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Sommario del 09/08/2012
◊ Settant’anni fa, era il 9 agosto 1942, moriva nelle camere a gas del Campo di concentramento di Auschwitz Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, ebrea tedesca, filosofa e carmelitana. La Chiesa celebra oggi la memoria liturgica di questa Santa, proclamata da Giovanni Paolo II patrona d’Europa con Santa Brigida e Santa Caterina da Siena. Benedetto XVI l’ha ricordata più volte più volte nel corso del suo Pontificato. Il servizio di Sergio Centofanti.
Cercava con tutto il cuore la verità e non ha saputo resistere di fronte all’amore del Cristo crocifisso: “il cammino della fede - diceva - ci porta più lontano di quello della conoscenza filosofica: ci porta al Dio personale e vicino, a Colui che è tutto amore e misericordia, a una certezza che nessuna conoscenza naturale può dare”. Ebrea agnostica, si lascia conquistare da Gesù, ma non rinnega il suo popolo. Poteva fuggire dai nazisti, ma non volle, come ha sottolineato il Papa nella sua storica visita ad Auschwitz il 28 maggio 2006:
“Come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation – come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia”.
“Il mondo è in fiamme – scriveva Edith Stein nel tempo buio del nazismo - la lotta tra Cristo e anticristo si è accanita apertamente, perciò se ti decidi per Cristo può esserti chiesto anche il sacrificio della vita”. Entra con tutta se stessa nel mistero della Croce:
“La santa carmelitana Edith Stein … scriveva così dal Carmelo di Colonia nel 1938: «Oggi capisco … che cosa voglia dire essere sposa del Signore nel segno della croce, benché per intero non lo si comprenderà mai, giacché è un mistero… Più si fa buio intorno a noi e più dobbiamo aprire il cuore alla luce che viene dall’alto»”. (Angelus del 20 giugno 2010)
Ma “la croce non è fine a se stessa” - diceva Edith Stein - è “l’amore di Cristo” che “non conosce limiti” e “non si ritrae davanti a bruttezza e sporcizia”. Gesù “è venuto per i peccatori e non per i giusti, e se l'amore di Cristo vive in noi – affermava la Santa carmelitana - dobbiamo fare come Lui e metterci alla ricerca della pecorella smarrita”. Così, solo l’amore che dà la vita per salvare l’altro cancella il male, annienta la morte, è eterno: in questo la Croce è la nostra “unica speranza”.
Mons. Semeraro: il Papa ci invita a fare delle vacanze un momento di incontro con Dio e il prossimo
◊ Anche nel tempo delle vacanze, riscopriamo “la bellezza della preghiera quotidiana”: è l’esortazione che il Papa ha rivolto, ieri, ai fedeli raccolti a Castel Gandolfo per l’udienza generale. Proprio alla preghiera, all’incontro con Dio e alla scoperta della bellezza del Creato, il Papa sta dedicando molte riflessioni in questo periodo di riposo nella residenza estiva di Castel Gandolfo. Un richiamo sui cui si sofferma mons. Marcello Semeraro, vescovo della diocesi di Albano nel cui territorio si trova Castel Gandolfo. L’intervista è di Luca Collodi:
R. - Il Papa, soprattutto nel periodo in cui si trova a Castel Gandolfo, accenna spesso all’importanza del tempo delle ferie, perché sia un tempo in cui ci si ritrova; ci si ritrova nel dialogo con Dio, nell’incontro con gli altri e con la natura.
D. - Altro elemento importante del riposo del Papa a Castel Gandolfo, è quello del contatto personale, della conoscenza personale, del dialogo con le persone ..
R. - Io sottolineerei alcuni aspetti pubblici, simpatici. Intanto le udienze e gli Angelus che sono celebrati a distanza ravvicinata: l’altra domenica, c’è stata un’occasione in cui c’era un gruppo di seminaristi della diocesi di Otranto che cantavano; il Papa li ha sentiti, li ha individuati, ed ha cantato con loro. E qualche volta, soprattutto la domenica, al termine della passeggiata tra le Ville pontificie, il Papa rientra dall’esterno del Palazzo apostolico, passando dalla piazza artistica di Castel Gandolfo, e si intrattiene a salutare i bambini, le persone che si trovano lì. Sono aspetti di umanità, che mi pare, siano molto belli e da sottolineare.
D. - Come cambia la vita di una diocesi come quella di Albano che ospita per diversi mesi l’anno il Papa?
R. - Amo sempre sottolineare che noi dobbiamo far sentire la nostra vicinanza al Papa non in una maniera "invasiva", ma quasi con una piccola "turnazione" nella presenza alla preghiera dell’Angelus; diverse parrocchie si organizzano in modo da essere sempre presenti, poter pregare con il Papa e salutarlo. Poi c’è un secondo aspetto, quello della preghiera proprio per il Papa.
D. - Quali saranno le iniziative a Castel Gandolfo per festeggiare, anche con il Papa, la Festa dell'Assunta?
R. - La tradizione fu inaugurata già da Giovanni XXIII, ed è rimasta consueta con i Papi successivi. Quest’anno, la celebrazione della Messa, avrà un carattere un po’ particolare, perché la chiesa parrocchiale è stata chiusa al pubblico per diversi mesi per dei lavori di restauro delle pareti, ecc. Quindi la Santa Messa celebrata dal Papa il 15 agosto, sarà un’occasione per una presentazione pubblica. La chiesa, l’edificio sacro, deve essere bello perché bella è quella casa di Dio che siamo noi. Credo che allora, insieme con il cardinale Bertone - la sua presenza è abituale -, ci saranno anche il cardinale Bertello, e le altre persone dell’Apsa che hanno curato questi lavori.
◊ In Francia, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Meaux presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Albert-Marie de Monléon, O.P., in conformità al canone 401§ 1 del Codice di Diritto Canonico. Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Meaux, in Francia, l’Ecc.mo Mons. Jean-Yves Nahmias, finora Vescovo titolare di Termini Imerese ed Ausiliare di Parigi.
Mons. Fisichella in Australia: la testimonianza della carità, via della nuova evangelizzazione
◊ “Costringere al silenzio il desiderio di Dio non può far approdare all’autonomia”; “l’uomo è in crisi, ma non è emarginando il cristianesimo che si potrà avere una società migliore”. Questo il centro dell’intervento di oggi, intitolato “Cos’è la nuova evangelizzazione”, tenuto dal presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova evangelizzazione, mons. Rino Fisichella, a Chatswood, in Australia, dove è in corso il convegno “Proclaim 2012”. Il servizio di Roberta Barbi:
“La grande sfida che attende il futuro è tutta qui: chi vuole la libertà di vivere come se Dio non esistesse può farlo, ma deve sapere a cosa va incontro”. Mons. Fisichella traccia così la situazione di crisi dell’uomo contemporaneo, che “ha dimenticato l’essenziale”, geloso com’è della propria indipendenza e della responsabilità personale del suo modo di vivere. Non è escludendo Dio dalla propria vita, però, che il mondo sarà migliore: i cattolici non accetteranno di essere emarginati e continueranno a portare al mondo la buona notizia di Gesù. L’annuncio dei credenti, però, “non può ricorrere all’arroganza e all’orgoglio” né esprimere “senso di superiorità verso gli altri”, ma, al contrario, deve essere portato con “dolcezza, rispetto e retta coscienza”. In questo consiste la nuova evangelizzazione, la missione della Chiesa di oggi, di tutta la Chiesa, fatta da pastori, sacerdoti e laici: non qualcosa di diverso dal passato, ma un modo nuovo per trasmettere l’identico messaggio di salvezza del Signore Risorto per noi. Con Benedetto XVI, Fisichella ricorda che “non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi… Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo”. Il primato va alla testimonianza, dunque, lo strumento principale per portare a ogni persona, in ogni luogo e in ogni tempo, l’annuncio che la salvezza è divenuta realtà; e alla carità, perché la vita trova la sua piena realizzazione solo nell’orizzonte della gratuità. “Sulla parola del Signore – ha aggiunto Fisichella – ci siamo intestarditi nel privilegiare tutto ciò che il mondo ha rifiutato considerandolo inutile e poco efficiente: il malato cronico, il moribondo, l’emarginato, il portatore di handicap e quant’altro esprime agli occhi del mondo la mancanza di futuro e di speranza, trova l’impegno dei cristiani”. Accanto a questo, però, anche l’esigenza di variare il modo di evangelizzare, come sottolineava già Paolo VI, e di trovare nuove forme, sviluppando capacità di adattamento. L’espressione “nuova evangelizzazione” venne usata per la prima volta da Giovanni Paolo II nel 1979, e il seme fu raccolto da Benedetto XVI con l’istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione della nuova evangelizzazione. Ma non si può fare evangelizzazione senza evangelizzatori – nota ancora il presule – perché la responsabilità dell’annuncio spetta a tutti, senza ammettere deleghe: da qui l’invito ai cristiani a saper discernere tra il vero e il falso, tra ciò che porta frutto e ciò che, invece, è effimero: la principale sfida della Chiesa di oggi.
Mons. Celata a Nagasaki a 67 anni dal bombardamento atomico
◊ “La preghiera per le vittime di quell’orribile evento diventa un’implorazione a Dio perché ci doni il bene della pace”: sono parole dell’arcivescovo Celata alla celebrazione della Messa a Nagasaki per le vittime del bombardamento atomico del 9 agosto di 67 anni fa. Nel suo messaggio mons. Celata sottolinea il dono di partecipare alla Messa con la popolazione della città che il bombardamento atomico colpì “indiscriminatamente causando tanta morte, sofferenza e distruzione”. Nel messaggio anche un saluto a mons. Joseph Takami Mitsuaki, arcivescovo metropolita di Nagasaki; l’arcivescovo Joseph Chennot, nunzio apostolico in Giappone, sacerdoti, religiosi e religiose, fedeli e altri amici di altre tradizioni religiose. Mons. Celata sottolinea che i “credenti delle diverse religioni sono chiamati a collaborare con tutti nell’edificazione della pace offrendo, in più, il contributo specifico delle loro tradizioni spirituali”. A proposito di questo, spiega: che possono essere identificati “nei concetti di ‘compassione’, ‘misericordia’, ‘perdono’, ‘amore’: atteggiamenti che riflettono, pur nelle loro differenze, la comune convinzione che tutti gli esseri umani appartengono all’unica famiglia umana e partecipano dello stesso esito finale”.
Rivolgendosi poi in particolare ai cristiani, mons. Celata afferma che “il dono della fede offre luce per comprendere che solo in Dio la pace ha il suo fondamento ultimo e la concreta possibilità di realizzarsi”. “Dio – spiega - è creatore e padre di tutti gli esseri umani, che egli chiama, quindi, a vivere come fratelli. Questa fraternità ha avuto definitivo inizio in Gesù stesso perché, morendo per amore nostro e risorgendo, egli ci ha riconciliati con il Padre e tra noi”. E dunque sottolinea: “Gesù, pertanto, è la nostra pace e ci dona la vera pace. Per questo, noi offriamo il suo Divino Sacrificio per implorare la pace attraverso l’effusione del suo Spirito di amore” per poi pronunciare parole di incoraggiamento: “La pace è dono suo affidato al nostro fattivo impegno”. Il Segretario emerito del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ricorda che “la testimonianza di fedeltà a Dio e di amore verso i fratelli cristiani e non cristiani offerta dai Santi e Beati Martiri di Nagasaki ci invita a guardare, con rinnovata adesione di fede, alle tante vittime della barbarie della guerra nucleare”. E poi un appello: “pregare ed operare perché la pace si affermi ovunque e con essa possa fiorire la vita vera”.
C’è da dire che il Giappone commemora i morti di Nagasaki ancora in piena crisi nucleare dopo la catastrofe della centrale di Fukushima provocata dal sisma/tsunami dell’11marzo 2011. A parte la Messa, la città ne ha onorato la memoria con un minuto di silenzio alla presenza del primo ministro e dei rappresentanti di 71 Paesi. La cerimonia si è svolta vicino al punto dove gli Stati Uniti sganciarono la bomba, pochi giorni prima della resa nipponica. “Per fare in modo che Nagasaki sia l’ultima città a essere attaccata da un’arma nucleare”, ha detto il sindaco Tomihisa Taue, “l’uso di armi atomiche e il loro sviluppo deve essere chiaramente proibito”. Da questa città che l’atomica ha marchiato a fuoco, l’invito al governo a “stabilire nuovi obiettivi della politica energetica per costruire una società libera dalla paura della radioattività”. (F.S.)
103 mila euro per le famiglie povere, raccolti in occasione della visita del Papa ad Arezzo
◊ Centotremila euro per i poveri: è quanto raccolto dalla diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro in occasione della visita del Papa, lo scorso 13 maggio. La somma era stata donata a Benedetto XVI perché fosse destinata ad opere di carità. Il Papa, venuto a conoscenza delle difficoltà economiche attraversate dalla popolazione locale, ha disposto che il ricavato della coletta sia impiegato per le famiglie in difficoltà. Quali problemi vivono queste famiglie? Paolo Ondarza lo ha chiesto a don Giuliano Francioli, direttore della Caritas diocesana di Arezzo- Cortona-Sansepolcro:
R. - Le difficoltà riguardano chi - non avendo più lo stipendio, oppure, essendo in cassa integrazione – non riesce a pagare le bollette, le rate dell’affitto, le spese primarie di ogni famiglia.
D. - Si tratta di famiglie, quelle che si presentano ai vostri sportelli, che mai in passato avrebbero pensato di rivolgersi a voi per chiedere aiuto…
R. - Ci sono dei poveri che continueranno ad essere sempre poveri. Questa categoria di povertà, che vien fuori adesso, ha bisogno anche di un’altra attenzione, di un altro rispetto, perché provano vergogna a trovarsi in condizioni disagiate, quando prima forse potevano avere tutto. C’è un’attenzione particolare e rispetto della dignità della persona, che noi siamo chiamati ad avere. Si stanno presentando ai centri di ascolto soprattutto famiglie locali, sono spesso famiglie di una fascia di età molto giovane.
D. - Questi 103 mila euro raccolti, come saranno impiegati?
R. - Le persone che hanno bisogno si presentano da noi e documentano di avere bisgno di aiuto: gli facciamo un accredito fino ad un massimo di 500 euro una tantum, oppure, diamo loro aiuti dilazionati in qualche mese, per necessità impellenti.
D. - La raccolta di 103 mila euro dimostra che, nonostante le difficoltà economiche, gli abitanti delle diocesi sono attenti alle necessità dei più poveri…
R. - Questo è un percorso pedagogico che credo sia il punto più forte della Caritas: se la carità non entra nell’animo, nella vita vissuta della comunità, rimane l’elemosina. Noi dobbiamo fare - io la chiamo così - “cultura della carità”: questo deve diventare un percorso educativo-formativo per noi che facciamo carità a sostegno degli altri, ma anche per chi riceve la carità perché si senta stimolato ad un impegno per non rimanere nella povertà, nella miseria e nell’abbandono, proprio perché sa di poter contare su fratelli cristiani che gli danno una mano e lo aiutano.
D. - Quella “cultura della carità” si richiama a quanto avveniva nella Chiesa nascente, quando ai piedi degli Apostoli veniva deposto il ricavato della vendita dei beni, perché fosse distribuito a ciascuno secondo il bisogno…
R. - Sì, questo è stato proprio il nostro gesto, il nostro segno: due giovani consegnarono proprio a Papa Benedetto XVI questo dono della diocesi. Il Papa poi ha scelto di devolverlo per le necessità e le povertà delle famiglie della nostra diocesi. Quindi si ripete quel gesto di carità della Chiesa, che forma veramente un "cuor solo ed un’anima sola, da questo ci riconosceranno". Oggi sono tempi in cui questa profezia deve tornare, questa Chiesa ritorni ad essere veramente il segno della comunione nella comunità.
D. - In questo momento di crisi, gesti - come questa donazione - sono segni concreti di speranza cristiana…
R. - La speranza si fonda su cose concrete, non è un sogno, un’utopia senza realizzazione. La concretezza diventa veramente segno di speranza, perché quando tu dai una mano a uno che ha bisogno gli dai concretezza di speranza ed egli può andare avanti perché ha qualcuno accanto, su cui poter contare.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ In rilievo, nell'informazione internazionale, la Siria, con i combattimenti in corso ad Aleppo.
In cultura, un articolo di Carlo Carletti dal titolo "Lode a Costantino, anche giocando a dadi": sport, politica e messaggi ironici contro i perdenti nelle "tabulae lusorie" dei primi secoli dell'era cristiana.
Fine di un viaggio romantico e drammatico: Gaetano Vallini sulla mostra, a Milano, "Zingari", il capolavoro del fotografo Josef Koudelka.
Sulle tracce del giardino dell'Eden dimenticando dieci secoli di storia: il "paradiso ritrovato" della giornalista americana Brook Wilensky-Lanford.
Un articolo di Antonio Paolucci dal titolo "Dal Lacoonte al Ratto di Ganimede passando per Leda e Giove": al Museo di Bargello "Fabule pictae", una mostra dedicata ai personaggi mitologici dipinti sulle maioliche del Rinascimento.
I gioielli della corona: nell'informazione vaticana, intervista di Nicola Gori all'arcivescovo Jean-Louis Brugues, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
◊ In Siria, il presidente Assad ha nominato nuovo premier, Wael Nader al-Halqi, ex ministro della Salute. Un incarico che giunge mentre il Paese è soffocato dalla violenza, che vede il suo epicentro ad Aleppo. Qui sarebbero decine i morti e migliaia di persone starebbero fuggendo verso la vicina Turchia. Proprio al confine tra i due Paesi continua a salire la tensione, a causa di una cruenta battaglia che vede da giorni contrapporsi i militari turchi ed i combattenti curdi del Pkk. E’ di oggi la notizia dell’uccisione di un militare turco a Smirne, sul Mar Egeo. Un episodio che fa temere il diffondersi della violenza in tutto il Paese anatolico. Il servizio è di Salvatore Sabatino:
E’ Wael Nader al-Halqi il nuovo premier siriano. La sua nomina, annunciata in grande stile dai media del regime, giunge dopo le dimissioni di tre giorni fa di Riad Hijab. Assad lo ha scelto in un momento particolarmente delicato, in cui si "gioca le ultime carte" tra defezioni di massa e operazioni militari su larga scala. Secondo le ultime notizie avrebbero abbandonato il presidente il suo capo-cerimoniale, 26 alti ufficiali della sicurezza e dell'apparato militare, due membri del governo; altrettanti parlamentari, cinque diplomatici e un numero imprecisato di soldati. Tutti parlano di mattanza nei confronti del popolo siriano. Come quella che sta avvenendo ad Aleppo, seconda città del Paese e cuore economico della Siria moderna. Una battaglia cruenta, quella di Aleppo, con centinaia di morti e decine di migliaia di persone in fuga dalla violenza, dirette verso il confine turco, non distante, ma altrettanto infiammato: proprio qui la tensione resta altissima, a causa della presenza - denunciata dal governo di Ankara - di almeno 4mila miliziani curdi del Pkk, il partito dei lavoratori. Dal 23 luglio sono in corso pesanti operazioni militari in territorio turco, al confine con Iraq e Siria, con almeno 140 morti; una guerra nella guerra, di cui pochi parlano, ma che tira in ballo la questione dell’indipendenza curda. Ad Alberto Rosselli, esperto di questioni curde, abbiamo chiesto se la guerra civile in Siria può, di fatto, scatenare una ''Primavera curda'':
R. - Direi che è probabile, in quanto l’elemento curdo presente in Siria ha a cuore sia la propria autodeterminazione all’interno dello Stato siriano sia quella dei suoi compatrioti in Turchia. Ricordiamo che il problema curdo, è un problema che riguarda non solo un Paese, ma riguarda sia la Siria che la Turchia, l’Iraq e l’Iran dove il popolo turco è praticamente frazionato.
D. - Stando ad alcuni analisti, il Pkk avrebbe stretto una vera e propria alleanza in chiave anti turca con il potere siriano. C’è il rischio concreto che Damasco ed Ankara, proprio sulla questione curda, possano arrivare ad un confronto militare diretto?
R. - Il pericolo c’è. D’altra parte, il Pkk ha varato, a partire dal 1978, una politica molto dura nei confronti del governo turco. Ricordiamo una cosa importante: il Pkk non è il solo partito che rappresenta la “minoranza relativa curda” in Medio Oriente; abbiamo anche il Pdk che è il partito democratico del Kurdistan, e l'Upk che è l’Unione patriottica del Kurdistan. Partiti che non si sono mai trovati d’accordo completamente con quella che è la politica un po’ più aggressiva e rigida del Pkk.
D. - In Iraq, i curdi sono riusciti, in un certo modo, ad essere riconosciuti; tanto è vero che il Nord - ricco di petrolio - è governato dal curdo Barzani. Lo stesso può avvenire anche in Siria, quale che sia l’esito della guerra?
R. - Diciamo che la situazione del Kurdistan iracheno è differente dalla situazione siriana. Diciamo anche che l’Upk, che è stato fondato nel giugno del 1975 da Talabani, mirava più che altro ad una pacificazione - in qualche modo -, ad un riconoscimento dei propri diritti all’interno dello Stato iracheno, contro l’oltranzismo nazionalista baathista. Ora, la situazione politica irachena è differente dalla situazione politica siriana, soprattutto alla luce degli avvenimenti degli ultimi mesi, la destabilizzazione di Assad... Quindi direi che è possibile, però sono due realtà differenti.
D. - Diciamo però che, in questo momento, i siriani stanno "utilizzando" i curdi per andare contro la Turchia, che sta svolgendo un ruolo molto importante in questa crisi ..
R. - Questo sicuramente. I curdi sono "adoperati" un po’ come “la testa di maglio” dai siriani. D’altra parte, ricordiamoci che è una storia vecchia, perché nel contesto della guerra iracheno-iraniana, sia gli iraniani che gli iracheni hanno adoperato le componenti curde dei rispettivi Paesi come armi, contro l’avversario diretto: gli iraniani appoggiavano i curdi iracheni e viceversa. Quindi, non è una novità. Diciamo che è la realtà. I curdi sono stati "adoperati" più di una volta e l’atteggiamento - oserei dire - oltranzista del Pkk, non ha fatto del bene al popolo curdo, ma questa naturalmente è una mia opinione, in quanto ha irrigidito moltissimo i rapporti, mettendo in difficoltà la componente moderata curda, nel dialogo che hanno cercato di instaurare - come si è verificato anche in Siria in quest’ultimo anno - con il governo locale.
Siria: sempre più grave l'emergenza profughi nei Paesi confinanti
◊ Da quando sono iniziati gli scontri in Siria, circa un milione e mezzo di persone è stato costretto ad abbandonare le proprie case; 2400 sono giunti solo ieri in Turchia. Molti profughi si trovano in Libano, in Giordania, oltre 39 mila, 3500 solo nel campo di Za'atri, gestito dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Francesca Sabatinelli ha raggiunto telefonicamente in Giordania Alda Cappelletti, responsabile missione di Intersos nel campo:
R. - Questo campo rifugiati si trova purtroppo in una località molto difficile dal punto di vista ambientale: in mezzo al deserto, fa molto caldo, e la situazione di difficoltà è aumentata da quando è iniziato il Ramadan. E' una zona molto ventosa, i rifugiati in questo momento sono ospitati nelle tende. Tuttavia tutte le organizzazioni, noi stessi, le agenzie che iniziano a lavorare sul campo, stanno cercando di rispondere innanzitutto ai bisogni primari dei rifugiati. Quindi vengono assicurati cibo, acqua, servizi igienici, ci sono anche diverse cliniche che forniscono assistenza sanitaria.
D. - Quali sono i disturbi che si stanno manifestando tra le persone che sono ospitate al campo e, soprattutto, in che condizioni sono arrivate da voi?
R. - Le famiglie arrivano praticamente con niente. Hanno solamente una piccola valigia con lo stretto necessario che riescono a portare via, mentre scappano dalle città del conflitto, dalle loro case, e quindi hanno bisogno di tutto. In particolare, in questo momento, il primo bisogno che stanno esprimendo, è quello dei vestiti, oltre naturalmente alla casa, all’acqua al cibo, ecc. Il fatto che si siano allontanati di corsa, ha fatto si che hanno lasciato tutte le loro cose, anche i documenti. A tal proposito c’è un grande problema di identificazione delle persone. Donne e bambini manifestano alti livelli di stress dal punto di vista psicologico. I bambini simulano i "giochi di guerra"; le donne hanno un sentimento di frustrazione per aver lasciato in Siria parte delle famiglie o i mariti, naturalmente sono molto preoccupati, perché le comunicazioni con la Siria sono estremamente difficili. Chiedono anche di poter avere accesso alle notizie date dalla televisione, e all’elettricità per potere ricaricare i cellulari in modo da tenersi sempre in contatto con chi della famiglia è rimasto in Siria. È una situazione estremamente delicata. L’umore generale dei rifugiati al campo è molto basso, sono molto scoraggiati. Sono rassegnati al fatto che dovranno passare probabilmente molti mesi prima che possano rientrare nelle loro case.
D. - Che testimonianze portano con loro le persone che arrivano nel campo? Che cosa vi hanno raccontato di ciò che sta accadendo nel loro Paese?
R. - Molti dei rifugiati che in questo momento sono al campo si trovavano in Giordania già da diversi mesi, sono stati trasferiti nel campo dai centri di transito che sono stati chiusi dopo l’apertura di Za’atri. Quindi ormai sono diversi mesi che sono in questo Paese, però continuano a riportare le testimonianze di questo grande conflitto e soprattutto la paura per coloro che hanno familiari che sono rimasti in patria, e dei quali, purtroppo, non hanno più notizie. Questa è la loro paura principale. Temono molto anche la distruzione dei loro beni, delle loro case, e provano tristezza perché non sanno quando potranno rientrare.
Intersos fa parte del network "Agire" che ha lanciato un appello di raccolta fondi per sostenere tutte le Ong che ne fanno parte e che sono impegnate in programmi di assistenza umanitaria in Siria e nei Paesi confinanti. Per informazioni, visitare il sito www.agire.it
Manifestazione dell’opposizione a Tunisi contro il “degrado della politica”
◊ Una clausola inserita nella costituzione tunisina, in cui le donne vengono definite "associate all'uomo nello sviluppo", ha fatto infuriare le femministe e alcuni politici del Paese. La clausola è stata approvata dalla Commissione dei diritti e delle libertà con una votazione di 8 contrari contro 12 favorevoli, dei quali nove del partito islamista al potere, Ennahdha. E oggi a Tunisi è stata organizzata una manifestazione dell’opposizione contro quello che viene definito il ‘degrado’ della politica e le violazioni dei diritti umani. La Tunisia è stato il primo Paese a dare il via, un anno e mezzo fa, alla cosiddetta ‘primavera araba’. Dopo il tragico episodio dell’ambulante che, vessato dalla polizia, si è dato fuoco, le imponenti manifestazioni di piazza hanno cacciato il presidente Ben Ali, dopo 25 anni di dittatura. Di cosa accada oggi nel Paese Fausta Speranza ha parlato con lo storico Fabrizio del Passo, docente all’Università la Sapienza di Roma:
R. – Una fase in cui sta emergendo, forse per primo rispetto agli altri Paesi del Maghreb, sicuramente una chiara volontà di costruzione di un Paese democratico di tipo occidentale. E’ il Paese in un certo senso portabandiera dei grandi cambiamenti del resto del Nord Africa. Quindi, anche se effettivamente risente dei contraccolpi tra una mentalità aperta all’Occidente, aperta alla democratizzazione, c’è comunque un fronte interno abbastanza forte, portato avanti in modo particolare dagli “anziani”, inteso come comunità … che rappresenta una fetta di popolazione anche se comprende alcuni di altre generazioni. Molte sono persone che hanno combattuto contro la Francia e che oggi tendono un po’ a bloccare l’Ennahda, questo partito molto forte, e a mantenere una mentalità conservatrice, specialmente nei riguardi delle donne.
D. – Ecco, parliamo della questione femminile che sembra un po’ al centro, questi giorni: è stata inserita nella Costituzione una clausola che fa discutere per l’espressione in cui si afferma che la donna è associata all’uomo nello sviluppo del Paese …
R. – Apparentemente è un problema tunisino. In realtà, è un problema molto più ampio che non va soltanto a toccare il diritto islamico vigente in Tunisia e in altri Paesi del Maghreb, ma anche indirettamente l’Unione Europea. Loro vorrebbero nell’ambito del sociale un riconoscimento indiretto di questa posizione per avere accordi commerciali che l’Europa invece condiziona a norme più paritarie. Quindi, per l’Ue nell'unione tra un uomo e una donna non c’è vincolo di sottomissione: c’è un vincolo paritario. Mentre invece loro vorrebbero – la Tunisia nella fattispecie, ma anche altri Paesi – che noi riconoscessimo questa facoltà che hanno i Paesi arabi nella loro specificità di avere una figura femminile, e in altri casi di minore, sottoposta al vincolo decisionale del maschio, dell’uomo.
D. – In definitiva, un Paese ancora in transizione: possiamo dire ancora che la fase è difficile?
R. – La fase è difficile, però dobbiamo essere ottimisti soprattutto guardando a tutto il fronte giovanile: i giovani che hanno studiato e studiano in Tunisia, e che comunque hanno spesso contatti anche con altri parenti in Francia, specialmente, dove sono ufficialmente più di 600 mila persone, ma anche in Italia dove circa 160 mila persone dalla Tunisia vivono stabilmente. Si tratta di contatti che ampliano l’orizzonte, aprono un po’ gli occhi rispetto alla sola mentalità tradizionale del loro Paese. Si intravede l’impulso a fare questo passaggio in avanti verso una maggiore democratizzazione della mentalità sia nei riguardi della politica ma anche della società, che è ancora più importante.
D. – Che cosa dire della dialettica tra opposizione e partiti al governo? E’ una dialettica che sembra sana nelle sue manifestazioni?
R. – Sicuramente lo è, perché è un momento in cui, comunque, sia all’interno del Paese, sia all’esterno del Paese, ovvero anche pensando agli occhi puntati dell’Unione Europea e degli altri Paesi vicini e confinanti della Tunisia, tutta l’informazione circola. Tutti noi siamo a conoscenza delle dinamiche che sono all’interno sia dell’Ennahda sia, tra l’altro, del Fronte politico generale tunisino. Ci sono interviste, reportage, chiarimenti, scontri anche verbali - se vogliamo - però tutto questo è palese, è un sintomo, è una realtà che manifesta come comunque il Paese sia aperto al dialogo non soltanto all’interno ma anche all’esterno. Altrimenti avremmo avuto un sistema completamente diverso.
Thailandia: alla sbarra i leader delle "Camicie rosse", autori della protesta del 2010
◊ E’ iniziato oggi a Bangkok, in Thailandia, il processo ai leader del movimento delle cosiddette ‘Camicie rosse’. Il gruppo, fedele all’ex primo ministro in esilio, Taksin Shinawatra, capeggiò le violente manifestazioni di piazza antigovernative e antimonarchiche nella primavera del 2010. Gli scontri con le forze dell’ordine provocarono oltre 90 morti. Ma che significato ha avuto quel periodo per la recente storia thailandese? Giancarlo La Vella lo ha chiesto al giornalista Stefano Vecchia, raggiunto telefonicamente a Bangkok:
R. – Poteva rappresentare un momento di svolta, in realtà ha approfondito una crisi già presente nel Paese. La Thailandia si è trovata ancora più divisa tra una parte della popolazione di estrazione rurale, in buona parte rappresentata dalle 'Camicie rosse', che a loro volta fanno riferimento a Taksin Shinawatra, l'ex primo ministro, che adesso vive in un dorato esilio, e l’altra parte del Paese, che è quella delle elite urbane filo-monarchiche e nazionaliste, che cercano di mantenere in questa Nazione, profondamente feudale, uno status quo che però ormai mostra tanti limiti.
D. – Sono istanze che ancora permangono all’interno della società thailandese?
R. – Assolutamente sì, anche se con molte difficoltà ad esprimersi. Una battuta che circola spesso tra noi corrispondenti esteri a Bangkok è che questo Paese non riesce a vivere una 'primavera araba' per la mentalità di sopportazione profondamente radicata e anche di ispirazione buddhista. C’è da un lato una certa accondiscendenza verso il potere e dall’altro il timore. Qui non esiste una società civile forte, determinata, e quindi la mancata abitudine a rivendicare in modo forte le proprie istanze fa sì che tutto piano piano si perda. C’è stata questa fiammata quasi rivoluzionaria, però da allora la situazione si è relativamente calmata. Le istanze restano ed emergono sporadicamente in un modo anche abbastanza evidente. Il governo attuale, che in qualche modo ha usato le 'Camicie rosse' per andare al potere, ha cercato di calmierare la situazione, da un lato accontentando le elite tradizionali, in modo che non fossero intimidite dalla possibile reazione della base popolare rurale, e dall’altro ha cercato di raffreddare gli animi, concedendo una serie di facilitazioni economiche alle vaste aree sottosviluppate di questo Paese.
Giornata delle popolazioni indigene. Appello dell'Onu: maggiore sostegno ai loro diritti
◊ Le Nazioni Unite sostengono le "popolazioni indigene e i loro mezzi di comunicazione". E’ il messaggio del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, in occasione dell’odierna Giornata Internazionale per le Popolazioni Indigene del Mondo sul tema: “Media indigeni, diamo più potere alle voci indigene”. La ricorrenza è un modo per rammentare la condizione di 370 milioni di persone, circa il 5 per cento della popolazione mondiale. Per conoscere quali passi sono stati fatti per il riconoscimento dei diritti degli indigeni, Marco Guerra ha intervistato Luciano Ardesi, segretario della Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli:
R. – L’adozione della dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni è del settembre 2007. Possiamo dire che la situazione non è sostanzialmente cambiata, anche perché i meccanismi che gli Stati avrebbero dovuto mettere in campo per promuovere questi diritti, non sono mai stati attuati in modo concreto. La cosa più importante, sicuramente, è quella di avere nelle Costituzioni dei Paesi degli articoli che chiedono il rispetto dei diritti dei popoli indigeni come popoli originari di quegli Stati, e che quindi abbiano piena cittadinanza e in più, naturalmente, il riconoscimento della particolarità della propria cultura, della propria lingua, insieme all’accesso al sistema educativo che possa però in qualche modo conservare le tradizioni di questi popoli.
D. – Quest’anno, la Giornata è dedicata ai media che danno voce ai diritti di queste popolazioni …
R. – La stessa dichiarazione del 2007 raccomanda che gli Stati, i singoli Stati nei quali vivono i popoli indigeni, quindi i popoli originari, garantiscano a questi stessi che possano esprimersi nella propria lingua, possano esprimere la propria cultura anche attraverso i mass media. Quindi, promuovere i mass media che siano espressione diretta della cultura e della lingua di questi popoli. Naturalmente, sarà importante che anche i media internazionali rappresentino questi popoli in maniera meno superficiale di quanto è stato fatto finora.
D. – Le Nazioni Unite mostrano statistiche allarmanti. In alcuni Paesi gli indigeni hanno un’aspettativa di vita vent’anni più breve rispetto ai loro connazionali, perché?
R. – I popoli indigeni si trovano per loro natura in territori in genere emarginati dallo sviluppo economico e sociale e quindi soffrono enormemente delle discriminazioni. Inoltre, l’altra caratteristica è che gli Stati hanno scoraggiato in questi anni l’organizzazione di movimenti e di associazioni che rappresentano i popoli indigeni, proprio per non avere a che fare con una controparte forte. Questo naturalmente non ha sempre permesso ai popoli indigeni di potersi esprimere e di poter rivendicare e ottenere i propri diritti. Questo è vero soprattutto in alcuni Paesi come l’Africa o come l’Oceania, mentre in America Latina la situazione è molto più favorevole, da questo punto di vista.
D. – E’ possibile coniugare l’apertura ad alcune modernità senza rinunciare alla propria identità?
R. – Questa è la grande sfida. Il popolo indigeno ha sempre affermato che la propria cultura non è una cultura … ma è semplicemente l’espressione di uno stato della popolazione integrata alla natura e alle condizioni di vita di quel momento e ha sempre cercato, in qualche modo, di far capire che questa tradizione non è in contrasto con la modernità. Quella tradizione è stata a suo tempo moderna e questa tradizione, se lasciata nelle mani dei popoli indigeni, può essere un fattore di evoluzione favorevole. Sappiamo che oggi anche nella cultura moderna elementi della tradizione si sono perfettamente integrati e hanno costituito anche il secondo motore della trasformazione delle nostre culture e delle nostre società; lo stesso chiedono oggi i popoli indigeni, cioè di partecipare a questa grande trasformazione da protagonisti e non subendo le trasformazioni che il sistema economico e sociale comporta con l’evoluzione e col passare del tempo.
D. – Fra le minacce più incombenti c’è il crescente furto di terre da parte dei grandi investitori?
R. - I popoli indigeni non hanno titoli di proprietà sulle terre riconosciuti dal diritto moderno. Quindi, gli Stati hanno la tendenza a proclamare terre statali terre che in realtà appartengono a comunità indigene e poi per primi concedono questi territori a investitori stranieri. Sappiamo che una buona parte delle concessioni di terre agli investitori stranieri riguarda proprio i territori che storicamente appartengono alle comunità indigene e che costituiscono l’elemento principale della loro sopravvivenza ma anche della loro identità culturale e sociale.
D. – Difendere le popolazioni indigene significa difendere il più grande patrimonio culturale del mondo?
R. – In fondo è quello che abbiamo capito proprio a proposito ad esempio degli esseri viventi, della importanza di conservare la biodiversità. Ebbene, anche la diversità culturale, anzi soprattutto la diversità culturale, è un elemento di evoluzione e di progresso dell’umanità. Questo non dovremmo mai dimenticarlo.
Londra 2012. "Sconforto ma attenzione all'uomo", così don Lusek sulla vicenda Schwazer
◊ Mancano tre giorni alla fine delle Olimpiadi di Londra 2012. Accanto alle immagini di gioia e felicità per le vittorie conseguite da tanti atleti, ci sono le lacrime del marciatore italiano Alex Schwazer che, in una conferenza stampa, ieri ha chiesto scusa per aver fatto uso di sostanze dopanti. Sulla vicenda, Benedetta Capelli ha chiesto un commento a don Mario Lusek, cappellano della spedizione olimpica azzurra, raggiunto telefonicamente a Londra:
R. – Io credo che il buio sia sempre in agguato nel cuore dell’uomo. Ci sono momenti in cui si smarrisce quel senso di luce che magari si è portato avanti nel corso degli anni. Credo che Alex Schwazer abbia subito proprio questo. Ammirato da tutti, sicuramente anche invidiato, ma nello stesso tempo anche lui con le sue fragilità, con le sue ansie, con le sue paure. Questo ci fa dimenticare un aspetto che io amo sempre rimarcare: gli atleti che sono alle Olimpiadi in fondo sono giovani, con tutto quello che è tipico di una condizione giovanile. A volte non riescono a sopportare né il senso del limite né tantomeno la paura. Eppure la marcia poteva essere una metafora nell’evitare scorciatoie pericolose per arrivare a quelle mete per cui si è lottato e per cui ci si impegna. Quindi l’amarezza è la reazione più diffusa, l’amarezza e lo sconforto perché appunto la persona è ammirata ma nello stesso tempo anche la tenerezza, chiamiamola così, l’attenzione perché non vada perso l’uomo.
D. – Negli anni quante confessioni di debolezza ha raccolto?
R. – Senza quantificare… Ci sono confessioni di debolezza… Io ricordo qualcuno che voleva anche abbandonare l’esperienza perché all’origine c’era una situazione personale di tensione, di fragilità… Sono cose che vanno affrontate ma c’è bisogno di qualcuno con cui aprirsi e confidarsi. Penso che la figura del cappellano abbia anche questa funzione di vicinanza, di prossimità, di amicizia, e non solo di testimonianza di fede ma anche di compagnia. Io amo proprio rimarcare questo: c’è questa presenza e questa presenza va utilizzata anche per un confronto, per un dialogo, per un approfondimento, per ritrovare se stessi.
D. – Di contro dobbiamo ricordare le tante immagini di queste Olimpiadi di Londra. Per restare in Italia la determinazione di Josefa Idem ma anche gli abbracci, le strette di mano, tra persone diverse e lontane…
R. – Sicuramente quello che hai detto è verissimo, tra gli atleti italiani sono moltissime le immagini di questa festa continua che si sperimenta. La maggior parte delle esperienze sono state tutte altamente significative, anche dal punto di vista religioso, perché si sono incontrate persone con una ricerca veramente motivata e che, oltre a essere uomini di sport, sono uomini di fede. Ho in mente volti, persone, la stessa medaglia d’oro Daniele Molmenti ha voluto rimarcare la sua identità di friulano credente, di friulano cristiano. Il clima è quello della festa, della gioia, della convivialità, del stare gomito a gomito con le diversità e non sentirsi lontani ma sentirsi partecipi della stessa storia, della stessa avventura, con la stessa tensione interiore dentro.
D. – Che cosa lasceranno le Olimpiadi di Londra nel cuore degli atleti? Questi Giochi sono stati diversi dagli altri Giochi del passato?
R. - Erano contesti diversi. Io ho vissuto l’esperienza di Pechino che era totalmente diversa da questa perché era un mondo che si apriva agli altri mondi e quindi con tutte le paure di questo tipo di aperture. Qui siamo in una nazione, l’Inghilterra, dove addirittura siamo alla terza Olimpiade, con una tradizione alle spalle e quindi con un vissuto sportivo e con una multietnicità diffusa. Girando per Londra ci accorgiamo che è una città multietnica, pluriconfessionale, dove le differenze ci sono da tempo e forse il simbolo delle Olimpiadi è questo: la conferma che c’è un mondo globalizzato dove è possibile intendersi, capirsi, rispettarsi e trovare anche le strade di percorsi comuni.
India: Chiesa in prima linea contro gli aborti selettivi femminili
◊ Rendere gli aborti selettivi femminili un reato penalmente perseguibile per chi li pratica. L’idea sta cominciando a raccogliere crescenti consensi anche tra le autorità di alcuni Stati indiani dove il drammatico aumento dei feticidi femminili, al quale ha contribuito l'evoluzione delle tecniche di indagine pre-natale, sta alterando gli equilibri demografici del Paese. Una proposta che la Chiesa indiana, da tempo impegnata contro questa piaga, vede con favore. Per suor Helen Saldanha, segretario dell’Ufficio per le questioni femminili della Conferenza episcopale indiana (Cbci), punire gli aborti selettivi contribuirebbe a cambiare “l’atteggiamento omicida” della società indiana verso le figlie femmine, discriminate a causa di antichi retaggi culturali e religiosi che privilegiano l'erede maschio. Quella indiana, come altre società asiatiche, è infatti, una società patriarcale che considera le donne come un peso economico. “Questa preferenza per il figlio maschio – spiega suor Saldanha all’agenzia Cns – è una patologia che sta abbassando il rapporto tra femmine e maschi e purtroppo i progressi della medicina vengono usati per impedire la nascita di milioni di bambine non volute”. Lo confermano drammaticamente le statistiche: il rapporto tra femmine e maschi di età inferiore ai sei anni in India è sceso da 927 ogni mille maschi nel 2001 a 800 su mille nel 2011. Nonostante i test pre-natali per la determinazione del sesso e gli aborti selettivi siano illegali nel Paese dal 1994, questa pratica, secondo il dott. Ruchika Dewan Singh del Catholic Health Association of India (Chia), continua a essere accettata da ampi settori della società indiana, dove sono ancora molto diffusi anche i cosiddetti “omicidi per dote”: ogni anno migliaia di donne vengono uccise in India per il mancato pagamento della dote “patteggiata” al momento del matrimonio combinato dai genitori. “Il problema - conferma il direttore del Chai, padre Tomi Thomas – è innanzitutto culturale. Per questo l’associazione organizza regolarmente speciali corsi di formazione per operatori sanitari e per le coppie con l’obiettivo di convincerle a non ricorrere agli aborti selettivi. I suoi programmi rientrano nella capillare campagna di sensibilizzazione contro i feticidi e gli infanticidi femminili condotta in questi anni dalla Chiesa in India”. Gli effetti deleteri degli aborti selettivi femminili sugli equilibri demografici nel mondo e in particolare in Asia sono stati denunciati anche dalla Divisione demografica del Dipartimento Onu degli Affari economici e sociali (Unpd) e dal U.S. Census Bureau’s International Programs Center (Ipc), le due maggiori organizzazioni che si occupano delle tendenze di crescita della popolazione mondiale. Gli ultimi dati forniti indicano che India e Cina sono i “campioni” di questa pratica, con un indice medio del rapporto tra numero di nascite maschili e femminili di 120 (ovvero 120 maschi ogni 100 femmine). Il limite oltre il quale si parla di rapporto innaturale è 105. (A cura di Lisa Zengarini)
I vescovi del Rwanda si preparano all’Anno della Fede indetto dal Papa
◊ I preparativi dell’Anno della fede - che si aprirà il prossimo 11 ottobre ed è stato indetto da Benedetto XVI per commemorare il 50.mo anniversario del Concilio Vaticano II - sono stati al centro della riunione del Consiglio permanente della Conferenza episcopale del Rwanda (Cepr), svoltasi il 7 agosto scorso a Kigali. Guidata dal presidente della mons. Smaragde Mbonyintege, l’assemblea ha stilato anche l’ordine del giorno per la prossima plenaria, in programma dal 28 al 31 agosto prossimi: in quell’occasione, i vescovi faranno un bilancio consuntivo e di previsione per i Seminari maggiori, incontreranno alcuni rappresentati dell’Istituto di ricerca sul dialogo e la pace, riceveranno alcuni delegati del Catholic Relief Service in visita da Baltimora, e faranno il punto sui preparativi del Forum internazionale dei giovani, organizzato dalla Comunità di Taizé e previsto dal 14 al 18 novembre a Kigali. Nel corso del Consiglio permanente, inoltre, i presuli rwandesi hanno valutato anche l’invito ricevuto dall’Associazione delle Conferenze episcopali dell’Africa Centrale (Aceac), che terrà un incontro a Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo, dal 17 al 19 settembre. Infine, i rappresentati di Caritas Rwanda hanno presentato un rapporto sulle loro attività in aiuto agli sfollati della guerra congolese ospitati a Kigeme, programmando per il futuro una visita sul posto, insieme alla Commissione episcopale per la Pastorale dei migranti. (I.P.)
Etiopia: la Chiesa in soccorso dei bambini di Addis Abeba
◊ In Etiopia, in cui si contano circa 700mila fedeli cattolici, sono più di 10 milioni le persone che ricevono aiuto dalla Chiesa, che gestisce 203 asili d’infanzia e 222 scuole frequentate da oltre 180mila studenti, senza distinzioni di credo religioso. Sono i numeri riportati da Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs), un’organizzazione che - dal 1947 - realizza progetti a sostegno della Chiesa nei luoghi in cui questa è perseguitata o priva di mezzi per adempiere la propria missione. Tra le persone bisognose di aiuto, ci sono i bambini di Addis Abeba, la capitale etiope, che da decenni trovano riparo nel piccolo cimitero della città, insieme a lebbrosi, poveri e senza tetto. Da molti anni a occuparsi di loro ci pensano le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, che hanno creato una scuola e un asilo vicino al cimitero, su una collinetta, dove il pochissimo spazio è delimitato da un burrone, ma in cui le suore sono riuscite a ricavare anche una biblioteca ed un campetto da gioco. Nell’ultimo anno gli studenti sono stati 813. Racconta ad "Acs" suor Belaynesh Woltesi, responsabile della struttura: “Una buona istruzione è l’unica via d’uscita dalla povertà. Qui è tutto in miniatura, ma ai nostri bambini non manca nulla: libri, uniformi e soprattutto cose da mangiare, anche se – prosegue – con i prezzi in continuo aumento è sempre più difficile per noi comprare generi alimentari”. Tutti gli studenti provengono da famiglie poverissime, con genitori spesso malati di Aids o lebbra. Tanti inoltre sono stati raccolti per le strade mentre mendicavano, cosa non facile “perché spesso i soldi elemosinati rappresentano l’unica entrata per le famiglie. E poi i bambini ormai conoscono le regole della strada e non riescono ad accettare che qualcuno si prenda cura di loro”. Nel 2011, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha raccolto oltre 82 milioni di euro nei 17 Paesi in cui è presente, ha donato 620 mila euro alla Chiesa cattolica etiope e realizzato 4600 progetti in 145 nazioni. (L.P.)
Cina: corso di formazione dedicato ai laici per migliorare la conoscenza della Bibbia
◊ Si è svolto dal 31 luglio al 4 agosto il corso di formazione dei laici della comunità della provincia di Zhe Jiang, in Cina, sul tema “Studiare, conoscere ed applicare la Sacra Scrittura”. Secondo quanto riferisce "Faith" di He Bei, come riporta l’agenzia Fides, 150 fedeli laici delle quattro diocesi della provincia hanno partecipato allo studio con l’obiettivo di “migliorare la propria formazione della fede e portare il frutto dello studio nella propria parrocchia”. I principali temi affrontati sono stati: la conoscenza della Sacra Scrittura, il modo migliore per leggere la Bibbia, l’ascolto della Parola di Dio con l’orecchio e con il cuore, l’insegnamento della Sacra Scrittura nella vita e l’evangelizzazione alla luce della Sacra Scrittura. Nella provincia di Zhe Jiang, nella quale vivono oltre 47 milioni di abitanti, si contano 69 sacerdoti, 47 seminaristi, 99 religiose, 175 mila fedeli laici, 335 chiese e cappelle e 5 case degli anziani. Fu Papa Innocenzo XII nel 1696 a fondare il vicariato apostolico di Zhe Jiang nominando come primo vicario apostolico il padre domenicano Alcala. (L.P.)
Al via pellegrinaggio in Terra Santa dei giovani della diocesi di Arezzo
◊ Inizia oggi il pellegrinaggio in Terra Santa di cinquanta studenti delle scuole superiori della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro. “Un pellegrinaggio fatto da giovani per i giovani”, dichiara l’arcivescovo Riccardo Fontana, che accompagnerà i ragazzi “Sulle strade di Gesù” in questo viaggio che va da oggi al 17 agosto, insieme al responsabile della Pastorale Giovanile don Danilo Costantino e l’assistente dell’Azione Cattolica Toscana don Andrea Lombardi. “L’intento – prosegue il presule – è quello di vivere insieme una forte esperienza spirituale nei luoghi segnati dal passaggio di Gesù e dei grandi personaggi biblici, ma anche testimoniare l’amicizia e la solidarietà della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro ai cristiani della Palestina che sono i più colpiti dalla grave situazione sociale attuale. La violenza non può portare la pace; accentua l’odio e la distruzione; occorre abbattere gli steccati e gettare ponti di dialogo e di riconciliazione”. I giovani si recheranno a Betlemme, Nazareth e Gerusalemme e visiteranno la Basilica dell’Annunciazione, la Grotta della Sacra Famiglia a Nazareth, il Monte delle Beatitudini, il Muro del Pianto e il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Si percorrerà anche una parte del cammino che compirono i patroni e fondatori di Sansepolcro, di cui quest’anno ricorre il millenario, i Santi Egidio e Arcano. La visita a Gerusalemme assume ulteriore importanza anche a seguito della recente visita del Patriarca Fouad Twal ad Arezzo, Cortona e Sansepolcro e del gemellaggio che è stato sottoscritto dalla diocesi e dal Patriarcato Latino di Gerusalemme. Spiega il responsabile della Pastorale Giovanile, don Danilo Costantino: “L’Arcivescovo ha voluto fortemente, nell’anno in cui festeggiamo il millenario di Sansepolcro, coinvolgere le scuole e gli studenti in un pellegrinaggio semplice, ma molto impegnativo spiritualmente. Saremo accolti dalle famiglie e dalle comunità parrocchiali, cammineremo per le strade di Gesù per poter fare un cammino interiore che ci aiuti a crescere per ritornare ad essere ogni giorno testimoni nelle nostre comunità. Un sacco a pelo, uno stuoino e quello che la provvidenza vorrà donarci”. Il pellegrinaggio sarà seguito in tutte le sue tappe dall’emittente diocesana Tsd con servizi nei notiziari delle 12, 17, 19.40, 21 e 23, ma anche sul sito web dell’emittente www.tsdtv.it e sul canale You Tube di Tsd. (L.P.)
L’arcivescovo di Dublino: urgente in Irlanda una formazione alla fede degli adulti
◊ Un ulteriore stimolo a dare una risposta alla domanda attuale di educazione alla fede. Così l’arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin, commenta i risultati del sondaggio Global Index of Religion and Atheism, condotto in Irlanda, secondo il quale solo il 47% degli irlandesi si considerano persone "religiose", con un calo del 22% rispetto al 2005. “La Chiesa cattolica non può semplicemente supporre che la fede venga trasmessa automaticamente tra le generazioni e che questo basti a farla vivere appieno ai fedeli - è l’allarme che lancia – la Chiesa irlandese è troppo indietro rispetto ad altre Chiese europee nell’affrontare la questione relativa alla formazione delle persone alla loro fede”. Secondo il presule, l’enfasi è stata troppo spesso posta sul tema dell’educazione religiosa nelle scuole, trascurando il bisogno di educazione alla fede degli adulti. “Per educazione religiosa – ha spiegato – intendo un’educazione di qualità, che abbracci tematiche con cui uomini e donne adulti vengono a contatto e con le quali devono confrontarsi da cristiani nel mondo di oggi che cambia velocemente”. Uno strumento utile e arricchente, in realtà, esiste, anche se “la sua applicazione è stata molto ritardata e non è ancora entrato nel catechismo popolare né nella vita parrocchiale”: si tratta delle direttive nazionali per la catechesi elaborate qualche anno fa dalla Conferenza episcopale irlandese, “Condividere la Buona Novella”. Mons. Martin, infine, invita tutta la Chiesa d’Irlanda a cogliere l’ormai imminente Anno della Fede indetto da Benedetto XVI – che si aprirà a ottobre – come un’ulteriore occasione di rinnovamento spirituale, quale è già stato il Congresso Eucaristico da poco concluso, e un momento di riscoperta della propria fede in Cristo, così da raccogliere le sfide della modernità e testimoniare al Paese di domani la speranza nella salvezza che è solo Gesù. (A cura di Roberta Barbi)
Perù: a Lima, un corso di aggiornamento in Diritto canonico
◊ Si svolgerà dal 14 al 17 agosto prossimi a Lima, in Perù, l’VIII corso di aggiornamento in Diritto canonico organizzato dall’associazione peruviana di Canonisti. Il corso si ripropone di approfondire tematiche quali l’organizzazione della Chiesa cattolica, il rapporto tra Chiesa e Stato, i benefici dell’accordo tra la Santa Sede e il Perù, e si rivolge, in modo particolare, a vicari giudiziali, giudici ecclesiastici, rettori, religiosi, avvocati, studenti di teologia e amministratori di beni ecclesiastici. Durante la quattro giorni, le lezioni di giurisprudenza e orientamenti e soluzioni nel campo giuridico e pastorale saranno dedicate soprattutto agli incaricati dell’amministrazione giuridica nei tribunali ecclesiastici, ai docenti di seminari e ai parroci. (R.B.)
In Francia al via “Annuncio”, festival estivo dell’evangelizzazione
◊ Dodici giorni d’incontro, 14 città coinvolte: con questi numeri, dal 15 al 26 agosto prossimi, si svolgerà in Francia “Annuncio”, il festival estivo dedicato al tema dell’evangelizzazione, soprattutto dei giovani tra i 18 e i 35 anni. Giunto alla quarta edizione, l’evento sarà suddiviso in tre fasi: la prima, dal 15 al 17 agosto, vedrà i partecipanti raccogliersi in due giorni di preghiera; fino al 23 agosto, invece, il programma prevede l’evangelizzazione nelle strade e sulle spiagge del Paese, veglie di preghiera e momenti di musica. Gran finale, poi, a Parigi, nel quartiere di Montmartre dove, dal 24 al 26 agosto, si raduneranno tutti i partecipanti al festival per condividere la gioia dell’annuncio della Parola di Dio. “Ad Annuncio – si legge sul sito internet dell’evento – la preghiera comunitaria prende la forma della lode, che è la gioia del cuore vicino a Dio. La lode porta alla gioia e alla libertà, al raccoglimento e alla contrizione, al cuore-a-cuore con Dio”. Centrale, poi, il richiamo alla “povertà evangelica”, poiché “un buon annuncio è un annuncio vero. Per riuscire a diventare un luogo di conversione, l’evangelizzazione esige autenticità, capacità di donarsi e il riconoscimento dei propri limiti”. Nato nel 2008 su iniziativa di alcuni giovani laici, Annuncio è un movimento cattolico che è cresciuto nel tempo fino a coinvolgere sempre più persone in città. Nel 2011, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, è stato organizzato anche un festival culturale al quale hanno lavorato dieci giovani di diverse nazionalità. La preparazione dell’evento è durata un anno, durante il quale i dieci hanno vissuto insieme presso la “Casa dell’Annuncio”, fondata per l’occasione. In seguito, sono state istituite altre “case” in Francia che sono divenute luoghi di ritrovo in cui ogni settimana i giovani possono pregare, discutere e condividere l’opera di Dio nella vita quotidiana. (I.P.)
Terra Santa. La Messa della Trasfigurazione di Gesù per la prima volta via satellite
◊ È stata trasmessa per la prima volta via satellite da alcune emittenti televisive cattoliche, la Messa della Trasfigurazione del Signore celebrata il 6 agosto scorso nella Basilica del Monte Tabor, in Terra Santa e presieduta dal custode, padre Pierbattista Pizzaballa. La celebrazione è stata mandata in onda in lingua araba, spagnola e italiana. “Il mistero della Trasfigurazione è anche il mistero del nostro essere, della nostra vita – ha detto padre Zaher Abboud nella sua omelia – salire sul Tabor significa saper vedere con gli occhi di Dio tutte le preoccupazioni e le nostre croci quotidiane”. La Messa, si legge sul sito della Custodia di Terra Santa, ha avuto come particolare intenzione di preghiera la difficile situazione che sta vivendo la Siria. Al termine, celebranti e fedeli si sono incamminati in processione verso il “Descendetibus”, l’antico oratorio sorto in memoria dell’ordine dato da Gesù ai discepoli (… di non parlare a nessuno della visione), mentre scendevano dalla montagna. La festa della Trasfigurazione di Gesù è stata preceduta da una veglia che ha riunito numerosi pellegrini, alcuni dei quali giunti dopo ore di cammino a piedi. (T.C.)
In Burkina Faso tremila giovani alla Giornata nazionale della gioventù
◊ Integrare la fede nella propria vita assumersi le proprie responsabilità: sono i consigli che il vescovo di Banfora, mons. Lucas Kalfa Sanou, ha dato ai circa tremila giovani che si sono incontrati la scorsa settimana nella sua diocesi, nel Burkina Faso, per celebrare la V Giornata nazionale della gioventù, sul tema “Combatti la buona battaglia della fede”. Provenienti anche da altri Paesi africani come il Mali, il Niger, il Benin, la Costa d’Avorio, il Togo e il Ghana, i pellegrini - riferisce il portale Le Pays - sono stati accolti nello stadio municipale. Catechesi, momenti di adorazione e di preghiera, dibattiti sulle problematiche della vita sessuale dei giovani e sulle esigenze della fede per i cattolici di fronte alle avversità e alle sfide del mondo, hanno caratterizzato le giornate dal 2 al 5 agosto in cui si sono svolte anche visite turistiche, concorsi di arte culinaria e iniziative culturali. Ha rivolto un saluto ai giovani anche il ministro della Comunicazione, Alain Edouard Traoré che ha parlato a nome del presidente Blaise Compaoré invitando i giovani a una partecipazione responsabile alle elezioni legislative e municipali di dicembre. (T.C.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 222