RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLIX
n.10 - Testo della trasmissione lunedì
10 gennaio 2005
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
ai nostri microfoni l’ambasciatore
indonesiano
OGGI IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
Celebrato
a Berlino un rito ecumenico in memoria delle vittime dello tsunami
La Chiesa di Cuba ha proclamato il 2005 “Anno della
missione”
Diciotto milioni di bambini africani rischiano di rimanere
orfani entro il 2010 a causa dell’Aids
Si commemorano oggi i 20 anni della Pontificia Università della Santa Croce
Nuova scossa di
terremoto e tanta paura in Indonesia. Nello Sri Lanka riaprono le scuole
10
gennaio 2005
GIOVANNI PAOLO II RICEVE IL CORPO DIPLOMATICO E
INDICA LE QUATTRO SFIDE
PER
L’UMANITA’: LA DIFESA DELLA VITA FIN DAL CONCEPIMENTO,
L’EQUA DISTRIBUZIONE
DEI BENI DELLA TERRA, LA COSTRUZIONE DELLA PACE
SENZA VIOLENZA E,
ANCORA, LA PROMOZIONE DELLA LIBERTA’,
IN PARTICOLARE QUELLA
RELIGIOSA. IL PAPA HA POI RICORDATO
LE GRANDI TRAGEDIE CHE
HANNO FUNESTATO IL 2004,
RIBADENDO CHE DIO NON
CI ABBANDONA MAI
- Servizio di
Alessandro Gisotti -
Vinci il male con il bene: è
l’esortazione rivolta dal Papa agli ambasciatori presso la Santa Sede, ricevuti
stamani in Vaticano per il tradizionale discorso di inizio anno al Corpo diplomatico,
guidato dal decano Giovanni Galassi, ambasciatore di San Marino. Il Pontefice
ha messo l’accento sull’urgenza della difesa della vita sin dal concepimento e
sulla necessità di una equa distribuzione delle ricchezze del pianeta. Ha poi
levato un’esortazione in favore della libertà religiosa indicando nel dialogo
la vera forza che può condurre alla pace. Quindi, ha passato in rassegna tutti
i grandi temi d’attualità internazionale: dalla tragedia dello tsunami nel
sudest asiatico alle speranze di pace in Medio Oriente e Darfur. Ancora, dalla
fame nel mondo alla situazione in Iraq. Il servizio di Alessandro Gisotti:
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La vita, il pane, la pace e la
libertà: sono le quattro grandi sfide per l’umanità di oggi indicate da
Giovanni Paolo II nel discorso al Corpo diplomatico. Il Papa ha innanzitutto ricordato
le grandi tragedie che hanno funestato il 2004: quelle portate dalla natura
come lo tsunami nel sudest asiatico o la piaga delle cavallette
nell’Africa nord occidentale; quelle opera dell’uomo come “gli atti di barbaro
terrorismo che hanno insanguinato l’Iraq, l’efferato attentato di Madrid, la
strage terroristica di Beslan”, le violenze nelle regioni africane del Darfur e
dei Grandi Laghi. Di fronte a questi eventi, ha detto il Pontefice, “non
riusciremmo a liberarci da tristi dubbi
sulle sorti dell’uomo, se proprio dalla culla di Betlemme non ci venisse un
messaggio, insieme umano e divino, di vita e di più forte speranza”. E’ Dio
stesso che ci rivolge l’invito a “non lasciarci mai scoraggiare”. Proprio il mistero
della nascita di Cristo, ha aggiunto, è latore di un messaggio universale:
vincere il male con il bene.
Giovanni Paolo II ha così messo
l’accento sulla sfida della vita, che, ha rilevato, “si va facendo in
questi ultimi anni sempre più vasta e più cruciale”. Ha quindi ribadito che la
posizione della Chiesa, “suffragata dalla ragione e dalla scienza, è chiara:
l’embrione umano è soggetto identico all’uomo nascituro e all’uomo nato che se
ne sviluppa. Nulla pertanto è eticamente ammissibile che ne violi l’integrità e
la dignità”. Ancora è stato il richiamo del Santo Padre, la ricerca
scientifica, “come ogni attività umana, non può mai essere esente da imperativi
morali”. La sfida della vita, ha sottolineato, è particolarmente legata alla
famiglia, “oggi sovente minacciata da fattori sociali e culturali che fanno
pressione su di essa rendendone difficile la stabilità”. Per questo, “non si
lasci che la famiglia, fonte feconda della vita”, venga “minata da leggi
dettate da una visione restrittiva ed innaturale dell’uomo”.
Questo incontro, ha continuato,
offre l’occasione per soffermarsi sulla sfida del pane. La terra, ha
rilevato, ha “nutrimento abbondante” eppure “centinaia di esseri umani soffrono
gravemente di denutrizione, ed ogni anno milioni di bambini muoiono per la fame
o per le sue conseguenze”. E’ allora quanto mai necessaria “un’ampia
mobilitazione morale dell’opinione pubblica” ed ancor più dei responsabili
politici. In tale contesto ha ricordato il grande principio della “destinazione
universale dei beni della terra”. Principio che “non giustifica certo forme
collettivistiche di politica economica, ma deve motivare un radicale impegno di
giustizia ed un più attento e deciso sforzo di solidarietà”.
Il Papa ha poi rivolto il suo
pensiero alla sfida della pace, “sogno di tutte le generazioni”. In
Africa come in Asia, ha affermato, il ricorso alle armi “mentre reca danni
materiali incalcolabili, fomenta l’odio ed accresce le cause di discordia,
rendendo sempre più difficile la ricerca ed il raggiungimento di soluzioni
capaci di conciliare i legittimi interessi di tutte le parti coinvolte”. A
questi mali, ha proseguito “si aggiunge il fenomeno crudele e disumano del
terrorismo, flagello che ha raggiunto una dimensione planetaria ignota alle precedenti
generazioni”. Ma il Papa ha indicato anche le vie della pace: “alla prepotenza
- è stata la sua esortazione – si deve opporre la ragione, al confronto della
forza il confronto del dialogo, alle armi puntate la mano tesa: al male il
bene”. Non mancano, d’altro canto, i segni incoraggianti, ha detto il
Pontefice: in Medio Oriente, “il crudele confronto delle armi pare sopirsi, ed
aprirsi uno sbocco politico verso il dialogo ed il negoziato”; in Africa cresce
la “comune volontà di operare per la soluzione e la prevenzione dei conflitti”.
Esempi ne sono l’impegno per l’emergenza umanitaria nel Darfur, la situazione
in Somalia e nella regione dei Grandi Laghi. Giovanni Paolo II ha poi citato
l’Europa come modello di pace possibile. Qui, “nazioni un tempo fieramente
avversarie – ha constatato – si ritrovano oggi insieme nell’Unione Europea”.
Tuttavia, ha avvertito, “per portare una pace vera e duratura su questo nostro
pianeta insanguinato è necessaria una forza di bene che non arretri di fronte
ad alcuna difficoltà. E’ una forza che l’uomo da solo non riesce ad ottenere né
a conservare: è un dono di Dio”.
Si è infine soffermato sulla sfida
della libertà, tema, ha ribadito, che gli è particolarmente caro per la
storia del popolo da cui proviene. La libertà, ha specificato, è “anzitutto un
diritto dell’individuo”. Sacra è anche la libertà degli Stati, che “devono
essere liberi” proprio “per poter assolvere adeguatamente al loro dovere
primario di tutelare, insieme alla vita, la libertà dei loro cittadini in tutte
le sue giuste manifestazioni”. La libertà, ha detto, “è un bene grande, perché
solo con essa l’uomo può realizzarsi in maniera rispondente alla sua natura”.
Ha dunque focalizzato la parte conclusiva del suo discorso sulla libertà di religione,
diritto non ancora adeguatamente riconosciuto in numerosi Stati. Eppure, ha affermato,
“l’anelito alla libertà di religione non è sopprimibile: esso rimarrà sempre
vivo e pressante finché sarà vivo l’uomo”. La libertà religiosa, ha
evidenziato, non limita le altre libertà. Al contrario, con essa si “sviluppa e
fiorisce anche ogni altra libertà: perché la libertà è un bene indivisibile
prerogativa della stessa persona umana e della sua dignità”. Né si tema, ha
aggiunto il Pontefice, che la libertà religiosa, “una volta riconosciuta alla
Chiesa Cattolica, sconfini nel campo della libertà politica e delle competenze
proprie dello Stato: la Chiesa – ha concluso - sa ben distinguere, come suo
dovere, ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio”.
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Nel suo indirizzo d’omaggio il
decano del Corpo diplomatico, l’ambasciatore di San Marino, Giovanni Galassi,
ha sottolineato come, nell’attuale difficile situazione internazionale,
troviamo conforto nel Magistero del Pontefice. Con amore paterno, ha detto il
diplomatico, Giovanni Paolo II “ci sospinge ad educare i popoli alla pace, al
costante dialogo e alla comprensione tra diversi”. Ancora, “a rispettare la
legge morale universale per costruire una terra amica, ove nessuno si senta
straniero, ma dove con reciproca solidarietà si possa giungere a realizzare una
civiltà di giustizia autentica senza discriminazioni, illuminata dai valori
dello spirito”.
La Santa Sede intrattiene
attualmente relazioni diplomatiche piene con 174 Stati. Le ultime relazioni
diplomatiche sono state stabilite, nel corso del 2002, con la Repubblica di
Timor Est e con lo Stato di Qatar. Inoltre, la Santa
Sede ha relazioni diplomatiche anche con l’Unione Europea e il Sovrano
Militare Ordine di Malta. Infine, ha relazioni di natura speciale con la Federazione Russa e con l’Organizzazione per la Liberazione
della Palestina. La Santa Sede partecipa a
differenti Organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e regionali
tra i quali l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione
in Europa (Osce), la Lega Araba, l’Organizzazione degli Stati Americani
e l’Organizzazione per l’Unità Africana.
Nel corso dell’anno 2004, la
Santa Sede ha firmato (13 maggio) un Accordo sull’educazione e l’istruzione
cattolica con la Repubblica Slovacca; c’è stata inoltre la firma (18 maggio)
del Concordato fra la Santa Sede e la Repubblica Portoghese. Lo scambio degli
strumenti di ratifica dei due testi è avvenuto rispettivamente il 9 luglio e il
18 dicembre. Sempre nel 2004, la Santa Sede ha proceduto allo scambio degli
strumenti di ratifica degli Accordi con la Libera Città Anseatica di Brema (13
maggio), con il Land tedesco di Brandeburgo (25 maggio), con la Repubblica di
Slovenia (28 maggio) e con la Repubblica del Paraguay (18 ottobre).
Ha
partecipato all’incontro del Corpo Diplomatico con il Papa anche l’ambasciatore
dell’Indonesia presso la Santa Sede, Bambang Prayitno. L’Indonesia è stato il
Paese più colpito dal maremoto. Giovanni Peduto ha intervistato l’ambasciatore
e gli ha chiesto con quali sentimenti ha preso parte a questo evento in un
momento così difficile per l’Indonesia:
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R. – THE ANNUAL MEETING WITH THE DIPLOMATIC CORPS
ACCREDITED TO THE ...
L’incontro annuale tra il Corpo
Diplomatico accreditato presso la Santa Sede ed il Santo Padre è un evento
importante; proprio in questo momento così difficile per l’Indonesia, desidero
sottolineare quanto ha affermato lo stesso Santo Padre quando ha voluto incoraggiare
la comunità internazionale ad aiutare e sostenere il Paese colpito dallo tsunami.
Questo appello del Papa è stato accolto molto positivamente ed è rimbalzato nel
consesso globale internazionale, con la solidarietà manifestata dalla comunità
internazionale, dalle istituzioni fino ai singoli individui: grazie!
D. – Qual è la situazione
attualmente in Indonesia, dopo il disastro?
R. – THE INDONESIAN GOVERNMENT, IN COLLABORATION WITH
...
Il Governo indonesiano, in
collaborazione con la comunità internazionale, sta valutando l’impatto
determinato dallo tsunami nelle zone devastate. E’ un dato di fatto che
la situazione è drammatica: la distribuzione degli aiuti umanitari nelle
regioni colpite trova grossi ostacoli a causa delle infrastrutture a loro volta
danneggiate. Comunque, la priorità assoluta in questo disastro è il sostegno
delle persone colpite e la ricostruzione materiale.
D. – Come vede l’azione della
Chiesa cattolica a favore delle popolazioni colpite?
R. – THE ROLE OF THE CATHOLIC CHURCH ...
E’ rimarchevole il ruolo svolto
dalla Chiesa cattolica nell’affrontare vari tipi di emergenze. Nell’ultima
evenienza del disastro causato dallo tsunami, considero importante
l’intervento della Chiesa cattolica.
D. – Questa tragedia può aiutare
una fraternità maggiore tra la maggioranza musulmana dell’Indonesia e la
minoranza cristiana?
R. – ACTUALLY, A DEEP SENSE OF BROTHERHOOD ...
In questo momento esiste un
profondo senso di fratellanza tra i seguaci delle diverse religioni, deve
esistere e deve essere il fondamento di una società sana. Non dovrebbe però
necessariamente essere provocato o sostenuto da una calamità. Credo che oggi
sia fondamentale ogni sforzo compiuto per raggiungere una migliore comprensione
ed una profonda armonia tra le diverse religioni.
D. – Vorrebbe lanciare un
appello dai nostri microfoni?
R. – YES. OF COURSE ...
Sì, certamente. Vorrei chiedere
che la vicinanza spirituale e la solidarietà internazionale siano mantenute
anche in futuro. Infatti, dopo questa catastrofe ci troviamo di fronte alla grande sfida della ricostruzione delle aree colpite dallo tsunami.
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RINUNCIA
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia all’ufficio di
ausiliare dell’arcivescovo di Milano presentata da mons. Angelo Mascheroni, vescovo titolare di Foro
Flaminio, per raggiunti limiti di età.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
Apre
la prima pagina il titolo "La vita, il pane, la pace e la libertà: le
grandi sfide dell'umanità di oggi", in riferimento al discorso di Giovanni
Paolo II al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede durante
l'udienza per la presentazione degli auguri per il nuovo anno.
Nelle
vaticane, all'Angelus l'abbraccio del Papa ai bambini battezzati nel corso di
quest'anno.
L'omelia
del Cardinale Crescenzio Sepe nella Concelebrazione Eucaristica presieduta - nella
Cattedrale di Aversa - in occasione del conferimento dell'ordinazione
episcopale a mons. Francesco Marino, nuovo Vescovo di Avellino. Il servizio
dell'inviato Francesco M. Valiante.
Nelle
estere, Medio Oriente: netta affermazione di Abu Mazen alle elezioni presidenziali
palestinesi.
Il
Nunzio Apostolico in Indonesia visita le comunità colpite dal maremoto.
Sudan:
firmato l'accordo per la pace nel Sud; resta irrisolta la grave crisi nel Darfur.
Nella
pagina culturale, un articolo di Franco Pelliccioni dal titolo " In Olanda
la ricorrenza di San Nicola lascia al Natale l'aspetto religioso": una
festa antica, già ricordata in un documento del 1360.
Nelle
pagine italiane, in primo piano la sciagura ferroviaria avvenuta, sabato, vicino
a Bologna. Intenso ma composto dolore dei familiari delle diciassette vittime.
Il procuratore di Bologna assicura: "Andremo a fondo anche sui sistemi di
sicurezza
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10
gennaio 2005
ELEZIONI PALESTINESI NEL SEGNO
DI ARAFAT. ALLE CONSULTAZIONI DI IERI
PER LA SCELTA DEL PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ
NAZIONALE PALESTINESE,
NETTA
AFFERMAZIONE DEL LEADER DELL’OLP E CANDIDATO DI AL FATAH,
MAHMUD ABBAS, DETTO ABU MAZEN
- Intervista con Antonio Ferrari -
Mahmud
Abbas, detto Abu Mazen, è il successore di Yasser Arafat. Nelle elezioni presidenziali
palestinesi di ieri, il candidato di Al Fatah ha vinto con il 62,3 per cento
dei consensi. Il rivale più vicino ad Abu Mazen, il democratico indipendente
Mustafa Barguti, ha ottenuto invece il 19,8 per cento delle preferenze. Il
giuramento del vincitore è previsto mercoledì prossimo. L’affluenza è stata del
66 per cento e le operazioni di voto si sono svolte regolarmente nonostante
l’invito a boicottare le elezioni diffuso da militanti islamici. La chiusura
dei seggi è stata rinviata di due ore per consentire agli elettori, trattenuti
ai posti di blocco israeliani per i controlli, di recarsi alle urne. Sulla
consultazione, ascoltiamo Amedeo Lomonaco:
**********
Abu
Mazen ha dedicato la vittoria al suo predecessore. “Offriamo questo successo -
ha dichiarato l’ex premier a Ramallah - all’anima del nostro fratello Yasser
Arafat e a tutti i palestinesi”. Abu Mazen si è detto pronto ad incontrare il
premier israeliano Ariel Sharon in qualsiasi momento. Il riferimento al “nemico
sionista”, pronunciato martedì scorso
dopo l’uccisione di sette palestinesi, viene ora considerato da molti
editorialisti israeliani, come un moto di rabbia. Il neo presidente
dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) ha sottolineato la necessità di
trovare una soluzione al conflitto illustrando i punti fondamentali del suo
programma. “La nostra linea politica – ha spiegato Abu Mazen - è quella ratificata
dal Consiglio nazionale palestinese nel 1998. Non possiamo accettare un accordo
che ci dia meno di uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967 e con
capitale Gerusalemme est”. Sulla Road Map, il piano di pace fissato da
ONU, Russia, Unione Europea e Stati Uniti, l’ex
premier ha ribadito l’impegno per la sua realizzazione: “La Road Map –
ha detto – esiste ancora, nonostante sia stata spinta in un angolo dalla
decisione del disimpegno unilaterale da Gaza”. I movimenti di Hamas e Jihad
islamica hanno manifestato, inoltre, la loro disponibilità a collaborare e ad
aprire un dialogo con il nuovo leader palestinese. Commentando le elezioni, il
presidente americano, George Bush, ha parlato di un giorno storico per il
popolo palestinese e ha chiesto ad Israele di “migliorare la situazione
umanitaria ed economica in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza”. Nello Stato
ebraico, intanto, è previsto oggi il voto di approvazione sul nuovo governo
formato dal partito di centrodestra di Sharon, il ‘Likud’, dai laburisti di
Shimon Peres, designato come vice premier, e dalla formazione ortodossa del
‘Fronte della Torah’. Sul terreno si registrano, infine, nuove tensioni al confine
tra Israele e Libano: un casco blu francese è rimasto ucciso in un agguato
rivendicato dalle milizie sciite filo iraniane degli Hezbollah.
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“Lavorerò
per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese, un popolo che merita
stima, rispetto e fedeltà”. Lo ha dichiarato Abu Mazen subito dopo la vittoria
elettorale. Ecco la nostra scheda:
Abu
Mazen è nato nel 1935 a Safed nella Palestina, allora sotto mandato britannico,
e nel 1948, anno della creazione dello Stato di Israele, si è trasferito a Damasco
dove si è laureato in legge. A Mosca ha poi conseguito un dottorato di ricerca
con una tesi sul sionismo. Abu Mazen è stato uno degli architetti degli accordi
di Oslo del 1993 sull’autonomia palestinese ed uno dei firmatari della Dichiarazione
di principi israelo-palestinese. Dal 1980 fa parte del comitato esecutivo
dell’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina della quale è stato
anche nominato presidente. Nel dicembre del 2000, pochi giorni dopo lo scoppio
della seconda Intifada, ha esortato i palestinesi a cessare la lotta armata.
Gradito ad Europa e Stati Uniti, Abu Mazen è stato designato primo ministro nel
marzo del 2003, carica che ha ricoperto per quattro mesi. Si è presentato alle elezioni
come candidato di Al Fatah, partito fondato nel 1957 dal defunto leader
dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat.
La
netta vittoria di Abu Mazen – che ha ricevuto stamani anche le congratulazioni
del leader laburista israeliano, Peres – ha dunque confermato le previsioni
della vigilia. Andrea Sarubbi ne ha parlato con Antonio Ferrari, inviato
speciale del Corriere della Sera ed analista di questioni mediorientali:
**********
R. – Le percentuali sono più o
meno quelle che erano state previste: Abu Mazen è riuscito, in fondo, a
raccogliere tutto quello che voleva: un voto non di passione ma di mente, di
ragionamento, di speranza… Abu Mazen ha avuto una grande abilità: di prendere
da Arafat la parte più positiva, quella che poi portò agli accordi di Oslo. Ha
avuto la grande abilità di far capire di poter essere l’uomo della continuità
e, nello stesso tempo, l’uomo di un radicale cambiamento.
D. – Pur avendo vinto
nettamente, però, Abu Mazen non è riuscito a mettere tutti d’accordo. Hamas ha
già detto: “Questo presidente rappresenta appena un terzo dei palestinesi e non
rappresenta noi” ...
R. – Questa sarà una chiave
degli sviluppi delle prossime settimane: e cioè, se Abu Mazen sarà in grado –
visto che ha avuto contatti con Hamas e li ha tuttora – di trasformare Hamas e
tutte le altre forze più “estremiste” in un soggetto politico… magari di opposizione,
ma comunque soggetto politico. Questa sarebbe la sua vittoria. Se riesce a far
questo, sono molto alte le possibilità che ci sia davvero una speranza di
riprendere un negoziato di pace serio.
D. – Ci si aspetta molto da Abu
Mazen: Israele, Francia e Stati Uniti già stanno parlando di una possibile pace
...
R. – In fondo, una speranza
esiste. E trae fondamento proprio da quello che ha detto Abu Mazen: “Non
possiamo arrivare ad un accordo se non trattiamo, se non ci parliamo. Sono
pronto ad incontrare Sharon in qualsiasi momento. Sono un negoziatore duro,
però non credo nella violenza”. Il problema, comunque, è non esagerare
nell’ottimismo, perché le delusioni sono state tante anche nel passato.
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DA OGGI I VESCOVI
EUROPEI E AMERICANI A GERUSALEMME E BETLEMME
PER
L’INCONTRO ANNUALE CON I CATTOLICI DI TERRA SANTA
PER NON DIMENTICARE I CRISTIANI CHE VIVONO NELLA
TERRA DI GESU’
- Intervista con mons. Peter Fleetwood e mons.
Pierluigi Vacchelli -
E’ iniziata stamane a
Gerusalemme, per spostarsi nel pomeriggio a Betlemme, la riunione annuale del "Gruppo di Coordinamento" per la Terra
Santa dei vescovi europei e americani con l'Assemblea degli Ordinari Cattolici
locali. L'incontro desidera essere espressione concreta della solidarietà degli Episcopati con la comunità
cattolica di Terra Santa in un momento di difficoltà sociale ed economica,
oltre che politica. Tra i temi al centro dell’incontro: la situazione generale
in Israele e in Palestina, l'impatto sulla Chiesa locale degli accordi conclusi
dalla Santa Sede, rispettivamente, con lo Stato d'Israele e l'Organizzazione
per la Liberazione della Palestina e infine il dialogo con ebrei, musulmani e
le altre Chiese cristiane. Ma quando è nata e da chi è partita
l’iniziativa di questo incontro? Antonella Palermo lo ha chiesto a mons. Peter
Fleetwood, segretario generale aggiunto del Consiglio ecumenico delle Chiese in
Europa:
**********
R. - L’iniziativa è nata cinque anni fa, per un’idea sia della Santa
Sede che di alcuni vescovi dell’Europa e dell’America del nord, per dire ai
cattolici e alle comunità cristiane della Terra Santa che non sono sole e
dimenticate. All’inizio tutto è stato organizzato prevalentemente dai vescovi
degli Stati Uniti; poi l’organizzazione si è trasferita in Inghilterra e in
Galles. Adesso è l’arcivescovo Patrick Kelly di Liverpool che guida il gruppo.
Parleremo in particolare della situazione delle popolazioni cristiane in Terra
Santa. Si vede quanto sono grandi gli sforzi che si stanno facendo, ma alla
fine uno deve chiedersi: “dove lavoreranno i tanti giovani, che pure sono ben
preparati?”. Molti di loro vanno via e non tornano più. E’ una cosa molto
triste, perché si assiste allo svuotamento della popolazione cristiana nei
Paesi del Medio Oriente. Si vede una mancanza di un’”intellighenzia”
giovane e ben preparata, impegnata nel
futuro del Paese. Alcuni non vedono un futuro. Proprio per questo i vescovi
vogliono tornare ogni anno. Quest’anno volevano fare una pausa, ma i vescovi
della Galilea hanno detto: “No, se non venite questa vostra assenza manderà un
messaggio molto negativo allo Stato d’Israele ed anche a noi. Noi dipendiamo
dalla vostra solidarietà”.
D. - Ma quindi la condizione in
cui vivono i cattolici in queste regioni qual è?
R. – E’ molto diversificata. Chi
vive a Gerusalemme non sta troppo male. Chi sta a Betlemme invece vive una
sorta di assedio. E’ l’unica parola che riesco a trovare per spiegare come mi
sento quando vengo qui. Mi ricorda l’Irlanda del nord di tanti anni fa, che
grazie a Dio non è più così. Questo assedio viene espresso visivamente dal muro
di sicurezza, la barriera di sicurezza costruita dagli israeliani. E’ una cosa
orrenda da vedere e simbolicamente dice tanto, ciò che nessuna parola potrebbe
mai descrivere. I cristiani della Galilea, invece, vivono una situazione, per
così dire, molto più normale. Non ci sono tutte le tensioni presenti a
Gerusalemme, a Betlemme ed anche a Gaza.
**********
L'incontro di Gerusalemme, come detto, vuole essere espressione concreta
della solidarietà degli Episcopati americani e europei alla comunità cattolica
di Terra Santa. Ma cosa è emerso dalla prima giornata di lavori? Giancarlo La
Vella lo ha chiesto a mons. Piergiuseppe Vacchelli, sottosegretario della Cei e
presidente del Comitato interventi caritativi per i Paesi del Terzo Mondo.
**********
La prima giornata di lavori è iniziata con il saluto del patriarca Michel
Sabbah, il quale ha dato un’annotazione molto importante sul piano della
comunione della Chiesa nel mondo in ordine ai problemi della Palestina. Dopo
l’intervento del Patriarca ci sono state due testimonianze ragionate da parte
di un rappresentante palestinese e di un rappresentante israeliano che con
competenza hanno detto il loro punto di vista evidentemente divergenti in
qualche momento nella valutazione della situazione, ma tutto questo è stato
molto importante perché fatto con pacatezza. Se si riescono a capire le
divergenze si riesce ad intuire come il cammino nel tempo non possa essere che
quello del dialogo nel quale pur non approdando immediatamente a dei discorsi
di pace, però si avvia qualche cosa che si chiama convivenza rispettosa per
misurarsi sui valori veri degli uni e degli altri, facendoli emergere in una
maniera molto chiara perché è soltanto così che si può camminare e guardare in
prospettiva.
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LA PACE SEMBRA ESSERE SBARCATA IN SUDAN.
IERI IN KENYA LA FIRMA DELL’ACCORDO DI PACE TRA IL
GOVERNO
DI KHARTOUM E I RIBELLI DEL SUD DEL PAESE
-
Intervista con padre Carmine Curci -
Storico accordo ieri a Nairobi,
in Kenya, tra il governo del Sudan e i ribelli del sud. Il trattato, frutto di
lunghe e difficili trattative, rappresenta il primo passo nel lungo cammino di
ricostruzione che ora deve affrontare il Paese africano. Ancora aperta, invece,
la drammatica questione del Darfur. Il servizio di Barbara Castelli:
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Dopo oltre 21 anni di guerra
civile il Sudan, il Paese più grande dell’Africa, può tornare a sognare la
pace. L’accordo firmato ieri a Nairobi, tra il governo di Khartoum e la principale
organizzazione dei ribelli del sud, l’Esercito Popolare di Liberazione del
Sudan (SPLA), guidato da John Garang, giunge, infatti, dopo due anni e mezzo di
colloqui, quasi 2 milioni di morti e 4 milioni e mezzo di sfollati e apre la
strada ad un futuro diverso per il Paese. I cardini del trattato, diviso in più
parti e composto da protocolli firmati in tempi diversi, prevedono il cessate
il fuoco permanente; la formazione di un governo di coalizione; il diritto di
autodeterminazione per le popolazioni del sud, stabilendo il principio di un
referendum da tenersi tra sei anni; la spartizione al 50 per cento dei proventi
del petrolio tra governo centrale e Sudan meridionale; e l’unificazione
dell’esercito. L’accordo, salutato con soddisfazione dalla comunità
internazionale, attende ora di essere concretamente onorato da ambo le parti,
come sottolineato oggi dal presidente americano, George Bush. La storica firma, infatti, rappresenta solo il
“passo iniziale” di un processo di ricostruzione della zona e della sua vita
normale che sarà molto lungo e costoso. A ricordarlo oggi anche l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), che si è detto pronto ad avviare
le operazioni necessarie per il rimpatrio di almeno 500.000 profughi sudanesi,
e il PAM, l’agenzia Onu che si occupa di alimentazione e sviluppo, che ha
chiesto alla Comunità internazionale di supportare concretamente il Paese
africano costruendo un fondo di emergenza di 302 milioni di dollari.
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Ma
quali sono le prospettive di pace oggi in Sudan? Il governo di Khartoum rispetterà
gli accordi presi con il sud del Paese? E il movimento ribelle farà fede alla
firma o cercherà di strappare ulteriori fette di potere? Barbara Castelli lo ha
chiesto a padre Carmine Curci, direttore della rivista Nigrizia:
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R. – Una cosa è firmare un
accordo e un’altra è tradurlo nella pratica. Dal punto di vista della
guerriglia, ad esempio, dei 36 gruppi ribelli che formano le varie milizie nel
sud Sudan solo quattro hanno firmato un accordo con John Garang. E’ possibile,
dunque, prevedere degli scontri all’interno dei vari gruppi per la questione
della divisione del potere, come della divisione del petrolio. Questo accordo,
è stato sottolineato, è stato firmato più con il petrolio che con l’inchiostro.
E’, comunque, fuori dubbio che sia stato fatto un grande passo avanti per il
futuro di questo Paese. Per quanto riguarda il governo, la questione del
Darfur, che fino adesso ha avuto più di 50 mila morti, un milione e mezzo di
rifugiati e profughi, rifletterà molto sulle dinamiche interne a livello di
potere. L’accordo poi è stato firmato soprattutto grazie ad una fortissima
pressione internazionale. Ora, bisognerà vedere se la Comunità Internazionale
continuerà con forza a vigilare su questo accordo. Dall’altra parte, infine,
non bisogna dimenticare che questa firma rappresenta un’enorme sfida per la
credibilità dell’Unione Africana.
D. – Dopo oltre 20 anni di
guerra civile, quali sono le condizioni di vita dei cittadini del sud Sudan?
R. – Tutto sommato, alla gente non interessava cosa
si firmasse a Nairobi. Quello che la gente chiede da sempre è la pace. Quello
che la gente chiede è di poter andare a coltivare, di poter portare le proprie
mandrie al pascolo, senza la preoccupazione di essere bombardata. Dall’altra
parte, bisogna sottolineare che stiamo parlando di un Paese tutto da
ricostruire, in tutte le infrastrutture: le strade, le scuole, gli ospedali. Ci
vorranno molti anni. La gente ieri ha gridato la sua grande gioia per le
strade, ora la preoccupazione è quella di non deludere le aspettative di tante
persone.
D. - Qual è stato l’impegno
della Chiesa in questo processo di pace e qual è il suo rapporto con le altre
confessioni religiose?
R. – Una delle critiche che, in
modo particolare, la Chiesa cattolica ha fatto, sia a John Garang sia a El
Bashir, il presidente del Sudan, è che non sono state coinvolte nelle trattative
di pace non solo la Chiesa, ma anche la società civile. Alla Chiesa ora
toccherà svolgere un ruolo importante: quello di aiutare le comunità cristiane
a formarsi e quello di compiere un cammino di riconciliazione. Ci sono ancora,
e ci saranno per molto tempo, tante ferite aperte e spetterà alla Chiesa
aiutare la gente a guarire un poco da queste ferite e camminare lungo un sentiero
di pace e di serenità. Riguardo al rapporto con le altre Chiese, io ho visto,
girando in Sudan, una grande collaborazione. Il cammino ecumenico non è stato
fatto tanto sui documenti, ma è stato fatto soprattutto sulla strada, lungo i
fiumi, per le campagne. La gente si è messa insieme, perché crede che il
messaggio evangelico sia soprattutto un messaggio di pace.
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IL FASCINO DEL TIBET RACCONTATO IN UN LIBRO DA UNA
SCRITTRICE CINESE,
IN PRIMA LINEA PER LA DIFESA DEI DIRITTI DELLE
DONNE IN CINA
- Intervista con la scrittrice cinese Xinran -
Il
Tibet degli Anni Sessanta, che vive da un decennio la difficile coabitazione
tra cinesi e popolazione locale. Una giovane donna cinese che parte per trovare
notizie del marito, un militare dato per disperso. Il racconto di una ricerca
che dura decenni: una lunga odissea sul Tetto del mondo, che diventa scoperta
di una nuova vita, fra le tradizioni e le abitudini di un popolo ancora oggi
circondato da un’aura di mistero, custodito dalle montagne più alte del
pianeta. Sono gli ingredienti de “La strada celeste”, l’ultimo libro di Xinran,
autrice cinese molto apprezzata all’estero. Conduttrice per otto anni in patria
di un programma radiofonico di grande successo, dal 1997 Xinran si è trasferita
in Inghilterra, dove insegna alla School
of Oriental and African Studies dell'Università di Londra. Alessandro De
Carolis ha incontrato a Roma la scrittrice, che da anni è in prima linea per la
difesa dei diritti delle donne in Cina:
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R. – Pochi si rendono conto che
oggi, nelle campagne della Cina, si vive ancora come se si fosse indietro di
500 anni. Nelle grandi città la vita tiene abbastanza il passo con i tempi, nel
senso che – negli ultimi 15 anni - sono stati apportati grandi miglioramenti
sia nella struttura urbana, sia in ciò che è legato allo sviluppo, e quindi
anche nell’istruzione, nei contatti sociali ecc. Per quello che riguarda invece
le zone rurali – soprattutto nella parte centro-occidentale del Paese - il tenore
di vita è molto basso e la gente è molto povera. Penso ci vorranno almeno due o
tre generazioni ancora prima di migliorare quelle condizioni.
D. – Come ha condizionato le
donne cinesi il programma delle limitazioni delle nascite imposto dallo Stato?
R. – La risposta ha un sì e un
no, nel senso che tale programma ha condizionato molto ma anche poco. Questa
politica è stata introdotta nell’81, ma ha avuto il suo punto di massima
applicazione nell’84. Certamente, per le donne ha rappresentato un fattore molto
negativo. In pratica, con la politica del figlio unico, se nascevano della
bambine venivano uccise per privilegiare il figlio maschio. Nelle grandi città,
dove questa politica veniva applicata con fermezza e controlli elevati, oggi
c’è una predominanza dei maschi rispetto alle femmine. Al contrario, nelle zone
di campagna – che contano la percentuale maggiore di popolazione, poco istruita
e anche poco controllata - si trovano famiglie dove c’è una prevalenza
femminile, ma con tanti disagi. Da qui deriva una delle mie maggiori preoccupazioni.
I cinesi maschi, figli di questa politica, hanno ormai circa 20 anni e sono in
età di metter su famiglia, ma dato che, appunto, le donne scarseggiano nelle città,
devono per forza recarsi nelle campagne per trovare una moglie. Come dicevo,
però, le famiglie che vivono in campagna sono prive di istruzione e di conseguenza
anche le mogli che loro prenderanno saranno madri senza cultura che cresceranno
figli ugualmente privi di istruzione. Io ho scritto una lettera al governo
cinese chiedendo di istituire dei corsi, delle scuole, nelle zone di campagna
per permettere a queste donne di ricevere un’istruzione e poter essere delle madri
all’altezza della situazione.
D. – Come vede l’apertura della
Cina verso l’Occidente, alla quale si guarda da noi con un misto di timore e di
curiosità?
R. – Sono molto contenta di
vedere che finalmente il mondo sta accorgendosi dell’esistenza della Cina. La
mia speranza è che, grazie a questa apertura si riesca a parlare della Cina
come si parla, ad esempio, dell’Italia. L’Italia non è soltanto Roma: ha una
storia importante dietro. Allora, come si conosce la storia appunto di un Paese
come l’Italia, sarò contenta se si riusciranno a conoscere in modo approfondito
anche le radici, la storia, le tradizioni della Cina. E la seconda speranza che
ho è che si incrementino i viaggi verso la Cina, che la gente si rechi a vedere
di persona: è molto diverso vedere dal vivo che non leggere qualcosa su un
libro o su un articolo.
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10
gennaio 2005
CELEBRATO A BERLINO UN RITO ECUMENICO IN MEMORIA
DELLE VITTIME
DELLO TSUNAMI. A PRESIEDERLO, CONGIUNTAMENTE,
IL CARDINALE KARL LEHMANN
E IL
VESCOVO, WOLFGANG HUBER, CAPO DELLA CHIESA EVANGELICA TEDESCA
BERLINO. = Una celebrazione
religiosa per stringere un’intera nazione, con le sue differenti professioni di
fede, attorno al ricordo di una catastrofe tanto violenta quanto tragica. Ieri
pomeriggio, a Berlino, si è svolta nel Duomo di Berlino una cerimonia ecumenica
in memoria delle circa 160 mila vittime del maremoto in Asia. Il rito è stato
celebrato insieme dal cardinale Karl Lehmann, presidente della Conferenza
episcopale tedesca, e dal vescovo Wolfgang Huber, capo della Chiesa evangelica
in Germania, alla presenza del presidente della Repubblica, Horst Koehler, del
cancelliere Gerhard Schroeder, di numerosi ministri e di tante altre
personalita' del mondo politico e culturale. I discorsi del cardinale Lehmann e
del vescovo evangelico Huber sono stati ascoltati anche all'esterno della
chiesa, dove la cerimonia è stata trasmessa su uno schermo gigante. Entrambi i
leader religiosi tedeschi hanno espresso parole di profondo cordoglio e di
solidarietà nei riguardi dei parenti di alcune delle vittime tedesche presenti
alla cerimonia. Grandi anche gli attestati di riconoscenza per i soccorritori
intervenuti nelle zone disastrate dallo tsunami.
Alla funzione hanno assistito anche numerosi diplomatici, a cominciare da
quelli dei Paesi colpiti. (A.D.C.)
LA CHIESA DI CUBA HA PROCLAMATO IL 2005 “ANNO
DELLA MISSIONE”.
TRA GLI EVENTI PRINCIPALI DELL’INIZIATIVA
ECCLESIALE, VI SARA’
LA PRIMA ASSEMBLEA MISSIONARIA CUBANA, IN
PROGRAMMA A FINE MAGGIO
QUEMADO DE GUINES (CUBA). =
La Chiesa vive per evangelizzare. L’asserzione sintetizza lo spirito con cui la
comunità ecclesiale di Cuba si appresta a vivere il 2005, proclamato dai
vescovi locali “Anno della missione”. La notizia è stata resa nota con una
lettera all’Agenzia Fides dal direttore nazionale delle Pontificie opere
missionarie di Cuba, padre Raúl Rodríguez Dago. “Annunciamo Cristo accompagnati
dalla Vergine della Carità” è lo slogan dell’Anno, che avrà tra i suoi momenti
centrali la prima Assemblea nazionale missionaria, in programma all’Avana dal
24 al 28 maggio prossimi. L’evento, che riunirà tutta la Chiesa missionaria cubana,
sarà un’occasione – scrive padre Rodríguez Dago, per ribadire, “in linea con il
secondo Congresso Missionario Americano (CAM 2), svoltosi nel 2004 a Città del
Guatemala, che la Chiesa vive per evangelizzare”. Nel 1998, visitando l’isola caraibica,
era stato lo stesso Giovanni Paolo II a sollecitare i fedeli cubani a ravvivare
lo spirito missionario della Chiesa. “In questa prospettiva - scrive ancora
padre Rodríguez Dago - l’Anno missionario sarà sostanzialmente un anno per
rammentare con gratitudine il passato, vivere con entusiasmo il presente ed aprirsi
con speranza al futuro”. Offrirà “una forte spinta alla nuova evangelizzazione
e un cammino per portare la Chiesa cubana a navigare in acque profonde come
chiede Papa Giovanni Paolo II nella sua lettera apostolica Novo Millennio Ineunte. (A.D.C.)
DICIOTTO MILIONI DI BAMBINI AFRICANI RISCHIANO DI
RIMANERE ORFANI
ENTRO IL
2010 A CAUSA DELL’AIDS. L’ALLARME E’ STATO LANCIATO DALL’UNICEF,
SECONDO IL QUALE 1.700 MINORI AL GIORNO VENGONO
CONTAGIATI DAL VIRUS
ADDIS
ABEBA. = L’UNICEF ha lanciato ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, un nuovo allarme:
18 milioni di bambini africani rischiano di perdere uno o entrambi i genitori a
causa dell’Hiv/Aids entro il 2010. Il dato è contenuto nel Rapporto sullo Stato
del mondo 2005 ed è stato diffuso a conclusione di un ciclo di presentazioni
che ha interessato, tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2005, tutto il
pianeta. Nel presentare il documento, i responsabili locali dell’agenzia
dell’ONU hanno voluto insistere sui problemi pratici e psicologici derivanti
per l’infanzia dalla perdita dei genitori a causa della pandemia di Aids, che
in due decenni ha mietuto nel continente africano milioni di morti. Tra i Paesi
più colpiti, hanno sostenuto i responsabili dell’Unicef, ci sono quelli
dell’Africa subsahariana ma anche del Corno d’Africa, Etiopia inclusa. Già
circa 15 milioni di minorenni africani sono rimasti orfani, ma la malattia
continua a fare vittime anche tra i bambini: secondo i dati in possesso del
Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, 1.700 minori al giorno rimangono
infettati dall’Hiv/Aids, precipitando in una voragine dal quale difficilmente
potranno uscire, considerata l’esigua diffusione, in Africa, dei farmaci
antiretrovirali, molto costosi, e le scarse possibilità dei contagiati di poter
usufruire dell’attenzione medica che ciascuna cura necessita. (A.D.C.)
DELLA
PONTIFICIA UNIVERSITA’ DELLA SANTA CROCE
- A cura di Giovanni Peduto -
ROMA. = Oggi, 10 gennaio 2005,
si commemora il ventennale del Centro Accademico Romano della Santa Croce, ora
Pontificia Università, costituito nel 1985 con il decreto Dei Servus. L’Atto Accademico si svolgerà presso l’aula cardinale
Höffner della Pontificia Università della Santa Croce, in piazza
Sant’Apollinare 49, dalle ore 18 alle 19. La prolusione principale è stata
affidata al cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle
Cause dei Santi e già segretario della Congregazione per l’Educazione cattolica
nel periodo in cui, nel 1998, l’istituzione accademica venne elevata a
Pontificia Università. Alla manifestazione interverranno anche mons. Javier
Echevarría, prelato dell’Opus Dei e Gran Cancelliere dell’Università, e il
rettore magnifico, mons. Mariano Fazio. Per l’occasione, saranno presentati gli
Atti del Congresso “La grandezza della vita quotidiana”, svoltosi nel mese di
gennaio 2002 durante le celebrazioni per il centenario della nascita di San
Josemaría Escrivá, ispiratore dell’Università. Si tratta di una collana di 14 volumi
curata dalle edizioni Università della Santa Croce. Inoltre, nel corso
dell’incontro verranno rese note le attività e gli obiettivi dell’Istituto
Storico San Josemaría Escrivá. Il 9 gennaio 1985, su richiesta dell’allora Gran
Cancelliere, mons. Alvaro del Portillo, la Congregazione per l’Educazione
cattolica, con il decreto Dei Servus,
costituì canonicamente le sezioni della Facoltà di Teologia e Diritto canonico
dell’Università di Navarra, in Spagna. Gli studenti iscritti in quel primo anno
accademico del nuovo “Centro Accademico Romano della Santa Croce” erano 41,
provenienti da 22 Paesi. In questo momento, la Pontificia Università della
Santa Croce è costituita dalle facoltà di Teologia, Diritto canonico, Filisofia
e Comunicazione sociale istituzionale. Alle quattro facoltà si aggiunge
l’Istituto di Scienze religiose all’Apollinare. Gli studenti che risultano
iscritti nel corrente anno sono 1.400 e provengono da 97 Paesi.
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10
gennaio 2005
- A cura di Amedeo Lomonaco -
Nuova scossa di terremoto e
tanta paura in Indonesia. Nello Sri Lanka intanto riaprono le scuole. E in
molte aree colpite dal maremoto si cerca di tornare in qualche modo alla normalità.
Il servizio di Rita Anaclerio:
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A quindici giorni dal terribile
maremoto che ha sconvolto il Sud-Est asiatico, causando finora 156 mila
morti, resta il problema del riconoscimento
dei corpi: in Thailandia 800 vittime sono state riesumate per procedere alla
loro identificazione. Restano, nel Paese, difficoltà di coordinamento,
denunciate anche da un missionario stimmatino, padre Michael Jaaresek. “C’è un tempio buddista pieno di cadaveri -
spiega il religioso all’Agenzia Misna - e le vittime del maremoto sono state
gettate lì, tutte insieme”. E al largo dell’Indonesia la terra continua a tremare. La notte scorsa, infatti, gli abitanti di Banda
Aceh terrorizzati hanno abbandonato i loro rifugi e si sono riversati sulle
strade dopo aver avvertito una scossa molto forte e particolarmente lunga. In India,
dove è stata annunciata la morte di altre 114 persone, il bilancio ufficiale è
salito a 10.136 vittime.
Ma tra le macerie, la vita torna
a scorrere. Questa mattina, infatti, si sono riaperte le scuole nello Sri Lanka
e le lezioni dovrebbero riprendere in quasi tutte le scuole del Paese. Molti
dei bambini che si sono seduti sui banchi hanno ancora il volto segnato dai
traumi della catastrofe. Sono 420 le scuole
distrutte e 1.000 gli insegnanti morti solamente nella zona intorno ad Aceh. Negozi
aperti e strade movimentate sono i
segni di una certa normalità che sta riprendendo possesso di una delle
cittadine più devastate, Meulaboh. Anche l’UNICEF conferma la costante attività
di distribuzione dei vaccini.
E
intanto il ministro indonesiano dell’Economia, Aburizal Bakrie, in
vista dell'incontro dei Paesi creditori del Club di Parigi, che si terrà
mercoledì, per valutare la moratoria del debito ai Paesi colpiti dallo tsunami,
ha detto di essere fiducioso che i creditori occidentali concederanno il
congelamento fino a 3,2 miliardi di dollari del debito da restituire entro il
2006. Dalla tragedia avvenuta nel Sud-Est asiatico emergono anche storie a
lieto
fine: undici membri di una tribù
delle isole Nicobare sono stati tratti in salvo dalla forze di sicurezza
indiane, dopo aver passato due settimane sulle cime degli alberi ed essersi nutriti
di noci di cocco.
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Violenti scontri hanno rotto nel sud delle Filippine la
tregua tra esercito e guerriglia, provocando la morte di 21 persone. I
combattimenti, avvenuti nella città di Mamasapano, a sud dell’isola, sono
cominciati domenica sera con l’attacco a una postazione militare compiuto da un
centinaio di separatisti. La tregua tra governo e MILF, il più importante
gruppo ribelle musulmano, risale al
luglio 2003.
In Iraq continua lo
stato di estrema tensione a 20 giorni dalle elezioni che dovrebbero segnare per
il Paese il concreto avvio delle istituzioni democratiche del dopo Saddam
Hussein. A Baghdad sono stati assassinati il vice capo della polizia della
capitale e suo figlio. Sempre nella capitale, l’esplosione di un’autobomba nei
pressi di un posto di polizia ha provocato la morte di tre persone. Violenze
anche nella regione petrolifera settentrionale di Kirkuk, dove sono stati
uccisi quattro iracheni. In un video, intanto, il gruppo guidato dal terrorista
giordano Al Zarqawi ha rivendicato l’attentato suicida di mercoledì scorso a Mossul,
costato la vita ad un soldato americano.
La presidenza dell’Unione europea
“non ha alcuna intenzione di eliminare dal Patto la stabilità, che resta
necessaria ed è un elemento centrale per garantire la tenuta dell'euro nel
lungo periodo”. Lo ha affermato il primo ministro lussemburghese, Jean-Claude
Juncker, presidente di turno dell'UE.
È iniziato stamattina il
primo vertice in Gabon dei capi di Stato del Consiglio di Pace e Sicurezza
dell’Unione Africana, incentrato soprattutto sulla crisi in Costa d’Avorio.
Nella città di Libreville, sede dell’incontro, è arrivato poco fa a sorpresa
anche il presidente ivoriano, Gbagbo. Durante i due giorni di lavoro, a porte
chiuse, si esamineranno anche le situazioni nella Repubblica Democratica del
Congo e nella regione sudanese del Darfur.
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