RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno L  n. 335 - Testo della trasmissione di venerdì 1 dicembre 2006

 

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

“Rendo grazie a Dio per aver potuto aiutare il dialogo ecumenico e interreligioso” con il mio viaggio in Turchia, “ponte tra Asia ed Europa”: con queste parole, il Papa si congeda da Istanbul. Ai nostri microfoni padre Justo Lacunza, mons. Aldo Giordano, padre Federico Lombardi

 

La sacralità della domenica e l’importanza della Messa: così il Papa nel messaggio per la giornata di studio sulla costituzione Sacrosanctum Concilium

 

Sincero e vivo apprezzamento per il II ‘Incontro internazionale pastorale della strada’: nel telegramma del Papa al cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio, promotore dell’incontro. Ce ne parla mons. Agostino Marchetto

 

Telegramma di cordoglio del Papa per le vittime nelle Filippine, quasi 400, dopo il passaggio del tifone Durian

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

L’Europa ‘spaccata’ dice sì alla ricerca sugli embrioni, nel rispetto delle leggi nazionali. Condanna della Chiesa contro il relativismo etico che annulla i diritti fondamentali dell’uomo: interviste con l’arcivescovo Elio Sgreccia e l’eurodeputata Patrizia Toia

 

“Assumersi la responsabilità”: è lo slogan dell’odierna Giornata mondiale per la lotta all’AIDS, principale causa di morte tra i 15 e i 60 anni. Con noi Francesca Racioppi

 

CHIESA E SOCIETA’:

In Portogallo il presidente Aníbal Cavaco Silva ha fissato per l’11 febbraio lo svolgimento del referendum sull’aborto

 

Nelle Filippine è stata massiccia l’adesione all’apertura della IX  “Settimana della pace”

 

Una Messa a New York per ricordare padre Benedetto Marie Benoit, il frate che salvò migliaia di ebrei sfidando più volte la morte

 

Emergenza alluvioni in Africa: aumentano le vittime e gli sfollati anche in Rwanda e Malawi

 

Nel 2015 saranno 252 mila i pensionati stranieri in Italia: molti di loro a causa di pensioni minime rischiano di aumentare le fila dei nuovi poveri nel Paese

 

24 ORE NEL MONDO:

Cerimonia dell'ammainabandiera a Nassiriya, che sancisce la fine della missione militare italiana in Iraq, mentre a Baghdad si registrano ancora morti

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

1 dicembre 2006

 

 

“RENDO GRAZIE A DIO PER AVER POTUTO AIUTARE IL DIALOGO”

ECUMENICO E INTERRELIGIOSO CON IL MIO VIAGGIO IN TURCHIA,

 “PONTE TRA ASIA E EUROPA”: CON QUESTE PAROLE, BENEDETTO XVI

SI E’ CONGEDATO DA ISTANBUL, TRA L’ENTUSIASMO DELLA COMUNITA’ CATTOLICA,

 LO SPIRITO DI FRATERNITA’  DELLA CHIESA ORTODOSSA

E IL GENERALE APPREZZAMENTO DELLE AUTORITA’ MUSULMANE.

 IL PAPA HA GIA’ FATTO RIENTRO IN VATICANO

- Interviste con padre Justo Lacunza, mons. Aldo Giordano e padre Federico Lombardi -

 

E’ atterrato verso le 14.20, all’aeroporto romano di Ciampino, il Boeing 737-800 della Turkish Airlines, con a bordo Benedetto XVI e il suo seguito, di ritorno dal viaggio apostolico in Turchia. Accolto dal cardinale vicario, Camillo Ruini, e dal premier italiano, Romano Prodi, il Papa ha fatto rientro in Vaticano in elicottero, al termine di una visita che lascia vive nella mente immagini molto diverse fra loro ma anche molto significative. L’ultima in ordine di tempo risale a questa mattina quando, poco prima della partenza per Roma, Benedetto XVI è stato salutato con visibile cordialità, in una saletta dell’aeroporto di Istanbul, dai vescovi turchi, dalle autorità locali, dal Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, e dagli altri capi delle Chiese ortodosse. Palpabile la gioia del Pontefice per gli esiti del viaggio anche nel consueto scambio di telegrammi con i capi di Stato dei Paesi sorvolati. Oltre a inviare i suoi saluti ai presidenti di Grecia e Albania, il Papa ha scritto tra l’altro al presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano dicendo: “Sono grato a Dio per questa rinnovata esperienza di comunione ecclesiale”.

 

Un’esperienza conclusa appena qualche ora fa con l’ultimo atto del viaggio, quando Benedetto XVI, circondato da folla e affetto, ha presieduto la Santa Messa nella piccola Chiesa dello Spirito Santo di Istanbul. Torniamo allora per qualche minuto agli ultimi avvenimenti di stamani, nella cronaca di uno dei nostri inviati a Istanbul, Pietro Cocco:

 

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Mi rimane nel cuore una profonda gratitudine e una parte del mio cuore rimane anche ad Istanbul. Il Papa ha sintetizzato così questi suoi quattro giorni in Turchia, partendo dall’aeroporto della città. In un colloquio informale ma molto cordiale con il governatore di Istanbul,  Muammer Guler, Benedetto XVI ha voluto ribadire come per il pastore della Chiesa cattolica il dialogo sia un dovere:

 

 “Sono molto grato al Signore che potevo dare un segno di questo dialogo e così contribuire alla migliore comprensione tra le religioni e le culture, e specialmente anche dell’islam da parte dei cristiani”.

 

Un compito impegnativo, la cui radice spirituale il Papa ha indicato come prospettiva futura per la piccola ma viva comunità cattolica, strettasi intorno a lui questa mattina nella Cattedrale dello Spirito Santo ad Istanbul. Nell’abbraccio di circa 1200 fedeli - ma molti altri non hanno potuto entrare ed hanno seguito la celebrazione dagli schermi allestititi nella chiesa di Sant’Antonio - Benedetto XVI ha ricordato con le parole di San Paolo che “lo Spirito è la sorgente permanente della nostra fede e della nostra unità”. E che questo significa che non dobbiamo vivere solo per noi stessi, ma divenire, come Gesù, servitori dei propri fratelli:

 

La mission de l’Eglise ne consiste pas a défendre des pouvoirs…

La missione della Chiesa non consiste nel difendere poteri, né ottenere ricchezze; la sua missione è di donare Cristo, di partecipare la Vita di Cristo, il bene più prezioso dell'uomo che Dio stesso ci dà nel suo Figlio”.

 

Ad ascoltarlo, nella Cattedrale che si trova a poca distanza  dalla Nunziatura di Istanbul - detta “Casa Roncalli” dal nome del delegato apostolico Angelo Roncalli che qui svolse il suo servizio dal 1935  alla fine del ‘44 - le comunità cattoliche nella varietà dei riti esistenti qui: armeni, caldei, siri, latini, che ne conservano ancora un ricordo forte. Per questo, prima di entrare nella cattedrale il Papa ha benedetto una statua raffigurante Giovanni XXIII che sarà posta nella chiesa di Sant’Antonio nel centenario.

 

Nel corso della celebrazione di stamattina, toccanti i cori nelle lingue armena, siriana, caldea, che insieme ai canti latini hanno accompagnato la liturgia; tra i coristi, anche un gruppo di ragazze rifugiate dall’Iraq, che con le loro famiglie sono ospitate dalla Caritas Turchia.

 

Dopo aver salutato i Patriarchi Ecumenico, Bartolomeo I, e armeno-apostolico, Mesrob II, presenti in Cattedrale, Benedetto XVI ha ricordato come la prospettiva ecumenica rimanga al primo posto delle sue preoccupazioni ecclesiali, ed ha invitato tutta la Chiesa, anche di Turchia, ad agire incessantemente sul cammino che conduca all’unità e in vista del bene di tutti.

 

Un auspicio che aveva fatto suo anche il vicario apostolico di Istanbul, mons. Pelâtre, ricordando che, “malgrado il nostro piccolo numero - attraverso le nostre attività culturali, religiose e sociali - vogliamo portare il nostro contributo alla società di questo Paese”. Ed ha ringraziato il Papa per il sostegno e l’incoraggiamento in questa missione che Dio affida loro.

 

Ed alla comunità cattolica turca - ma anche alle autorità civili e politiche che ha ringraziato espressamente per l’accoglienza, così come anche ai cittadini di Istanbul che ha ringraziato per la pazienza dimostrata - il Papa ha lasciato questa consegna:

 

Vous savez bien que l’Eglise ne veut rien imposer a persone…

Sapete bene che la Chiesa non vuole imporre nulla a nessuno, e che chiede semplicemente di poter vivere liberamente per rivelare Colui che essa non può nascondere, Cristo Gesù che ci ha amati fino alla fine sulla Croce e che ci ha dato il suo Spirito, presenza viva di Dio in mezzo a noi e nel più profondo di noi stessi. Siate sempre aperti allo Spirito di Cristo e, pertanto, siate attenti a quelli che hanno sete di giustizia, di pace, di dignità, di considerazione per essi stessi e per i loro fratelli”.

 

Da Istanbul, Pietro Cocco, Radio Vaticana.

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La presenza alla Messa di stamattina dei massimi rappresentanti dell’Ortodossia ha ulteriormente amplificato il grande afflato ecumenico che ha caratterizzato la giornata di ieri, durante la quale anche la dimensione del dialogo con l’islam è tornata in primo piano in due momenti di particolare spessore: la visita di Benedetto XVI al Museo di Santa Sofia seguita, poco dopo, dalla sosta alla Moschea Blu. E’ ancora Pietro Cocco a raccontarci questa pagina, celebrata oggi dai media di tutto il mondo:

 

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Resterà come uno dei momenti più emblematici di questo viaggio apostolico in Turchia, il Gran Muftì di Istanbul con il Papa accanto, in un lungo momento di raccoglimento nella Moschea di Sultan Ahmet Camii, conosciuta come la Moschea Blu. Insieme, rivolti verso il Mihrab, l’edicola verso la quale pregano i fedeli musulmani in direzione della Mecca, il Papa ha sostato in meditazione. “Certamente ha rivolto il suo pensiero a Dio”, ha detto ai giornalisti padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, e lo stesso Benedetto XVI, in un caloroso saluto prima di andare via, ha ringraziato il Muftì per questo momento di preghiera. Significativo anche lo scambio di doni: da parte del Gran Muftì una mattonella in ceramica blu che con calligrafia araba disegna una colomba con la scritta “Dio onnipotente e misericordioso”, da parte del Papa un mosaico con alcune colombe bianche.

 

Un simbolismo di pace che suggella un pomeriggio svoltosi all’insegna di un grande rispetto e di un’accoglienza al Papa tutt’altro che formale, rendendo visibile quanto Benedetto XVI aveva detto: “Dobbiamo andare avanti nell’impegno per la fratellanza e per l’unità. Il dialogo non è contro la fedeltà alla propria fede, ma apre il cuore all’altro”. Stessi sentimenti hanno animato l’altro momento forte del pomeriggio, all’insegna del dialogo interreligioso, quando il Papa si è recato al museo di Santa Sofia, antica basilica bizantina dedicata alla Divina sapienza, poi trasformata in moschea e oggi museo. Nell’apporre la sua firma nel libro d’oro del museo, Benedetto XVI ha lasciato scritto: “Nelle nostre diversità, ci troviamo davanti alla fede del Dio unico. Che Dio ci illumini e ci faccia trovare la strada dell’amore e della pace”.

 

Da Istanbul, Pietro Cocco, Radio Vaticana

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Centrali nel sentimento religioso dei musulmani turchi e non solo, i due luoghi visitati ieri pomeriggio da Benedetto XVI hanno alle spalle una storia di secoli, dove il senso del sacro viene esaltato da forme architettoniche e artistiche straordinarie. A spiegarle, al microfono di Emanuela Campanile, è padre Justo Lacunza Balda, già rettore del Pontificio Istituto di Studi arabi e islamistica:

 

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R. – Santa Sofia - “Haya Sofia” in turco - è stata fino al 1361 la cattedrale del rito latino. L’ultima volta che un vescovo di rito latino vi è entrato è stata nel 1361. Sappiamo che è stata considerata come un luogo di raduno, un luogo di spiritualità. La Moschea Blu è uno dei grandi monumenti del mondo, costruita tra il 1600 e il 1616 da un imperatore molto giovane. Questa moschea viene chiamata appunto “Moschea Blu” perché il colore delle sue maioliche è di colore blu e verde. Le ceramiche provengono dall’antica Nicea. A livello architettonico è una grande opera d’arte. Ci sono 30 cupole che si appoggiano su 26 colonne, più una cupola centrale, attorno alla quale c’è il versetto della luce, che troviamo nel Corano: “Dio è la luce del cielo e della terra”.

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Due chilometri oltre la Moschea Blu, lo scenario è nuovamente cambiato. Per Benedetto XVI è arrivato il momento di immergersi nuovamente in un’atmosfera di confronto ecumenico, con la visita al Patriarcato armeno. Ce ne parla uno dei nostri inviati al seguito del Papa, Sergio Centofanti:

 

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Non poteva mancare qui in Turchia la visita del Papa alla comunità armena apostolica che ha accolto Benedetto XVI con grande gioia. Si tratta di una delle comunità cristiane più antiche distinta dagli ortodossi, in senso stretto, che si separarono da Roma nel 1054. Gli armeni apostolici si distaccarono nel 451 non accettando il Concilio di Calcedonia, che condannava l’eresia monofisita, cioè la tesi secondo la quale Cristo è solo Dio e non anche vero uomo. Nel dibattito conciliare, gli armeni apostolici, pur non negando l’umanità di Gesù, tendevano ad accentuarne la divinità. Una pura questione terminologica nel consueto irrigidimento delle parti provocò lo scisma. Dopo oltre 15 secoli, durante il Pontificato di Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica e la Chiesa armena apostolica hanno sottoscritto nel 1996 una dichiarazione congiunta in cui si ritengono superati gli equivoci del Concilio di Calcedonia e si afferma la fede in Cristo, vero Dio e vero uomo. Benedetto XVI nel suo discorso nella cattedrale armena apostolica ha sottolineato la necessità di curare le ferite della separazione, perché le tragiche divisioni che sono sorte lungo il tempo fra i seguaci di Cristo, - ha rilevato - contraddicono apertamente alla volontà del Signore che vuole l’unità:

 

“precisely by the witness of their love, christians…

Proprio mediante la testimonianza della propria fede, del proprio amore, i cristiani sono chiamati ad offrire un segno raggiante di speranza e di consolazione a questo mondo così segnato da conflitti e da tensioni”.

 

Sofferenze e tensioni di cui purtroppo gli armeni sono ben esperti:

 

“i give thanks to god for the christians faith…

Rendo grazie a Dio ha affermato il Papa per la fede e la testimonianza cristiana del popolo armeno, trasmesse da una generazione all’altra, spesso in circostanze davvero tragiche come quelle sperimentate durante il secolo passato”.

 

Da ricordare che gli armeni all’inizio del900 erano oltre due milioni in questa terra. I massacri di civili e armeni intorno al 1915 e la diaspora susseguente hanno ridotto la comunità a circa 80 mila fedeli che comunque resta la più consistente tra le comunità cristiane in Turchia che conta 130 mila fedeli. All’insegna dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, il Papa ha incontrato, nella serata di ieri, anche il metropolita siro-ortodosso, il Gran Rabbino della Turchia. Dopo la cena in nunziatura il Pontefice si è affacciato dalla finestra per salutare circa 200 giovani cattolici:

 

“Cari giovani vorrei semplicemente dire grazie per la vostra presenza, per la vostra gioia e per il vostro entusiasmo. Grazie per il vostro amore per la Chiesa, insieme andiamo avanti col Signore in tempi anche difficili. Nelle mie preghiere siete sempre tutti presenti e dopo vi darò la benedizione. La vostra gioia e la vostra amicizia mi accompagna e vi ricorderò sempre nelle mie preghiere”.

 

I giovani lo hanno accolto con grande entusiasmo e gli hanno scritto una lettera: “Noi - affermano - siamo una piccola minoranza in un Paese musulmano, ci impegniamo a perseverare nella vita cristiana in una terra che ha visto lungo la storia, la testimonianza di tanti martiri”. Qui, in Turchia, la piccola comunità cattolica e tutti i cristiani insieme hanno ripreso coraggio in questi giorni, nella loro situazione di debolezza, il successore di Pietro li ha confermati nella fede.

 

Da Istanbul, Sergio Centofanti, Radio Vaticana.

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La dimensione ecumenica e quella interreligiosa si sono più volte intrecciate, nell’arco del viaggio, in particolare durante la giornata di ieri quando, in mattinata, Benedetto XVI e il Patriarca Ecumenico, Bartolomeo I, si sono scambiati l’abbraccio di pace e hanno siglato la Dichiarazione congiunta: un documento importante anche in chiave europea, come sottolinea mons. Aldo Giordano, segretario generale del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE), al microfono di Fabio Colagrande:

 

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R. – Si ha veramente l’impressione che sia stato un passo nuovo e fondamentale nei rapporti tra Oriente ed Occidente, e quindi tra il cristianesimo che si è sviluppato in Occidente e il cristianesimo che si è sviluppato nell’est. Affiora che abbiamo compiuto già grandi passi e si vogliono mettere in luce quelli fatti in questo ecumenismo dell’amore e della carità. Emerge chiaramente quale siano le basi di questo nostro cammino: la fede in Gesù Cristo, Crocifisso e Risorto. Abbiamo responsabilità comuni e soprattutto la responsabilità dell’evangelizzazione, che ci chiede di essere e questo fa veramente sperare che sarà un passo grande verso l’unità dei cristiani.

 

D. – Parlando, alla fine della Divina liturgia, alla quale aveva assistito nella Chiesa di San Giorgio, il Papa ha detto, rivolgendosi proprio al Patriarca: “Siamo chiamati, insieme con tutte le altre comunità cristiane a rinnovare la consapevolezza dell’Europa circa le proprie radici”. Può essere questa una strada per l’unità dei cristiani?

 

R. – Certamente, perché sempre più il Papa ci invita a ripartire dal cuore del cristianesimo. E’, quindi, dalla consapevolezza che dà quel cuore di un Dio venuto sulla terra da cui dobbiamo ripartire per ritrovare l’unità. L’Europa ha avuto il dono di avere queste radici e dobbiamo quindi riscoprirle: questo ridona all’Europa la sua vera vocazione, una vocazione di responsabilità e soprattutto di testimonianza del Vangelo e di testimonianza all’interno dell’Europa ed anche agli continenti.

 

D. – Ci può essere in questo campo una collaborazione tra le Chiese cristiane?

 

R. – Non solo ci può essere, ma mi sembra che nel discorso del Papa venga proprio sottolineato che la non collaborazione è uno scandalo insopportabile. La divisione è uno scandalo non sopportabile. Senza, quindi, la collaborazione, la testimonianza del Vangelo non è credibile.

 

D. – Come giudicare anche l’importanza della Dichiarazione congiunta firmata dal Santo Padre e dal Patriarca Bartolomeo I?

 

R. – Mi sembra che vada anche in questa direzione. Le due Chiese, di Roma e di Costantinopoli, si prendono l’impegno comune di continuare il dialogo della carità; di continuare il dialogo teologico, attraverso la Commissione mista ortodosso-cattolica; chiedono di essere insieme nel contribuire all’Unione Europea, dando una valutazione anche positiva del processo di unificazione, ma chiedendo anche che ci sia una Unione Europea capace di salvare la libertà religiosa, capace di difendere le minoranze, capace di preservare le radici cristiane.

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Al termine di questa ampia pagina dedicata al quinto viaggio apostolico internazionale di Benedetto XVI in Turchia, vi proponiamo un bilancio complessivo nel commento del direttore della Sala Stampa vaticana, e nostro direttore generale, padre Federico Lombardi. L’intervista è di Alessandro Gisotti:

 

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R. – Evidentemente, si tratta di un bilancio estremamente positivo. Un bilancio certamente superiore a quelle che potevano essere le attese, probabilmente da parte del Papa stesso e dei suoi collaboratori. Ricordo che anche in passato, quando c’erano dei viaggi particolarmente impegnativi, diciamo pure difficili, come si usa dire, per Giovanni Paolo II, si apprezzava poi sempre il coraggio del Papa che li affrontava con grande slancio e con grande fede e sempre ottenendo dei risultati straordinariamente superiori a quello che si poteva immaginare. Mi sembra che sia successa esattamente la stessa cosa anche adesso, con Benedetto XVI. CIò è molto bello ed incoraggiante, perché vuol dire che la fede e il coraggio dei Papi viene premiato anche nell’affrontare situazioni che presentano delle incertezze. Un bilancio estremamente positivo su tutti i versanti, quindi: sia quello del rapporto con il popolo turco e con lo Stato turco, sia il rapporto con la religione musulmana, sia i rapporti ecumenici con le altre confessioni cristiane e sia anche, alla fine, l’incoraggiamento per la comunità cattolica locale.

 

D. – Ecco padre, proviamo a riflettere su questo viaggio raccontandolo per immagini. Tra queste, sicuramente, resterà indelebile quella del Papa raccolto in meditazione nella Moschea Blu. Un gesto, questo, che ha destato grande impressione…

 

R. – Direi di sì. Questo effettivamente è il momento che ha raccolto più attenzione e in un certo senso è anche quello che è stato, forse, più nuovo e più inaspettato rispetto a poche settimane fa. Mi pare che, pensando anche a quello che è avvenuto nei mesi passati - le discussioni o le reazioni in seguito ai malintesi sul discorso di Ratisbona – la visita alla Moschea e il successivo momento di raccoglimento siano stati quell’atto simbolico che ha, in un certo senso, compiuto e portato alla consapevolezza comune ed anche popolare ciò che i chiarimenti fatti a parole e nelle varie dichiarazioni rese dal Papa e dai suoi collaboratori avevano preparato nei mesi passati. Ma ci voleva anche e proprio quell’atto, quel passo fisico, quel momento di incontro cordiale con il sorriso, con il cuore aperto, che dimostrasse e facesse capire che le distanze erano superate e che il dialogo era qualcosa di reale, di profondo e di sincero. Direi che, a parte il momento del raccoglimento, anche la cordialità del dialogo con il Gran Muftì e con l’Imam che accoglievano il Papa nella Moschea siano stati un momento particolarmente espressivo e felice.

 

D. – Soffermiamoci su un’altra immagine forte del viaggio: l’abbraccio di Benedetto XVI con Bartolomeo I, segno di una cordialità e, potremmo dire, di un affetto che sembra incoraggiare il cammino ecumenico…

 

R. – Qui si tratta di un cammino che continua. E’ un cammino che Papa Benedetto XVI ha posto fin dall’inizio, fin dal primo giorno della sua elezione, tra le priorità del suo Pontificato. Direi siano state molto significative qui, oltre al gesto, anche le parole pronunciate dal Papa nel discorso durante la Divina Liturgia, nel rinnovare quell’invito coraggioso, profondo e cordiale di Giovanni Paolo II a discutere insieme, a cercare insieme le vie per definire questo ministero universale di Pietro al servizio dell’unione di tutta la Chiesa ed anche l’esplicito desiderio di unità che è stato ribadito nel corso dell’omelia dell’ultima Messa nella cattedrale cattolica di Istanbul. Il desiderio appassionato di unione dice che questa priorità del Pontificato è veramente molto presente e l’abbraccio tra il Patriarca Bartolomeo I e gli abbracci di pace anche con gli altri rappresentanti ortodossi e delle altre confessioni cristiane presenti nella Messa conclusiva del viaggio, sono molto espressivi. C’è stata anche occasione, da parte del Patriarca Ecumenico, di toccare problemi concreti in cui la Chiesa ortodossa chiede la solidarietà, l’amicizia della Chiesa cattolica nelle loro situazioni di difficoltà. Si tratta, quindi, di un ecumenismo che deve proseguire: sia dal punto di vista dell’approfondimento dottrinale, teologico ed ecclesiologico, sia anche da quello della concreta carità, vicinanza e solidarietà per la missione di evangelizzazione e testimonianza cristiana nel mondo attuale, nel quale ve n’è veramente molto bisogno.

 

D. – Ad Efeso e nella cattedrale dello Spirito Santo ad Istanbul, l’incontro intenso e perfino commovente, a tratti, con la piccola comunità cattolica di Turchia: il Papa in più occasioni, durante il viaggio apostolico, ha chiesto che venga garantita la libertà religiosa. Quali aspettative si possono nutrire ora?

 

R. – Certamente, è stata manifestata questa richiesta dell’affermazione della libertà religiosa, che di per sé è presente nella Costituzione turca, ma con una sua interpretazione che poi, nella pratica, lascia a volte a desiderare, creando delle difficoltà. L’affermazione del principio è stata, quindi, molto chiara e non solo nei discorsi, ma anche nei colloqui svolti con le diverse autorità, sia da parte del Papa che dei suoi collaboratori. C’è stata anche - in particolare, nell’incontro con il vice primo ministro - la proposta concreta di istituire una commissione a livello di governo e di rappresentanti della Chiesa per affrontare tali problemi concreti. In questo senso, c’è stato certamente un incoraggiamento alla vita della comunità cattolica, alla sua fede e al suo entusiasmo, ma anche una premessa di compiere passi concreti di continuità, in modo tale che le premesse poste da questa visita possano svilupparsi e dare dei frutti. Uno dei punti che mi ha colpito, soprattutto nella Messa conclusiva, è stato quello dell’unità e della comunità fra i diversi riti. C’erano quattro diversi riti di comunità cristiane cattoliche che vivono tutte e quattro ad Istanbul e che hanno manifestato la loro varietà e la loro ricchezza nella Liturgia di questa mattina. C’è stato, quindi, anche un invito all’unione, alla comunione delle ricchezze, delle tradizioni e delle espressioni culturali all’interno della Chiesa cattolica. Un invito cordiale, quest’ultimo, che è venuto da questa riunione di preghiera alla quale il Papa ha anche fatto riferimento esplicito ieri più di una volta.

 

D. – Come è noto, erano tante le aspettative del viaggio, accompagnato anche da qualche preoccupazione. Si può dire, dunque, senza esagerare, che il Papa ha saputo conquistare tutti, al di là forse anche delle aspettative?

 

R. – Direi di sì e questo mi sembra un risultato estremamente positivo. Il viaggio ha dato dei frutti in tutte le direzioni e questo ha dimostrato che non erano direzioni, fra loro, opposte o divergenti o concorrenti, ma che si può costruire in pace e che si possono dare messaggi positivi per invitare tutti coloro che hanno buona volontà a collaborare e a costruire una convivenza migliore. Non vorrei dimenticare, infatti, i forti appelli per la pace nel Medio Oriente, che qui è molto vicino - la Turchia è, in un certo senso, una nazione di questa area geografica – che il Papa ha fatto, in diverse occasioni, incoraggiando l’impegno della comunità internazionale, e in particolare anche di questa grande nazione, in favore della pace in questa area così critica.

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DI FRONTE AL SECOLARISMO E ALL’INDIFFERENZA RELIGIOSA, VA RISCOPERTA

LA SACRALITA’ DEL GIORNO DEL SIGNORE E L’IMPORTANZA DELLA PARTECIPAZIONE

ALLA MESSA DOMENICALE: COSI’ IL PAPA IN UN MESSAGGIO PER LA GIORNATA

DI STUDIO SULLA COSTITUZIONE SACROSANCTUM CONCILIUM

 

E’ urgente ribadire “la sacralità del giorno del Signore e la necessità di partecipare alla Messa domenicale”: è quanto sottolinea Benedetto XVI nel messaggio inviato al cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e ai partecipanti alla giornata di studio promossa dal Dicastero nell’anniversario della promulgazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. L’incontro, sul tema “La messa domenicale per la santificazione del popolo cristiano”, si è svolto stamani in Vaticano. Il servizio di Alessandro Gisotti:

 

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“Il contesto culturale in cui viviamo, segnato spesso dall’indifferenza religiosa e dal secolarismo che offusca l'orizzonte del trascendente – avverte il Papa – non deve far dimenticare che il Popolo di Dio, nato dall'Evento pasquale, ad esso deve ritornare come ad inesauribile sorgente”. E ciò “per comprendere sempre meglio i tratti della propria identità e le ragioni della propria esistenza”. Nel messaggio al cardinale Francis Arinze, il Pontefice sottolinea l’importanza della partecipazione alla Messa domenicale ribadendo che “la domenica non è stata scelta dalla comunità cristiana” ma da Cristo stesso.

 

“La domenica – scrive il Papa – rimane il fondamento germinale e, insieme, il nucleo primordiale dell’anno liturgico, che attinge la sua origine dalla Risurrezione di Cristo, grazie alla quale sono stati impressi nel tempo i tratti dell'eternità”. La domenica, è la riflessione del Pontefice, è dunque “un frammento di tempo pervaso di eternità, perché la sua alba ha visto il Crocifisso risuscitato entrare vittorioso nella vita eterna”. Incoraggia, così, “ad approfondire sempre più l’importanza del Giorno del Signore”, ma “evidenzia anche la centralità dell’Eucaristia come pilastro fondamentale della domenica e di tutta la vita ecclesiale”. Benedetto XVI auspica, quindi, che si recuperi “il senso cristiano della domenica nell’ambito della pastorale e nella vita di ogni credente”. Il Giorno del Signore, è la sua invocazione, possa “acquistare nuovamente tutto il suo rilievo ed essere percepito e vissuto pienamente nella celebrazione dell’Eucaristia, radice e cardine di un’autentica crescita della comunità cristiana”.

 

Nel suo discorso in apertura del convegno in Vaticano, il cardinale Arinze ha sottolineato che “ogni cristiano ha il dovere di testimoniare al mondo con la propria vita cosa è la Chiesa, e ciò avviene fondamentalmente di domenica”. In un contesto di secolarizzazione, quale quello attuale, ha quindi ribadito l’urgenza di approntare “un piano pastorale di formazione a tutti i livelli perché si possa recuperare il senso del sacro”, aiutando i fedeli “ a santificare il giorno del Signore mediante la partecipazione alla celebrazione eucaristica”.

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sINCERO E VIVO APPREZZAMENTO PER L’INIZIATIVA DEL SECONDO ‘Incontro

 Internazionale Pastorale della Strada’: LO ESPriME IL PAPA NEL telegramma

al cardinale martino, presidente del pontificio consiglio per la pastorale

dei migranti e degli itineranti, promotore dell’incontro,

che si svolge oggi e domani a palazzo san calisto

- Con noi l’arcivescovo Agostino Marchetto -

 

“Sincero e vivo apprezzamento” per l’iniziativa del Secondo Incontro Internazionale Pastorale della Strada: è quanto esprime il Papa nel telegramma inviato, a firma del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, al cardinale Renato Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, promotore dell’incontro stesso che prosegue fino a domani a Palazzo San Calisto. “L’attenzione ecclesiale – auspica il Papa - sia sempre alimentata da costante amore e da propositi generosi di esemplare testimonianza della fede cristiana”. Ad aprire l’incontro è stato il cardinale Martino che, tra l’altro, ha ribadito l’importanza della difesa della vita tra automobilisti e auto-trasportatori, nonché di quella dei viaggiatori, sensibilizzando tutti in vista di una maggiore incidenza delle leggi che regolano il traffico, per evitare perdite di vite umane. E’ intervenuto anche l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario dello stesso dicastero, che ha rilasciato un’intervista a Giovanni Peduto:

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R. - Possiamo così sintetizzare: fare una seria e profonda riflessione, in contesto internazionale, sulle numerose, complesse questioni implicite legate alla strada; continuare, con obiettivi pastorali, lo studio di un fenomeno che coinvolge, giorno dopo giorno, molte persone che corrono sulla strada e su ferrovia in vista anche dei relativi servizi; prendere coscienza dei doveri inerenti alla pastorale della strada e altresì alla responsabilità morale circa il codice stradale, al fine di prevenire le fatali e gravi conseguenze che derivano dalla sua mancanza di rispetto; affrontare i gravi problemi che il traffico stradale e ferroviario presenta e le sue ripercussioni sui diritti umani (e cristiani) degli utenti, integrando le azioni pastorali che ruotano attorno alla strada, ai “suoi abitanti”, ai ragazzi e alle donne di strada, ai senza tetto; ampliare la visione di questo “fenomeno” mirando a una rinnovata solidarietà, impegnando forze pastorali specifiche senza tuttavia dimenticare il necessario legame con l’impegno pastorale ordinario, territoriale. È questione di integrazione pastorale.

 

D. - Chi è coinvolto in questa Pastorale?

 

R. - In essa sono coinvolti: gli agenti pastorali, ossia vescovi, sacerdoti, religiosi(e), laici, cappellani di una pastorale specifica, che si dedicano all’animazione di istituzioni, congregazioni e associazioni, al servizio delle categorie indicate in precedenza con attenzione particolare alle cappelle (fisse o mobili) situate lungo le autostrade e nelle stazioni ferroviarie. I destinatari di questa Pastorale, ripeto, sono i camionisti, gli autisti di automobili e pullman, gli utenti delle autostrade e delle ferrovie, i professionisti e, infine, tutti coloro che, in qualche modo, hanno a che fare con la strada e la ferrovia. Insomma questa pastorale vuole raggiungere gli uomini di oggi nel proprio ambiente, in movimento, per aiutarli, in convivenza pacifica, ad esercitare reciproca solidarietà e carità, e per avvicinarli a Dio, contribuendo così a rendere il loro ambiente più consono al messaggio cristiano e, pertanto, più umano.

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TELEGRAMMA DI CORDOGLIO DEL PAPA

 PER LE VITTIME NELLE FILIPPINE DOPO IL PASSAGGIO DEL TIFONE DURIAN

 

         Tragedia nelle Filippine: nella parte orientale del Paese il tifone ‘Durian’ ha provocato almeno 394 morti e più di 90 persone risultano disperse. Dopo aver appreso la notizia, Benedetto XVI ha espresso il suo profondo dolore per le vittime e le devastazioni causate dal passaggio del tifone in un telegramma a firma del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, inviato al nunzio apostolico nelle Filippine, mons. Fernando Filoni. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

 

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Il Papa affida le vittime alla misericordia divina e assicura ai familiari la propria vicinanza con la preghiera. Il Santo Padre prega anche affinché tutti i soccorritori possano fornire un’adeguata assistenza alla popolazione colpita. La situazione più grave è quella della provincia orientale di Bicol. Fango e pietre hanno sommerso una zona alle pendici del vulcano Mayon, in eruzione da agosto. Interi villaggi sono stati letteralmente spazzati via, sepolti sotto giganteschi smottamenti che hanno trascinato verso valle tonnellate di fango, pietre, terriccio e ceneri vulcaniche. Molte persone sono rimaste intrappolate sui tetti delle case e si teme che il bilancio delle vittime possa aggravarsi. Il presidente filippino, Gloria Arroyo, ha inviato l’esercito per aiutare la popolazione. Ma le operazioni di soccorso sono ostacolate dalla massa di detriti che rendono inagibili le principali vie di comunicazione della zona. A complicare la situazione c’è anche la perdurante eruzione del vulcano Mayon, tornato in attività ad agosto con colate laviche ed emissioni di ceneri e lapilli. In tanta disperazione non mancano comunque segnali di speranza: tra le macerie di una casa è stato trovato e tratto in salvo un bimbo di due mesi.

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RINUNCIA E NOMINE

 

Il Santo Padre ha nominato vescovo coadiutore della Diocesi di Uíje, in Angola, il Rev. Emílio Sumbelelo, vicario giudiziale della Diocesi di Benguela. La Diocesi di Uíje, già Carmona e São Salvador (1967) è suffraganea dell'Arcidiocesi di Luanda. E’ stata eretta nel 1979. Ha una superficie di 63.467 kmq e una popolazione di 1.295.555 abitanti, di cui 572.500 sono cattolici. Si contano 20 parrocchie, 49 sacerdoti (33 diocesani e 16 religiosi), 121 seminaristi, 92 religiose.

 

Sempre oggi il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di São Tomé e Príncipe, presentata da monsignor Abílio Rodas de Sousa Ribas, della Congregazione dello Spirito,in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico. Al suo posto ha nominato il reverendo padre Manuel António Mendes dos Santos, Superiore Provinciale della Congregazione dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria.  La Diocesi di São Tomé e Príncipe, immediatamente soggetta alla Santa Sede, è stata eretta nel 1533. Si estende su una superficie di 1.000 kmq. e conta 140.000 abitanti, di cui 103.000 cattolici, con 17 parrocchie, 12 sacerdoti (10 religiosi e 2 fidei donum), 16 seminaristi e 39 religiose.

 

 

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

Servizio vaticano - Il dettagliato resoconto della visita pastorale del Papa in Turchia. I servizi del nostro inviato Giampaolo Mattei.

 

Servizio estero - Iraq: per il pemier Al Maliki entro giugno del 2007 la responsabilità della sicurezza potrebbe essere affidata alle forze locali.

 

Servizio culturale - Un articolo di Franco Pelliccioni dal titolo “uando Maupassant pranzò in cima alla Tour Eiffel... per non vederla” la grande opera, contestata all'epoca da molti francesi, fu il simbolo dell'Esposizione Universale di Parigi del 1889.

 

Servizio italiano - In primo piano il tema della Fnanziaria.

 

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

1 dicembre 2006

 

 

L’EUROPA ‘SPACCATA’ DICE SI’ ALLA RICERCA SUGLI EMBRIONI,

NEL RISPETTO DELLE LEGGI NAZIONALI. FERMA CONDANNA DELLA CHIESA

CONTRO IL RELATIVISMO ETICO CHE ANNULLA I DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UOMO

- Interviste con l’arcivescovo Elio Sgreccia e l’eurodeputata Patrizia Toia -

        

L’Europa dice sì alla sperimentazione sugli embrioni, pure nel rispetto delle legislazioni nazionali, così come previsto nel Programma quadro per la ricerca, approvato ieri dall’Europarlamento, che destina 54 miliardi di euro ai vari settori: dall’economia alle nuove tecnologie, dall’ambiente alla salute, nel periodo 2007-2013. Dopo acceso dibattito, gli eurodeputati, hanno vietato di finanziare i progetti volti alla clonazione umana a fini riproduttivi o a modificare il patrimonio genetico degli esseri umani ma hanno permesso di finanziare quelli sulle cellule staminali prelevate da embrioni umani, respingendo pure l’emendamento che fissava una data limite oltre la quale vietare la distruzione di nuovi embrioni per ricavarne cellule staminali. Roberta Gisotti ha intervistato l’arcivescovo Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la vita:

 

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D. - Eccellenza come giudicare il pronunciamento del Parlamento europeo, che taluni hanno definito un testo di equilibrato compromesso, altri invece un testo ambiguo che lascia aperte tutte le ipotesi, altri ancora un testo di sconfitta per chi lotta a favore della vita e contro la mercificazione della persona…?

 

R. - Si tratta di un testo che mette in evidenza il relativismo morale, etico che vige ora in Europa. Mi pare che la sostanza della deliberazione è che sia lecito fare di tutto - eccetto che la clonazione riproduttiva - con l’unico limite della legislazione nazionale. Questo indica che in Europa i diritti fondamentali non sono uguali, dove c’è una legge uno è riconosciuto come persona umana fino dal primo concepimento, dove c’è un’altra legge invece non è lo stesso. Allora l’Europa che è nata su una carta di diritti dell’uomo, io non ce la vedo più. Cosa c’è di uguale in Europa per tutti i cittadini che vi circolano? Forse l’immagine della moneta e pochi altri diritti individuali ma non i diritti fondamentali.

 

D. - Quindi c’ è da temere anche un commercio ‘nero’ su questo tipo di ricerca…

 

R. - Naturalmente questo favorisce il soddisfacimento dei desideri in fatto di procreazione, di sperimentazione e degli affari attraverso l’incentivo della commercialità, perché poi si sa che non si può per esempio in Italia prelevare cellule da un embrione ma si possono comperare le linee cellulari fatte in Inghilterra.

 

D. – Ecco, che cosa si può fare adesso? Si può tenere aperto il dibattito a livello nazionale?

 

R. - Bisogna mantenere aperto non soltanto il dibattito, ma mantenere ferme le posizioni. Per la Chiesa cattolica si impone di far conoscere ovunque che l’uomo è uguale dappertutto, che ha dei diritti fondamentali, che senza di questo non si può costruire una civiltà e quindi neanche una comunità europea realmente valida.

 

D. - Non tutto quello che viene dall’Europa e dall’autorità europea è da prendere come ‘oro colato’

 

R. – No, assolutamente. Oggi direi che c’è una trasformazione - che è avvenuta in questi ultimi decenni - dei diritti fondamentali che all’inizio sono stati proposti come diritti dell’uomo in quanto uomo, perché appartiene alla specie umana; ora diventano diritti individuali che dipendono dalle scelte di ogni individuo, quindi non sono più fondamentali quando sono individuali o soggettivi.

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Diversi esponenti politici hanno espresso disappunto per il voto. Peraltro all’interno dello stesso partito si ritrovano posizioni diverse. Accade anche nella Margherita. Tra quanti all’interno di questo partito italiano esprimono forti perplessità c’è l’europarlamentare Patrizia Toia. Ascoltiamola nell’intervista di Fausta Speranza:

 

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R. – Si poteva tenere una linea che anche sulle cellule staminali andasse nel senso delle staminali adulte, del sangue cordonale e altre alternative, che non intaccassero il campo delle cellule staminali embrionali. E’ vero che ci sono dei limiti, è vero che ci saranno delle regole, delle valutazioni di comitati, valutazioni sia nazionali che europee, però indubbiamente si è aperto un varco.

 

D. – On. Toia, quale margine di azione politica intravede per gli esponenti che come lei hanno queste perplessità?

 

R. – Adesso bisogna vedere, perchè il programma generale delle ricerche, il VII programma quadro, è un programma che è passato in seconda lettura ieri e non credo lasci più molti margini. Siccome, però, abbiamo avuto una piccola vittoria, un emendamento bipartisan, sulle cose vere, sui valori veri, questo emendamento è entrato in uno dei programmi specifici, quelli che non vedono una voce definitiva del Parlamento, ma solo un’opinione che il Parlamento dà. E in quell’emendamento c’era scritto proprio che bisogna far riferimento solo a cellule già derivate. Noi speriamo di poter intervenire nei prossimi giorni, perché quella che è stata un’opinione sul programma specifico, innanzitutto, venga confermata nella stesura definitiva di quel programma specifico, che riguarda l’aspetto “idee”. Nello stesso tempo, vediamo se si può ancora, in uno dei prossimi consigli europei, tentare una qualche correzione di tiro. Per esempio, intervenendo in aula, il commissario europeo, la sera del dibattito, ha detto qualcosa in più: ha preso un mezzo impegno politico di non finanziare l’estrazione di cellule dagli embrioni. Quindi, se noi potessimo lavorare perché anche questi impegni politici si traducano in qualcosa di più solido giuridicamente, potrebbero esserci alcuni spiragli più positivi rispetto al risultato complessivo.

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“ASSUMERSI LA RESPONSABILITÀ”: È LO SLOGAN DELL’ODIERNA GIORNATA MONDIALE PER LA LOTTA ALL’AIDS, PRINCIPALE CAUSA DI MORTE TRA I 15 E I 60 ANNI

- Intervista con Francesca Racioppi -

 

25 anni fa fu segnalato il primo caso. Da allora sono morte 25 milioni di persone. Stiamo parlando dell’Aids. “L’infezione – ricorda il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan nel suo mesaggio per la giornata mondiale contro la malattia che si celebra oggi - è la principale causa di morte tra i 15 e i 59 anni di età”. Per combattere l’Hiv tutti i governi sono scesi in campo sottoscrivendo programmi di prevenzione comuni tanto che oggi i sieropositivi hanno accesso alle cure come mai in passato. Proprio per non vanificare gli sforzi fatti, come slogan mondiale fino al 2010 è stato scelto “Stop all’Aids, mantieni la promessa”. In particolare quest’anno la parola chiave è “Assumersi la responsabilità”. Antonella Villani ha chiesto a Francesca Racioppi, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Europa, quanto si sta facendo per attuare questo obiettivo:

 

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R. – Vogliamo parlare della responsabilità che è stata assunta dai governi, che si sono impegnati a darsi, entro la fine del 2006, degli obiettivi nazionali. L’altro impegno è quello che è stato preso dai Paesi del G8, che si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo dell’accesso universale ai trattamenti entro il 2010.

 

D. – Qual è la situazione dell’epidemia a livello mondiale?

 

R. – L’epidemia continua a crescere. Nel 2006 stimiamo che siano circa 39 milioni e mezzo le persone con sieropositività o con AIDS. Abbiamo registrato qualcosa come 4,3 milioni di nuovi casi. Questo vuol dire che ogni giorno ci sono circa 11 mila nuove infezioni. La maggior parte dei casi continua a registrarsi nell’Africa subsahariana e abbiamo visto che nell’Europa orientale e nelle Repubbliche centro asiatiche il tasso di infezione è salito del 50 per cento rispetto ai dati del 2004 e questa crescita sta procedendo ad una velocità che è anche superiore rispetto alla crescita dell’epidemia nell’Africa subsahariana.

 

D. – Che fare a questo punto per cercare di arrestare il contagio?

 

R. – Serve la prevenzione. Per fare questo bisogna conoscere come l’epidemia si manifesta e si diffonde nei diversi contesti. Per esempio, mentre nell’Europa occidentale prevale la forma di trasmissione per via sessuale, nell’Europa orientale e nelle Repubbliche centro asiatiche la forma prevalente è quella attraverso le siringhe infette. Accanto alla prevenzione, bisogna migliorare l’accesso al trattamento farmacologico, e poi c’è l’investimento nella ricerca nel campo del vaccino e dei microbicidi.

 

D. – Oltre al problema delle cure, c’è la stigmatizzazione di questi malati. Benedetto XVI ha recentemente auspicato di superare i pregiudizi che ostacolano gli aiuti alle vittime di malattie come l’AIDS. Quanto si è fatto e quanto c’è ancora da fare in questo campo?

 

R. – Si è fatto parecchio e rimane da fare ancora moltissimo, perchè effettivamente il permanere dello stigma sociale, della discriminazione e del pregiudizio sono degli alleati per il diffondersi della malattia. Le persone hanno paura sia di venire a conoscenza della propria condizione, sia di rendere la propria condizione nota ad altri. E questo ha un effetto perverso sia nel ritardo della diagnosi di sieropositività, sia nel ritardo nell’accesso alle cure, ma anche nel proteggere le persone che hanno poi dei contatti di tipo sessuale con le persone infette. Quindi, vogliamo sottolineare che è veramente importante rimuovere gli atteggiamenti di pregiudizio. Bisogna, invece, avere un atteggiamento di apertura, accoglienza e riconciliazione.

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CHIESA E SOCIETA’

1 dicembre 2006

 

 

la conferenza episcopale PORTOGHESE ha invitato a votare no

 e a scegliere la vita AL REFERENDUM SULL’ABORTO CHE VIENE FISSATO

DAL PRESIDENTE aNìBAL cAVACO SILVA PER L’11 FEBBRAIO

 

LISBONA. = Si svolgerà il prossimo 11 febbraio il referendum sull’aborto in Portogallo. La data è stata fissata dal presidente del Paese, Aníbal Cavaco Silva. I portoghesi in questa occasione saranno chiamati a dire se concordano o meno “con la depenalizzazione dell'interruzione volontaria della gravidanza, se realizzata, per scelta della donna, nelle prime 10 settimane, in un istituto di salute legalmente autorizzato”. Il presidente della repubblica, ricordando il referendum sulla questione del 1998, ha sottolineato che il dibattito è rimasto sempre all’ordine del giorno nella società portoghese. In questo quadro, Silva ha quindi affermato che “è imprescindibile che il dibattito su una questione di questa portata si svolga in modo sereno e dignitoso”. Il dibattito, ha aggiunto, deve essere “serio, informativo e chiarificatore”. Dal canto suo, il consiglio permanente della conferenza episcopale portoghese il 19 ottobre scorso ha pubblicato una nota pastorale in cui offre motivi per votare “no” e scegliere la vita. La prima ragione – riporta l’agenzia Zenit - è che “l’essere umano è del tutto presente fin dall’inizio della vita, quando questa è appena allo stato embrionale”. In secondo luogo, spiegano i vescovi, “la legalizzazione non è la via adatta per risolvere il dramma dell’aborto clandestino”. In terzo luogo, “non si tratta di una mera ‘depenalizzazione’, ma di una ‘liberalizzazione legalizzata’”. Per i presuli l’aborto non è un diritto della donna: “Nessuno – spiegano - ha il diritto di decidere se un essere umano vive o non vive, anche se è la madre che l’ha accolto nel proprio grembo”. “L’aborto non è una questione politica, ma di diritti fondamentali – concludono i vescovi –. Il rispetto della vita è la base principale dell’etica, ed è profondamente impresso nella nostra cultura”. Anche il presidente Cavaco Silva ha riconosciuto le implicazioni etiche correlate alla tematica. Implicazioni che – ha detto – “giustificano pienamente una nuova consultazione popolare”. La scelta della data, in febbraio, mira a consentire a tutte le forze politiche e alla società civile di avere il tempo necessario per organizzarsi e considerare tutti i risvolti etici e sociali della questione. (E. B.)

 

 

Nelle filippine è stata massiccia l’adesione all’apertura della nona

“settimana della pace”. Un’iniziativa attraverso la quale cristiani

e musulmani chiedono al governo ed ai ribelli separatisti

del Fronte islamico la fine delle ostilità nell’arcipelago meridionale

 

ZAMBOANGA. = Prosegue nella capitale dell’arcipelago meridionale di Mindanao la nona “Settimana della Pace”, un evento che “in nome di Dio, il misericordioso, chiede la fine di ogni ostilità”. Secondo quanto riporta l’agenzia AsiaNews, all’apertura della manifestazione,  mercoledì scorso, c’erano 30 mila persone tra cristiani e musulmani. Il tema dell’avvenimento è stato scelto dalla conferenza dei vescovi e degli ulema delle Filippine, composta da 24 vescovi cattolici, 18 protestanti e 24 ulema. Così cristiani delle diverse chiese assieme a musulmani, insegnanti, studenti, attivisti per i diritti umani e funzionari del governo hanno marciato insieme per chiedere la fine della guerra fra Manila ed i ribelli del Moro Islamic Liberation Front (MILF), che si battono da decenni per l’autonomia della minoranza musulmana che abita in prevalenza nella parte meridionale delle Filippine. Negli ultimi 2 anni gli scontri armati sono notevolmente diminuiti dopo l’inizio delle trattative di pace con il governo di Manila, che si sono però fermate alcuni mesi fa. Unanime l’apprezzamento per l’iniziativa. Per padre Angelo Calvo, missionario clarettiano e presidente di PazPeace Advocates Zamboanga, un gruppo attivo nella pacificazione della regione meridionale – la gente che marcia “è come un tappeto pieno di colori, che si unisce a chi piange per la guerra e chiede con forza che questa finisca”. Celso Lobregat, sindaco di Zamboanga, si dice “colpito” dalla massiccia partecipazione popolare: “La gente di Zamboanga – ha precisato - ha voluto inviare un forte messaggio a tutte le parti in causa. (E. B.)

 

 

Una messa a new york per ricordare padre benedetto marie benoit,

il frate che salvò migliaia di ebrei SFIDANDO PIù VOLTE LA MORTE

 

NEW YORK. = La Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg ha programmato per oggi una messa nella Chiesa di “St. John the Baptist” a New York in onore del quarantesimo anniversario della designazione di “giusto tra le nazioni” del frate cappuccino, padre Benedetto Marie Benoit. Il cappuccino francese è stato un personaggio leggendario. I contemporanei lo hanno descritto come “l’uomo dalle missioni impossibili”, “il padre degli ebrei”, “l’eroico e leggendario personaggio che ha sfidato più volte la morte pur di salvare gli ebrei dalla furia nazista”. Nel settembre 1943 nella sola città di Roma la rete di assistenza ereditata da padre Benedetto aveva aiutato poco più di cento ebrei stranieri. Nel giugno 1944 tale numero era salito a 4 mila: 1.500 ebrei stranieri e 2.500 ebrei italiani”. Come ricorda l’agenzia Zenit, quando il governo di Vichy pubblicò il famigerato “Statuto degli ebrei”, padre Benedetto trasformò il convento dei cappuccini, al numero 51 di rue Croix de Repnier, a Marsiglia, in un centro di soccorso per centinaia di ebrei e antinazisti, confezionando carte d’identità false per convogliarli verso la Spagna o la Svizzera. Tuttavia quando Marsiglia e il sud della Francia furono occupate dai tedeschi, come alternativa rimaneva solo l’Italia. Allora, padre Benedetto si mise in contatto con Angelo Donati, Direttore del Banco di Credito Italo Francese, un ebreo interamente votato alla difesa dei suoi correligionari. Così Donati gli fece conoscere un progetto per trasferire dai 30 ai 50 mila ebrei dalla Francia all’Italia e da lì in Marocco, Algeria e Tunisia. L‘idea era quella di farsi ricevere in udienza da Papa Pio XII e attraverso la Santa Sede tentare una concreta pressione su Mussolini. Il padre cappuccino venne, infatti, ricevuto in udienza da Papa Pacelli il 16 luglio 1943 e, una volta avuto il consenso anche degli inglesi e degli americani, si procurò l’appoggio di quattro navi che avrebbero dovuto portare gli ebrei francesi verso le coste africane. L’armistizio italiano del settembre 1943 però bloccò il piano. Gli ebrei francesi finirono sotto il controllo della Gestapo, mentre le truppe naziste occuparono l’Italia. Così l’opera di padre Benedetto in difesa degli ebrei continuò a Roma, dove diresse la più grande organizzazione ebraica italiana di soccorso durante la guerra, la DelAsEm (Delegazione Assistenza Emigranti). Servendosi anche di diverse chiese romane, Padre Benedetto indirizzava i profughi nei vari nascondigli, fornendo ogni tipo di assistenza. Alla fine della Guerra il già rabbino capo di Roma, Elio Toaff, ha ricordato che fu proprio il cappuccino alla fine della guerra a riaprire il Tempio assistendo alla sua riconsacrazione, dopo la profanazione dei tedeschi. Il 26 aprile del 1966 la Commissione dell’Istituto Yad Vashem ha riconosciuto padre Benedetto come “Giusto tra le genti”. (E.B.)

 

 

Emergenza alluvioni in AFRICA: aumentano le vittime

e gli sfollati ANCHE IN RWANDA E MALAWI

 

LILONGWE – KIGALI. = A causa delle forti piogge degli ultimi mesi, sono sempre più numerosi gli sfollati e le vittime delle alluvioni in Africa. Un’emergenza che ha colpito non solo il Corno d’Africa – e in particolare Kenya, Somalia ed Etiopia – ma anche più a sud, il Rwanda e il Malawi. Nei giorni scorsi il fiume Base, nel nord del Rwanda, è infatti straripato uccidendo almeno 25 persone e costringendone un centinaio ad abbandonare le proprie abitazioni. “Ma il bilancio potrebbe aumentare facilmente”, ha detto Boniface Rucago, governatore della Provincia settentrionale, precisando che “le vittime sono state colte di sorpresa, quando l’acqua ha iniziato a riversarsi sulle loro case, spazzandole via insieme alle loro proprietà”. In Kenya, sulle vittime delle alluvioni circolano cifre contrastanti: secondo la Croce Rossa – afferma l’agenzia MISNA - sarebbero almeno 34, mentre secondo funzionari locali, sarebbero già 51. Incalzato dalla popolazione perché proclami lo stato di ‘disastro naturale’, il presidente Mwai Kibaki ha assicurato in un comunicato che “il governo sta assistendo le comunità colpite dalle alluvioni”, che, secondo le Nazioni Unite, sarebbero almeno 723 mila. In Malawi, si contano 8 mila senza-tetto dopo lo straripamento del fiume Shire: quattro donne e un bambino sono inoltre affogati. Anche la situazione a nord è preoccupante. In Somalia i morti sono 126, mentre su circa 1 milione di persone che vivono nelle zone alluvionate, vi sarebbero circa 336 mila sfollati. In Etiopia, da agosto ad oggi, oltre un migliaio di persone sono morte e 280 mila coltivatori sono stati costretti a fuggire dai loro villaggi dopo che i fiumi sono straripati. Secondo le organizzazioni umanitarie, le piogge torrenziali – le peggiori in cinquant’anni – continueranno sino ai primi del 2007 nel Corno d’Africa, il cui suolo inaridito dopo mesi di siccità, non riesce ad assorbire adeguatamente le intense precipitazioni. I fiumi, inoltre, straripano per mancanza di manutenzione adeguata. (E. B.)

 

 

Nel 2015 saranno 252 mila i pensionati stranieri in Italia: molti di loro

a causa di pensioni minime rischiano di aumentare le fila dei nuovi poveri nel paese. E’ l’allarme della caritas migrantes, laNciato oggi a roma

al convegno “essere anziani in immigrazione”

 

ROMA. = Quando gli immigrati andranno in pensione, quasi sempre con la pensione sociale di 500 euro, saranno destinati “ad alimentare le fila dei nuovi poveri”, a meno che “non vengano adottate adeguate contromisure”. E’ l’allarme lanciato oggi da Franco Pittau, del Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes, intervenendo al convegno “Essere anziani in immigrazione”, promosso a Roma dal Consiglio nazionale donne italiane, dalla direzione flussi migratori dell’INPS, dal Forum per una democrazia partecipata e dal Dossier Caritas/Migrantes. Secondo stime citate dall’esperto – afferma l’agenzia SIR - nel 2015 saranno 252 mila i pensionati stranieri in Italia. Il fatto che le loro pensioni il più delle volte saranno quelle minime - aggiunge Pittau - è dovuto al fatto che “la retribuzione media percepita dai lavoratori immigrati nel 2003 è stata pari a 9.423 euro annuali, all'incirca il 40% in meno rispetto alle retribuzioni medie degli italiani”. Così, calcolando che 40 anni di carriera consentono di arrivare al 60% della retribuzione – conclude l’esperto – il futuro dei beneficiari immigrati sarà molto disagevole. (E. B.)

 

 

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24 ORE NEL MONDO

1 dicembre 2006

 

 

- A cura di Amedeo Lomonaco e Ada Serra -

 

In Iraq, almeno 12 persone sono rimaste uccise in diversi attacchi compiuti da ribelli in varie zone del Paese. I più gravi sono avvenuti in un mercato di Baghdad, dove l’esplosione di un’autobomba ha provocato 3 morti, e a Kirkuk, teatro di un attacco kamikaze contro una pattuglia della polizia costato la vita a tre persone. A Nassiriya, intanto, è arrivato il ministro della Difesa italiano, Arturo Parisi, per la cerimonia che sancirà la fine della missione italiana in Iraq. Domani, dopo tre e anni e mezzo dall’inizio della missione ‘Antica Babilonia’, sarà rimpatriato l’ultimo soldato. Nel Paese arabo sono morti complessivamente, in seguito ad attacchi e incidenti, 32 militari italiani.

 

In Afghanistan, sono rimasti uccisi nel sud del Paese sei presunti talebani nel corso di scontri a fuoco con agenti di polizia. Lo riferiscono fonti locali, precisando che sono anche stati arrestati due ribelli.

 

In Medio Oriente, comandanti militari israeliani e palestinesi si sono incontrati al valico di Eretz per consolidare la tregua nella Striscia di Gaza. Nei Territori Palestinesi, la situazione resta comunque difficile: in Cisgiordania un palestinese di 16 anni è stato ucciso da soldati israeliani. Intanto in Giordania, nel corso delForum per il fururo’, al quale partecipano ministri degli Esteri dei Paesi arabi e degli Stati del G8, si è ribadita la necessità di intraprendere una strategia comune con il mondo arabo per spezzare la catena di conflitti che insanguina il Medio Oriente. Sul versante politico, il presidente palestinese Abu Mazen ha convocato oggi il comitato esecutivo dell’OLP dopo le dichiarazioni rilasciate ieri sullo stallo tra Fatah e Hamas per la formazione di un governo di unità nazionale.

 

Allarme informatico negli Stati Uniti: l’amministrazione americana ha riferito che al Qaeda starebbe preparando un massiccio cyber-attacco contro diversi siti internet di istituzioni finanziarie. In un documento, redatto dalla Sicurezza interna statunitense, si legge che tra gli obiettivi dell’organizzazione terroristica c’è quello di violare i database dei siti della Borsa azionaria. A rischio, secondo agli esperti informatici, ci sarebbero conti correnti, portafogli di titoli e operazioni finanziarie di ogni genere.

 

Nello Sri Lanka un soldato è stato ucciso e 14 sono rimasti feriti in seguito ad un attentato kamikaze, avvenuto stamani a Colombo. Obiettivo dell’attacco era il convoglio di veicoli all’interno del quale viaggiava il ministro della Difesa, Gothabaya Rajapakse, rimasto invece illeso. Il ministro Rajapakse, fratello del presidente della Repubblica, è noto per la sua linea particolarmente dura contro i ribelli indipendentisti tamil, che proprio nei giorni scorsi avevano annunciato la ripresa della lotta contro il governo centrale.

 

In Corea del Sud è stato designato il nuovo ministro degli Esteri, Song Min-soon. Song prende il posto di Ban Ki-moon, che dal primo gennaio ricoprirà l’incarico di segretario generale delle Nazioni Unite. La nomina del nuovo capo della diplomazia sudcoreana è stata accolta con pesanti critiche dall’opposizione, che lo accusa di antiamericanismo. Subito dopo l’investitura, Song si è dichiarato pessimista su una rapida ripresa dei negoziati sul programma nucleare della Corea del Nord. Le affermazioni di Song giungono dopo che ieri il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Mohamed El Baradei, aveva detto in una conferenza stampa a Tokyo che l’AIEA è pronta a collaborare con Pyongyang.

 

In Ucraina, il Parlamento ha votato questa mattina per rimuovere dal loro incarico i ministri filo occidentali degli Interni e degli Esteri, alleati-chiave del presidente Viktor Yushchenko. L’Assemblea ed il governo del filo-russo Viktor Yanukovich sono da mesi ai ferri corti con il presidente ucraino. Yushchenko, cui spetta il compito di nominare il ministro degli Esteri, ha affermato che ricorrerà alla Corte Costituzionale.

 

In Messico il conservatore Felipe Calderon si è insediato come nuovo presidente. Il neo capo di Stato ha ricevuto una bandiera messicana e intonato l’inno nazionale davanti ad un drappello militare e ai ministri di Difesa, Marina e Sicurezza pubblica. La sua elezione è stata contestata dalla sinistra che considera invece vincitore il proprio candidato, Andreas Manuel Lopez Obrador, autoproclamatosi “presidente legittimo”. La magistratura messicana ha comunque respinto le accuse di presunti brogli avvenuti durante la consultazione dello scorso 2 luglio. I deputati del Partito di azione nazionale, di destra, e del Partito della rivoluzione democratica, di sinistra, continuano intanto a presidiare la sede del Parlamento. I rappresentanti di questo secondo schieramento vogliono impedire la cerimonia di investitura, nel corso della quale il presidente uscente consegnerà la sciarpa presidenziale a Calderon.

 

Nel sud Sudan almeno 300 persone sono morte in scontri avvenuti nei giorni scorsi tra soldati governativi e ribelli. Il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha dichiarato che i combattimenti, costati la vita a molti civili, costituiscono una grave violazione della tregua siglata nel gennaio del 2005 dal governo di Karthoum e dal sedicente ‘Esercito di liberazione del popolo sudanese’. In Sudan resta critica, poi, la situazione del Darfur. L’Unione Africana ha prorogato di sei mesi la durata del mandato della sua forza di pace nella martoriata regione occidentale sudanese. Sul Darfur si è espresso anche il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani. Il servizio di Giulio Albanese:

 

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Il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha approvato la convocazione di una sessione di emergenza sul Darfur. La proposta è stata appoggiata da 29 dei 47 Stati rappresentati nel Consiglio. Venti Paesi con status di osservatore, tra cui gli Stati Uniti, hanno votato a favore. I lavori di questa sessione speciale, cui tra l’altro spetterà il delicato compito di raccogliere ed esaminare attentamente prove sulle violazioni dei diritti umani nella regione sudanese, dovrebbero iniziare intorno al 12 dicembre. In questa sessione speciale potrebbe essere deciso di inviare una missione di verifica nella regione o addirittura di rafforzare la presenza degli osservatori.

 

Per la Radio Vaticana, Giulio Albanese

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Il governo del Ciad ha inviato, ieri, una lettera al presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in cui si chiede di condannare le “manovre aggressive e destabilizzanti” attuate da Sudan e Arabia Saudita, accusate di aver aiutato i ribelli che nelle scorse settimane hanno tentato di rovesciare il governo di N’Djamena.

 

 

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