RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVIII n.
242 - Testo della trasmissione di domenica 29 agosto 2004
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI IN PRIMO PIANO
CHIESA E SOCIETA’:
In Iraq ancora scontri a Falluja, a Baghdad e a Mossul. A Parigi riunione presieduta dal premier Raffarin per coordinare l’azione del governo sulla vicenda dei giornalisti francesi rapiti
Almeno dieci persone sono rimaste uccise in Afghanistan per l’esplosione di una bomba in una scuola islamica nel sudest del Paese.
29 agosto 2004
TUTTORA IN ALCUNE PARTI DEL MONDO I CREDENTI
PAGANO
LA LORO ADESIONE A CRISTO E ALLA CHIESA:
LO SOTTOLINEA IL PAPA
ALL’ANGELUS,
RICHIAMANDOSI AL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA RICORDATO OGGI.
E RIBADISCE CHE IL SANGUE IMMOLATO PER LA VERITA’
E LA GIUSTIZIA
E’ SEGNO DELLA SANTITA’ DELLA CHIESA
In alcune parti del mondo,
tuttora, i credenti pagano per la loro fede: lo sottolinea il Papa all’Angelus,
richiamandosi al martirio di San Giovanni Battista ricordato oggi. Ribadisce
che il sangue immolato è segno della santità della Chiesa, invitando tutti,
anche quanti non sono chiamati all’estremo sacrificio a vivere il Vangelo senza
sconti. Il servizio di Fausta Speranza:
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Il martirio rappresenta “il
vertice della testimonianza alla verità morale”: lo sottolinea il Papa nel
giorno dedicato al martirio di San Giovanni Battista per poi ricordare quanti,
anche oggi, versano il sangue per testimoniare con coerenza il Vangelo:
“In alcune parti del mondo i credenti continuano ad essere sottoposti
a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua Chiesa”
Se relativamente pochi – spiega
Giovani Paolo II – sono chiamati al sacrificio supremo, c’è però “una coerente
testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno
anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici”.
E il Papa sottolinea anche
quanto non sia facile anche nella vita quotidiana più comune. “Ci vuole – ribadisce – davvero un impegno
talvolta eroico per non cedere alle difficoltà e ai compromessi e per vivere il
Vangelo sine glossa”. Usa
un’espressione latina per raccomandare di non fare postille e dunque eccezioni.
Resta il valore tutto speciale
del sangue versato:
E’ il Papa stesso a ricordare di
averlo affermato nell’Enciclica Veritatis Splendor. Cita, invece il
Vangelo di Luca per richiamare alla mente l’espressione che Gesù usa per Giovanni
Battista: “il più grande fra i nati di donna”. Fu decapitato – spiega i Santo
Padre – per ordine di Erode, al quale aveva osato dire che non gli era lecito
tenere la moglie di suo fratello.
Dopo la preghiera mariana, il
saluto del Papa in varie lingue. In
italiano, un pensiero particolare ai missionari
e le missionarie partecipanti al corso di formazione promosso dall’Università
Pontificia Salesiana; i superiori e i seminaristi del Pontificio Collegio Americano;
il gruppo dei Legionari di Cristo. E poi i fedeli di Angarano in Bassano del
Grappa; di San Giorgio delle Pertiche; il gruppo “Amici della Fraterna Domus” di Roma e di varie
province del Veneto; i partecipanti alla manifestazione “Bici di pace”
provenienti da Castegnato.
Un saluto speciale il Santo
Padre lo rivolge all’arcivescovo di Genova, il cardinale Tarcisio Bertone, e ai
fedeli raccolti attorno a lui nel Santuario della Madonna della Guardia, la cui
effigie – ricorda il Papa - fu posta nei Giardini Vaticani da Benedetto XV. E a
Maria Giovanni Paolo II torna a chiedere pace per l’intera umanità.
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29
agosto 2004
LA CECENIA OGGI AL VOTO PER LA SCELTA
DEL PRESIDENTE:
FAVORITO IL CANDIDATO FILORUSSO
- Intervista con Sergio Romano -
Un uomo ha fatto esplodere una
bomba che stava cercando di introdurre in un seggio elettorale di Grozny, in
Cecenia, rimanendo ucciso. E’ un episodio che conferma il clima di forte
tensione che ha accompagnato questa mattina l’apertura dei seggi. In ogni caso
600 mila elettori hanno cominciato a votare per trovare il successore del
presidente filorusso, Akhmad Kadyrov, ucciso in un attentato avvenuto nel
maggio scorso a Grozny. E sulle presidenziali cecene si è allungata già alla
vigilia l'ombra del terrorismo kamikaze che sarebbe all'origine del doppio
schianto di martedì di due Tupolev. Tra i rottami dei due aerei caduti in
Russia sono state trovate, infatti, tracce di esplosivo e i sospetti si sono
indirizzati su due giovani passeggere cecene. Nelle due stragi sono morte 90
persone. Tra i sette candidati il favorito è quello sostenuto dal Cremlino, Alu
Alkhanov, attualmente ministro dell'Interno. Ma chi
potrà avere la meglio nella corsa ad una presidenza assai difficile da gestire?
Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Sergio Romano, ex ambasciatore italiano a
Mosca:
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R. – Credo che il successore del
presidente Kadyrov sarà ancora una volta un uomo gradito al Cremlino. Questo è
il disegno dei russi: creare una Repubblica autonoma, sì, ma strettamente
collegata alla Russia, rispettosa dei suoi interessi nella regione ... Il problema
grosso, naturalmente, è che Putin si sta scontrando con forti resistenze da
parte di gruppi della popolazione che non esitano a ricorrere alla lotta armata
o addirittura ad abbracciare la causa del terrorismo clamoroso.
D. – La Cecenia rimane uno dei
punti fondamentali della politica di Putin che, comunque, guarda al mondo
occidentale e all’Europa in primis. Proprio per questo, non sarebbe opportuno
cambiare atteggiamento nei confronti della situazione nella Repubblica caucasica?
R. – Certo che sarebbe
opportuno! Putin ha commesso alcuni errori, in Cecenia. Non c’è dubbio che il
nazionalismo ceceno si è colorato di un forte radicalismo religioso. Non bisogna
dimenticare, tuttavia, che dopo la prima guerra cecena, nel 1996, fu deciso sostanzialmente
di dare l’indipendenza a quella Repubblica. Purtroppo, i ceceni hanno fatto un
pessimo uso di quella indipendenza. Se la Russia è intervenuta nel 1999, lo si
deve anche allo stato di grande disordine in cui il Paese era precipitato negli
anni in cui avrebbe dovuto, invece, dimostrare la sua capacità di gestire bene
la propria sovranità.
D. – La Cecenia è uno dei punti
caldi dell’intera area caucasica, che comunque vive una situazione di tensione.
C’è il rischio che i vari gruppi indipendentisti possano trovare un accordo e
quindi rendere ancora più difficile il rapporto con Mosca?
R. – Per la verità, questo è già
accaduto nella seconda metà degli anni Novanta, quando una parte importante
della dirigenza cecena, quella che fa capo a Shamil Basayev, aveva deciso, per
così dire, di allargare l’orizzonte politico, cercando di coinvolgere le
regioni islamiche a nord del Caucaso. Quindi, il rischio esiste. Non
dimentichiamo che a sud del Caucaso c’è un problema insoluto, che è quello dei
rapporti tra osseti e georgiani, da un lato, e osseti e daghestani, dall’altro.
D. – C’è la sensazione che la
comunità internazionale abbia ormai rinunciato a dare consigli a Mosca su come
gestire l’affare-Cecenia ...
R. – La Russia è stata
certamente criticata da larghi settori della società europea e americana per la
durezza della sua politica cecena. Dopo l’11 settembre, poi, naturalmente,
Putin poté sostenere: ‘Ecco, vedete, ho un nemico che non è purtroppo diverso
dal vostro, quindi avete l’obbligo e il dovere, di garantirmi il consenso’. Non
credo che l’Europa o l’America possano fare molto. E’ una questione interna e
la Russia, alla fine, la risolverà secondo i suoi criteri, secondo i suoi
principi, secondo quelle che ritiene essere le proprie esigenze. L’America lo
sa e non credo che farà grandi pressioni sulla Russia perché cambi politica!
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SI CONCLUDE OGGI AD ATENE LA XXVIII EDIZIONE DEI GIOCHI OLIMPICI
- Intervista con mons Carlo Mazza -
Questa sera, alle 21.15 di
Atene, inizierà la cerimonia di chiusura della 28.ma Olimpiade. Il programma
prevede la sfilata a ranghi misti delle varie delegazioni e la consegna della
bandiera olimpica al sindaco di Pechino, città sede della prossima edizione del
2008. Successivamente, il presidente del Cio, Jacques Rogge, dichiarerà chiusi
i Giochi di Atene. Per un bilancio di questa Olimpiade, Giancarlo La Vella ha
raggiunto ad Atene mons. Carlo Mazza, responsabile dell’Ufficio Cei Sport e
tempo libero, assistente spirituale della squadra italiana:
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R. – Questa Olimpiade era un po’
da tutti attesa e forse anche temuta per tanti aspetti. Comunque il risultato è
senz’altro positivo. Io ho visto un’organizzazione quasi perfetta, un popolo
completamente dedicato a questa causa. Ha significato grande efficienza, buona
volontà, grande amicizia. Anche i momenti un po’ rischiosi, un po’ più
‘bellicosi’, sono stati evidentemente subito sedati e rimessi in fila. Per cui,
alla fine devo dire che è stata una grande Olimpiade. Per altri profili, di
ordine spirituale e morale che mi appartengono di più, grazie a Dio in questa
Olimpiade ho lavorato moltissimo, il che vuol dire che, in qualche modo, Dio si
è servito anche di un prete per poter fare un’opera di Evangelizzazione, di catechesi,
dono dei Sacramenti. Penso sia stata una presenza molto bella, molto amicale.
Ho notato, ed ho avuto modo di sperimentarlo con gioia, che il bisogno,
l’esigenza, la domanda di Dio è profonda e richiesta anche se non manifestata
apertamente.
D. – Alla luce di tutto questo,
come è stata vissuta la vittoria e, per i tanti, la sconfitta?
R. – Ho notato la difficoltà ad
elaborare la sconfitta pensandola non come fallimento, ma come momento di
ripresa che diventa forza, potenza in futuro. La sconfitta è sempre una grande
lezione di vita come anche, peraltro, la vittoria se vissuta bene, non in
termini esaltanti o magici, ma in termini corretti e belli.
D. – Mons. Mazza, proprio dal
suo punto di vista ha avuto modo di osservare questi ragazzi di Atene 2004 nel
profondo. Qualche storia emblematica che lei porterà con sé da questa
esperienza?
R. – Beh, non mi piace fare
nomi, perché dovrei citarli tutti, ma un pugile, per esempio, un giorno prima
di avere il combattimento è venuto e mi ha detto: “Io voglio essere puro nel
mio combattimento davanti a Dio e davanti al mio avversario”. Ha voluto
confessarsi, ha voluto così colloquiare un po’ profondamente con me. Questo
ragazzo, lungo il cammino, nel villaggio ha rimesso a posto la sua coscienza,
per così dire …
D. – Ci diamo, quindi,
appuntamento a Pechino 2008. Se ne è parlato in qualche modo, già, ad Atene?
R. – Ma, per quanto mi riguarda,
credo di aver finito, nel senso che io, ormai, concludo il mio servizio che
facevo, con questa Olimpiade ...
D. – Ricordiamo quante sono
state?
R. – Sono state cinque. Sono
stato estremamente privilegiato da parte di Dio, devo dirlo, per avere avuto la
possibilità di fare questa esperienza così lunga, così complessa. Ho avuto modo
di sperimentare il mio essere prete con grande gioia, anche con grande difficoltà.
Ho avuto modo di incontrare tante coscienze, degli adulti e soprattutto degli
atleti, alcuni disponibili, altri un po’ di meno, con luci ed ombre, insomma,
come sempre in tutte le cose umane. Devo ringraziare anche il CONI, perché il
CONI ha sempre voluto che ci fosse un prete presente nelle Olimpiadi. Ha
sostenuto la mia presenza, mi ha sempre coadiuvato affinché tutto andasse per
il meglio.
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“IL
CITTADINO CHE NON C’È”: UN LIBRO-INCHIESTA ANALIZZA L’INFORMAZIONE
IN TEMA DI IMMIGRAZIONE, DENUNCIANDO I LIMITI
DI UNA TRATTAZIONE
TROPPO
SPESSO SUPERFICIALE, SPETTACOLARIZZATA O STRUMENTALIZZATA
- Intervista con l’autrice Ribka Shibatu -
Presente nelle cronache
giornalistiche, nella maggior parte dei casi con gli accenti della drammaticità:
parliamo del fenomeno dell’immigrazione, sempre in primo piano in questo
periodo estivo per gli sbarchi clandestini, spesso dai risvolti tragici.
Nell’informazione di oggi, c’è che questa mattina duecentoquarantuno extracomunitari
sono approdati nel porto di Lampedusa. Sono tutti uomini e maggiorenni, che
hanno dichiarato di provenire da Palestina e Bangladesh e che sembrano in buone
condizioni di salute. Proprio agli articoli ed ai reportage delle
principali testate giornalistiche radiotelevisive italiane è dedicato “Il
cittadino che non c’è”, libro recentemente pubblicato dalla Edup, la Case
editrice dell’Università popolare. Un libro-inchiesta che attraverso un’ampia
documentazione denuncia l’omologazione, la strumentalizzazione politica ed i pregiudizi
con cui spesso sono trattati i temi dell’immigrazione nei media italiani.
Stefano Leszczynski ha intervistato l’autrice, Ribka Shibatu:
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R. – Il primo problema dei
media, che io personalmente ho notato, è che non fanno parlare i diretti
interessati. C’è sempre un delegato, c’è sempre qualcuno che li interpreta.
Questo è sbagliato.
D. – Questo è, forse, uno dei
motivi della scelta del titolo “Il cittadino che non c’è”?
R. – Sì, perché si parla di lui
e lo si fa spesso in termini negativi ed evidenziando i problemi che lo
riguardano. Anche chi opera con passione, impegnandosi veramente anima e corpo,
a favore dell’immigrato, aggiunge sempre la parola “problema”. Questo è sbagliato.
L’immigrazione di per sé non è un problema, ma è una ricchezza. Può diventare
un problema se l’integrazione non avanza.
D. – Qual è la differenza che ha
rivelato nel modo di trattare la questione immigrazione tra la carta stampa e
il mezzo radiotelevisivo?
R. – La carta stampa spesso,
nelle pagine culturali, approfondisce anche certi aspetti migliori della realtà
dell’immigrazione. Conosciamo bene, però, l’impatto forte che hanno radio e
televisione. A maggior ragione la televisione e la radio dovrebbero fare più
attenzione proprio perché riescono ad avere un maggior effetto sul pubblico,
rispetto alla carta stampata. La televisione non è soltanto superficiale, ma
anche pericolosa in questo senso.
D. – Questo soprattutto quando
si trattano casi di cronaca?
R. – La cronaca nera è sicuramente
più presente dello stesso fenomeno migratorio visto nel suo insieme. Si capisce
cosa vuole dire, che immagine passa a chi non conosce la realtà migratoria. Per
fortuna il popolo italiano, fra quelli che ho conosciuto, è un popolo che ha
una mente aperta e l’immigrazione e l’intercultura potrebbero qui in Italia
trovare un’oasi, se solo si trovasse una risposta anche in ambito politico.
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IL
CAPITOLO GENERALE DELLE MISSIONARIE COMBONIANE, IN CORSO A ROMA, RIUNISCE SUORE DELLE DIVERSE AREE DEL MONDO:
AI NOSTRI MICROFONI UNA
TESTIMONIANZA DALL’ETIOPIA
-
Intervista con suor Mariolina Cattaneo -
Le missionarie comboniane stanno
tenendo a Roma il loro Capitolo generale. Si trovano riunite, dunque, anche
quante sono impegnate nelle diverse aree del mondo. Nell’intervista di Giovanni
Peduto, suor Mariolina Cattaneo, che lavora in Etiopia, racconta la difficile
situazione del Paese e l’impegno delle comboniane:
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R. –
L’Etiopia sta vivendo una realtà di relativa calma già da diversi anni, perché
è dal ’91 che c’è il nuovo governo. C’è stato però un periodo di guerra al
confine con l’Eritrea dal ’98 al 2000. Il Paese si sta preoccupando dello
sviluppo, perché ancora tre quarti della popolazione vivono a livelli di
povertà enormi. Noi ci inseriamo soprattutto nel discorso sociale, nei progetti
di sviluppo, oltre a tentare di lavorare con la comunità locale, con la Chiesa
locale, per portare l’annuncio di un Vangelo di riconciliazione a quelle
popolazioni che non sono state ancora raggiunte dal Vangelo.
D. – Più in generale cosa può
fare la Chiesa per contribuire a risolvere i problemi del Paese?
R. – La Chiesa etiopica è già
molto considerata, anche a livello nazionale, per i progetti di sviluppo che
porta avanti. Probabilmente quello che ancora potremmo fare è impegnarci di più
nel campo della riconciliazione e del dialogo interreligioso con l’islam, con
le religioni tradizionali e nel dialogo ecumenico con la nostra Chiesa sorella.
D. – Si dice sempre che l’Africa
è il continente dimenticato. Lei è d’accordo con questa affermazione? Cosa si
può fare per rimediare? Cosa possono fare, in particolare, i media?
R. – Io credo che dipenda molto
da quale punto di vista lo guardiamo. Se guardiamo dal punto di vista del
mercato internazionale, l’Africa non ha nessuna incidenza nel consumo.
Sicuramente è il centro di alcuni traffici, quale il traffico delle armi, dei
diamanti e di altre materie prime. Quindi, non direi che sia completamente
dimenticato. Vogliono più che altro farcelo dimenticare. Aggiungerei però che,
dal punto di vista di Dio, sicuramente l’Africa sta vivendo un momento di
grande gioia, perché la presenza di Dio in Africa è sentita da tutti.
Aggiungerei, quindi, che è sempre una questione molto relativa.
D. – Parliamo del lavoro
missionario. Va bene come è svolto adesso o pensa che debba cambiare?
R. – L’attività
missionaria è sempre in ricerca, perché non possiamo dire di aver raggiunto il
nostro massimo e nemmeno di aver raggiunto in maniera profonda la gente e le
popolazioni. Credo che siamo alla ricerca di trovare metodi nuovi. In questo
momento la cosa principale è quella di accorgersi che Dio è presente, Dio sta
facendo la sua storia con l’Africa e noi siamo gli ascoltatori. Siamo coloro
che contemplano la presenza di Dio in Africa.
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ANCHE IN QUESTA DOMENICA DI RIENTRO,
PROSEGUE L’APOSTOLATO DI STRADA
DELLE “SENTINELLE DEL MATTINO”.
I LUOGHI SCELTI: SPIAGGE, PUB, DISCOTECHE E ANCHE
ALCUNI AUTOGRILL
-
Intervista con don Andrea Brugnoli -
Siamo
in giorni che chiudono il periodo delle vacanze e sulle strade si segnalano
code e purtroppo incidenti. Anche in questa domenica di rientro, proseguono le
iniziative dell’Apostolato di strada. Una presenza nelle località italiane di
svago di volontari che hanno cercato nuovi linguaggi e nuovi modi di incontrare
giovani e meno giovani per dare loro testimonianza del Vangelo. I luoghi
scelti: spiagge, pub o discoteche e oggi anche alcuni autogrill. Il progetto si
chiama “Sentinelle del mattino”. Nell’intervista di Francesco Vitale,
ascoltiamo il coordinatore, don Andrea Brugnoli:
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R. – Siamo chiamate
“Sentinelle del mattino” perché così ci ha chiamato il Papa a Tor Vergata,
quando ci ha invitato a diventare apostoli tra i giovani. Quattro anni fa siamo
andati nel centro di Verona ed abbiamo provato, due a due, ad avvicinare i
giovani laddove sono, cioè nei pub, davanti alle discoteche. Abbiamo fatto loro
una proposta: “Venite. Se volete c’è una chiesa aperta di notte, vi portiamo
davanti al Signore e voi potere rivolgere a Lui una preghiera”. Questa proposta
così strana, fatta nel cuore della notte, ha incuriosito molti giovani. Noi
crediamo che un giovane possa diventare santo anche lì dove si sta divertendo.
Non abbiamo paura di entrare, come ci ha invitato a fare Gesù, anche in luoghi
non soliti come possono essere alcune discoteche ed alcuni pub. Spesso si
tratta di giovani “feriti” e di notte però, come Nicodemo, sono pronti ad
aprire il cuore ad un confronto. Quello che vediamo in loro è una grande
solitudine. Questo rappresenta sicuramente il male di questo secolo.
D. – L’evangelizzazione si
sposta in autostrada o per meglio dire in autogrill?
R. – Cerchiamo di raggiungere i
viaggiatori dove sono. In questa domenica siamo presenti alla Cantagallo,
vicino Bologna, sulla A1 per Firenze, dove c’è una piccola cappella. Ci siamo
poi a Firenze, alla Chiesa dell’Autostrada, che si trova appena fuori; a
Montepulciano e a Fiano Romano.
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UNA
SETTIMANA TEOLOGICA SUI GRANDI TEMI DEL LAVORO E DELLE PROFESSIONI
NELL’ERA
DELLA GLOBALIZZAZIONE: E’ L’INIZIATIVA DEL MEIC CHE,
NEI
PRESSI DI TRENTO, HA RIUNITO TEOLOGI E PROFESSIONISTI DI DIVERSI SETTORI
-
Interviste con il prof. Renato
Balduzzi e con il prof. Ignazio Marino -
Una
settimana teologica interamente dedicata alla riflessione sui grandi temi del
lavoro e delle professioni nell’era della globalizzazione. E’ questa
l’iniziativa promossa nei giorni scorsi nei pressi di Trento dal MEIC, il
Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, che ha coinvolto teologi e
professionisti di diversi settori. Il servizio di Rosa Praticò:
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Una
tavola rotonda a più voci per parlare di teologia delle professioni, per pensare
il delicato rapporto tra esperienza lavorativa ed etica. Sullo sfondo, sempre
presente, l’idea della professione come chiamata e risposta. In una parola,
come vocazione. Il tutto nella consapevolezza del filo che lega indissolubilmente
fede, cultura e mondo che cambia. Ma ascoltiamo lo stesso presidente del MEIC,
il prof. Renato Balduzzi:
“Professione
nel villaggio globale significa competenza specifica ma capacità di superare la
stessa competenza specifica nel rapporto con le altre. Quello che oggi emerge,
forse meglio rispetto a ieri, è che la realizzazione di sé passa necessariamente
attraverso l’altro. C’è, quindi, una responsabilità verso l’altro e gli altri.
La professione è, al tempo stesso, l’esercizio massimo della libertà e il luogo
della responsabilità. Una responsabilità sempre maggiore perché nel villaggio
globale sono maggiori le interconnessioni e perché le professioni tendono a
perdere gli aspetti di routine e di ripetizione mettendo sempre più in evidenza
il fattore umano”.
Dello
stesso tono la testimonianza di chi ogni giorno vive la professione come
impegno civile e contributo al vivere sociale. Al nostro microfono il prof. Ignazio
Marino, chirurgo e direttore della divisione trapianti del Jefferson University
Hospital di Philadelphia:
“La
professione – almeno per come la vedo io – va inquadrata nella logica di vita,
nel rapportarsi al mondo professionale ed alle generazioni future per le quali
dobbiamo essere un esempio e costituire una strada da seguire. Direi, inoltre,
che questa è sicuramente un’alternativa a quella visione per la quale la professione
deve essere semplicemente produttività, efficienza e risultati soprattutto e
purtroppo monetari. La professione deve essere una realizzazione di se stessi
all’interno della società e al servizio della società. Il che significa
realizzare progetti che servano agli altri e che non siano semplicemente finalizzati
all’arricchimento individuale, come purtroppo spesso accade nella società occidentale”.
Dialogo
e apertura all’esterno, quindi, sono le parole chiave di un raccordo sempre più
necessario tra le professioni e delle professioni con la realtà circostante.
Aiutare gli addetti ai lavori a maturare questa idea è uno degli obiettivi
principali del MEIC.
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29
agosto 2004
UNO STUDIO UNICEF CONDOTTO NELLO SWAZILAND, UNO DEI
PAESI AFRICANI
CON LA PIU’ ALTA PERCENTUALE DI
PERSONE AFFETTE DALL’AIDS,
HA RILEVATO
UNA DIMINUZIONE DEL VIRUS TRA LE ADOLESCENTI
- A cura Francesca Smacchia -
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MBABANE. = Un numero di giovani
malate decisamente inferiore alle aspettative, è il risultato riscontrato dalle
ultime indagini condotte dall’UNICEF nello Swaziland, uno dei Paesi africani
con la più alta percentuale di persone affette dal virus dell’HIV. Lo rivela un
rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia. Da un controllo a
campione effettuato in due aree rurali, su 1000 ragazze d’età compresa tra i 15
e i 19 anni, il 6% è affetto dall’Aids, un risultato significativo se si pensa
che all’inizio del 2004 il regno dello Swaziland ha ottenuto il primato di
Stato con il più alto tasso d’infezioni da HIV al mondo (38,6%) su circa un
milione di abitanti. “I dati ottenuti dall’UNICEF sono differenti da qualsiasi
altro rilevato in precedenza”: ha precisato il dottor Alan Brody,
rappresentante dell’UNICEF per lo Swaziland. Nel 2002 le stime precedenti
relative al tasso d’incidenza del virus sulla popolazione femminile in età
giovanile indicavano che ben il 32,5% delle giovani tra i 15 e i 19 anni erano
positive all’HIV. “La questione è che tutti i dati sulla siero-sorveglianza
provengono da controlli effettuati su donne ventenni incinte e, in questo caso,
il 40% del campione è affetto dal virus. Questi nuovi dati invece – ha concluso
il dott. Brody – suggeriscono un cambiamento di comportamento da parte delle
adolescenti dello Swaziland”. (F.S.)
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SOTTO ACCUSA IL GOVERNO DEL MINISTRO INDU’ MODI
PER IL MASSACRO TRA INDU’ E MUSULMANI NEL 2002 IN
GUJARAT,
STATO DELLA
COSTA OCCIDENTALE DELL’INDIA
AHMEDABAD. = Una commissione
d’inchiesta sugli scontri del 2002 tra indù e musulmani nel Gujarat, Stato
occidentale indiano, ha chiamato in causa responsabilità di autorità politiche
e forze dell’ordine sospettate di aver incoraggiato le violenze. Una serie di
interrogazioni ha fatto emergere che i nazionalisti indù del ministro Narendra
Modi, al potere in quello Stato nel 2002, hanno chiuso gli occhi di fronte alla
strage che provocò nel febbraio di due anni fa la morte di 59 indù a Godhra e
nel mese successivo il massacro di almeno 2 mila musulmani in diverse città del
Gujarat. Nelle ultime settimane, alcuni testimoni interrogati dalla commissione
hanno detto ai giudici di non ricordare i particolari degli scontri. “Il
comando generale aveva dato ordine a tutti di non usare radio per riferire
informazioni sulle rivolte. Le direttive erano di non mandare messaggi alla
centrale in città tramite apparecchi senza fili perché si temevano
intercettazioni”, ha dichiarato K K Mysorewala, ispettore di polizia, che dopo
giorni di risposte vaghe ha infine spiegato perché la polizia non reagì
immediatamente agli scontri e non prese provvedimenti se non molte ore dopo.
Inoltre, un politico ha rivelato ai giudici che il giorno del massacro di Godhra,
il ministro Modi decise di far portare i corpi delle vittime indù nella città
di Ahmedabad, già teatro di violenze interreligiose. La commissione ora vuole
interrogare Modi per sapere il motivo del trasferimento dei corpi in una zona
così calda e il motivo per cui non ordinò subito l’intervento dell’esercito.
(F.S.)
IL
CHIRURGO CINESE CONOSCIUTO COME “IL MEDICO DELLA SARS”
NON POTRA’ RECARSI NELLE FILIPPINE PER RITIRARE UN
PREMIO,
L’EQUIVALENTE ASIATICO DEL NOBEL, PERCHE’ AGLI
ARRESTI DOMICILIARI
MANILA. = “Non posso andare a
Manila. Lavoro ancora per l’esercito anche se sono in pensione. Devo rispettare
regole che non mi permettono di recarmi all’estero”: con queste parole Jiang
Yanyong, il chirurgo cinese conosciuto come “il medico della Sars”, ha spiegato
che non potrà recarsi nelle Filippine per ritirare il Premio della Ramon Magsaysay
Foundation, l’equivalente asiatico del Nobel. Un funzionario della Fondazione
ha poi confermato che il dottore si trova agli arresti domiciliari. Sarà quindi
il fratello a ritirare il Premio il prossimo 1 settembre a Manila. Fu Jiang che
nell’aprile del 2003 informò i media cinesi sul pericolo della Sars in Cina,
svelando i nomi dei funzionari governativi coinvolti nella vicenda della
diffusione del virus. La sua denuncia permise l’attuazione delle misure sanitarie
contro la malattia. Il governo cinese aveva impedito a tutti i funzionari pubblici
di parlare del virus e della sua diffusione nel Paese. Inoltre il medico è
stato arrestato nel giugno scorso in coincidenza con il 15° anniversario delle
proteste di Tiananmen perché in una lettera al partito comunista chiedeva la
revisione del giudizio sugli eventi del 1989 definendo le proteste studentesche
“un movimento patriottico”. Il Premio è per “il suo coraggio di manifestare la
verità in Cina”, come spiega la motivazione della Magsaysay Foundation. ( F.S.)
E’ STATA RESPINTA DAL PARLAMENTO DEL KASHMIR
LA PROPOSTA
DI LEGGE CHE INTENDEVA PRIVARE LE DONNE LOCALI
DELLA
RESIDENZA SE SPOSATE CON UN UOMO CHE NE AVESSE UNA DIVERSA
JAMMU. =Sottoposto a votazione è stato bocciato il
testo di legge che intendeva privare le donne del Kashmir, Stato indiano
settentrionale travagliato da una decennale guerriglia separatista, della
residenza se avessero sposato un uomo che ne avesse una diversa. Se fosse stato
approvato, sarebbe stato un duro colpo per la popolazione femminile perché
perché la legislazione kashmira prevede che solo i cittadini di questo Stato
abbiano il diritto di voto, possano accedere a posti nell’amministrazione
pubblica e acquistare proprietà. Gli osservatori spiegano che la questione
della residenza permanente è di fondamentale importanza per la popolazione del
Kashmir, sempre preoccupata di conservare la propria identità e timorosa che i
non appartenenti allo Stato possano acquistare terreni privando di risorse i
locali. La proposta invece è stata respinta grazie all’opposizione del Partito
del Congresso, al potere a New Delhi dal maggio scorso. (F.S.)
LA MOGLIE DI RAUL RIVERO, GIORNALISTA E POETA
CUBANO,
DENUNCIA UN
“CAMBIAMENTO”
NEL TRATTAMENTO RISERVATO AL MARITO
IN CARCERE A CUBA
L’HAVANA. = Blanca Reyes, moglie
di Raul Rivero, giornalista e poeta cubano, raggiunta al telefono da Reporters
sans frontières, l’organizzazione internazionale per la difesa della libertà di
stampa e dei giornalisti prigionieri, ha denunciato un “cambiamento preoccupante”
nel trattamento riservato a suo marito dalle autorità carcerarie cubane. Rivero
è stato arrestato il 20 marzo scorso e condannato a 20 anni di carcere per i
suoi scritti. Da quel giorno, si trova rinchiuso nella prigione di Canaleta,
vicino a Ciego de Avila, 430 chilometri da L’Havana. “Stanno tentando di
umiliarlo per distruggerlo. Attraverso delle vessazioni le autorità vogliono
annientare chi, unico torto, la pensa in maniera diversa”: è quanto ha spiegato
la moglie a Reporters sans frontières che reclama la liberazione immediata degli
intellettuali. Con 26 giornalisti incarcerati, Cuba è la seconda prigione al
mondo dopo la Cina (27) per pene inflitte ai reporter. Tra questi, 25 sono
stati arrestati durante la “primavera nera” cubana in cui sono stati
incarcerati circa un’ottantina di dissidenti con pene che vanno dai 14 ai 27
anni di carcere. (F.S.)
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29
agosto 2004
- A cura di Amedeo Lomonaco -
In Iraq
sedici persone sono rimaste uccise, questa notte, nel corso di un raid aereo statunitense
su Falluja e durante furiosi scontri scoppiati a Baghdad tra forze americane e
miliziani dell’esercito del Mahdi. Una dura battaglia tra ribelli e truppe
statunitensi è avvenuta anche nel nord del Paese, nei pressi di Mossul, dove
sono morti due guerriglieri. A Bassora è stato sabotato un altro oleodotto.
Cresce, intanto, l’angoscia per la sorte dei giornalisti francesi presi in
ostaggio. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
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Le
autorità di Parigi hanno chiesto la liberazione dei due giornalisti francesi di
‘Radio France’ e del quotidiano ‘Le Figaro’ rapiti dalla guerriglia. Il premier
francese, Jean Pierre Raffarin, ha convocato stamani una riunione con i ministri di Esteri,
Interni e Comunicazione per “coordinare l’azione del governo” sulla vicenda,
dopo il video trasmesso ieri dall’emittente araba Al Jazeera. Nel filmato, il sedicente
gruppo Esercito islamico dell’Iraq ha annunciato di aver preso in ostaggio i
due reporter, scomparsi lo scorso 20 agosto mentre erano in viaggio tra Baghdad
e Najaf. I rapitori, gli stessi responsabili del sequestro e dell’uccisione del
giornalista italiano Enzo Baldoni, hanno lanciato un ultimatum di 48 ore
pretendendo l’abolizione della legge francese che proibisce di mostrare simboli
religiosi, tra i quali il velo islamico, nelle scuole pubbliche. Ma in Francia
tutte le forze politiche e le organizzazioni musulmane più rappresentative
hanno ribadito il loro ‘no’ al ricatto dei rapitori. Nel drammatico capitolo
relativo ai sequestri si deve anche registrare che un sito internet islamico ha
diffuso un video nel quale dodici ostaggi nepalesi dichiarano di essere stati
ingannati dalle “menzogne degli americani”. Sul versante politico, il ministro
degli Esteri olandese Ben Bot, presidente di turno dell’Unione Europea, è
giunto stamani a Baghdad alla testa di “una missione esplorativa”. Sono
previsti incontri con diverse autorità irachene, tra le quali il premier, Iyad
Allawi, ed il ministro degli Esteri, Hoshyar Zebari. Il primo ministro iracheno
ha annunciato, intanto, che è stata avviata un’inchiesta sulla morte delle 25
persone, i cui cadaveri sono stati trovati venerdì scorso a Najaf nell’edificio
dove il leader sciita, Moqtada al Sadr, aveva istituito il proprio “tribunale”.
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E molti
lati oscuri continuano ad avvolgere anche la morte di Enzo Baldoni. Sulla drammatica
vicenda c’è stato ieri un chiarimento tra Maurizio
Scelli, commissario straordinario della Croce rossa italiana ed
Enrico Deaglio, direttore della rivista Diario per la quale collaborava il
reporter italiano, ma sulla barbara uccisione di Enzo Baldoni permangono ancora molti
dubbi. Ascoltiamo il presidente dell’Unione cattolica della stampa italiana, Massimo
Milone, intervistato da Massimiliano Menichetti:
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R. – Al di là delle notizie
ufficiali noi non sappiamo esattamente cosa sia realmente accaduto. Ovviamente,
come giornalisti, dobbiamo chiedere alle fonti ufficiali un criterio di verità
assoluta rispetto a questa morte e al rischio che tutti i colleghi stanno
correndo.
D. – Proprio per un discorso di
tutela nei confronti dei liberi professionisti state pensando a degli aiuti, ad
un fondo?
R. – E’ necessario un fondo
internazionale di solidarietà per tutti i giornalisti, in particolare quelli
non garantiti, come appunto Baldoni. Si recano in un contesto difficile senza
un contratto, una strumentazione ed una copertura editoriale alle spalle.
D. – Per Baldoni si è puntato
sul fatto che fosse un giornalista indipendente. Ma c’è davvero un criterio che
può salvare dal terrorismo?
R. – Il dramma del terrorismo
coinvolge tutti, giornalisti e professionisti che sono nel Paese a vario
titolo. Coinvolge anche i lavoratori, i cittadini occidentali e non
occidentali. La guerra è un fatto tremendamente serio.
D. – In Italia si riaccende la
polemica sul ritiro o meno delle truppe dall’Iraq...
R. – Facciamo parte di un
contesto internazionale di alleanze. La nostra presenza in Iraq è garantita da
un esercito di pace e di solidarietà. Ovviamente non possiamo non rimanere. Il
problema serio sta nel dialogo, nel portare anche logiche di sviluppo per poter
permettere a popoli che stanno soffrendo di crescere nella pace.
D. – Ora si cercherà di
accertare come sia morto Baldoni attraverso le informazioni in possesso della
Croce Rossa o del governo. Ma che giorno è oggi?
R. – Certamente il giorno della
preghiera. Unendoci al dolore dei figli e della moglie di Baldoni ci inchiniamo
di fronte ad un giornalismo che parla di libertà, di solidarietà internazionale,
di pluralismo e di lotta alla tirannide.
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In
Afghanistan, una bomba esplosa in una scuola islamica nella provincia di Paktia,
ha provocato la morte di 10 persone, tra le quali quattro bambini. Le cause della deflagrazione restano al momento sconosciute.
Ribelli taleban stanno sferrando, in queste ore, duri attacchi contro
l’esercito regolare afghano e le truppe americane nella provincia di Paktia ed
in quelle confinanti con il Pakistan. Dall’inizio dell’anno, negli scontri avvenuti nelle
regioni del sudest dell’Afghanistan sono rimaste uccise più di 540 persone.
In
Medio Oriente, le brigate dei Martiri di al-Aqsa hanno ucciso un palestinese,
Hasan Sobahi, accusato di collaborare con i servizi segreti israeliani. Fonti
palestinesi precisano che l’uomo è stato prelevato dal villaggio di Beit Sira,
ad ovest di Ramallah, e portato nel campo profughi di Al Amari, dove è stato
ucciso in strada con colpi di arma da fuoco, davanti ai passanti.
In
Libano, un ufficiale del movimento palestinese ‘Al Fatah’ è morto e sette
persone sono rimaste ferite in seguito a colpi di arma da fuoco sparati da
uomini non identificati nel campo profughi di Ain Helue. L’episodio di violenza
si è verificato durante una manifestazione organizzata da Yasser Arafat in
favore dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane che da giorni stanno
attuando uno sciopero della fame.
Cinque
persone sono state uccise in due attentati compiuti dalla guerriglia maoista in
Nepal, dove i ribelli stanno attuando da oltre una settimana un blocco intorno
alla capitale, Katmandu, isolata dal resto del Paese. Gli attacchi compiuti dai
guerriglieri maoisti hanno provocato, dal 1996 ad oggi, la morte di diecimila
persone.
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