RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno L n. 37  - Testo della trasmissione di lunedì 6  febbraio 2006

 

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

“Non dimenticare l’Africa”: Benedetto XVI si appella alla solidarietà verso il continente nel discorso ai vescovi della Repubblica Democratica del Congo, in visita ad Limina

 

“Il suo sangue versato diventi seme di speranza per costruire un’autentica fraternità tra i popoli”: così Benedetto XVI sulla morte di don Andrea Santoro, ucciso ieri mentre pregava nella sua chiesa di Trebisonda, in Turchia: con noi, mons. Luigi Padovese e mons. Vincenzo Paglia

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Elezioni presidenziali e parlamentari domani ad Haiti: ai nostri microfoni Emilia Ceolan

 

Appello di pace dei vescovi dell’Africa Occidentale francofona: con noi mons. Pascal N’Koué

 

Nei cinema italiani, il film “Persona non grata”, del regista polacco Zanussi

 

CHIESA E SOCIETA’:

La Chiesa ricorda oggi San Paolo Miki e compagni, martiri giapponesi. Subirono a Nagasaki il supplizio per avere annunciato il Vangelo

 

Oltre dieci milioni di giovani italiani dichiarano di essere cattolici

 

“Il catecumenato nella Chiesa in Italia”: è il tema del Convegno nazionale sulla catechesi per adulti che si è aperto oggi a Roma

 

Una scuola mobile su un bus per portare l’istruzione nelle aree più remote dello Stato di Goa, in India: è una iniziativa dei Salesiani

 

24 ORE NEL MONDO:

Continua a divampare nei Paesi islamici la rivolta contro le vignette blasfeme: attaccate altre ambasciate occidentali. Scontri in Afghanistan

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

6 febbraio 2006

 

 

“NON DIMENTICARE L’AFRICA”: BENEDETTO XVI SI APPELLA ALLA SOLIDARIETA’

VERSO IL CONTINENTE NEL DISCORSO AI VESCOVI DELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA

 DEL CONGO, IN VISITA AD LIMINA

 

Il mondo non dimentichi l'Africa e i vescovi africani, affiancati da tutti i credenti, siano i primi “profeti” della giustizia e della pace nel continente. E’ l’appello che Benedetto XVI ha lanciato questa mattina incontrando i vescovi della Repubblica Democratica del Congo, al termine della loro visita ad Limina. Nel suo discorso, il Papa ha parlato dell’inculturazione, del problema delle sette e dell’urgenza di difendere il vincolo matrimoniale e i giovani dai pericoli che ne mettono a rischio l’esistenza. Il servizio di Alessandro De Carolis.

 

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Azioni coraggiose, perché l’Africa non può vincere da sola la battaglia contro le miserie – dalla fame all’Aids – che la feriscono. E’ quasi un grido quello con cui Benedetto XVI sceglie di suggellare l’incontro con i vescovi di una delle nazioni-simbolo dell’instabilità africana – generata nel caso specifico dal lungo conflitto della regione dei Grandi Laghi – per richiamare la comunità internazionale al dovere della solidarietà. Quel “non dimenticare l’Africa” è quasi uno slogan che arriva dopo una disamina nella quale il Papa ha passato in rassegna luci e ombre della Chiesa e della società della Repubblica Democratica del Congo. Il primo invito è stato una sollecitazione a “tutti gli abitanti del Paese”, perché si mobilitino “per lavorare alla pace ed alla riconciliazione”, dopo gli anni di guerra che hanno fatto, ha detto il Papa, “specialmente nella vostra regione, milioni di vittime”. Che tutti, ha invocato, “siano difensori coraggiosi della dignità di ogni essere umano e testimoni audaci della carità di Cristo, per costruire una società sempre più giusta e più fraterna”.

 

Scendendo poi nel particolare della vita ecclesiale congolese, Benedetto XVI ha dedicato un primo pensiero all’inculturazione:

 

IL IMPORTE QUE VOUS POURSUIVIEZ LA TACHE EXIGEANTE…

“È importante che perseguiate il compito esigente del radicamento del Vangelo nella vostra cultura, rispettando i valori africani ricchi ed autentici, ma purificando tali valori da tutto ciò che potrebbe renderli incompatibili con la verità del Vangelo”.

 

Il Pontefice ha auspicato una “nuova vitalità” per l’Eucaristia e la Riconciliazione, Sacramenti in grado di rilanciare la vita spirituale ma anche collettiva dei fedeli. Cura della famiglia – la cui integrità è minata dall’emigrazione e dall’AIDS - istruzione civica, uso dei media nell’evangelizzazione sono stati alcuni altri temi toccati dal Papa nel suo intervento, nel quale ha ribadito che la Chiesa è impegnata, “secondo la sua vocazione propria”, ad “apportare un contributo specifico per il bene comune e per il consolidamento dello Stato di diritto”. Per ciò che concerne l’utilizzazione della radio e della tv nell’annuncio del Vangelo, Benedetto XVI ha riconosciuto uno specifico vantaggio:

 

GRACE A CES MOYENS, L’ÉGLISE…

“Grazie a questi mezzi, la Chiesa potrà compiere meglio il suo ministero profetico, in particolare per limitare l'azione delle sette, che utilizzano abbondantemente le tecnologie nuove per attirare e confondere i fedeli”.

 

Dopo aver parlato della “eminente dignità del matrimonio cristiano, unico ed indissolubile”, Benedetto XVI si è soffermato sulla “ricchezza” e la “vitalità dei giovani, indebolite però, ha riconosciuto , “dall'insicurezza dinanzi al futuro”, dalla “precarietà”, dalle “inquietanti devastazioni” provocate dall'AIDS. Il Papa, collegandosi all’auspicio iniziale, ha concluso affermando di condividere  il desiderio della Chiesa congolese “di vedere la riconciliazione e la pace trionfare” nel Paese in modo duraturo, specialmente “in tutta la regione dei Grandi Laghi”, grazie ad un’azione comune e “responsabile” dei governanti. Infine, la chiamata a raccolta della comunità internazionale “per non dimenticare l'Africa”. Una presenza che sia fatta di “azioni coraggiose e determinate” per consolidarne la stabilità politica ed economica.

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“IL SUO SANGUE VERSATO DIVENTI SEME DI SPERANZA PER COSTRUIRE UN’AUTENTICA FRATERNITÀ TRA I POPOLI”: COSI’ BENEDETTO XVI SULLA MORTE

DI DON ANDREA SANTORO, UCCISO IERI MENTRE PREGAVA

NELLA SUA CHIESA DI TREBISONDA, IN TUCHIA

- Con noi, mons. Luigi Padovese e mons. Vincenzo Paglia -

 

Un “coraggioso testimone del Vangelo della Carità”: così Benedetto XVI definisce don Andrea Santoro, il sacerdote del clero romano “fidei donum”, assassinato ieri in Turchia, nella località di Trebisonda. In due telegrammi, uno inviato al cardinale vicario Camillo Ruini e l’altro al vicario apostolico dell’Anatolia, mons. Luigi Padovese, il Papa deplora “ogni forma di violenza” e auspica che il sangue versato di don Andrea diventi “seme di speranza”. Ad uccidere il missionario sarebbe stato un adolescente, con due colpi di pistola. Il giovane avrebbe gridato “Allah è grande” prima di sparare al sacerdote, ucciso mentre pregava vicino all’altare della sua chiesa a Trebisonda. Il servizio di Alessandro Gisotti:

 

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Il suo sangue versato “diventi seme di speranza per costruire un’autentica fraternità tra i popoli”: nel momento del dolore, Benedetto XVI ha parole di speranza. Il Papa guarda al frutto che può nascere dall’esempio di quello che definisce “un coraggioso testimone del Vangelo della Carità”. Così scrive il Pontefice nel telegramma indirizzato al cardinale Ruini per la tragica scomparsa di don Andrea Santoro in cui assicura la vicinanza ai famigliari e in particolare all’anziana mamma di don Andrea. Nel telegramma al vicario apostolico dell’Anatolia, mons. Padovese, il Papa sottolinea invece come don Andrea svolgesse in Turchia con “generosità e zelo apostolico il ministero in favore del Vangelo e a servizio delle persone bisognose ed emarginate”. Quindi, esprimendo la sua vicinanza alla comunità cristiana dell’Anatolia, ribadisce la sua “ferma deplorazione per ogni forma di violenza”.

 

Una vita interamente dedicata a Cristo, al dialogo tra le religioni e le culture, alla reciproca comprensione tra i popoli. Questa è stata la parabola umana di don Andrea Santoro, un uomo innamorato della sua missione, che con le parole e i gesti ha davvero dimostrato che Dio è amore. Con questo spirito, sei anni fa, l’allora parroco della comunità romana di Santi Fabiano e Venanzio, chiese di poter partire alla volta della Turchia. Nei luoghi in cui, ha sottolineato lui stesso in un’intervista di pochi giorni fa a Roma Sette, “gli Apostoli furono impegnati in un’intensa attività di evangelizzazione, in cui prese corpo la Chiesa”. Qui, a Trebisonda sul Mar Nero, don Andrea - nato in provincia di Latina, 60 anni fa - ha speso l’ultima parte della sua vita come testimone del Vangelo. Ma in questa terra, don Andrea si è impegnato in modo instancabile per i deboli, gli indifesi. In particolare, ha aiutato tante ragazze cadute nell’inferno della prostituzione.

 

 “Con questo tragico evento – ha dichiarato il cardinale Camillo Ruini – si aggiunge un nuovo anello alla lunga catena dei sacerdoti romani che hanno versato il proprio sangue per il Signore”. Don Andrea, ha ricordato il porporato “aveva intensamente desiderato e insistentemente chiesto di poter lasciare Roma per l’Anatolia, per essere in quella terra testimone silenzioso e orante di Gesù Cristo”. La diocesi di Roma, pur nel grande dolore, ha detto ancora, “è orgogliosa di lui e ringrazia il Signore per questa fulgida testimonianza nell’umile certezza che da essa nascerà nuova vita cristiana”. Anche il presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, che stamani ha chiamato il cardinale Ruini, si è detto “addolorato e scosso” per l'assassinio di don Andrea.

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L’assassinio del missionario italiano è stato condannato dal premier turco Tayyip Erdogan. E sgomento e dolore sono i sentimenti che prevalgono in queste ora tra i cristiani dell’Anatolia. Giancarlo La Vella ha raggiunto telefonicamente in Turchia il vicario apostolico dell’Anatolia, mons. Luigi Padovese. Ecco la sua testimonianza:

 

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R. – Sembra che il motivo di fondo di questo omicidio, in chiesa, sia espressione di fanatismo, ecco. A Trebisonda, il rapporto che don Andrea aveva con la realtà religiosa presente musulmana era buono, anche l’anno scorso è stato lui stesso che mi ha portato dal muftì … quindi, probabilmente, si tratta di un esaltato. E’ difficile, adesso, sapere se si tratta di un atto isolato oppure se rientra in una strategia: questo forse lo vedremo in seguito.

 

D. – Questo drammatico episodio che cosa vi lascia, dentro?

 

R. – Ci lascia tutta l’amarezza di sapere che abbiamo perso un amico, un fratello ed un buon collaboratore, e al tempo stesso ci riconferma nella volontà di rimanere qui, in questa terra, che è così importante per noi cristiani. Questa è stata la terra dei martiri, nel passato, e sembra che oggi torni ad esserlo: questa è appunto la testimonianza più evidente che la morte di don Andrea ci lascia!

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Uomo di preghiera e di dialogo, don Andrea Santoro ha sempre vissuto con passione la sua fede. Tra quanti lo hanno conosciuto ed apprezzato fin da ragazzo, c’è mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni-Narni-Amelia, legato al sacerdote ucciso anche per l’impegno ecumenico ed interreligioso. Al microfono di Alessandro Gisotti, mons. Paglia ricorda con parole commosse la figura dell’amico don Andrea:

 

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R. – Con don Andrea ci conosciamo dagli anni del ginnasio; poi abbiamo fatto il liceo insieme, fino – appunto – all’ordinazione sacerdotale. La passione per l’evangelizzazione, man mano, in don Andrea, assumeva toni sempre più – per certi versi – robusti e irrequieti assieme, fino poi alla decisione di andare in Turchia. E lì, lui voleva vivere una testimonianza evangelica.

 

D. – Mons. Paglia, la vita di don Andrea ricorda in qualche modo quella di Charles de Foucauld, anche per questa fine tragica?

 

R. – Non c’è dubbio che questo stile di Charles de Foucauld l’abbia segnato fino alla morte, e a me fa piacere anche ricordarlo tra quelli che sono morti sull’altare, come mons. Romero: due colpi e uno di questi ha raggiunto il cuore. Come mons. Romero, vorrei dire, ha raggiunto non solo il cuore fisico ma il cuore spirituale di don Andrea, che era appunto quello della caparbietà e della tenacia dell’amore, dell’incontro, della prosecuzione dell’unica via possibile per la pace, che è poi l’unica via del Vangelo che è quella, appunto, di dare la propria vita non per distruggere l’altro, ma per amarlo. Se mi è permesso dire, don Andrea testimonia oggi che l’unica morte che ha senso non è quella dei kamikaze, non è quella delle guerre: l’unica morte che ha senso è quella che avviene perché si dà la vita per la salvezza, per la libertà degli altri, per l’amore degli altri.

 

D. – Don Andrea, proprio come lei, era un uomo votato al dialogo interreligioso. In questo senso, in un momento particolare come questo, forse c’è proprio bisogno di persone come lui?

 

R. – Direi proprio di sì. In questo, don Andrea ci mostra il proprium del cristianesimo. Ecco: don Andrea ci mostra che il Vangelo, e dare la vita – e dare la vita, la si può dare sia con il sangue, ovviamente, come è accaduto per lui, ma anche dare la vita per aiutare, per amare, per voler bene, per generare, per opporsi a tutto ciò che è violenza: ecco,dare la vita è quel proprium dell’amore cristiano che Papa Benedetto ci ha ricordato. Deus caritas est.

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Don Andrea era, dunque, un uomo del dialogo: voleva avvicinare mondi diversi, in particolare il Cristianesimo e l’Islam: voleva che si comprendessero di più. Ma senza dimenticare l’urgenza di portare il Vangelo nel mondo. Ecco cosa scriveva nell’ottobre dell’anno scorso in una lettera pubblicata sul sito “Finestra per il Medioriente”, iniziativa di cui don Andrea era curatore. Ce ne parla Sergio Centofanti:

 

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Europa e Medioriente: “chi mi avrebbe detto anni fa – scrive don Andrea -  che avrei unito nel mio cuore amori così distanti? chi mi avrebbe detto che avrei ‘portato in grembo’, come si dice di Rebecca, due ‘figli’ che ‘cozzano tra di loro’, pur essendo fratelli nello stesso Abramo? Una madre sa che i suoi figli non si dividono in lei anche se sono divisi tra loro. Così accade anche a me”. Don Andrea sente la necessità che questi due mondi possano capirsi davvero e scambiarsi le proprie ricchezze: a volte – scrive -  “ho l’impressione che questi mondi non si parlino in profondità, ma facciano come quelle coppie che parlano solo di spesa, di bollette, di mobili da spostare e di salute dei figli e si illudono di comunicare e invece diventano sempre più estranei. Europa e Medio Oriente (Turchia compresa, anche se è un caso a sé), Cristianesimo e Islam devono parlare di sé stessi … devono confrontarsi sull’immagine che hanno di Dio … del singolo individuo, della società,  … sul senso che danno al dolore e alla morte, su cosa voglia dire che i popoli sono molti ma l’umanità è una, che la terra è divisa in nazioni territoriali ma tutta intera è una casa comune”.

 

“Devono aiutarsi anzi a vicenda – scrive don Andrea -  a purificare il proprio passato e la propria memoria… Io credo che ognuno di noi dentro di sé possa diminuire la lontananza tra questi mondi. E’ a partire dallo sguardo di Cristo e dall’amore del Padre che lo ha inviato a tutti i suoi figli, che possiamo  riscoprire vicini quanti sentiamo lontani. Come Gesù ci portava tutti dentro di sé, sui peccati di tutti versava il suo sangue e tutti ci sentiva pecore dell’unico suo gregge così noi possiamo dilatare il nostro cuore. Questo non ci impedirà di annunciare chiaramente e per intero il Vangelo e di agire in totale conformità ad esso. Al contrario – scrive don Andrea -  ce lo farà sentire un debito e un dovere. Ma ce lo farà fare col cuore di Gesù sulla Croce, spalancato dall’amore e aperto dalla lancia, non con i sentimenti duri di chi ha sempre un avversario davanti.  Don Andrea parla di come procedono le cose nella piccola comunità cristiana di Trebisonda: siamo in una fase “tutta avvolta ancora nell’oscurità, in attesa che Dio ci indichi le sue vie”. E’ un tempo – scrive -  fatto “di umiltà nell’accettare la povertà di risorse, di persone, di strumenti, di capacità personali”. E’ un’attesa  “fatta di silenzio, di preghiera, di speranza, di intima disponibilità a quello che Dio vorrà…”

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ALTRE UDIENZE

 

Stamane il Papa ha ricevuto anche il cardinale Jean-Louis Tauran, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa con il padre Sergio Pagano, prefetto dell'Archivio Segreto Vaticano; inoltre ha ricevuto l’arcivescovo Paolo Romeo, nunzio apostolico in Italia e nella Repubblica di San Marino.

 

 

SECONDO INCONTRO DEL CONSIGLIO POSTSINODALE DEDICATO ALL’ANALISI

DELLE PROPOSIZIONI EMERSE DURANTE IL SINODO DEI VESCOVI SULL’EUCARISTIA

DELLO SCORSO OTTOBRE

- A cura di Alessandro De Carolis -

 

Il Consiglio ordinario della segreteria generale del Sinodo dei vescovi è tornato a riunirsi alla fine di gennaio per fare il punto dopo la grande assise di ottobre sull’Eucaristia. In un comunicato diffuso oggi, la segreteria del Sinodo, presieduta da mons. Nikola Eterović, riferisce dell’incontro di lavoro del 30 e 31 gennaio scorsi, il secondo dalla fine dell’XI Assemblea ordinaria sinodale che dal 2 al 23 ottobre 2005 riunì a Roma, alla presenza di Benedetto XVI, molte delle massime autorità della Chiesa mondiale per riflettere su “L’Eucaristia fonte della vita e della missione della Chiesa”.

 

Dopo un primo incontro avvenuto durante i giorni del Sinodo, la seconda riunione dei 15 membri del Consiglio postsinodale ha esaminato e inserito in una prima bozza schematica le proposizioni emerse dal Sinodo. Tale lavoro, una volta ultimato, fornirà al Papa un contributo che successivamente, come già annunciato dallo stesso Benedetto XVI, sarà “accolto ed elaborato in un documento pontificio”. Inoltre, il Consiglio, diviso in due gruppi di lavoro, ha riflettuto anche sulle innovazioni metodologiche – come gli interventi liberi - introdotte nell’ultimo Sinodo e “unanimemente apprezzate”. I membri del Consiglio ordinario torneranno ad incontrarsi il primo e il due giugno 2006.

 

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

Apre la prima pagina la notizia del barbaro assassinio di Padre Andrea Santoro in Turchia. Il telegramma di cordoglio di Benedetto XVI.

 

Servizio vaticano - Angelus: ogni vita umana, in quanto tale, - ha detto il Papa - merita ed esige di essere sempre difesa e promossa.

Il discorso del Santo Padre a Vescovi della Repubblica Democratica del Congo. "Condivido con voi la speranza - ha affermato il Papa - di vedere la riconciliazione e la pace trionfare nel vostro Paese e in tutta la regione dei Grandi Laghi".

L'omelia di Benedetto XVI durante la solenne Concelebrazione Eucaristica nella parrocchia di Sant'Anna in Vaticano.

 

Servizio estero - Per la rubrica dell' "Atlante geopolitico" un articolo di Giuseppe Maria Petrone dal titolo "Afghanistan: aiuti per la ricostruzione".

 

Servizio culturale - Un articolo di Marco Impagliazzo dal titolo "L' 'Europa culturale' di Giuseppe Vedovato": pubblicata la sua "Antologia quasi autobiografica".

 

Servizio italiano - In primo piano il tema della par condicio.

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

6 febbraio 2006

 

HAITI DOMANI ALLE URNE.

SI VOTA ANCHE PER LE PRESIDENZIALI,

DOPO LA CADUTA DI ARISTIDE NEL 2004

 

Ore di calma vigilata ad Haiti, dove domani si terranno cruciali elezioni generali che, dopo quattro rinvii per ragioni di sicurezza, puntano a donare un assetto democratico al Paese caraibico, a due anni esatti dalla caduta del capo di Stato Aristide, avvenuta nel febbraio 2004. Favorito alla sua successione è l’ex presidente René Preval, candidato della coalizione ‘L’Espwa’ (La Speranza). Oltre 3milioni e mezzo gli aventi diritto al voto. Polizia e forze ONU - tra l’altro non viste di buon occhio dalla popolazione - cercano di assicurare la normalità, ma la campagna elettorale, chiusasi ieri, è stata segnata dalle violenze. Un clima di tensione questo che è continuato ininterrotto dall’uscita di scena di Aristide. Al microfono di Giada Aquilino, ce lo conferma Emilia Ceolan, presidente del Movimento Laici America Latina, che ha progetti umanitari proprio ad Haiti:

 

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R. – E’ dalla caduta di Aristide che Haiti è attraversata dalle violenze, sia ad opera delle bande fedeli ad Aristide, sia da gente interessata a continuare l’esportazione della droga molto diffusa negli ultimi anni. Pare che il 25 per cento della droga dalla Colombia verso gli Stati Uniti passi per Haiti. Per cui la violenza non è solo di questi ultimi tempi.

 

D. – In che contesto sociale e umanitario avvengono queste elezioni?

 

R. – La condizione è la più tragica di tutto il continente latinoamericano. Solo la disoccupazione oscilla tra il 70 e l’80 per cento, la distruzione ambientale ha le stesse cifre, perché - non avendo fonti di energia - la gente cucina ancora a legna. Il problema è che i finanziamenti esteri oltre a preoccuparsi della democrazia e degli osservatori internazionali per le elezioni, dovrebbero anche occuparsi della miseria in cui versa il Paese, perché è questa che, in prima istanza, porta il caos.

 

D. – Dopo l’era Aristide, che cosa chiede la popolazione al nuovo presidente?

 

R. – Chiede sicuramente un miglioramento economico e la possibilità di portare avanti lo sviluppo del Paese, autonomo e sovrano.

 

D. – Qual è l’impegno del Movimento Laici America Latina ad Haiti?

 

R. – Noi abbiamo interventi in atto sia nella capitale Port-au-Prince sia al confine con la Repubblica Dominicana, in termini di iniziative per il cooperativismo che vanno dall’acqua alla luce, fino allo sviluppo agricolo. Speriamo di cominciare adesso un progetto co-finanziato dal Ministero italiano per gli affari esteri, di cui è partner anche il Jesuit Refugee Service, che ha come priorità i diritti umani degli haitiani, ma anche il rafforzamento istituzionale e la possibilità di sostenere lo sviluppo economico, soprattutto in ambito agricolo.

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A CONCLUSIONE DELLA PLENARIA DELLA CERAO, I VESCOVI DELL’AFRICA OCCIDENTALE FRANCOFONA LANCIANO UN APPELLO DI PACE PER IL CONTINENTE

- Intervista con mons. Pascal  N’Kouè -

        

Si è conclusa ieri ad Abidjan in Costa d’Avorio la plenaria della Conferenza Episcopale Regionale dell'Africa Occidentale francofona (CEREAO). L’incontro è stato dedicato a questioni riguardanti la liturgia, l’integrazione delle varie componenti ecclesiali, la testimonianza personale e comunitaria, il rafforzamento dell’impegno per la promozione della giustizia, della pace e dello sviluppo integrale dei Paesi africani. La plenaria ha quindi  rieletto presidente della CEREAO  l’arcivescovo di Dakar, in Senegal, mons. Théodore-Adrien Sarr. Nel messaggio finale della plenaria i  vescovi hanno lanciato un accorato appello di pace per l’Africa.  Sui contenuti dell’incontro di Abidjan ascoltiamo il vescovo di Natitingou, nel Benìn, mons.  Pascàl  N’Kouè. L’intervista è di padre Joseph Ballong:

 

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R. – Il contenuto essenziale del nostro incontro è stato quello della pace e della speranza per tutti i fedeli, per il popolo della Costa d’Avorio, che ne ha certo bisogno, forse più di altri, e per tutti i popoli dell’Africa. Sappiamo che l’Africa ha bisogno di pace, ma come ha detto il Santo Padre, Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono”. Per arrivare a questo perdono ci vuole molto amore. Ci siamo detti, dunque, che bisogna intensificare l’annuncio di Gesù Cristo che è Principe della pace, perché senza questa pace non possiamo andare avanti. C’è stato, dunque, un appello molto forte al perdono, alla riconciliazione, per poter arrivare alla pace, perché le popolazioni sono stanche, stanche dei conflitti, delle violenze e vogliono veramente la pace. Ecco perché anche noi vescovi stiamo rafforzando la nostra unità per poter promuovere l’unione di tutti i popoli in Africa sulla via del progresso e dello sviluppo.

 

D. - Non è la prima volta che i vescovi dell’Africa Occidentale lanciano un messaggio in favore della pace, ma i conflitti continuano. Pensate che questa volta i capi di Stato e tutti i protagonisti dei conflitti in Africa vi ascolteranno?

 

R. – La nostra speranza è che tutti ci ascoltino. La pace, però, è un impegno lungo. Cristo è la nostra pace. Dalla sua venuta, 2000 anni fa, la Chiesa cerca sempre di raggiungere questa pace che viene da Dio. Sappiamo, però, che è una strada lunga e difficile. Dobbiamo continuare, senza stancarci di lanciare degli appelli, perché il popolo non si addormenti e non si scoraggi.

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NEI CINEMA ITALIANI, IL FILM “PERSONA NON GRATA”, DOVE  IL REGISTA POLACCO

ZANUSSI OFFRE UNO SPACCATO SULL’ESSERE CITTADINO DELL’EST E DELL’EUROPA

DI OGGI, TRA IDEALI CROLLATI E AFFARI SPORCHI DELLA POLITICA E DELL’ECONOMIA

 

Il regista polacco Krzysztof Zanussi propone sugli schermi, con il suo nuovo film “Persona non grata”, da venerdì scorso nelle sale cinematografiche italiane, una nuova riflessione cinematografica sull’uomo, la sua natura e la società della nuova Europa, quella nata dagli sconvolgimenti del secolo scorso. Stile come sempre asciutto, storia tesa e intensa che coinvolge animi e cancella illusioni. Il servizio di Luca Pellegrini:

 

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Uomini, idee e vocazioni. I giorni della storia sono riletti da Krzysztof Zanussi con parsimonia narrativa, lucidità d’autore e disincanto d’artista nel suo Persona non grata, un film in cui riaffronta una vicenda di ideali crollati, affari sporchi e cuori infranti a Montevideo, in Uruguay, fuori e dentro la locale ambasciata polacca. Una specie di legal thriller introspettivo esportato a miglia di distanza, in quella “terra di nessuno” che sono gli “spazi” diplomatici ed in cui si sommano intrighi vari, paure incerte, pesantezze dell’essere, mezze e trafugate verità.

 

Essere cittadino dell’Est e dell’Europa oggi: individui e personalità generati dal comunismo prima e dal post-comunismo (e post-capitalismo) poi. Tentazioni mai sopite, rimpianti camuffati: sono questi gli stimoli dell’animo, sono queste le tensioni, forse oggi un poco demodé, rilevate da Zanussi, pretesto esplicito per riflettere il passato recente e il presente incerto della Polonia e, in fondo, del nostro inquieto Continente unito. Con un principale interrogativo etico di fondo, tipico del regista polacco: siamo frutto di quali scelte e di quali illusioni ideologiche, sociali, politiche e, forse, anche religiose? Nell’anno in cui si sono festeggiati i 25 anni di Solidarność, non è peregrina questa inquietudine sui ruoli svolti dai protagonisti della nostra recente storia.  L’ambasciatore Wiktor (intensa la recitazione di Zbigniew Zapasiewicz, attore amato anche da Wajda, Kieslowski e Skolimowski) rende esplicite tutte queste dimensioni moderne dell’essere: nobile nell’anima e depresso nello spirito, non riesce a convivere con la nuova economia, la nuova politica, la nuova storia, i nuovi europei. I nuovi amici e nemici che si scambiano ruoli, modi e mete. E’ estremamente dolente, la sua figura, tanto quanto è irruente quella di Oleg, vice ministro russo, un magistrale Nikita Mikhalkov, adeguatosi totalmente ai tempi, appunto nuovi, del nuovissimo mondo. Il rapporto tra loro, le loro origini ed i loro ruoli, finirà con una parziale redenzione e un parziale fallimento. Scoprendo che si può essere “non grati” sia per natura sia per destino.

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CHIESA E SOCIETA’

6 febbraio 2006

 

LA CHIESA RICORDA OGGI SAN PAOLO MIKI E COMPAGNI.  MARTIRI GIAPPONESI,

SUBIRONO A NAGASAKI IL SUPPLIZIO PER AVERE ANNUNCIATO IL VANGELO

- A cura di Tiziana Campisi -

 

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ROMA. = È stato il primo giapponese accolto in un ordine religioso cattolico, quello dei Gesuiti. Nato a Kyoto nel 1556, Paolo Miki, conosceva bene le religioni orientali ed aveva aperto un buon dialogo con dotti buddhisti. Grazie alla sua predicazione i cristiani in Giappone divennero decine di migliaia e nel 1582-84, per la prima volta, una delegazione giunse a Roma, autorizzata dallo Shogun Hideyoshi, e lietamente accolta da papa Gregorio XIII. Ma temendo che il cristianesimo potesse compromettere l’unità nazionale, già indebolita dai feudatari, a causa del comportamento offensivo e minaccioso di marinai cristiani (spagnoli) arrivati in Giappone, e di gravi dissidi tra missionari di vari ordini in terra giapponese, Hideyoshi capovolse la politica verso i cristiani dando vita a spietati eccidi. Una prima persecuzione locale coinvolse proprio Paolo Miki. Arrestato nel dicembre 1596 a Osaka, trovò in carcere tre gesuiti e sei francescani missionari, con 17 giapponesi terziari di San Francesco. Insieme a loro venne crocifisso su un’altura presso Nagasaki. “Il nostro fratello Paolo Miki, vedendosi innalzato sul pulpito più onorifico che mai avesse avuto, per prima cosa dichiarò ai presenti di essere giapponese e di appartenere alla Compagnia di Gesù, di morire per aver annunziato il Vangelo e di ringraziare Dio per un beneficio così prezioso”. È quanto si legge nella «Storia del martirio dei santi Paolo Miki e compagni», (Cap. 14, 109-110; Acta Sanctorum Febr. 1, 769) che riporta anche le ultime parole del santo: «Giunto a questo istante, penso che nessuno tra voi creda che voglia tacere la verità. Dichiaro pertanto a voi che non c'è altra via di salvezza, se non quella seguita dai cristiani. Poiché questa mi insegna a perdonare ai nemici e a tutti quelli che mi hanno offeso, io volentieri perdono all’imperatore e a tutti i responsabili della mia morte, e li prego di volersi istruire intorno al battesimo cristiano». Nell’anno 1846, a Verona, un seminarista quindicenne lesse il racconto di questo supplizio e ne ebbe la prima forte spinta alla vita missionaria: era Daniele Comboni, futuro apostolo della “Nigrizia”, alla quale dedicherà vita e morte. Paolo Miki è stato proclamato Santo da Papa Pio IX nel 1862.

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OLTRE DIECI MILIONI DI GIOVANI ITALIANI DICHIARANO DI ESSERE CATTOLICI.

LO RIVELA UN’INDAGINE PROMOSSA DAL CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE

 

ROMA. = Sono più di 10 milioni i giovani che dichiarano di aderire alla religione cristiana cattolica. Circa il 70 per cento, dunque, della popolazione giovanile nazionale. Ma nell’ultimo decennio la frequenza della Messa tra i giovani italiani si è ridotta. Il dato emerge dalla ricerca promossa dal Centro di Orientamento Pastorale (COP) e realizzata dall’Istituto IARD, presentata questa mattina nella sede della Radio Vaticana a Roma, da mons. Domenico Sigalini, presidente del COP, e da Riccardo Grassi dello IARD. L’indagine ha coinvolto, in tutta Italia, un campione di 3.000 giovani tra i 15 e i 34 anni. Nel 2004 la percentuale dei giovani che frequentano le chiese è scesa dal 25 per cento, registrato nel 1992, al 17 per cento. Si dichiarano cattolici il 73 per cento delle giovani donne, contro il 66 degli uomini. I cattolici sono più numerosi nelle regioni del Sud (80 per cento), mentre la percentuale più bassa si registra nel centro Italia (59 per cento). La ricerca mette in luce le differenti modalità di vivere le pratiche e l’appartenenza religiosa. I giovanissimi sono i più assidui frequentatori delle funzioni religiose (il 28 per cento dei 15-17enni dichiara che, nel corso degli ultimi sei mesi – il dato si riferisce al momento dell’indagine – ha assistito ad una funzione religiosa “tutte le settimane”). Consuetudine assai diffusa la preghiera individuale: un ragazzo italiano su cinque prega tutti i giorni, uno su tre “a volte, senza continuità” e uno su quattro non prega mai. È la mamma, per lo più, a trasmettere la fede ai figli. Il 37 per cento degli intervistati considera la propria madre la figura più significativa per la maturazione del proprio credo. Sulla base delle risposte fornite dagli intervistati, l’istituto IARD ha individuato undici diversi modi di vivere la dimensione religiosa da parte dei giovani, sicchè si può parlare di: agnostici, non credenti, coloro che credono solo in un dio generico, minoranze religiose, cristiani generici, cattolici lontani, cattolici occasionali, cattolici ritualisti, cattolici intimisti, cattolici moderati, cattolici ferventi. Parte della ricerca è dedicata all’analisi dell’influenza che la religione esercita sulle scelte e sui comportamenti quotidiani. In una società fortemente secolarizzata, tra i giovani italiani si registra una “scissione tra ambito religioso e ambito non religioso”: il primo è ridotto sempre più ad una generica dimensione morale e alla frequenza di riti la cui collocazione spazio-temporale è ben delineata. I giovani religiosi di fronte ad una situazione concreta fanno riferimento a modelli pragmatici di stile laico, fortemente accattivanti e immediatamente spendibili, che richiedono un minore impegno nella rielaborazione e nell’applicazione al caso particolare dei principi generali fondanti il proprio credo. (T.C.)

 

 

IL CATECUMENATO, NECESSITÀ INDEROGABILE PER IL CREDENTE:

È QUANTO HA SOTTOLINEATO STAMANI, A ROMA, IL SEGRETARIO GENERALE DELLA CEI, MONS. GIUSEPPE BETORI, ALL’APERTURA DEL CONVEGNO NAZIONALE

SULLA CATECHESI PER ADULTI

 

ROMA.= “Il servizio catecumenale (cioè la formazione di adulti che tornano alla vita cristiana) è una necessità inderogabile per il credente, perché risponde all’esigenza intrinseca alla fede di essere comunicata”. Con queste parole – rileva l’Agenzia SIR -  mons. Giuseppe Betori ha aperto oggi a Roma, nella Casa Bonus Pastor, il Convegno nazionale “Il Catecumenato nella Chiesa in Italia” sul ritorno degli adulti alla fede, promosso da CEI, dalla diocesi di Roma e dall’Istituto “Ecclesia Mater” dell’Università Lateranense. “Il catecumenato è un dono alla nostra vita – ha proseguito mons. Betori – occasione di nuova fecondità della Chiesa, e non certo un rifugio in un clima di rassegnazione in un tempo di crisi”. Il catecumenato, ha aggiunto il segretario generale della CEI, impegna e richiede sinergie per rispondere alla dinamica del processo della fede, con la testimonianza aperta, l’ardore missionario, la creatività e la costanza. Rivolgendosi ai rappresentanti di 55 diocesi mons. Betori ha ricordato che la proposta del catecumenato “deve assumere un profilo di comunione, apertura teologica e culturale, per uscire dai ghetti”. Occorre quindi “ sensibilizzare la comunità ecclesiale perché non sia spettatrice ma madre e testimone di fede nell’accogliere chi ritorna alla fede”. Nella giornata di domani gli interventi dei relatori sottolineeranno l’importanza della parrocchia come luogo della maturazione cristiana, mentre mons. Lorenzo Chiarinelli, vescovo di Viterbo, evidenzierà il culmine del processo di iniziazione al mistero pasquale e la risurrezione del cristiano alla vita divina in Cristo. (A.E.)

 

 

UNA SCUOLA MOBILE SU UN BUS PER PORTARE L’ISTRUZIONE NELLE AREE PIÙ REMOTE DELLO STATO DI GOA, IN INDIA. È IL PROGETTO LANCIATO DAI SALESIANI DI KONKAN, IN COLLABORAZIONE CON IL GOVERNO, NELL’AMBITO DEL CENTENARIO DELL’ARRIVO

DEI SEGUACI DI DON BOSCO NEL PAESE

 

NUOVA DELHI.= Via, nello Stato di Goa, nell’India occidentale, ad una scuola mobile allestita su un bus. Il progetto, che prevede la possibilità di raggiungere le zone dove il tasso di analfabetismo è altissimo, è stato lanciato dai salesiani di Konkan, per celebrare il centenario dell’arrivo dei seguaci di don Bosco in India. In collaborazione con il governo, i religiosi si sono fatti promotori, di una iniziativa che non ha precedenti nel Paese. La scuola, destinata a ragazzi di età compresa fra i 5 e i 14 anni, è un autobus adibito ad aula e dotato di tutti gli strumenti didattici basilari. Muovendosi da un luogo all’altro, scrive l’agenzia salesiana Ans, raccoglie ad ogni fermata circa una ventina di bambini che per due ore al giorno beneficiano di lezioni. Al termine dell’anno scolastico, tutti coloro che avranno seguito assiduamente i corsi riceveranno un riconoscimento governativo che permetterà loro di iscriversi alle scuole superiori. (A.E.)

 

 

 

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24 ORE NEL MONDO

6 febbraio 2006

 

 

- A cura di Amedeo Lomonaco -

 

Non si placano le proteste innescate dalla pubblicazione di vignette satiriche su Maometto prima in Danimarca, poi in Norvegia e, successivamente, anche in altri Paesi. Manifestazioni di protesta si sono tenute oggi in Iran, dove poco fa i dimostranti hanno cercato di attaccare l’ambasciata austriaca a Teheran, in Indonesia e nei Territori Palestinesi. Ma l’episodio più grave è avvenuto a Mih-tarlan, città dell’Afghanistan orientale. Il nostro servizio:

 

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In Afghanistan due persone sono morte quando una violenta manifestazione è degenerata in una sparatoria. Un agente ha riferito che ad aprire il fuoco sono stati ribelli talebani e militanti di Al Qaeda. In Indonesia, il più grande Paese musulmano al mondo, centinaia di persone si sono radunate a Giakarta davanti all’ambasciata danese, chiedendo le scuse dal governo di Copenhagen. Nei Territori Palestinesi, decine di giovani hanno nuovamente attaccato, stamani, l’ufficio di rappresentanza dell’Unione Europea a Gaza. Poco dopo, manifestanti palestinesi hanno assaltato un centro di cultura francese a Nablus. In Libano, il ministro dell’Interno, Hassan Sabeh, ha rassegnato le dimissioni dopo le dure proteste di ieri a Beirut. Il governo libanese si è scusato, inoltre, con la Danimarca per l’incendio doloso divampato nella sede del consolato danese e costato la vita ad un manifestante. Diversi parlamentari libanesi hanno anche accusato la Siria di essere coinvolta nei tumulti scoppiati, ieri, in un quartiere cristiano di Beirut. Dopo queste violente proteste, il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha rivolto un nuovo invito alla moderazione: “Il risentimento - ha detto - non può giustificare la violenza”. Kofi Annan ha anche chiesto a governi, autorità religiose e civili di fare tutto il possibile per ridurre la tensione ed evitare azioni o dichiarazioni che possano ulteriormente esasperare gli animi. Il ministro svedese degli Esteri, Laila  Freivalds, ha chiesto un‘azione comune di Unione Europea e mondo arabo per porre fine alle violenze e sviluppare una cooperazione più stretta. Un appello congiunto è stato lanciato, infine, dal primo ministro turco, Recep Erdogan, e dal premier spagnolo, José Luís Zapatero. Le proteste – ha detto Erdogan – fanno il gioco di chi cerca “lo scontro fra civiltà”.

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L’Iran ha comunicato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) di volere avviare l’arricchimento dell’uranio su scala industriale. Lo ha detto poco fa il capo negoziatore iraniano sul nucleare, Ali Lariani, aggiungendo che per far partire le operazioni bisognerà aspettare l’arrivo, nei prossimi giorni,  degli ispettori dell’agenzia delle Nazioni Unite.

 

Nuovo stop di Israele al trasferimento delle somme dovute all’Autorità Nazionale Palestinese per le rimesse sulle imposte doganali. Il primo ministro ad interim, Ehud Olmert, ha annunciato che non saranno versati fondi a un governo palestinese guidato da leader di Hamas. Ieri il ministro israeliano per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale, Zeev Boim, aveva annunciato, invece, la decisione di scongelare circa 55 milioni di dollari di rimesse fiscali. Sul terreno, un ennesimo raid aereo israeliano a Gaza ha causato ieri pomeriggio la morte di due estremisti palestinesi. Continuano, intanto, ad essere “gravi e stazionarie” le condizioni di salute del premier israeliano Ariel Sharon, colpito lo scorso 4 gennaio da una grave emorragia cerebrale. Il quotidiano israeliano “Haaretz”, citando fonti mediche, rivela che Sharon si trova in “coma vegetativo”. Secondo il giornale, sono “esigue” le speranze che il premier possa riprendere conoscenza.

 

Nuovi sospetti casi di influenza aviaria: sette persone sono state ricoverate nel Kurdistan iracheno. Lo ha reso noto una rappresentante dell’Organizza-zione Mondiale della Sanità in Iraq. Secondo il funzionario delle Nazioni Unite, si tratterebbe del virus H5N1, il ceppo più letale per gli uomini che ha ucciso almeno 85 persone a partire dal 2003.

 

Almeno tre persone, due poliziotti e un paramilitare, sono state uccise a colpi di arma da fuoco nel sud della Thailandia, zona a maggioranza musulmana. Si tratta dell’ultimo episodio di un’offensiva, iniziata il mese scorso, da fondamentalisti islamici.

 

In Egitto, i familiari delle vittime del naufragio avvenuto nel Mar Rosso venerdì scorso hanno assaltato e devastato gli uffici della compagnia marittima egiziana proprietaria della nave affondata probabilmente in seguito ad un incendio divampato a bordo. L’ultimo bilancio fornito dalle autorità egiziane su questa sciagura, parla di 185 morti, 426 superstiti, e di circa mille dispersi. Sono una trentina le persone tratte in salvo nelle ultime ore. Tra i superstiti, anche un bambino di 5 anni.

 

Ancora una tragedia in mare: almeno 23 persone sono morte al largo di Gibuti per il naufragio di una imbarcazione che trasportava immigrati clandestini. Lo ha annunciato la polizia di Gibuti precisando che la barca è affondata nella notte tra giovedì e venerdì per cause ancora sconosciute.

 

Prende il via oggi negli Stati Uniti il primo processo per gli attentati dell’11 settembre 2001. Una corte di giurati, scelta dopo una lunga fase, dovrà sentire Zacarias Moussaoui un francese di origini marocchine che ha ammesso di essere un terrorista. L’uomo, arrestato nell’agosto del 2001 in Minnesota, rischia l’ergastolo o la condanna a morte.

 

Prosegue il serrato testa a testa fra i due principali candidati delle elezioni presidenziali tenutesi ieri in Costa Rica: dopo lo spoglio di oltre l’80 per cento delle schede, l’ex presidente e premio Nobel per la Pace, Oscar Arias, ha ottenuto il 40,62 per cento dei voti. Il suo principale sfidante, l’economista Ottón Solís ha conquistato, invece, il 40,19 per cento dei consensi smentendo i sondaggi che prevedevano un distacco più ampio. Il servizio di Maurizio Salvi:

 

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Dopo che il tribunale supremo delle elezioni ha cominciato a diffondere i risultati ufficiali, si è visto che Ottón Solís, economista proposto dal partito “Azione cittadina”, otteneva molto di più delle previsioni della vigilia. Vero protagonista del voto, inoltre, è stata l’astensione, che è nuovamente cresciuta, passando dal 31 per cento delle presidenziali del 2002 al 35 per cento di ieri. Secondo gli analisti, questo è dovuto alla campagna dei media che hanno dato Arias come sicuro vincitore e ad un rigetto della politica tradizionale a causa della corruzione che ha coinvolto, negli ultimi anni, due presidenti della Repubblica. Un terzo, pure inquisito, si è prudentemente trasferito in Europa. Gli analisti si chiedono infine che cosa succederà in base a questi risultati del “CAFTA”, il Trattato di Libero commercio tra il Centroamerica e gli Stati Uniti, osteggiato da movimenti e organizzazioni sociali costaricani e che fino ad oggi il parlamento di San José non aveva voluto ratificare.

 

Dall’America Latina, Maurizio Salvi, ANSA, per la Radio Vaticana.

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Ucciso per aver scritto un articolo: è morto per le percosse di un gruppo di poliziotti il vicedirettore di un giornale della Cina orientale. Lo ha annunciato, sotto anonimato, uno dei colleghi della vittima precisando che il decesso è avvenuto giovedì scorso. L’agenzia di stampa cinese “Xinhua” ha riferito che il giornalista è stato arrestato il 20 ottobre. Pochi giorni prima, era stata pubblicato un suo articolo nel quale si accusava la polizia stradale della città di Taizhou di aver imposto arbitrariamente una pesante imposta ai possessori di motorini.

 

 

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