RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno L  n. 364 - Testo della trasmissione di sabato 30 dicembre 2006

 

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

“Una notizia tragica”: la Chiesa è contraria alla pena di morte anche quando si tratta di una persona colpevole di gravi delitti. Così il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha commentato l’esecuzione di Saddam Hussein, avvenuta stamane a Baghdad. Ai nostri microfoni, il cardinale Renato Raffaele Martino ribadisce: la Chiesa difende sempre la vita

 

Domani la Chiesa celebra la Festa della Santa Famiglia: ce ne parla suor Ottavina Bressanin

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Le reazioni del mondo all’esecuzione di Saddam Hussein: secondo gli USA è “un atto di giustizia”, secondo l’UE è un atto “barbaro” pur riconoscendo gli “orribili crimini” da lui commessi. Tensione nel Paese: le proteste si alternano a scene di giubilo.  Autobomba a Kufa: oltre 30 i morti. Interviste con l’arcivescovo Jean Benjamin Sleiman e con Kaled Fouad Allam

 

L’agenzia Fides pubblica il Martirologio della Chiesa: nel 2006 sono stati uccisi 24 missionari

 

Il commento di padre Rupnik al Vangelo di domani

 

CHIESA E SOCIETA’:

Gravemente danneggiata da un incendio, in Lituania, la celebre “Collina delle croci”. Fu visitata da Giovanni Paolo II nel 1993

“Sacrifici, disciplina e unità sono le strade per una pace duratura”: così, il cardinale Gaudencio Rosales, arcivescovo di Manila, nelle Filippine, nel suo messaggio per il nuovo anno

 

Pubblicata, in Guatemala, la prima traduzione completa della Bibbia in kektchi’, una delle 23 lingue indigene parlate nel Paese centroamericano

 

Dopo dieci anni, torna la ‘febbre della Rift Valley’ nel Nordest del Kenya: 37 finora i morti

 

Nel 2006, 31 mila immigrati hanno raggiunto le Isole Canarie e, tra questi, almeno 6 mila sono morti nel tentativo di raggiungere le coste spagnole

 

Sono in Asia le città più inquinate del mondo, con tassi che superano di 5-6 volte il livello massimo consigliato dall’OMS

 

24 ORE NEL MONDO:

Affonda un traghetto in Indonesia: i dispersi sarebbero 500

 

Autobomba dell’ETA all’aeroporto di Madrid provoca alcuni feriti e un disperso: i separatisti baschi rompono la tregua

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

30 dicembre 2006

 

UNA NOTIZIA TRAGICA: LA CHIESA E’ CONTRARIA ALLA PENA DI MORTE ANCHE QUANDO SI TRATTA DI UNA PERSONA COLPEVOLE DI GRAVI DELITTI.

COSI’ IL PORTAVOCE VATICANO PADRE FEDERICO LOMBARDI HA COMMENTATO L’ESECUZIONE DI SADDAM HUSSEIN AVVENUTA STAMANE A BAGHDAD.

AI NOSTRI MICROFONI IL CARDINALE MARTINO RIBADISCE:

LA CHIESA DIFENDE SEMPRE LA VITA

 

“Una notizia tragica” che non ricostruisce la giustizia e rischia di provocare nuove violenze e vendette. Così la Santa Sede, attraverso il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha espresso la propria posizione sull’esecuzione di Saddam Hussein, avvenuta all’alba a Baghdad. Ascoltiamo le parole di padre Lombardi:

 

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Una esecuzione capitale è sempre una notizia tragica, motivo di tristezza, anche quando si tratta di una persona che si è resa colpevole di gravi delitti. La posizione della Chiesa cattolica – contraria alla pena di morte – è stata più volte ribadita. L’uccisione del colpevole non è la via per ricostruire la giustizia e riconciliare la società. Vi è anzi il rischio che al contrario si alimenti lo spirito di vendetta e si semini nuova violenza. In questo tempo oscuro della vita del popolo iracheno non si può che auspicare che tutti i responsabili facciano veramente ogni sforzo perché in una situazione drammatica si aprano infine spiragli di riconciliazione e di pace.

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E sull’esecuzione di Saddam Hussein ecco quanto ci ha detto il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace:

 

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Avevo sperato nei giorni scorsi che si fosse giudicato opportuno non eseguire la pena capitale per Saddam Hussein. Spero e prego che quest’ultimo atto non contribuisca ad aggravare la già critica situazione in Iraq, Paese già così provato da tante divisioni e lotte fratricide.

 

La pena di morte, come insegna l’Enciclica Evangelium vitae, va evitata “in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l’ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi” (N.27).

 

E’ ben conosciuta la posizione della Chiesa sul dono della vita di cui l’uomo non ha completa disponibilità e che va difesa dal momento del concepimento fino alla sua fine naturale. Tale posizione esclude quindi tanto l’aborto, quanto la sperimentazione sugli embrioni, l’eutanasia e la pena di morte, che sono una negazione della trascendente dignità della persona umana creata a immagine di Dio.

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DOMANI LA FESTA DELLA SANTA FAMIGLIA DI NAZARET,

 ESEMPIO STRAORDINARIO DI SANTITA’ PER LE FAMIGLIE DI OGGI.

IL PAPA, DOPO L’ANGELUS,

VISITERA’ NELLA SERATA IL PRESEPE DI PIAZZA SAN PIETRO

- Intervista con madre Ottavina Bressanin -

 

Domani, ultimo giorno dell’anno, la Chiesa celebra la Festa della Santa Famiglia. Dopo l’Angelus, il Papa visiterà, in serata, il Presepe di Piazza San Pietro. Fin dall’inizio del suo Pontificato, Benedetto XVI ha dedicato grande attenzione alla famiglia. Nell’anno che si sta per concludere, si ricorda in particolare il suo discorso ai parlamentari del Partito Popolare Europeo nel quale sottolineò che la difesa della famiglia fondata sul matrimonio è un principio non negoziabile. E, ancora, l’incontro mondiale di Valencia dove Benedetto XVI ha proposto la bellezza della famiglia cristiana quale risposta al secolarismo che avanza in Occidente. Sul significato della  Festa della Santa Famiglia, Giovanni Peduto ha raccolto la riflessione della madre Ottavina Bressanin, per due mandati superiora generale della Congregazione delle Suore della Sacra Famiglia di Spoleto e attualmente responsabile dell’Istituto Nazareno di Spoleto, retto dalle stesse religiose:

 

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R. - La festa della Santa Famiglia presenta al mondo d’oggi un tipo di famiglia che sembra irraggiungibile per la sua straordinarietà e santità, ma ogni famiglia può trovare in essa un modello da imitare, giacché anche la Santa Famiglia ha vissuto gli aspetti delle famiglie di oggi: gioie e dolori, incertezze e timori, persecuzioni ed esilio, ma tutto con grande fede e adesione totale al progetto di Dio, anche se misterioso ed incomprensibile. Il messaggio che viene da questa festa è a mio avviso racchiuso nel discorso di Paolo VI tenuto a Nazareth: “A questa scuola comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo ed essere discepoli di Cristo”.

 

D. - Come le famiglie di oggi possono farsi aiutare dalla Santa Famiglia?

 

R. - Le famiglie di oggi possono trovare nella Santa Famiglia un modello da imitare, nel vivere con fede e fiducia la propria vocazione e la propria missione, affrontando insieme le molteplici difficoltà e collaborando nell’educazione cristiana dei propri figli, favorendo la loro crescita umana, culturale e spirituale per una libera realizzazione del loro essere. Oggi più che mai la cellula familiare è particolarmente in pericolo. Il Beato Pietro Bonilli, nostro fondatore, diceva: “Solo invocando l’aiuto di Gesù, Maria e Giuseppe, la famiglia può resistere alle tante minacce”.

 

D. - Cosa ci dice oggi la figura di San Giuseppe?

D. - San Giuseppe è per ogni padre un modello da imitare, per la sua totale adesione al progetto di Dio pur nella difficoltà a comprenderlo. E’ l’uomo del silenzio, del lavoro, è colui che nonostante i dubbi, si fidò delle parole dell’angelo: “Non temere, Giuseppe”, e da quel momento svolse con fiducia, umiltà, operosità il grande compito di sposo e di padre collaborando così al mistero della Salvezza.

 

D. - L’umiltà, la docilità, il totale affidamento di Maria sono un esempio per tutti noi…

 

R. - L’umiltà, la docilità e la totale fiducia nel piano di Dio, sono le peculiari qualità di Maria che emergono dal fiat dell’Annunciazione, fino sotto la Croce, dove Gesù la dichiara Madre dell’umanità. E’ un modello in cui tutti dobbiamo specchiarci perché in Lei si ricapitolano tutte le virtù a cui ogni persona può tendere. Per cui, affidarsi a Lei è il modo migliore per avere la Sua protezione e per seguire il Suo esempio.

 

D. - Gesù cresceva in età, grazia e sapienza… Cosa significa?

 

R. – Gesù, pur essendo Dio, vive i ritmi di crescita di ogni essere umano. Con lo scorrere degli anni della sua vita terrena entra gradualmente nella profondità della sua missione divina e umana. Oggi i nostri giovani sono ricchi di tante nozioni ma tanto poveri di valori, da non conoscere il vero senso della vita. Hanno bisogno di testimoni e di guide sicure. E’ pertanto per ogni famiglia un richiamo al dovere di aiutare i figli a crescere nella dimensione umana, spirituale e nella conoscenza di Dio.

 

D. - Veniamo al vostro istituto: qual è il vostro carisma?

 

R. - Il nostro fondatore, il Beato Pietro Bonilli, fin dagli anni della sua formazione fu “soavemente attratto dal mistero dell’Incarnazione del figlio di Dio nato in una famiglia umana”. E’ la chiara dimostrazione della grande importanza della famiglia. Nella Famiglia di Nazareth egli vide un modello per tutte le famiglie. Illuminato da questo mistero, fonda l’Istituto delle Suore della Sacra Famiglia di Spoleto dando a noi sue suore una chiara indicazione sull’essere e sull’agire. Il nostro mandato è quello di diffondere l’amore alla Santa Famiglia in tutte le parti del mondo ove siamo presenti, farla conoscere, amare, imitare da tutti. Il nostro carisma si riassume in questa espressione: essere, dare, costruire famiglia per tutti coloro che sono più deboli, svantaggiati, diversamente abili, nello stile dell’accoglienza e del calore umano, che regnava nella Famiglia di Nazareth.

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

Apre la prima pagina il titolo “Una forza mite e reale custodita nel cuore umano”: al volgere dell’anno risuona vibrante l'appello rivolto da Benedetto XVI ai potenti della Terra nel Messaggio per la Giornata della pace, che si celebra il primo gennaio 2007.

 

Servizio vaticano - Due pagine dedicate ai testimoni della fede uccisi nel 2006.

 

Servizio estero - In evidenza l'Iraq: eseguita, per impiccagione, la condanna a morte di Saddam Hussein.

 

Servizio culturale - Un articolo di Franco Patruno dal titolo “La sintesi plastica di Arturo Martini”: in mostra a Milano le opere dello scultore che ha influenzato l’intera arte italiana nella prima metà del Novecento.

 

Servizio italiano - In rilievo il tema delle ferrovie.  

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

30 dicembre 2006

 

 

LE REAZIONI DEL MONDO ALL’ESECUZIONE DI SADDAM HUSSEIN:

 SECONDO GLI STATI UNITI E’ “UN ATTO DI GIUSTIZIA”, 

SECONDO L’UE E’ UN ATTO “BARBARO”

  PUR RICONOSCENDO GLI “ORRIBILI CRIMINI” DA LUI COMMESSI

- Interviste con l’arcivescovo Jean Benjamin Sleiman e con Kaled Fouad Allam -

 

La tv irachena ha trasmesso le immagini dell'esecuzione di Saddam Hussein: l'ex presidente iracheno vestito con un cappotto blu e una camicia bianca entra in una stanza scortato da alcuni uomini che hanno il volto coperto da un cappuccio nero. E mentre, in prima mattinata, la notizia dell’esecuzione faceva il giro del mondo, nella città sciita di Kufa un’autobomba uccideva 35 persone e l’attentatore veniva linciato a morte dalla folla. Nella sunnita Ramadi, scontri tra uomini armati e soldati americani facevano seguito a manifestazioni di protesta  contro l'esecuzione. Poi in fine mattinata due autobomba hanno sconvolto la capitale Baghdad. Ma  a parte le manifestazioni di piazza, che ci sono state anche in Michigan, negli Stati Uniti, da parte della locale comunità irachena, delle reazioni del mondo all’esecuzione di Saddam ci parla nel servizio Fausta Speranza:

 

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“Saddam Hussein é stato giustiziato dopo aver ricevuto un processo equo”: è quanto si legge nella dichiarazione del presidente degli Stati Uniti, Bush, resa pubblica qualche ora dopo la notizia dell’esecuzione, che ha colto il presidente USA nel sonno. Soddisfazione, dunque, per quello che Bush definisce “un atto di giustizia”. Prevale, invece, la preoccupazione in altri commenti come quello della Russia: l’esecuzione “può portare all'aggravamento della situazione  militare e politica in Iraq e alla crescita della tensione etnico confessionale”, dice il portavoce del ministero degli Esteri russo, Mikhail Kamynin. Anche l'Iran giudica che vi potrà essere un aumento della violenza, prevedendo tuttavia che il fenomeno non sarà duraturo. In generale, sulle violenze tra sunniti e sciiti in Iraq, il  vice ministro iraniano afferma che sono il risultato delle “politiche sataniche di Saddam, adottate su consiglio degli americani”. L'Iran, però, saluta l'esecuzione dell'ex presidente iracheno come  “una vittoria degli iracheni”.

 

La notizia dell'esecuzione di  Saddam Hussein é stata accolta con cordoglio nei Territori palestinesi. A Jenin, nel nord della Cisgiordania, sono state esposte in diverse case e negozi, in segno di lutto, fotografie dell’ex-dittatore iracheno molto popolare tra i palestinesi per il suo aperto sostegno alla loro causa e per aver colpito le città israeliane con i suoi missili scud durante la guerre nel Golfo  nel 1991. In Israele, la notizia dell’esecuzione di Saddam Hussein ha avuto grande rilievo. Secondo una fonte governativa ad alto livello, che ha chiesto di restare anonima, “giustizia è stata fatta”.

 

Dal Medio Oriente c’è poi la reazione del movimento islamico Hamas che parla di  “assassinio politico” che “viola tutte le leggi internazionali”. Per quanto riguarda l’Unione Europea, le prime reazioni sono di condanna: il commissario allo sviluppo e agli aiuti umanitari, Louis Michel, definisce l'impiccagione dell'ex rais un atto “barbaro”, pur riconoscendo gli “orribili crimini” da lui commessi. L’alto rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, Javier Solana “condanna i crimini commessi da Saddam, ma anche la  pena di morte”.

 

Una voce trasnazionale è quella della Comunità di Sant'Egidio. “Una barbarie che si aggiunge a una guerra e a un terrore già barbari”: è il commento del portavoce Mario Marazziti, che denuncia un “processo  approssimativo” e una decisione di uccidere  che “macchia in maniera terribile il governo iracheno e quanti lo hanno sostenuto”. Secondo la Comunità, conosciuta a livello internazionale, il processo di riconciliazione nazionale tra sunniti e sciiti “rischia di essere compromesso”. 

 

L'esecuzione per impiccagione è avvenuta nella sede dei servizi segreti militari, attualmente usata come base dell'esercito iracheno, dove un numero limitato di testimoni e alcuni giornalisti sono stati condotti in elicottero, come  probabilmente lo stesso ex rais. Si tratta di una stanza dal soffitto basso e dalle pareti nude, in cui l'ex dittatore, che aveva 69 anni, è contornato da alcuni uomini con  il capo coperto da passamontagna neri. Lui ha rifiutato di farsi coprire la testa.  Di fronte al patibolo è evidentemente frastornato ma si rivolge al suo popolo, per esortarlo a “restare unito”. Il condannato é arrivato scortato dalle “forze  multinazionali”, vale a dire soldati americani. Secondo il segretario alla sicurezza nazionale, Moaffaq al Rubei, “Saddam era depresso in maniera evidente”, aveva le  mani legate dietro la schiena e una copia del Corano sotto il braccio, che ha dato disposizione di lasciare ad un uomo che si  chiama Bandar.

 

Negli ultimi istanti ha recitato sottovoce alcuni versetti del Corano. Oltre al consigliere per la Sicurezza Nazionale, Moaffaq al Rubei, erano presenti un rappresentante del ministero dell'Interno e uno della Difesa, un giudice della Corte d'appello, Munir Haddad, il pubblico ministero Munqith al Faraon, e alcuni giornalisti. “Saddam non ha mostrato alcun segno di pentimento”, ha detto al Rubei, aggiungendo che “la morte é stata istantanea”. Le immagini si interrompono prima che si apra la botola sul pavimento. Al Rubei dichiara che i boia hanno manifestato  la loro gioia  attorno al patibolo. Sempre il consigliere per la Sicurezza Nazionale spiega che non è stato ancora deciso il destino del cadavere di Saddam Hussein. C’è la possibilità di consegnare il corpo ai suoi parenti, oppure ai membri superstiti della sua tribù. La sepoltura comunque dovrà avvenire in un luogo ''concordato'' con le autorità governative.

        

Il 5 novembre scorso un tribunale speciale iracheno lo aveva condannato a morte per crimini contro l'umanità, per la strage di 148 sciiti nel villaggio di Dujail. In nottata un tribunale americano aveva respinto un ricorso in  extremis per evitargli il trasferimento alle autorità irachene e rinviare in questo modo l'esecuzione.  

 

Dell’ex dittatore ricordiamo che, nato nel villaggio di Al Quja, vicino a Tikrit, cittadina sul Tigri, il 28 aprile 1937, orfano di padre, Saddam Hussein vive parte dell'infanzia presso lo zio. Nel 1959 si trasferisce al Cairo dove resterà fino al 1963. Nello stesso anno, tornato a Baghdad, il suo partito, il  Baath prende il potere per pochi mesi, ma in seguito ad un colpo  di Stato torna nella clandestinità. Saddam viene arrestato nel 1964, ma  evade, due anni più tardi, per preparare un putsch che, nel  luglio 1968, porta di nuovo il Baath al potere. Il futuro rais diventa segretario generale aggiunto del “comando generale” del Baath e, tre anni più tardi, vicepresidente della Repubblica. Nel 1969, Saddam è già l'uomo forte dell'Iraq. Il regime viene strutturato in modo poliziesco. Nel 1975-1976 vengono trasferiti con la forza nel sud dell'Iraq circa 300 mila curdi che reclamano l’autonomia e contro gli stessi curdi Saddam non esiterà a utilizzare gas letali nel 1988. Nel luglio 1979 Saddam costringe alle dimissioni il presidente El Bakr e assume i pieni poteri. Chi nel partito si oppone a questa successione viene passato per le  armi. Dopo i curdi tocca agli sciiti, maggioritari nel Paese.

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In questa vicenda non ha agito la giustizia. E’ l’opinione dell’arcivescovo di Baghdad dei Latini, Jean Benjamin Sleiman. Francesca Sabatinelli lo ha raggiunto telefonicamente in Iraq:

 

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R. – Ci sono anche altre cose da prendere in considerazione: le possibili ricadute sulla situazione, eccetera.

 

D. – Quindi lei crede che potrebbe essere possibile un peggiorare di questa situazione che già peraltro è difficilissima?

 

R. – Potrebbe essere; mi auguro di no, mi auguro di no! Già siamo in una situazione più che tragica, a livello di sicurezza, di relazioni tra le popolazioni ma anche dell’economia del Paese.  Il problema – secondo me – non è Saddam Hussein  che non contava più, ma ci sono risentimenti, ci sono appartenenze che possono prendere spunto da questo per accettare o non accettare certi passi per la riconciliazione. E questo è il problema. Saddam era finito. Secondo me, non c’era più politica ma solo legami, simboli, eccetera. E’ questo che conta a volte in certe situazioni ...

 

D. – Lei pensa che a questo punto Saddam Hussein possa diventare un simbolo?

 

R. – Per qualcuno sì. Ma io spero che il tempo possa spazzare via anche queste cose!

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Che significato politico ha per il futuro dell’Iraq l’esecuzione di Saddam Hussein? Giancarlo La Vella lo ha chiesto al giornalista, Kaled Fouad Allam, esperto di Medio Oriente e docente universitario di Storia e istituzioni dei Paesi islamici:

 

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R . - Si chiude certamente un capitolo della storia irachena degli ultimi 30 anni. Se ne sta, però, aprendo un altro che credo sia altrettanto pericoloso. E questo perché aver scelto proprio la data del 30 dicembre, giorno nel quale viene sacrificato per i musulmani l’agnello e quindi un giorno di grande festa per i musulmani, ha significato comunque dare un nuovo significato a questa condanna, quasi una colorazione di tipo religioso da parte degli sciiti in relazione ai sunniti. Questo non può che rischiare, quindi, di aumentare e di enfatizzare la frattura  comunitaria che è attualmente alla base dello scontro all’interno dell’Iraq. Si sta aprendo, in un certo senso, la frattura in modo molto più evidente, più forte e più netta, di cui non riusciamo ancora a misurare le conseguenze nei rapporti tra sunniti e sciiti. Se avessero messo in atto questa condanna qualche giorno più tardi, sarebbe stato tutto diverso. Questo significa, tra l’altro, che l’Iraq è divenuto ora il secondo Paese sciita al mondo, dopo l’Iran. Questo non bisogna assolutamente dimenticarlo, anche se non bisogna neanche dimenticare il fatto che gli sciiti, che hanno potuto ottenere il potere politico, sono stati da sempre discriminati dai sunniti. Questo anche non dobbiamo dimenticarlo.

 

D. – In molti nel mondo si sono opposti a questa esecuzione. A questo punto, che cosa può dare in più questa condanna a morte  al disegno americano in Iraq?

 

R. -  Credo che anche in America sia un argomento che divide quanto unisce. Credo che Bush abbia voluto, in un certo senso, sigillare definitivamente il capitolo iracheno di questi ultimi quattro anni: siamo ormai quasi a quattro anni dall’inizio di questa guerra, iniziata nel marzo del 2003. E questo proprio in un momento in cui la guerra sta sfuggendo al controllo del governo di Bush. Mi sembra che tutto questo abbia un effetto simbolico molto importante per Bush, che però non ne ha misurato le conseguenze.   Credo che il rifiuto della cultura della morte faccia parte degli elementi fondanti su cui costruire una democrazia.

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PUBBLICATO OGGI DALL’AGENZIA FIDES IL MARTIROLOGIO DELLA CHIESA:

SONO 24 I MISSIONARI UCCISI NEL 2006, TESTIMONI CORAGGIOSI

DEL VANGELO FINO AL SACRIFICIO DELLA VITA

 

Sono 24 i missionari che hanno perso la vita in modo violento nel corso del 2006. E’ quanto rende noto oggi l’agenzia Fides che ha pubblicato, come è consuetudine alla fine di ogni anno, il Martirologio della Chiesa. Tra loro sacerdoti, religiose e laici, tutti uniti da una testimonianza del Vangelo fino al sacrificio della vita. Il servizio di Alessandro Gisotti:

 

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Sono tanti i “cristiani che, con umiltà e nel silenzio, spendono la vita al servizio degli altri a causa del Signore Gesù, operando concretamente come servi dell’amore” e “artigiani di pace”. Così, il 24 settembre scorso Benedetto XVI ricordava il fulgido esempio di vita cristiana offerto da suor Leonella Sgorbati, missionaria italiana uccisa in Somalia da un gruppo armato. Il nome di suor Leonella è accanto a quello di altri 23 operatori pastorali che hanno perso la vita cercando di portare amore e speranza in contesti di particolare degrado umano e violenza. Alcuni di loro, come don Andrea Santoro, ucciso a Trebisonda in Turchia, sono conosciuti ai più. Altri, invece, sono ricordati dai propri cari e da quanti hanno potuto apprezzare il loro impegno missionario. A loro, come ai tanti “militi ignoti della fede”, Benedetto XVI ha voluto rivolgere parole commosse il 26 dicembre scorso, solennità di Santo Stefano protomartire:

 

“Penso anche a quei cattolici che mantengono la propria fedeltà alla Sede di Pietro senza cedere a compromessi, a volte anche a prezzo di gravi sofferenze. Tutta la Chiesa ne ammira l’esempio e prega perché essi abbiano la forza di perseverare, sapendo che le loro tribolazioni sono fonte di vittoria, anche se al momento possono sembrare un fallimento”.

 

Riguardo ai continenti dove nel 2006 sono state registrate il maggior numero di vittime, figura al primo posto l’Africa, che ha visto la morte violenta di 9 sacerdoti,  una religiosa ed una volontaria laica. Il secondo continente per numero di vittime del 2006 è l’America, dove sono stati uccisi 6 sacerdoti, una religiosa ed un laico, cooperatore salesiano. L’Asia è stata bagnata dal sangue di 2 sacerdoti, una religiosa e un laico. Anche la Chiesa dell’Oceania ha versato il suo contributo di sangue alla causa del Vangelo con un religioso dei Fatebenefratelli, ucciso in Papua Nuova Guinea. Consapevoli del rischio che correvano, ma saldi nella fede, queste donne e questi uomini coraggiosi non hanno voluto abbandonare il proprio impegno di apostolato.

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IL VANGELO DI DOMANI

 

 

Domani, domenica 31 dicembre, Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, la Liturgia ci presenta il Vangelo dello smarrimento di Gesù dodicenne a Gerusalemme, durante la Pasqua. Maria e Giuseppe, dopo tre giorni di ricerche, lo trovano nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. Maria gli dice: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. E Gesù risponde:

 

“Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

 

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento del teologo gesuita, padre Marko Ivan Rupnik:

 

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(musica)

 

“Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. In questi giorni di Natale, il cielo si è abbassato e noi possiamo contemplare con i nostri occhi l’amore infinito del Padre verso il Figlio che è eternamente generato. Lui solo è il Padre di Gesù Cristo, e nessuno tra gli uomini potrebbe prenderne il posto. Ma l’umanità che Cristo, Figlio di Dio, ha assunto, l’ha ricevuta dalla Madre, una vergine di Nazareth chiamata Maria. Così il Padre ama in Suo Figlio noi, stirpe di Adamo; in Cristo tutti ci scopriamo figli amati e ogni paternità sulla terra prende la forza e l’ispirazione dall’unico Padre del Nostro Signore Gesù Cristo. Anche a Maria, vergine e madre, si rifà ogni nostra esistenza, di figli e di madri.

 

(musica)

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CHIESA E SOCIETA’

30 dicembre 2006

 

 

GRAVEMENTE DANNEGGIATA DA UN INCENDIO, IN LITUANIA, LA CELEBRE

“COLLINA DELLE CROCI”. FU VISITATA DA GIOVANNI PAOLO II NEL 1993

 

SIAULIAI. = Nella notte tra giovedì e venerdì presso Siauliai, nella Lituania settentrionale, un incendio ha danneggiato seriamente il colle Daumantu, meglio conosciuto come “Collina delle croci”. Come riferisce il quotidiano Avvenire, sono andate distrutte decine di croci di legno su un’area di 50 metri quadrati. Secondo la polizia, che tende a escludere l’origine dolosa, il fuoco sarebbe stato appiccato da un cero lasciato acceso. Il colle Daumantu è noto fin dal XVII secolo, quando su di esso vi era una fortezza e vi si svolse una battaglia contro i “Cavalieri portaspada”, provenienti dalla Germania. Da allora il colle, divenuto simbolo dell’indipendenza lituana, è meta di pellegrinaggi. Nel 1831, dopo la repressione da parte russa dell’insurrezione in Polonia e Lituania, sul colle vennero innalzate croci che dovevano simboleggiare le vittime. Lo stesso avvenne anche dopo la fallita insurrezione antizarista del 1863. Da allora è consuetudine installare sul colle croci come ex voto, o semplicemente come segno di devozione. Una consuetudine che neppure il regime sovietico riuscì a fermare. Nell’autunno del 1993, la “Collina delle croci” fu visitata da Giovanni Paolo II, che l’anno successivo vi fece arrivare una croce. Nel settembre scorso, fu innalzata una croce anche a nome di Benedetto XVI. (R.M.)

 

 

“SACRIFICI, DISCIPLINA E UNITÀ SONO LE STRADE PER UNA PACE DURATURA”:

COSÌ, IL CARDINALE GAUDENCIO ROSALES,

ARCIVESCOVO DI MANILA, NELLE FILIPPINE,

NEL SUO MESSAGGIO PER IL NUOVO ANNO

 

MANILA. = E’ necessario “compiere dei sacrifici, perseguire una strada fatta di disciplina”, se si vuole “cominciare di nuovo ed essere uniti, tesi verso il raggiungimento di una pace duratura”: è l’invito rivolto a tutto il popolo filippino dall’arcivescovo di Manila, il cardinale Gaudencio Rosales, nel suo messaggio per il nuovo anno, citato da AsiaNews. Il porporato spiega che il Paese “deve guardare avanti, all’anno nuovo, come ad una sfida e non come un termine di paragone con il tempo già trascorso, che è stato triste e cattivo”. Ogni anno nuovo, sottolinea il cardinale, “è fatto di opportunità che possiamo sfruttare per giungere verso un desiderio comune, che sia condiviso da ricchi e poveri, di una nuova unità, una comunità migliore fatta di cittadini coscienziosi e fedeli di ogni religione”. Come già nel messaggio natalizio, l’arcivescovo invita la popolazione “a pregare per la pace e l’unità del Paese”. “L’unico modo per raggiungere un obiettivo – spiega – è quello di condividerlo con altri”. Il progresso nazionale, infatti, “non è materia di dibattito o competizione. Le nazioni che sono riuscite a rompere le catene della povertà – conclude – ci hanno mostrato la strada, fatta di disciplina interna e sacrificio”. (R.M.)

 

 

PUBBLICATA, IN GUATEMALA, LA PRIMA TRADUZIONE COMPLETA DELLA BIBBIA

IN KEKTCHI’, UNA DELLE 23 LINGUE INDIGENE

PARLATE NEL PAESE CENTROAMERICANO.

L’INIZIATIVA E’ FRUTTO DEL LAVORO ECUMENICO DI CATTOLICI E PROTESTANTI

 

COBAN. = Dallo scorso mese di novembre esiste una nuova traduzione completa della Bibbia in kektchi’, una delle 23 lingue indigene di origine Maya che si parlano in Guatemala, considerata, insieme allo spagnolo, lingua ufficiale. Per la pubblicazione si è fatto festa a Coban, sulle montagne dell’Alta Verapaz, dove circa un milione di indios parlano questo idioma. La nuova traduzione è frutto di quattro anni e mezzo di lavoro ecumenico della Società Biblica di Guatemala e della Chiesa cattolica: i protestanti si sono fatti carico della pubblicazione della Bibbia; i cattolici soprattutto della traduzione. In particolare, il progetto è stato portato avanti da don Ennio Bossu’, sacerdote torinese di 67 anni, da 14 missionario Fidei Donum in Verapaz. In 462 anni di presenza della Chiesa cattolica, non era mai stata realizzata un’opera simile. Intorno al 1960, un pastore protestante americano aveva realizzato una traduzione in  kektchi’ del Nuovo Testamento, adottata anche dai cattolici. Precedentemente, esistevano soltanto compendi e sussidi catechetici. (R.M.)

 

 

DOPO DIECI ANNI, TORNA LA ‘FEBBRE DELLA RIFT VALLEY’ NEL NORDEST DEL KENYA, COLPITO ANCHE DA VIOLENTE INONDAZIONI. IL BILANCIO DEL VIRUS È DI 37 MORTI

 

NAIROBI. = In poche settimane, un’epidemia di ‘febbre della Rift Valley’ nel nordest del Kenya ha provocato 37 morti: lo riferiscono le autorità sanitarie del Paese. Il virus, che dieci anni fa nelle stesse zone provocò 170 vittime, è trasmessa all’uomo dagli animali da allevamento, come capre e mucche, e attraverso il morso delle zanzare che, nei distretti di Garissa, Ijara e Wajir, hanno trovato un ambiente favorevole dopo le recenti piogge, le quali hanno causato inondazioni con morti e migliaia di sfollati. Molte tra le persone colpite dalla ‘febbre della Rift Valley’ sono pastori e la malattia ha ucciso anche alcune centinaia di capi di bestiame. Nei giorni scorsi, il governo ha ordinato la distribuzione di 100 mila zanzariere; proibito il trasporto di animali dai distretti colpiti; ordinato la chiusura dei macelli, poiché l’infezione si trasmette anche con il contato con il sangue. I sintomi della ‘febbre della Rift Valley’ si manifestano come una fortissima influenza, superabile in alcuni giorni, ma che in alcuni casi sfocia in meningite e in emorragie interne, portando alla morte nel 50 per cento dei casi. (R.M.)

 

 

NEL 2006, 31 MILA IMMIGRATI HANNO RAGGIUNTO LE ISOLE CANARIE E, TRA QUESTI, ALMENO 6 MILA SONO MORTI NEL TENTATIVO DI RAGGIUNGERE LE COSTE SPAGNOLE

 

MADRID. = I flussi migratori verso la Spagna sono in costante aumento: circa 31 mila immigrati, provenienti da vari Paesi dell’Africa, hanno raggiunto, nel 2006, le Isole Canarie. Lo riferisce il Ministero dell’interno spagnolo aggiungendo che il considerevole incremento, di sei volte superiore rispetto al 2005, si è verificato malgrado “la presenza di pattuglie aeree e navali dell’Unione Europea a largo della costa africana occidentale”. La speranza in un futuro migliore e la disperazione, alimentata da condizioni di estrema povertà e a volte dalla necessità di fuggire da conflitti, hanno avuto, in molti casi, un tragico epilogo: tra i migliaia di africani che, ogni anno, cercano di raggiungere le Canarie a bordo di improvvisate imbarcazioni, in media uno su cinque non arriva a destinazione. Questa tragica proporzione è stata rispettata anche quest’anno: le autorità spagnole hanno reso noto infatti che, nel 2006, sono morti almeno 6 mila immigrati. La maggior parte degli africani che tentano di raggiungere le Isole Canarie proviene da Senegal e Mauritania. L’inasprimento delle misure di sicurezza al confine con il Marocco ha spinto, infatti, molti senegalesi e mauritani a preferire il viaggio in mare, più breve ed economico ma anche molto rischioso rispetto alle tradizionali rotte migratorie via terra. La traversata è compiuta con imbarcazioni precarie e in pessime condizioni igieniche ma la voglia di lasciare il proprio Paese, che non offre prospettive dignitose e teatro in alcuni casi di sanguinosi conflitti, supera l’incertezza e le asperità del viaggio in mare. (A.L.)

 

 

SONO IN ASIA LE CITTÀ PIÙ INQUINATE DEL MONDO, CON TASSI CHE SUPERANO

DI 5-6 VOLTE IL LIVELLO MASSIMO CONSIGLIATO DALL’OMS: E’ QUANTO E’ EMERSO

DALLA CONFERENZA 2006 PER LA MIGLIOR QUALITÀ DELL’ARIA,

CONCLUSASI NEI GIORNI SCORSI IN INDONESIA

 

JAKARTA. = E’ l’Asia a detenere il primato delle città più inquinate del mondo.  Le metropoli di questo continente, infatti, registrano tassi di inquinamento che superano di 5 volte Parigi, Londra e New York, e 5-6 volte il livello massimo consigliato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). E’ quanto è emerso dalla Conferenza 2006 per la miglior qualità dell’aria, conclusasi nei giorni scorsi a Yogyakarta, in Indonesia. Intanto, un rapporto dell’Asian Development Bank (ADB) prevede che in Asia l’emissione dei gas serra triplicherà in 25 anni. Le grandi città sono sature di polveri sottili che si depositano nei polmoni e causano malattie respiratorie e il cancro. Secondo i dati dell’ADB per il 2005, la città più inquinata è Pechino, con 142 microgrammi di particelle inquinanti per metro cubo d’aria, rispetto ai 22 di Parigi, i 24 di Londra e i 27 di New York. Proprio a causa di questo, il Comitato Olimpico Internazionale ha avvertito la capitale cinese che “rischia di perdere i Giochi, se non fa qualcosa per migliorare la qualità della sua aria”. Anche New Delhi e le altre grandi città di Cina e India sono più inquinate di quelle occidentali. L’inquinamento dipende tra il 30 e il 70% per l’aumento del traffico automobilistico, destinato a crescere. Esperti commentano che il fenomeno è conseguenza di un modello di sviluppo in Cina e India, che considera le esigenze dell’industria, ma non rispetta l’ambiente e il cittadino. (R.M.)

 

 

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24 ORE NEL MONDO

30 dicembre 2006

 

- A cura di Amedeo Lomonaco -

 

In Indonesia, un traghetto con almeno 600 persone a bordo è naufragato in piena notte nelle acque al largo di Giava centrale. Oltre 500 passeggeri risultano ancora dispersi.  Giovedì scorso un altro naufragio aveva provocato 4 morti e 14 dispersi. Il servizio di Stefano Leszczynski:

 

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Sono soltanto una settantina i superstiti del naufragio della nave indonesiana affondata la notte scorsa mentre era in viaggio tra le isole del Borneo  e di Giava. Lo riferiscono i mezzi d'informazione indonesiani, che specificano anche come 9 dei sopravvissuti sono riusciti a raggiungere    l’isola di Bawean, che si trova a circa 150 chilometri a nord del grande porto di Surabaya, a Giava. I sopravvissuti sono stati localizzati dagli elicotteri e navi della Marina indonesiana. I dispersi sono all’incirca 500. Le persone che si trovavano a bordo del traghetto erano 600. La nave, salpata dal porto di Kumai, nella provincia di Kalimantan, faceva la spola con Samarang, a Giava centrale. Al momento del disastro c’era tempesta e la nave – secondo le prime testimonianze – ha iniziato ad imbarcare acqua prima di affondare lentamente. I soccorsi sono ostacolati dalle cattive condizioni meteorologiche e dalle onde del mare che raggiungono i tre metri d’altezza.  E proprio a queste sembra per il momento imputabile la causa del naufragio. Navi e traghetti sono il mezzo di trasporto più popolare nell'area, anche perché sono ben 17 mila le isole che fanno parte dell'Indonesia. A contribuire alla gravità degli incidenti marittimi che non di rado si verificano nelle acque indonesiane sono le scarse misure di sicurezza adottate a bordo. Quello di questa notte, infatti, è il secondo naufragio che si verifica dopo quello che giovedì notte ha provocato 4 morti e 14 dispersi.

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In Somalia cresce l’attesa per l’arrivo a Mogadiscio, previsto nelle prossime ore, del presidente somalo Yusuf. Ieri nella capitale, tornata sotto il controllo delle truppe governative, era arrivato il premier Gedi. Il primo ministro ha precisato che i soldati etiopi resteranno fin quando necessario e ha annunciato l’entrata in vigore della legge marziale. Il nostro servizio:

 

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Le milizie islamiche si sono ritirate da Mogadiscio e la capitale somala è presidiata, adesso, da truppe governative appoggiate da soldati inviati dall’Etiopia. Il primo ministro somalo, Mohamed Gedi, arrivato ieri nella capitale, ha reso noto che i soldati etiopi “resteranno in Somalia tutto il tempo” che “sarà ritenuto necessario”. “Ora deve iniziare la difficile sfida della ricostruzione del Paese”, ha detto il primo ministro, sottolineando l’urgenza di “restaurare la legge e l’ordine”. Il premier ha anche annunciato che per tre mesi sarà in vigore la legge marziale con lo scopo “di ristabilire la sicurezza”. Ma a rendere complessa la situazione è anche la notizia del probabile ritorno a Mogadiscio dei ‘signori della guerra’, cacciati a giugno dalle Corti islamiche. Nella capitale somala la tensione resta quindi alta: la zona meridionale della città è stata invasa da centinaia di somali festanti per salutare l’arrivo del premier; nei quartieri settentrionali migliaia di persone sono scese in piazza, invece, per manifestare contro la presenza delle truppe etiopi. Si temono poi violenze e scontri tra sostenitori delle Corti islamiche e del governo somalo, riconosciuto come legittimo dalla Comunità internazionale. Il presidente ad interim, Abdulahi Yusuf, che sta per arrivare a Mogadiscio, ha comunque dichiarato che “la Somalia non diventerà come l’Afghanistan o l’Iraq”. Dopo aver ringraziato l’Etiopia per il sostegno fornito al suo governo, Yusuf ha anche sottolineato che in futuro saranno le forze somale a garantire la sicurezza. Solo se necessario, ha precisato il presidente, il suo esecutivo chiederà l’intervento di forze di altri Paesi africani. Il Kenya, intanto, preoccupato dai possibili arrivi di miliziani islamici, ha deciso di chiudere le frontiere con la Somalia, garantendo però alla Croce Rossa internazionale la possibilità di varcare i propri confini per portare gli aiuti necessari alla popolazione.

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In Medio Oriente, sembra vicino lo scambio di prigionieri tra Israele e Autorità nazionale palestinese. Lo ha riferito la radio pubblica israeliana. Hamas sarebbe pronto a rilasciare il soldato rapito Ghilad Shalit in cambio di 500 detenuti palestinesi.

 

In Spagna ha provocato alcuni feriti e danni materiali l’attentato all’aeroporto di Madrid, rivendicato dall’organizzazione indipendentista basca Eta. Dopo l’attentato, il partito popolare ha subito chiesto al premier Zapatero di interrompere i colloqui con Eta e con il partito basco Batasuna. Il servizio di padre Ignacio Arregui:

 

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L’attentato di questa mattina all’aeroporto internazionale Barajas di Madrid ha provocato una seria preoccupazione sulla possibile rottura della tregua decisa unilateralmente dal gruppo armato ETA, il 22 marzo scorso. Il ministro dell’Interno, in una conferenza stampa, ha informato sui fatti accaduti, aggiungendo che spetta al capo di governo, Rodríguez Zapatero, una valutazione politica che offrirà probabilmente questa sera. Ma vediamo i particolari sull’attentato. Attorno alle ore 8.00, un’associazione di aiuto alle vittime del traffico nei Paesi Baschi ha ricevuto una chiamata anonima in cui una voce agitata informava dell’imminente esplosione di una bomba all’interno di una macchina nel parcheggio dell’aeroporto Barajas di Madrid. Verso le 8.30 il ministero dell’Interno del governo basco ha ricevuto un’altra telefonata, nella quale un individuo, presentandosi come un membro dell’ETA, ha annunciato l’imminente esplosione nell’aeroporto di Madrid. L’esplosione si è verificata attorno alle 9.10, causando importanti danni materiali alla struttura di un terminale dell’aeroporto. Tutta la zona era ormai sotto controllo delle forze di sicurezza. Non ci sono vittime. I feriti dichiarati sono 19, due dei quali membri della polizia nazionale. Sembra che tra i feriti nessuno sia grave. Secondo il ministro dell’Interno, una persona risulta dispersa. Questa sera si conoscerà la valutazione politica del capo di governo. Intanto, però, sono tante le domande sulle intenzioni dell’ETA con questo attentato, dopo le dichiarazioni di ieri del capo del governo, Rodríguez Zapatero, sullo stato della nazione ed, in particolare, sul processo di pace. L’opposizione ha reagito chiedendo la fine immediata di ogni contatto con l’organizzazione armata ETA.

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Dieci anni fa, quando mancavano due giorni allo scadere del negoziato, il 29 dicembre 1996, in extremis, con un viaggio lampo, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, l’egiziano Boutros Boutros-Ghali, riuscì a salvare la firma degli Accordi di pace per il Guatemala, nell’ambito del Trattato “Esquipulas Numero 2”. Ce ne parla Luis Badilla:

 

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Il processo di pacificazione del Centro America, che era cominciato nel 1987 con il lavoro del cosiddetto gruppo di Contadora, includeva Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Nei primi due Paesi l’intesa già era stata firmata. Restava soltanto il Guatemala e a questo negoziato l’ONU aveva messo una scadenza: l’ultimo giorno del 1996. Così, la fermezza delle Nazioni Unite e le pressioni della comunità internazionale permisero il raggiungimento dell’accordo per mettere fine ad una guerra civile feroce che si trascinava dal 1960 con un bilancio di oltre 100mila morti. Nel giugno scorso, il presidente del Costa Rica, Oscar Arias, Premio Nobel per la pace 1987, proprio perché artefice della pacificazione centroamericana, ha così ricordato ai nostri microfoni le trattative: “Siamo riusciti a pacificare l’America Centrale con lo sforzo e il valore non solo nostro ma di tanti. Oggi, per fortuna, non è più come nel passato quando nelle nostre terre si sparavano tutti contro tutti. Siamo riusciti a dimostrare al mondo intero che la pace era possibile, e raggiungibile, sul tavolo del negoziato e non sulle montagne centroamericane. Oggi però i problemi sono diversi: lavoriamo per far crescere i nostri Paesi, lavoriamo per eliminare la povertà, per generare nuove risorse, per creare occupazione, per dare più salute e più scuole, per avere le infrastrutture necessarie. Oggi lavoriamo anche per decidere come e quando inserire le nostre economie nel grande processo dell’economia mondiale e, in particolare, lavoriamo per farlo nell’ambito del commercio planetario come abbiamo fatto noi, giorni fa, firmando un accordo di libero scambio commerciale con gli Stati Uniti”.

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Si cerca una soluzione sul gas dopo la tensione venutasi a creare tra Mosca e Minsk. Nella capitale russa proseguono i colloqui per giungere ad un accordo in vista della scadenza del contratto tra il colosso energetico russo Gazprom e la Bielorussia, che ha minacciato di bloccare il transito del gas russo verso l'Europa.

 

 

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