono medicine o possibilità di aiuto. C’è una grande sofferenza… Si sta introducendo ora anche in Uganda - soprattutto a livello generale, a livello amministrativo - una grande corruzione: il soldo, il denaro compra tutto! Per i nostri cristiani è importante vincere questa tentazione del denaro. E’ molto, molto importante.
D. – C’è un aspetto delle celebrazioni della Settimana Santa che si caratterizza particolarmente in Uganda?
R. – Fondamentali sono canti, processioni, danze…. Si danza molto, perché tutto il corpo partecipa a questa gioia di Cristo presente, così come partecipano anche moltissimo all’adorazione della Croce: un po’ meno è partecipata, invece, l’Eucaristia del Giovedì Santo. Tradizionalmente il bacio della Croce nel venerdì è una cerimonia lunghissima e poi la gioia che esplode nella notte di Pasqua nei canti, nella danza. La danza è importante, perché coinvolge tutti, sin dall’ingresso, all’offertorio, nei momenti principali dell’Eucaristia: la gente si muove, si muove con tutto il corpo. Ci sono dei bambini e delle donne – un po’ meno gli uomini – che partecipano anche con divise e abiti particolari…. C’è una bella coreografia che crea questo clima di grande gioia. (mg)
Appello dell’Unicef: "Un milione di bambini rischia la vita nel Sahel"
◊ Già da qualche mese ad evitare il peggio erano partiti i primi allarmi dalle Organizzazioni non governative in loco. Lo spettro della fame si fa certezza per oltre un milione di bambini nei Paesi del Sahel colpiti da siccità, in contesti di estrema povertà, sovente aggravata da instabilità politiche e sociali. Ciad, Burkina Faso, Mauritania, Mali, Niger e nord della Nigeria, del Camerun e del Senegal, gli otto Stati interessati, dove 15 milioni di persone sono già sottoalimentate. Ogni anno muoiono nel Sahel 645mila bambini, 226mila per cause legate alla malnutrizione, gli altri per mancanza di acqua potabile, servizi sanitari, condizioni igieniche. L’Unicef ha già inviato nella regione 132mila pacchi di alimenti ed altri 178mila sono in arrivo, ma basteranno solo per assistere 500mila bambini, la metà di quelli a rischio della vita. Per fronteggiare la crisi nel Sahel, l’Unicef aveva chiesto nel febbraio scorso ai Paesi donatori 120 milioni di dollari, ma ne sono arrivati solo 37,6, il 30% del necessario. Da qui l’imperativo “Dai l’allarme!” per salvare vite umane. (A cura di Roberta Gisotti)
Irlanda: Lettera pastorale dei vescovi su penitenza e conversione
◊ Un richiamo all’importanza centrale della penitenza e della conversione nella vita di ogni cristiano. Questo il senso della lettera pastorale dei vescovi irlandesi “Pèntiti e credi la Buona Novella” (Mc, 1,15) pubblicata per la Settimana Santa. Il documento è un’articolata riflessione di 12 pagine sul significato della penitenza cristiana alla luce dell’invito alla purificazione interiore e al rinnovamento spirituale rivolto dal Santo Padre nella Lettera ai cattolici d’Irlanda e del recente documento vaticano sui risultati della visita apostolica nelle diocesi, istituti religiosi e seminari del Paese in seguito allo scandalo degli abusi. L’analisi parte dal concetto di “pentimento”, che - ricordano i presuli irlandesi - non è solo “cercare il perdono per i nostri peccati, ma implica una conversione dei nostri atteggiamenti e delle nostre vite”, quella metanoia per incontrare Cristo di cui ci parla il Nuovo Testamento. Ed è questo il senso della penitenza: con i nostri atti penitenziali (il digiuno, la preghiera e le opere di carità), sottolinea la lettera, “riconosciamo che abbiamo pensato solo a perseguire i nostri interessi, ad affermare la nostra posizione e influenza come se questo fosse il fine ultimo della nostra esistenza”, dimenticando che “tutto quello che abbiamo è un dono di Dio”. Un Dio – osservano i presuli facendo eco alle parole di Benedetto XVI – che “sembra silente” e di cui “non sembra sentirsi la mancanza” nella cultura europea contemporanea. In questa prospettiva quindi la penitenza è la condizione per ricevere la Buona Novella di Cristo che ci fa capire che l’unica “speranza durevole, l’unica guarigione completa per ognuno di noi viene dall’amore di Dio”. Una parte essenziale di questo cammino di conversione personale – sottolineano i vescovi irlandesi - è cercare di sapere ‘chi siamo’ attraverso il riconoscimento dei doni che abbiamo ricevuto e delle nostre mancanze. Tale processo è orientato in due direzioni: da un lato, vi è il riconoscimento dell’infinita bontà di Dio e, dall’altro, quello dei nostri peccati quando li confessiamo. Ed è questo il significato del Sacramento della penitenza e della riconciliazione nella tradizione cristiana: “non un modo per ottenere i favori di Dio, ma un atto di gratitudine e apprezzamento per quell’’amore e quella grazia che non potremmo mai guadagnarci da soli”. Chi invece “cede alle tentazioni – osserva la lettera - considera il possesso, la fama e il potere come fini da raggiungere, non come doni da accettare”. Dalla consapevolezza che “tutto è un dono”, discende anche quella che “siamo tutti creati ad immagine di Dio e invitati ad entrare in relazione con Lui. Questo è il significato fondamentale della solidarietà che ci invita a considerare l’altro come nostro simile ‘da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio’”. Queste due dimensioni del pentimento, insistono i vescovi irlandesi, sono inscindibili: convertirsi “significa cercare la comunione con Cristo e tra di noi”. Ecco perché la penitenza comprende opere di carità: “non possiamo essere pronti ad entrare nella pace di Dio se abbiamo trascurato l’ultimo dei fratelli e sorelle di Cristo”. Solo chi ha capito questo autentico significato della penitenza cristiana potrà comprendere appieno la portata delle parole di Benedetto XVI alle vittime degli abusi e alle loro famiglie. “Il nostro compito in Irlanda – afferma in conclusione la lettera pastorale - è il compito permanente di ogni cristiano: resistere alla tentazione di mettere la convenienza personale, la fama, il dominio, la cecità, la disonestà, l’orgoglio e qualsiasi altra ambizione, desiderio o piacere al posto di Dio. Si tratta di una strada esigente, ma - sottolineano i vescovi - è quella che ci porta alla verità che ci rende liberi”. (A cura di Lisa Zengarini)
Perù: per la prima volta Settimana Santa del Papa in diretta tv in tutto il Paese
◊ La Conferenza episcopale del Perù informa, attraverso un comunicato giunto all'agenzia Fides, della vasta copertura mediatica che avranno quest’anno in Perù le celebrazioni della Settimana Santa presiedute dal Santo Padre. Diversi canali televisivi in chiaro hanno infatti programmato la trasmissione in diretta delle celebrazioni presiedute dal Papa a Roma. Prima di quest’anno solo a poche persone in Perù era data la possibilità di seguire, via cavo o a pagamento, qualche trasmissione dei riti della Settamana Santa trasmessi da Rai International. Tra i canali che hanno inserito nella loro programmazione la trasmissione dei riti pasquali da Roma, c'è la Atv - Canal 9, che trasmetterà la tradizionale Via Crucis al Colosseo presieduta dal Papa. La rete della Global Tv - Canale 13 manderà in onda, domenica 8 aprile, la Messa di Pasqua celebrata dal Santo Padre in San Pietro. Altri canali hanno assicurato la trasmissione delle principali celebrazioni del Triduo pasquale. Tutto questo, secondo quanto afferma la nota, avviene grazie agli accordi tra il Centro Televisivo Vaticano e tutti i paesi dell'America Latina che desiderano trasmettere le celebrazioni del Santo Padre via satellite. (R.P.)
Iraq: a Kirkuk mons. Sako promuove il dialogo cristiano-islamico
◊ Un incontro fra i leader etnici e religiosi della città per promuovere il dialogo e il confronto fra fedi e istituzioni diverse: è quanto ha proposto l'arcivescovado caldeo di Kirkuk in concomitanza con la Settimana Santa, per creare un'occasione di confronto alla vigilia della Pasqua, l'evento centrale del calendario liturgico cristiano. All'incontro indetto dall'arcivescovado caldeo di Kirkuk, sotto la guida di mons. Louis Sako, hanno aderito capi politici, leader di partiti curdi, arabi, turcomanni, insieme a parlamentari e membri del consiglio municipale, ufficiali di polizia e dell'esercito, capi religiosi sunniti e sciiti. Erano anche presenti esponenti della società civile, intellettuali, accademici e professori universitari. L'aula, raccontano i testimoni, era "gremita di gente". Durante la serata ha preso la parola p. Maroun Atallah, sacerdote libanese in visita a Kirkuk insieme a un gruppo di fedeli, per celebrare assieme ai cristiani irakeni la Pasqua. Egli ha parlato dell'esperienza del Libano in un'ottica di "convivenza e ricostruzione assieme" del Paese. Ha inoltre specificato i punti in comune, sottolineando che "siamo tutti fratelli, perché creati dallo stesso Dio. Siamo fratelli - ha aggiunto il sacerdote libanese - perché nati dallo stesso padre Abramo, siamo tutti figli della stessa terra, patria, abbiamo la stessa cultura". E ha concluso con una domanda provocatoria: "Perché, dunque, vivere fra confini e conflitti?". A seguire, un poeta libanese ha decantato i versi di alcuni suoi componimenti, molto apprezzati dai presenti con grandi applausi. Quindi, la corale della cattedrale ha intonato alcuni canti e inni. Infine, l'intervento dell'arcivescovo che ha voluto ringraziare di persona i presenti all'incontro: "Abbiamo tanti problemi - ha affermato mons. Sako perché abbiamo perso la poesia, l'arte, e ci siamo abituati alle armi". Torniamo al nostro essere profondo, è l'invito del prelato, e all'origine comune che "ci permette di vivere in pace". Senza il proposito comune di coesistenza, non sarà possibile uno sviluppo umano, morale, spirituale ed economico per musulmani, cristiani, curdi, arabi e turcomanni. "Non ci sarà mai stabilità con la paura e la violenza" ha spiegato l'arcivescovo, che invita ad usare la ragione per affrontare "le nostre sfide. Noi cristiani e musulmani - ha concluso mons. Sako - dobbiamo rivedere la nostra visione e la nostra identità; dobbiamo leggere il presente in profondità e capire il significato della nostra presenza e della nostra testimonianza". Per questo la Chiesa caldea, concluse le festività pasquali, organizzerà un forum cui saranno invitate tutte le componenti della società per "dialogare sul futuro di Kirkuk e analizzare le grandi sfide in modo saggio e razionale". Tuttavia, nel nord dell'Iraq non accennano a diminuire le violenze contro le minoranze, vittime di attacchi e persecuzioni: la sera del 2 aprile un cristiano di 40 anni è stato rapito davanti al suo negozio; finora non vi sono stati contatti con la famiglia o richieste di riscatto dei suoi sequestratori. Ieri sera, invece, un giovane yezidi del villaggio di Khattara, poco distante dal villaggio cristiano di Alqosh è stato ucciso a colpi di pistola. (R.P.)
Pakistan: in Punjab per i riti di Pasqua minacce contro i cristiani
◊ Minacce islamiche contro i cristiani in questi giorni di preparazione alla Pasqua. Succede nel Punjab, in Pakistan. Secondo fonti dell’agenzia Asia News, alla vigilia della Settimana Santa, nella colonia cristiana di Eidgah, nel distretto di Sarghoda, sconosciuti hanno gettato vernice nera contro immagini sacre affisse dalla minoranza religiosa e minacciato i presenti, intimando loro di interrompere i preparativi. Gli abitanti dell'area si sono rivolti alla polizia, col proposito di denunciare l'aggressione. Tuttavia gli agenti non hanno voluto aprire un'indagine sulla vicenda, invitando i querelanti ad andarsene. Con coraggio e determinazione, alcuni fedeli hanno riposizionato cartelli e figure ma la sera del 1° aprile - Domenica delle Palme - il gruppo di fanatici ha compiuto una nuova irruzione, gettando via le immagini e minacciando altri raid punitivi. L'organizzazione umanitaria Masihi Foundation ha condannato l'episodio e ha presentato una denuncia presso l'Alta corte di Lahore (Lhc). Gli attivisti chiedono il rispetto della libertà religiosa, la sicurezza per gli abitanti della colonia cristiana e, più in generale, di tutta la minoranza cristiana nel Punjab. (E.B.)
India: pellegrinaggio pasquale e Via Crucis nelle zone tribali del nordest
◊ Con l’avvicinarsi della Pasqua, la Chiesa nel nordest dell’India – area dal territorio impervio e travagliata da conflitti tribali – mostra la sua vicinanza alle popolazioni tribali che hanno abbracciato la fede cristiana. Per questo nei giorni scorsi oltre 300 fra religiosi e sacerdoti della diocesi di Guwahati (Stato di Assam) hanno visitato 14 villaggi delle aree remote, portando un messaggio di misericordia, di speranza, di perdono e di resurrezione a comunità locali spesso del tutto emarginate dalla vita sociale. Il gruppo ha celebrato una Via Crucis attraverso le stradine che si arrampicano tra le colline di Darjeeling, dove i fedeli hanno raccontato di aver rivissuto “l’ascesa e la sofferenza di Gesù verso il Calvario”. “E’ stato un momento in cui abbiamo condiviso lo stato di vita dei poveri e dato testimonianza della nostra fede, anche fra i non cristiani” ha detto all'agenzia Fides un catechista. Il salesiano padre Solomon, parroco che ha organizzato il pellegrinaggio, riferisce che “le persone che abitano le aree tribali vivono la Via Crucis nella loro quotidianità. Abbiamo voluto condividere la loro esperienza, per testimoniare la nostra solidarietà”. Le popolazioni delle aree montuose, nella diocesi di Guwahati, vivono in estrema povertà e hanno bisogno di programmai di sviluppo economico e sociale, che la Chiesa locale promuove e gestisce. (R.P.)
Nepal: nuove misure di sicurezza contro attentati alle chiese nel periodo pasquale
◊ In vista delle celebrazioni di Pasqua il governo del Nepal ha predisposto uno speciale cordone di sicurezza intorno alle chiese e agli edifici di culto cristiani al fine di evitare attentati da parte di estremisti indù. Lo afferma l’agenzia AsiaNews che riporta le dichiarazioni di Bhim Rai, un catechista della parrocchia della cattedrale dell’Assunzione di Kathmandu, secondo il quale tutta la comunità sta partecipando all'organizzazione delle celebrazioni solenni, soprattutto la messa di Pasqua dove si attendono oltre mille persone. Quest'anno oltre alle celebrazioni per la Settimana Santa, la diocesi di Kathmandu ha organizzato una fiera di oggetti sacri, dipinti e giochi artigianali per sostenere i poveri e le famiglie in difficoltà. L'esposizione sarà allestita nei locali della cattedrale dell'Assunzione e resterà aperta per tutto il periodo pasquale. Per festeggiare la Pasqua, la comunità protestante, composta da circa 2 milioni di persone, ha organizzato un programma di incontri che interessa tutte le realtà del Nepal. A Kathmandu i cristiani organizzeranno una grande manifestazione, dove si attendono migliaia di persone, per chiedere il rispetto della libertà religiosa nella nuova costituzione che dovrà essere approvata entro il 25 maggio. Dal 2006 con la caduta della monarchia di stampo indù e la proclamazione dello Stato laico, i cristiani nepalesi godono di una maggiore libertà di culto e di espressione nella società. Da anni il numero dei cristiani è in costante crescita ed è oggi stimato intorno ai due milioni. Anche la piccola comunità cattolica ha registrato un costante aumento dei fedeli, che a tutt'oggi sono circa nove mila. (E. B.)
Filippine: appello cristiano-islamico dopo l'uccisione del presidente dell'Università di Zamboanga
◊ Leader cristiani e musulmani condannano l'omicidio di Arturo Eustaquio III, presidente e proprietario dell'Università di Zamboanga, e chiedono al presidente Aquino di fermare l'ondata di omicidi sommari nella regione di Mindanao. L'uomo, 69 anni, musulmano, è stato assassinato lo scorso 1° aprile nel villaggio di S. Maria da due uomini a bordo di una motocicletta. I funerali sono avvenuti lo scorso 2 aprile. Il suo corpo è stato sepolto nel terreno dell'università. Egli era un membro attivo dell'Inter-Religious Solidarity Movement for Peace (Irsmp). L'ateneo fondato dalla famiglia Eustaquio serve oltre 8mila studenti, cristiani e musulmani, e negli anni è diventato uno dei più prestigiosi centri di eccellenza della regione. Oltre alla sede nel centro di Zamboanga l'università ha dipartimenti a Ipil e Sibugay. Di recente era in programma una nuova sede a Pagadian City (Zamboanga del Sud). Gli Eustaquio possiedono anche uno dei principali ospedali privati della città. Secondo la polizia, fra i moventi dell'omicidio vi è l'eccessiva espansione dell'Ateneo. Negli scorsi mesi Eustaquio aveva ricevuto diverse minacce di morte. La più recente risale allo scorso 21 marzo. Le autorità avevano più volte avvertito l'uomo rispetto al rischio di rapimento con riscatto. Un comunicato dell'Irsmp, firmato da padre Angel Calvo, segretario del gruppo, e da diversi leader cristiani e musulmani, descrive Eustaquio un "difensore della pace e un grande educatore che con le sue politiche ha aiutato a studiare studenti provenienti da famiglie povere". Il movimento denuncia la serie di omicidi sommari, rapimenti e violenze che stanno colpendo la città: "La popolazione si sente insicura. Se un assassino può uccidere in tutta tranquillità un uomo importante come Eustaquio, chi può difendersi da simili attacchi?". L'Irsmp chiede al presidente Aquino di cercare i responsabili dell'omicidio e un maggiore impegno per garantire la sicurezza a Zamboanga e nel resto dell'isola. L'instabilità causata da 40 anni di guerriglia fra esercito e ribelli islamici del Moro Islamic Liberation Front (Milf) ha reso il Mindanao uno dei luoghi più pericolosi delle Filippine e del mondo. Rapimenti, attentati, omicidi sommari sono all'ordine del giorno in tutta l'isola. La maggioranza di questi crimini resta impunita. Nella sua campagna elettorale, Aquino ha promesso un netto cambio di rotta rispetto al suo predecessore, Gloria Arroyo, sotto processo per corruzione e accusata di coprire uomini d'affari suoi alleati coinvolti in brutali omicidi. (R.P.)
Togo: consegnato il rapporto sulle violenze commesse in passato nel Paese
◊ Dopo tre anni di lavoro per fare la luce sulle violenze politiche commesse nel paese tra il 1958 e il 2005, la Commissione verità, giustizia e riconciliazione (Cvjr) ha consegnato il suo rapporto finale al capo dello Stato, Faure Gnassingbé. Il documento di 309 pagine, il primo di una serie di quattro che verranno pubblicati nelle prossime settimane, è il frutto di 34 mesi di attività della ‘Cvjr’. Durante questo periodo, 22.415 testimonianze sono state accolte nel corso di 523 audizioni cominciate lo scorso settembre, per lo più pubbliche, tra cui 50 si sono svolte in privato. In tutto - riferisce l'agenzia Misna - la commissione era chiamata a ‘indagare’ su 8.080 denunce registrate dai suoi agenti. “Una parte del processo si conclude oggi, quella relativa alla commissione. Il nostro augurio più vivo è che questo giorno possa segnare una nuova partenza per tutti noi” ha detto il presidente della ‘Cvjr’, mons. Nicodème Barrigah, vescovo di Atakpamé. “In questi mesi abbiamo incontrato e sentito migliaia di vittime, ma la più grande vittima dei nostri conflitti ricorrenti è certamente la fiducia, totalmente persa nei nostri rapporti reciproci” ha sottolineato il presule, aggiungendo che “siamo tutti feriti. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscerlo e di impegnarci in un percorso di riconciliazione”. La prima parte del rapporto contiene 68 raccomandazioni che suggeriscono al governo di adottare un programma di riparazione a favore di tutte le persone rimaste vittime di violenze di carattere politico e di gravi violazioni dei diritti umani. Per la ‘Cvjr’ urge creare un’istanza incaricata di attuare il programma di indennizzo e di procedere alle necessarie riforme istituzionali “tese al rafforzamento dello Stato di diritto”. Il governo dovrebbe anche stilare un ‘Libro bianco’ per elencare i provvedimenti concreti che intende adottare sulla base delle raccomandazioni formulate. Nel ricevere il documento, il presidente, intervenuto a nome dello Stato, ha chiesto “perdono a tutte le vittime e a tutti quelli che hanno sofferto di queste violenze cieche che tanti torti e ferite hanno causato”. La commissione da lui istituita il 29 maggio 2009 è stata soprattutto chiamata a fare luce sulle gravi violenze e contestazioni che hanno contrassegnato il voto del 2005, quando Faure fu eletto dopo la morte del padre, Etienne Gnassingbé, uno dei più longevi capi di Stato africani, rimasto al potere per 38 anni. L’operato della ‘Cvjr’ non è stato esente da critiche da parte di media locali e organizzazioni della società civile che hanno espresso diverse riserve sulla sua efficienza e sul contenuto delle testimonianze raccolte. (R.P.)
Isole Fiji: depressione tropicale causa morti, sfollati e forti inondazioni
◊ Sono almeno sette i morti, tra i quali un bimbo di 3 anni, e quasi 12 mila le persone sfollate a causa delle inondazioni provocate dal ciclone Daphne abbattutosi sulle isole Fiji, nel Pacifico del Sud. Secondo fonti locali, il ciclone attualmente si trova a 900 km dalla zona colpita e non rappresenta più una minaccia. Tuttavia il Centro operativo nazionale di emergenza ha annunciato la possibilità di forti piogge e ulteriori inondazioni nell’area occidentale di Viti Levu, l’isola principale dell’arcipelago, la più gravemente colpita dallo straripamento dei fiumi. Sono 11.994 persone che si trovano alloggiate in Centri di evacuazione, mentre le autorità continuano a aggiornare la valutazione dei danni. Lo scorso mese di gennaio le forti piogge avevano causato la morte di 12 persone. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 95