RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno XLIX n.10  - Testo della trasmissione lunedì 10 gennaio 2005

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

Corpo_diplomaticoNel discorso al corpo diplomatico il Papa traccia le 4 sfide per l’umanità: la difesa della vita sin dal concepimento, l’equa distribuzione dei beni della terra, la costruzione della pace senza violenza, la realizzazione della libertà, in particolare quella religiosa:

 

ai nostri microfoni l’ambasciatore indonesiano

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Alle consultazioni di ieri per la scelta del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, netta affermazione del leader dell’OLP e candidato di Al Fatah, Mahmud Abbas, detto Abu Mazen: con noi Antonio Ferrari

 

Da oggi i vescovi europei e americani a Gerusalemme e Betlemme per l’incontro annuale con i cattolici di Terra Santa per non dimenticare i cristiani che vivono nella terra di Gesù: ce ne parla mons. Peter Fleetwood e mons. Piergiuseppe Vacchelli

 

Ieri in Kenya la storica firma dell’accordo di pace tra il governo di Khartoum e i ribelli del sud del Paese: il commento di padre Carmine Curci

 

Il fascino del Tibet raccontato in un libro da una scrittrice cinese, in prima linea per la difesa dei diritti delle donne in Cina: intervista con la scrittrice cinese Xinran

 

CHIESA E SOCIETA’:

Celebrato a Berlino un rito ecumenico in memoria delle vittime dello tsunami

 

La Chiesa di Cuba ha proclamato il 2005 “Anno della missione”

 

Diciotto milioni di bambini africani rischiano di rimanere orfani entro il 2010 a causa dell’Aids

 

Si commemorano oggi i 20 anni della Pontificia Università della Santa Croce

 

24 ORE NEL MONDO:

 

Nuova scossa di terremoto e tanta paura in Indonesia. Nello Sri Lanka riaprono le scuole

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

10 gennaio 2005

 

GIOVANNI PAOLO II RICEVE IL CORPO DIPLOMATICO E INDICA LE QUATTRO SFIDE

PER L’UMANITA’: LA DIFESA DELLA VITA FIN DAL CONCEPIMENTO,

L’EQUA DISTRIBUZIONE DEI BENI DELLA TERRA, LA COSTRUZIONE DELLA PACE

SENZA VIOLENZA E, ANCORA, LA PROMOZIONE DELLA LIBERTA’,

IN PARTICOLARE QUELLA RELIGIOSA. IL PAPA HA POI RICORDATO

LE GRANDI TRAGEDIE CHE HANNO FUNESTATO IL 2004,

RIBADENDO CHE DIO NON CI ABBANDONA MAI

- Servizio di Alessandro Gisotti -

 

Vinci il male con il bene: è l’esortazione rivolta dal Papa agli ambasciatori presso la Santa Sede, ricevuti stamani in Vaticano per il tradizionale discorso di inizio anno al Corpo diplomatico, guidato dal decano Giovanni Galassi, ambasciatore di San Marino. Il Pontefice ha messo l’accento sull’urgenza della difesa della vita sin dal concepimento e sulla necessità di una equa distribuzione delle ricchezze del pianeta. Ha poi levato un’esortazione in favore della libertà religiosa indicando nel dialogo la vera forza che può condurre alla pace. Quindi, ha passato in rassegna tutti i grandi temi d’attualità internazionale: dalla tragedia dello tsunami nel sudest asiatico alle speranze di pace in Medio Oriente e Darfur. Ancora, dalla fame nel mondo alla situazione in Iraq. Il servizio di Alessandro Gisotti:

 

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La vita, il pane, la pace e la libertà: sono le quattro grandi sfide per l’umanità di oggi indicate da Giovanni Paolo II nel discorso al Corpo diplomatico. Il Papa ha innanzitutto ricordato le grandi tragedie che hanno funestato il 2004: quelle portate dalla natura come lo tsunami nel sudest asiatico o la piaga delle cavallette nell’Africa nord occidentale; quelle opera dell’uomo come “gli atti di barbaro terrorismo che hanno insanguinato l’Iraq, l’efferato attentato di Madrid, la strage terroristica di Beslan”, le violenze nelle regioni africane del Darfur e dei Grandi Laghi. Di fronte a questi eventi, ha detto il Pontefice, “non riusciremmo a liberarci da tristi  dubbi sulle sorti dell’uomo, se proprio dalla culla di Betlemme non ci venisse un messaggio, insieme umano e divino, di vita e di più forte speranza”. E’ Dio stesso che ci rivolge l’invito a “non lasciarci mai scoraggiare”. Proprio il mistero della nascita di Cristo, ha aggiunto, è latore di un messaggio universale: vincere il male con il bene.

 

Giovanni Paolo II ha così messo l’accento sulla sfida della vita, che, ha rilevato, “si va facendo in questi ultimi anni sempre più vasta e più cruciale”. Ha quindi ribadito che la posizione della Chiesa, “suffragata dalla ragione e dalla scienza, è chiara: l’embrione umano è soggetto identico all’uomo nascituro e all’uomo nato che se ne sviluppa. Nulla pertanto è eticamente ammissibile che ne violi l’integrità e la dignità”. Ancora è stato il richiamo del Santo Padre, la ricerca scientifica, “come ogni attività umana, non può mai essere esente da imperativi morali”. La sfida della vita, ha sottolineato, è particolarmente legata alla famiglia, “oggi sovente minacciata da fattori sociali e culturali che fanno pressione su di essa rendendone difficile la stabilità”. Per questo, “non si lasci che la famiglia, fonte feconda della vita”, venga “minata da leggi dettate da una visione restrittiva ed innaturale dell’uomo”.

 

Questo incontro, ha continuato, offre l’occasione per soffermarsi sulla sfida del pane. La terra, ha rilevato, ha “nutrimento abbondante” eppure “centinaia di esseri umani soffrono gravemente di denutrizione, ed ogni anno milioni di bambini muoiono per la fame o per le sue conseguenze”. E’ allora quanto mai necessaria “un’ampia mobilitazione morale dell’opinione pubblica” ed ancor più dei responsabili politici. In tale contesto ha ricordato il grande principio della “destinazione universale dei beni della terra”. Principio che “non giustifica certo forme collettivistiche di politica economica, ma deve motivare un radicale impegno di giustizia ed un più attento e deciso sforzo di solidarietà”.

 

Il Papa ha poi rivolto il suo pensiero alla sfida della pace, “sogno di tutte le generazioni”. In Africa come in Asia, ha affermato, il ricorso alle armi “mentre reca danni materiali incalcolabili, fomenta l’odio ed accresce le cause di discordia, rendendo sempre più difficile la ricerca ed il raggiungimento di soluzioni capaci di conciliare i legittimi interessi di tutte le parti coinvolte”. A questi mali, ha proseguito “si aggiunge il fenomeno crudele e disumano del terrorismo, flagello che ha raggiunto una dimensione planetaria ignota alle precedenti generazioni”. Ma il Papa ha indicato anche le vie della pace: “alla prepotenza - è stata la sua esortazione – si deve opporre la ragione, al confronto della forza il confronto del dialogo, alle armi puntate la mano tesa: al male il bene”. Non mancano, d’altro canto, i segni incoraggianti, ha detto il Pontefice: in Medio Oriente, “il crudele confronto delle armi pare sopirsi, ed aprirsi uno sbocco politico verso il dialogo ed il negoziato”; in Africa cresce la “comune volontà di operare per la soluzione e la prevenzione dei conflitti”. Esempi ne sono l’impegno per l’emergenza umanitaria nel Darfur, la situazione in Somalia e nella regione dei Grandi Laghi. Giovanni Paolo II ha poi citato l’Europa come modello di pace possibile. Qui, “nazioni un tempo fieramente avversarie – ha constatato – si ritrovano oggi insieme nell’Unione Europea”. Tuttavia, ha avvertito, “per portare una pace vera e duratura su questo nostro pianeta insanguinato è necessaria una forza di bene che non arretri di fronte ad alcuna difficoltà. E’ una forza che l’uomo da solo non riesce ad ottenere né a conservare: è un dono di Dio”.

 

Si è infine soffermato sulla sfida della libertà, tema, ha ribadito, che gli è particolarmente caro per la storia del popolo da cui proviene. La libertà, ha specificato, è “anzitutto un diritto dell’individuo”. Sacra è anche la libertà degli Stati, che “devono essere liberi” proprio “per poter assolvere adeguatamente al loro dovere primario di tutelare, insieme alla vita, la libertà dei loro cittadini in tutte le sue giuste manifestazioni”. La libertà, ha detto, “è un bene grande, perché solo con essa l’uomo può realizzarsi in maniera rispondente alla sua natura”. Ha dunque focalizzato la parte conclusiva del suo discorso sulla libertà di religione, diritto non ancora adeguatamente riconosciuto in numerosi Stati. Eppure, ha affermato, “l’anelito alla libertà di religione non è sopprimibile: esso rimarrà sempre vivo e pressante finché sarà vivo l’uomo”. La libertà religiosa, ha evidenziato, non limita le altre libertà. Al contrario, con essa si “sviluppa e fiorisce anche ogni altra libertà: perché la libertà è un bene indivisibile prerogativa della stessa persona umana e della sua dignità”. Né si tema, ha aggiunto il Pontefice, che la libertà religiosa, “una volta riconosciuta alla Chiesa Cattolica, sconfini nel campo della libertà politica e delle competenze proprie dello Stato: la Chiesa – ha concluso - sa ben distinguere, come suo dovere, ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio”.

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Nel suo indirizzo d’omaggio il decano del Corpo diplomatico, l’ambasciatore di San Marino, Giovanni Galassi, ha sottolineato come, nell’attuale difficile situazione internazionale, troviamo conforto nel Magistero del Pontefice. Con amore paterno, ha detto il diplomatico, Giovanni Paolo II “ci sospinge ad educare i popoli alla pace, al costante dialogo e alla comprensione tra diversi”. Ancora, “a rispettare la legge morale universale per costruire una terra amica, ove nessuno si senta straniero, ma dove con reciproca solidarietà si possa giungere a realizzare una civiltà di giustizia autentica senza discriminazioni, illuminata dai valori dello spirito”.

 

La Santa Sede intrattiene attualmente relazioni diplomatiche piene con 174 Stati. Le ultime relazioni diplomatiche sono state stabilite, nel corso del 2002, con la Repubblica di Timor Est e con lo Stato di Qatar. Inoltre, la Santa Sede ha relazioni diplomatiche anche con  l’Unione Europea e il Sovrano Militare Ordine di Malta. Infine, ha relazioni di natura speciale con la Federazione Russa e con  l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La Santa Sede partecipa a differenti Organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e regionali tra i quali l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), la Lega Araba, l’Organizzazione degli Stati Americani e l’Organizzazione per l’Unità Africana.

 

Nel corso dell’anno 2004, la Santa Sede ha firmato (13 maggio) un Accordo sull’educazione e l’istruzione cattolica con la Repubblica Slovacca; c’è stata inoltre la firma (18 maggio) del Concordato fra la Santa Sede e la Repubblica Portoghese. Lo scambio degli strumenti di ratifica dei due testi è avvenuto rispettivamente il 9 luglio e il 18 dicembre. Sempre nel 2004, la Santa Sede ha proceduto allo scambio degli strumenti di ratifica degli Accordi con la Libera Città Anseatica di Brema (13 maggio), con il Land tedesco di Brandeburgo (25 maggio), con la Repubblica di Slovenia (28 maggio) e con la Repubblica del Paraguay (18 ottobre).

 

Ha partecipato all’incontro del Corpo Diplomatico con il Papa anche l’ambasciatore dell’Indonesia presso la Santa Sede, Bambang Prayitno. L’Indonesia è stato il Paese più colpito dal maremoto. Giovanni Peduto ha intervistato l’ambasciatore e gli ha chiesto con quali sentimenti ha preso parte a questo evento in un momento così difficile per l’Indonesia:

 

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R. – THE ANNUAL MEETING WITH THE DIPLOMATIC CORPS ACCREDITED TO THE ...

L’incontro annuale tra il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede ed il Santo Padre è un evento importante; proprio in questo momento così difficile per l’Indonesia, desidero sottolineare quanto ha affermato lo stesso Santo Padre quando ha voluto incoraggiare la comunità internazionale ad aiutare e sostenere il Paese colpito dallo tsunami. Questo appello del Papa è stato accolto molto positivamente ed è rimbalzato nel consesso globale internazionale, con la solidarietà manifestata dalla comunità internazionale, dalle istituzioni fino ai singoli individui: grazie!

 

D. – Qual è la situazione attualmente in Indonesia, dopo il disastro?

 

R. – THE INDONESIAN GOVERNMENT, IN COLLABORATION WITH ...

Il Governo indonesiano, in collaborazione con la comunità internazionale, sta valutando l’impatto determinato dallo tsunami nelle zone devastate. E’ un dato di fatto che la situazione è drammatica: la distribuzione degli aiuti umanitari nelle regioni colpite trova grossi ostacoli a causa delle infrastrutture a loro volta danneggiate. Comunque, la priorità assoluta in questo disastro è il sostegno delle persone colpite e la ricostruzione materiale.

 

D. – Come vede l’azione della Chiesa cattolica a favore delle popolazioni colpite?

 

R. – THE ROLE OF THE CATHOLIC CHURCH ...

E’ rimarchevole il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nell’affrontare vari tipi di emergenze. Nell’ultima evenienza del disastro causato dallo tsunami, considero importante l’intervento della Chiesa cattolica.

 

D. – Questa tragedia può aiutare una fraternità maggiore tra la maggioranza musulmana dell’Indonesia e la minoranza cristiana?

 

R. – ACTUALLY, A DEEP SENSE OF BROTHERHOOD ...

In questo momento esiste un profondo senso di fratellanza tra i seguaci delle diverse religioni, deve esistere e deve essere il fondamento di una società sana. Non dovrebbe però necessariamente essere provocato o sostenuto da una calamità. Credo che oggi sia fondamentale ogni sforzo compiuto per raggiungere una migliore comprensione ed una profonda armonia tra le diverse religioni.

 

D. – Vorrebbe lanciare un appello dai nostri microfoni?

 

R. – YES. OF COURSE ...

Sì, certamente. Vorrei chiedere che la vicinanza spirituale e la solidarietà internazionale siano mantenute anche in futuro. Infatti, dopo questa catastrofe  ci troviamo di fronte alla grande sfida della ricostruzione  delle aree colpite dallo tsunami.

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RINUNCIA

 

Il Santo Padre ha accettato la rinuncia all’ufficio di ausiliare dell’arcivescovo di Milano presentata da mons.  Angelo Mascheroni, vescovo titolare di Foro Flaminio, per raggiunti limiti di età.

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

 

Apre la prima pagina il titolo "La vita, il pane, la pace e la libertà: le grandi sfide dell'umanità di oggi", in riferimento al discorso di Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede durante l'udienza per la presentazione degli auguri per il nuovo anno. 

 

Nelle vaticane, all'Angelus l'abbraccio del Papa ai bambini battezzati nel corso di quest'anno.

L'omelia del Cardinale Crescenzio Sepe nella Concelebrazione Eucaristica presieduta - nella Cattedrale di Aversa - in occasione del conferimento dell'ordinazione episcopale a mons. Francesco Marino, nuovo Vescovo di Avellino. Il servizio dell'inviato Francesco M. Valiante.

 

Nelle estere, Medio Oriente: netta affermazione di Abu Mazen alle elezioni presidenziali palestinesi.

Il Nunzio Apostolico in Indonesia visita le comunità colpite dal maremoto.

Sudan: firmato l'accordo per la pace nel Sud; resta irrisolta la grave crisi nel Darfur.

 

Nella pagina culturale, un articolo di Franco Pelliccioni dal titolo " In Olanda la ricorrenza di San Nicola lascia al Natale l'aspetto religioso": una festa antica, già ricordata in un documento del 1360.

 

Nelle pagine italiane, in primo piano la sciagura ferroviaria avvenuta, sabato, vicino a Bologna. Intenso ma composto dolore dei familiari delle diciassette vittime. Il procuratore di Bologna assicura: "Andremo a fondo anche sui sistemi di sicurezza

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OGGI IN PRIMO PIANO

10 gennaio 2005

 

 

ELEZIONI PALESTINESI NEL SEGNO DI ARAFAT. ALLE CONSULTAZIONI DI IERI

PER LA SCELTA DEL PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ NAZIONALE PALESTINESE,

 NETTA AFFERMAZIONE DEL LEADER DELL’OLP E CANDIDATO DI AL FATAH,

MAHMUD ABBAS, DETTO ABU MAZEN

- Intervista con Antonio Ferrari -

 

Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, è il successore di Yasser Arafat. Nelle elezioni presidenziali palestinesi di ieri, il candidato di Al Fatah ha vinto con il 62,3 per cento dei consensi. Il rivale più vicino ad Abu Mazen, il democratico indipendente Mustafa Barguti, ha ottenuto invece il 19,8 per cento delle preferenze. Il giuramento del vincitore è previsto mercoledì prossimo. L’affluenza è stata del 66 per cento e le operazioni di voto si sono svolte regolarmente nonostante l’invito a boicottare le elezioni diffuso da militanti islamici. La chiusura dei seggi è stata rinviata di due ore per consentire agli elettori, trattenuti ai posti di blocco israeliani per i controlli, di recarsi alle urne. Sulla consultazione, ascoltiamo Amedeo Lomonaco:

 

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Abu Mazen ha dedicato la vittoria al suo predecessore. “Offriamo questo successo - ha dichiarato l’ex premier a Ramallah - all’anima del nostro fratello Yasser Arafat e a tutti i palestinesi”. Abu Mazen si è detto pronto ad incontrare il premier israeliano Ariel Sharon in qualsiasi momento. Il riferimento al “nemico sionista”, pronunciato  martedì scorso dopo l’uccisione di sette palestinesi, viene ora considerato da molti editorialisti israeliani, come un moto di rabbia. Il neo presidente dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) ha sottolineato la necessità di trovare una soluzione al conflitto illustrando i punti fondamentali del suo programma. “La nostra linea politica – ha spiegato Abu Mazen - è quella ratificata dal Consiglio nazionale palestinese nel 1998. Non possiamo accettare un accordo che ci dia meno di uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967 e con capitale Gerusalemme est”. Sulla Road Map, il piano di pace fissato da ONU, Russia, Unione Europea e Stati Uniti, l’ex premier ha ribadito l’impegno per la sua realizzazione: “La Road Map – ha detto – esiste ancora, nonostante sia stata spinta in un angolo dalla decisione del disimpegno unilaterale da Gaza”. I movimenti di Hamas e Jihad islamica hanno manifestato, inoltre, la loro disponibilità a collaborare e ad aprire un dialogo con il nuovo leader palestinese. Commentando le elezioni, il presidente americano, George Bush, ha parlato di un giorno storico per il popolo palestinese e ha chiesto ad Israele di “migliorare la situazione umanitaria ed economica in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza”. Nello Stato ebraico, intanto, è previsto oggi il voto di approvazione sul nuovo governo formato dal partito di centrodestra di Sharon, il ‘Likud’, dai laburisti di Shimon Peres, designato come vice premier, e dalla formazione ortodossa del ‘Fronte della Torah’. Sul terreno si registrano, infine, nuove tensioni al confine tra Israele e Libano: un casco blu francese è rimasto ucciso in un agguato rivendicato dalle milizie sciite filo iraniane degli Hezbollah.

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“Lavorerò per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese, un popolo che merita stima, rispetto e fedeltà”. Lo ha dichiarato Abu Mazen subito dopo la vittoria elettorale. Ecco la nostra scheda:

 

Abu Mazen è nato nel 1935 a Safed nella Palestina, allora sotto mandato britannico, e nel 1948, anno della creazione dello Stato di Israele, si è trasferito a Damasco dove si è laureato in legge. A Mosca ha poi conseguito un dottorato di ricerca con una tesi sul sionismo. Abu Mazen è stato uno degli architetti degli accordi di Oslo del 1993 sull’autonomia palestinese ed uno dei firmatari della Dichiarazione di principi israelo-palestinese. Dal 1980 fa parte del comitato esecutivo dell’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina della quale è stato anche nominato presidente. Nel dicembre del 2000, pochi giorni dopo lo scoppio della seconda Intifada, ha esortato i palestinesi a cessare la lotta armata. Gradito ad Europa e Stati Uniti, Abu Mazen è stato designato primo ministro nel marzo del 2003, carica che ha ricoperto per quattro mesi. Si è presentato alle elezioni come candidato di Al Fatah, partito fondato nel 1957 dal defunto leader dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat.

 

La netta vittoria di Abu Mazen – che ha ricevuto stamani anche le congratulazioni del leader laburista israeliano, Peres – ha dunque confermato le previsioni della vigilia. Andrea Sarubbi ne ha parlato con Antonio Ferrari, inviato speciale del Corriere della Sera ed analista di questioni mediorientali:

 

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R. – Le percentuali sono più o meno quelle che erano state previste: Abu Mazen è riuscito, in fondo, a raccogliere tutto quello che voleva: un voto non di passione ma di mente, di ragionamento, di speranza… Abu Mazen ha avuto una grande abilità: di prendere da Arafat la parte più positiva, quella che poi portò agli accordi di Oslo. Ha avuto la grande abilità di far capire di poter essere l’uomo della continuità e, nello stesso tempo, l’uomo di un radicale cambiamento.

 

D. – Pur avendo vinto nettamente, però, Abu Mazen non è riuscito a mettere tutti d’accordo. Hamas ha già detto: “Questo presidente rappresenta appena un terzo dei palestinesi e non rappresenta noi” ...

 

R. – Questa sarà una chiave degli sviluppi delle prossime settimane: e cioè, se Abu Mazen sarà in grado – visto che ha avuto contatti con Hamas e li ha tuttora – di trasformare Hamas e tutte le altre forze più “estremiste” in un soggetto politico… magari di opposizione, ma comunque soggetto politico. Questa sarebbe la sua vittoria. Se riesce a far questo, sono molto alte le possibilità che ci sia davvero una speranza di riprendere un negoziato di pace serio.

 

D. – Ci si aspetta molto da Abu Mazen: Israele, Francia e Stati Uniti già stanno parlando di una possibile pace ...

 

R. – In fondo, una speranza esiste. E trae fondamento proprio da quello che ha detto Abu Mazen: “Non possiamo arrivare ad un accordo se non trattiamo, se non ci parliamo. Sono pronto ad incontrare Sharon in qualsiasi momento. Sono un negoziatore duro, però non credo nella violenza”. Il problema, comunque, è non esagerare nell’ottimismo, perché le delusioni sono state tante anche nel passato.

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DA OGGI I VESCOVI EUROPEI E AMERICANI A GERUSALEMME E BETLEMME

 PER L’INCONTRO ANNUALE CON I CATTOLICI DI TERRA SANTA

PER NON DIMENTICARE I CRISTIANI CHE VIVONO NELLA TERRA DI GESU’

- Intervista con mons. Peter Fleetwood e mons. Pierluigi Vacchelli -

 

E’ iniziata stamane a Gerusalemme, per spostarsi nel pomeriggio a Betlemme, la riunione annuale del "Gruppo di Coordinamento" per la Terra Santa dei vescovi europei e americani con l'Assemblea degli Ordinari Cattolici locali. L'incontro desidera essere espressione concreta della  solidarietà degli Episcopati con la comunità cattolica di Terra Santa in un momento di difficoltà sociale ed economica, oltre che politica. Tra i temi al centro dell’incontro: la situazione generale in Israele e in Palestina, l'impatto sulla Chiesa locale degli accordi conclusi dalla Santa Sede, rispettivamente, con lo Stato d'Israele e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e infine il dialogo con ebrei, musulmani e le altre Chiese cristiane. Ma quando è nata e da chi è partita l’iniziativa di questo incontro? Antonella Palermo lo ha chiesto a mons. Peter Fleetwood, segretario generale aggiunto del Consiglio ecumenico delle Chiese in Europa:

 

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R. - L’iniziativa è nata  cinque anni fa, per un’idea sia della Santa Sede che di alcuni vescovi dell’Europa e dell’America del nord, per dire ai cattolici e alle comunità cristiane della Terra Santa che non sono sole e dimenticate. All’inizio tutto è stato organizzato prevalentemente dai vescovi degli Stati Uniti; poi l’organizzazione si è trasferita in Inghilterra e in Galles. Adesso è l’arcivescovo Patrick Kelly di Liverpool che guida il gruppo. Parleremo in particolare della situazione delle popolazioni cristiane in Terra Santa. Si vede quanto sono grandi gli sforzi che si stanno facendo, ma alla fine uno deve chiedersi: “dove lavoreranno i tanti giovani, che pure sono ben preparati?”. Molti di loro vanno via e non tornano più. E’ una cosa molto triste, perché si assiste allo svuotamento della popolazione cristiana nei Paesi del Medio Oriente. Si vede una mancanza di un’”intellighenzia” giovane  e ben preparata, impegnata nel futuro del Paese. Alcuni non vedono un futuro. Proprio per questo i vescovi vogliono tornare ogni anno. Quest’anno volevano fare una pausa, ma i vescovi della Galilea hanno detto: “No, se non venite questa vostra assenza manderà un messaggio molto negativo allo Stato d’Israele ed anche a noi. Noi dipendiamo dalla vostra solidarietà”.

 

D. - Ma quindi la condizione in cui vivono i cattolici in queste regioni qual è?

 

R. – E’ molto diversificata. Chi vive a Gerusalemme non sta troppo male. Chi sta a Betlemme invece vive una sorta di assedio. E’ l’unica parola che riesco a trovare per spiegare come mi sento quando vengo qui. Mi ricorda l’Irlanda del nord di tanti anni fa, che grazie a Dio non è più così. Questo assedio viene espresso visivamente dal muro di sicurezza, la barriera di sicurezza costruita dagli israeliani. E’ una cosa orrenda da vedere e simbolicamente dice tanto, ciò che nessuna parola potrebbe mai descrivere. I cristiani della Galilea, invece, vivono una situazione, per così dire, molto più normale. Non ci sono tutte le tensioni presenti a Gerusalemme, a Betlemme ed anche a Gaza.

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L'incontro di Gerusalemme, come detto, vuole essere espressione concreta della solidarietà degli Episcopati americani e europei alla comunità cattolica di Terra Santa. Ma cosa è emerso dalla prima giornata di lavori? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a mons. Piergiuseppe Vacchelli, sottosegretario della Cei e presidente del Comitato interventi caritativi per i Paesi del Terzo Mondo.

 

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La prima giornata di lavori è iniziata con il saluto del patriarca Michel Sabbah, il quale ha dato un’annotazione molto importante sul piano della comunione della Chiesa nel mondo in ordine ai problemi della Palestina. Dopo l’intervento del Patriarca ci sono state due testimonianze ragionate da parte di un rappresentante palestinese e di un rappresentante israeliano che con competenza hanno detto il loro punto di vista evidentemente divergenti in qualche momento nella valutazione della situazione, ma tutto questo è stato molto importante perché fatto con pacatezza. Se si riescono a capire le divergenze si riesce ad intuire come il cammino nel tempo non possa essere che quello del dialogo nel quale pur non approdando immediatamente a dei discorsi di pace, però si avvia qualche cosa che si chiama convivenza rispettosa per misurarsi sui valori veri degli uni e degli altri, facendoli emergere in una maniera molto chiara perché è soltanto così che si può camminare e guardare in prospettiva.

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LA PACE SEMBRA ESSERE SBARCATA IN SUDAN.

IERI IN KENYA LA FIRMA DELL’ACCORDO DI PACE TRA IL GOVERNO

DI KHARTOUM E I RIBELLI DEL SUD DEL PAESE

- Intervista con padre Carmine Curci -

 

Storico accordo ieri a Nairobi, in Kenya, tra il governo del Sudan e i ribelli del sud. Il trattato, frutto di lunghe e difficili trattative, rappresenta il primo passo nel lungo cammino di ricostruzione che ora deve affrontare il Paese africano. Ancora aperta, invece, la drammatica questione del Darfur. Il servizio di Barbara Castelli:

 

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Dopo oltre 21 anni di guerra civile il Sudan, il Paese più grande dell’Africa, può tornare a sognare la pace. L’accordo firmato ieri a Nairobi, tra il governo di Khartoum e la principale organizzazione dei ribelli del sud, l’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (SPLA), guidato da John Garang, giunge, infatti, dopo due anni e mezzo di colloqui, quasi 2 milioni di morti e 4 milioni e mezzo di sfollati e apre la strada ad un futuro diverso per il Paese. I cardini del trattato, diviso in più parti e composto da protocolli firmati in tempi diversi, prevedono il cessate il fuoco permanente; la formazione di un governo di coalizione; il diritto di autodeterminazione per le popolazioni del sud, stabilendo il principio di un referendum da tenersi tra sei anni; la spartizione al 50 per cento dei proventi del petrolio tra governo centrale e Sudan meridionale; e l’unificazione dell’esercito. L’accordo, salutato con soddisfazione dalla comunità internazionale, attende ora di essere concretamente onorato da ambo le parti, come sottolineato oggi dal presidente americano, George Bush. La storica firma, infatti, rappresenta solo il “passo iniziale” di un processo di ricostruzione della zona e della sua vita normale che sarà molto lungo e costoso. A ricordarlo oggi anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur), che si è detto pronto ad avviare le operazioni necessarie per il rimpatrio di almeno 500.000 profughi sudanesi, e il PAM, l’agenzia Onu che si occupa di alimentazione e sviluppo, che ha chiesto alla Comunità internazionale di supportare concretamente il Paese africano costruendo un fondo di emergenza di 302 milioni di dollari.

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Ma quali sono le prospettive di pace oggi in Sudan? Il governo di Khartoum rispetterà gli accordi presi con il sud del Paese? E il movimento ribelle farà fede alla firma o cercherà di strappare ulteriori fette di potere? Barbara Castelli lo ha chiesto a padre Carmine Curci, direttore della rivista Nigrizia:

 

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R. – Una cosa è firmare un accordo e un’altra è tradurlo nella pratica. Dal punto di vista della guerriglia, ad esempio, dei 36 gruppi ribelli che formano le varie milizie nel sud Sudan solo quattro hanno firmato un accordo con John Garang. E’ possibile, dunque, prevedere degli scontri all’interno dei vari gruppi per la questione della divisione del potere, come della divisione del petrolio. Questo accordo, è stato sottolineato, è stato firmato più con il petrolio che con l’inchiostro. E’, comunque, fuori dubbio che sia stato fatto un grande passo avanti per il futuro di questo Paese. Per quanto riguarda il governo, la questione del Darfur, che fino adesso ha avuto più di 50 mila morti, un milione e mezzo di rifugiati e profughi, rifletterà molto sulle dinamiche interne a livello di potere. L’accordo poi è stato firmato soprattutto grazie ad una fortissima pressione internazionale. Ora, bisognerà vedere se la Comunità Internazionale continuerà con forza a vigilare su questo accordo. Dall’altra parte, infine, non bisogna dimenticare che questa firma rappresenta un’enorme sfida per la credibilità dell’Unione Africana.

 

D. – Dopo oltre 20 anni di guerra civile, quali sono le condizioni di vita dei cittadini del sud Sudan?

 

R. – Tutto sommato, alla gente non interessava cosa si firmasse a Nairobi. Quello che la gente chiede da sempre è la pace. Quello che la gente chiede è di poter andare a coltivare, di poter portare le proprie mandrie al pascolo, senza la preoccupazione di essere bombardata. Dall’altra parte, bisogna sottolineare che stiamo parlando di un Paese tutto da ricostruire, in tutte le infrastrutture: le strade, le scuole, gli ospedali. Ci vorranno molti anni. La gente ieri ha gridato la sua grande gioia per le strade, ora la preoccupazione è quella di non deludere le aspettative di tante persone.

 

D. - Qual è stato l’impegno della Chiesa in questo processo di pace e qual è il suo rapporto con le altre confessioni religiose?

 

R. – Una delle critiche che, in modo particolare, la Chiesa cattolica ha fatto, sia a John Garang sia a El Bashir, il presidente del Sudan, è che non sono state coinvolte nelle trattative di pace non solo la Chiesa, ma anche la società civile. Alla Chiesa ora toccherà svolgere un ruolo importante: quello di aiutare le comunità cristiane a formarsi e quello di compiere un cammino di riconciliazione. Ci sono ancora, e ci saranno per molto tempo, tante ferite aperte e spetterà alla Chiesa aiutare la gente a guarire un poco da queste ferite e camminare lungo un sentiero di pace e di serenità. Riguardo al rapporto con le altre Chiese, io ho visto, girando in Sudan, una grande collaborazione. Il cammino ecumenico non è stato fatto tanto sui documenti, ma è stato fatto soprattutto sulla strada, lungo i fiumi, per le campagne. La gente si è messa insieme, perché crede che il messaggio evangelico sia soprattutto un messaggio di pace.

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IL FASCINO DEL TIBET RACCONTATO IN UN LIBRO DA UNA SCRITTRICE CINESE,

IN PRIMA LINEA PER LA DIFESA DEI DIRITTI DELLE DONNE IN CINA

- Intervista con la scrittrice cinese Xinran -

 

         Il Tibet degli Anni Sessanta, che vive da un decennio la difficile coabitazione tra cinesi e popolazione locale. Una giovane donna cinese che parte per trovare notizie del marito, un militare dato per disperso. Il racconto di una ricerca che dura decenni: una lunga odissea sul Tetto del mondo, che diventa scoperta di una nuova vita, fra le tradizioni e le abitudini di un popolo ancora oggi circondato da un’aura di mistero, custodito dalle montagne più alte del pianeta. Sono gli ingredienti de “La strada celeste”, l’ultimo libro di Xinran, autrice cinese molto apprezzata all’estero. Conduttrice per otto anni in patria di un programma radiofonico di grande successo, dal 1997 Xinran si è trasferita in Inghilterra, dove insegna alla School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra. Alessandro De Carolis ha incontrato a Roma la scrittrice, che da anni è in prima linea per la difesa dei diritti delle donne in Cina:

 

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R. – Pochi si rendono conto che oggi, nelle campagne della Cina, si vive ancora come se si fosse indietro di 500 anni. Nelle grandi città la vita tiene abbastanza il passo con i tempi, nel senso che – negli ultimi 15 anni - sono stati apportati grandi miglioramenti sia nella struttura urbana, sia in ciò che è legato allo sviluppo, e quindi anche nell’istruzione, nei contatti sociali ecc. Per quello che riguarda invece le zone rurali – soprattutto nella parte centro-occidentale del Paese - il tenore di vita è molto basso e la gente è molto povera. Penso ci vorranno almeno due o tre generazioni ancora prima di migliorare quelle condizioni.

 

D. – Come ha condizionato le donne cinesi il programma delle limitazioni delle nascite imposto dallo Stato?

 

R. – La risposta ha un sì e un no, nel senso che tale programma ha condizionato molto ma anche poco. Questa politica è stata introdotta nell’81, ma ha avuto il suo punto di massima applicazione nell’84. Certamente, per le donne ha rappresentato un fattore molto negativo. In pratica, con la politica del figlio unico, se nascevano della bambine venivano uccise per privilegiare il figlio maschio. Nelle grandi città, dove questa politica veniva applicata con fermezza e controlli elevati, oggi c’è una predominanza dei maschi rispetto alle femmine. Al contrario, nelle zone di campagna – che contano la percentuale maggiore di popolazione, poco istruita e anche poco controllata - si trovano famiglie dove c’è una prevalenza femminile, ma con tanti disagi. Da qui deriva una delle mie maggiori preoccupazioni. I cinesi maschi, figli di questa politica, hanno ormai circa 20 anni e sono in età di metter su famiglia, ma dato che, appunto, le donne scarseggiano nelle città, devono per forza recarsi nelle campagne per trovare una moglie. Come dicevo, però, le famiglie che vivono in campagna sono prive di istruzione e di conseguenza anche le mogli che loro prenderanno saranno madri senza cultura che cresceranno figli ugualmente privi di istruzione. Io ho scritto una lettera al governo cinese chiedendo di istituire dei corsi, delle scuole, nelle zone di campagna per permettere a queste donne di ricevere un’istruzione e poter essere delle madri all’altezza della situazione.

 

D. – Come vede l’apertura della Cina verso l’Occidente, alla quale si guarda da noi con un misto di timore e di curiosità?

 

R. – Sono molto contenta di vedere che finalmente il mondo sta accorgendosi dell’esistenza della Cina. La mia speranza è che, grazie a questa apertura si riesca a parlare della Cina come si parla, ad esempio, dell’Italia. L’Italia non è soltanto Roma: ha una storia importante dietro. Allora, come si conosce la storia appunto di un Paese come l’Italia, sarò contenta se si riusciranno a conoscere in modo approfondito anche le radici, la storia, le tradizioni della Cina. E la seconda speranza che ho è che si incrementino i viaggi verso la Cina, che la gente si rechi a vedere di persona: è molto diverso vedere dal vivo che non leggere qualcosa su un libro o su un articolo.

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CHIESA E SOCIETA’

10 gennaio 2005

 

 

CELEBRATO A BERLINO UN RITO ECUMENICO IN MEMORIA DELLE VITTIME

 DELLO TSUNAMI. A PRESIEDERLO, CONGIUNTAMENTE, IL CARDINALE KARL LEHMANN

 E IL VESCOVO, WOLFGANG HUBER, CAPO DELLA CHIESA EVANGELICA TEDESCA

 

BERLINO. = Una celebrazione religiosa per stringere un’intera nazione, con le sue differenti professioni di fede, attorno al ricordo di una catastrofe tanto violenta quanto tragica. Ieri pomeriggio, a Berlino, si è svolta nel Duomo di Berlino una cerimonia ecumenica in memoria delle circa 160 mila vittime del maremoto in Asia. Il rito è stato celebrato insieme dal cardinale Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca, e dal vescovo Wolfgang Huber, capo della Chiesa evangelica in Germania, alla presenza del presidente della Repubblica, Horst Koehler, del cancelliere Gerhard Schroeder, di numerosi ministri e di tante altre personalita' del mondo politico e culturale. I discorsi del cardinale Lehmann e del vescovo evangelico Huber sono stati ascoltati anche all'esterno della chiesa, dove la cerimonia è stata trasmessa su uno schermo gigante. Entrambi i leader religiosi tedeschi hanno espresso parole di profondo cordoglio e di solidarietà nei riguardi dei parenti di alcune delle vittime tedesche presenti alla cerimonia. Grandi anche gli attestati di riconoscenza per i soccorritori intervenuti nelle zone disastrate dallo tsunami. Alla funzione hanno assistito anche numerosi diplomatici, a cominciare da quelli dei Paesi colpiti. (A.D.C.)

 

 

LA CHIESA DI CUBA HA PROCLAMATO IL 2005 “ANNO DELLA MISSIONE”.

TRA GLI EVENTI PRINCIPALI DELL’INIZIATIVA ECCLESIALE, VI SARA’

LA PRIMA ASSEMBLEA MISSIONARIA CUBANA, IN PROGRAMMA A FINE MAGGIO

 

QUEMADO DE GUINES (CUBA). = La Chiesa vive per evangelizzare. L’asserzione sintetizza lo spirito con cui la comunità ecclesiale di Cuba si appresta a vivere il 2005, proclamato dai vescovi locali “Anno della missione”. La notizia è stata resa nota con una lettera all’Agenzia Fides dal direttore nazionale delle Pontificie opere missionarie di Cuba, padre Raúl Rodríguez Dago. “Annunciamo Cristo accompagnati dalla Vergine della Carità” è lo slogan dell’Anno, che avrà tra i suoi momenti centrali la prima Assemblea nazionale missionaria, in programma all’Avana dal 24 al 28 maggio prossimi. L’evento, che riunirà tutta la Chiesa missionaria cubana, sarà un’occasione – scrive padre Rodríguez Dago, per ribadire, “in linea con il secondo Congresso Missionario Americano (CAM 2), svoltosi nel 2004 a Città del Guatemala, che la Chiesa vive per evangelizzare”. Nel 1998, visitando l’isola caraibica, era stato lo stesso Giovanni Paolo II a sollecitare i fedeli cubani a ravvivare lo spirito missionario della Chiesa. “In questa prospettiva - scrive ancora padre Rodríguez Dago - l’Anno missionario sarà sostanzialmente un anno per rammentare con gratitudine il passato, vivere con entusiasmo il presente ed aprirsi con speranza al futuro”. Offrirà “una forte spinta alla nuova evangelizzazione e un cammino per portare la Chiesa cubana a navigare in acque profonde come chiede Papa Giovanni Paolo II nella sua lettera apostolica Novo Millennio Ineunte. (A.D.C.)

 

 

DICIOTTO MILIONI DI BAMBINI AFRICANI RISCHIANO DI RIMANERE ORFANI

 ENTRO IL 2010 A CAUSA DELL’AIDS. L’ALLARME E’ STATO LANCIATO DALL’UNICEF,

SECONDO IL QUALE 1.700 MINORI AL GIORNO VENGONO CONTAGIATI DAL VIRUS

 

ADDIS ABEBA. = L’UNICEF ha lanciato ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, un nuovo allarme: 18 milioni di bambini africani rischiano di perdere uno o entrambi i genitori a causa dell’Hiv/Aids entro il 2010. Il dato è contenuto nel Rapporto sullo Stato del mondo 2005 ed è stato diffuso a conclusione di un ciclo di presentazioni che ha interessato, tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2005, tutto il pianeta. Nel presentare il documento, i responsabili locali dell’agenzia dell’ONU hanno voluto insistere sui problemi pratici e psicologici derivanti per l’infanzia dalla perdita dei genitori a causa della pandemia di Aids, che in due decenni ha mietuto nel continente africano milioni di morti. Tra i Paesi più colpiti, hanno sostenuto i responsabili dell’Unicef, ci sono quelli dell’Africa subsahariana ma anche del Corno d’Africa, Etiopia inclusa. Già circa 15 milioni di minorenni africani sono rimasti orfani, ma la malattia continua a fare vittime anche tra i bambini: secondo i dati in possesso del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, 1.700 minori al giorno rimangono infettati dall’Hiv/Aids, precipitando in una voragine dal quale difficilmente potranno uscire, considerata l’esigua diffusione, in Africa, dei farmaci antiretrovirali, molto costosi, e le scarse possibilità dei contagiati di poter usufruire dell’attenzione medica che ciascuna cura necessita. (A.D.C.)

 

 

SI COMMEMORANO OGGI I 20 ANNI

DELLA PONTIFICIA UNIVERSITA’ DELLA SANTA CROCE

- A cura di Giovanni Peduto -

 

ROMA. = Oggi, 10 gennaio 2005, si commemora il ventennale del Centro Accademico Romano della Santa Croce, ora Pontificia Università, costituito nel 1985 con il decreto Dei Servus. L’Atto Accademico si svolgerà presso l’aula cardinale Höffner della Pontificia Università della Santa Croce, in piazza Sant’Apollinare 49, dalle ore 18 alle 19. La prolusione principale è stata affidata al cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e già segretario della Congregazione per l’Educazione cattolica nel periodo in cui, nel 1998, l’istituzione accademica venne elevata a Pontificia Università. Alla manifestazione interverranno anche mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei e Gran Cancelliere dell’Università, e il rettore magnifico, mons. Mariano Fazio. Per l’occasione, saranno presentati gli Atti del Congresso “La grandezza della vita quotidiana”, svoltosi nel mese di gennaio 2002 durante le celebrazioni per il centenario della nascita di San Josemaría Escrivá, ispiratore dell’Università. Si tratta di una collana di 14 volumi curata dalle edizioni Università della Santa Croce. Inoltre, nel corso dell’incontro verranno rese note le attività e gli obiettivi dell’Istituto Storico San Josemaría Escrivá. Il 9 gennaio 1985, su richiesta dell’allora Gran Cancelliere, mons. Alvaro del Portillo, la Congregazione per l’Educazione cattolica, con il decreto Dei Servus, costituì canonicamente le sezioni della Facoltà di Teologia e Diritto canonico dell’Università di Navarra, in Spagna. Gli studenti iscritti in quel primo anno accademico del nuovo “Centro Accademico Romano della Santa Croce” erano 41, provenienti da 22 Paesi. In questo momento, la Pontificia Università della Santa Croce è costituita dalle facoltà di Teologia, Diritto canonico, Filisofia e Comunicazione sociale istituzionale. Alle quattro facoltà si aggiunge l’Istituto di Scienze religiose all’Apollinare. Gli studenti che risultano iscritti nel corrente anno sono 1.400 e provengono da 97 Paesi.

 

 

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24 ORE NEL MONDO

10 gennaio 2005

 

- A cura di Amedeo Lomonaco -

 

 

Nuova scossa di terremoto e tanta paura in Indonesia. Nello Sri Lanka intanto riaprono le scuole. E in molte aree colpite dal maremoto si cerca di tornare in qualche modo alla normalità. Il servizio di Rita Anaclerio:

 

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A quindici giorni dal terribile maremoto che ha sconvolto il Sud-Est asiatico, causando finora 156 mila morti,  resta il problema del riconoscimento dei corpi: in Thailandia 800 vittime sono state riesumate per procedere alla loro identificazione. Restano, nel Paese, difficoltà di coordinamento, denunciate anche da un missionario stimmatino, padre Michael Jaaresek. “C’è un tempio buddista pieno di cadaveri - spiega il religioso all’Agenzia Misna - e le vittime del maremoto sono state gettate lì, tutte insieme”. E al largo dell’Indonesia la terra continua a tremare. La notte scorsa, infatti, gli abitanti di Banda Aceh terrorizzati hanno abbandonato i loro rifugi e si sono riversati sulle strade dopo aver avvertito una scossa molto forte e particolarmente lunga. In India, dove è stata annunciata la morte di altre 114 persone, il bilancio ufficiale è salito a 10.136 vittime.

 

Ma tra le macerie, la vita torna a scorrere. Questa mattina, infatti, si sono riaperte le scuole nello Sri Lanka e le lezioni dovrebbero riprendere in quasi tutte le scuole del Paese. Molti dei bambini che si sono seduti sui banchi hanno ancora il volto segnato dai traumi della catastrofe. Sono 420 le scuole distrutte e 1.000 gli insegnanti morti solamente nella zona intorno ad Aceh. Negozi aperti e strade movimentate sono i segni di una certa normalità che sta riprendendo possesso di una delle cittadine più devastate, Meulaboh. Anche l’UNICEF conferma la costante attività di distribuzione dei vaccini.

 

E intanto il ministro indonesiano dell’Economia, Aburizal Bakrie, in vista dell'incontro dei Paesi creditori del Club di Parigi, che si terrà mercoledì, per valutare la moratoria del debito ai Paesi colpiti dallo tsunami, ha detto di essere fiducioso che i creditori occidentali concederanno il congelamento fino a 3,2 miliardi di dollari del debito da restituire entro il 2006. Dalla tragedia avvenuta nel Sud-Est asiatico emergono anche storie a lieto

 

fine: undici membri di una tribù delle isole Nicobare sono stati tratti in salvo dalla forze di sicurezza indiane, dopo aver passato due settimane sulle cime degli alberi ed essersi nutriti di noci di cocco.

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Violenti scontri  hanno rotto nel sud delle Filippine la tregua tra esercito e guerriglia, provocando la morte di 21 persone. I combattimenti, avvenuti nella città di Mamasapano, a sud dell’isola, sono cominciati domenica sera con l’attacco a una postazione militare compiuto da un centinaio di separatisti. La tregua tra governo e MILF, il più importante gruppo  ribelle musulmano, risale al luglio 2003.

  

In Iraq continua lo stato di estrema tensione a 20 giorni dalle elezioni che dovrebbero segnare per il Paese il concreto avvio delle istituzioni democratiche del dopo Saddam Hussein. A Baghdad sono stati assassinati il vice capo della polizia della capitale e suo figlio. Sempre nella capitale, l’esplosione di un’autobomba nei pressi di un posto di polizia ha provocato la morte di tre persone. Violenze anche nella regione petrolifera settentrionale di Kirkuk, dove sono stati uccisi quattro iracheni. In un video, intanto, il gruppo guidato dal terrorista giordano Al Zarqawi ha rivendicato l’attentato suicida di mercoledì scorso a Mossul, costato la vita ad un soldato americano.

 

La presidenza dell’Unione europea “non ha alcuna intenzione di eliminare dal Patto la stabilità, che resta necessaria ed è un elemento centrale per garantire la tenuta dell'euro nel lungo periodo”. Lo ha affermato il primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker, presidente di turno dell'UE.

 

È iniziato stamattina il primo vertice in Gabon dei capi di Stato del Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana, incentrato soprattutto sulla crisi in Costa d’Avorio. Nella città di Libreville, sede dell’incontro, è arrivato poco fa a sorpresa anche il presidente ivoriano, Gbagbo. Durante i due giorni di lavoro, a porte chiuse, si esamineranno anche le situazioni nella Repubblica Democratica del Congo e nella regione sudanese del Darfur.

 

 

 

 

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