RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno XLVII  n. 321 - Testo della Trasmissione di lunedì 17 novembre 2003

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

Diffondere i valori cristiani della fraternità contro l’iniqua divisione della società in caste: questo l’invito del Papa ai vescovi indiani in visita ad Limina.

 

Costruire insieme la pace: questo il messaggio dell’arcivescovo Michael Fitzgerald ai musulmani per la fine del Ramadan.

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Vicini ai soldati morti a Nassiriya: le massime autorità italiane e migliaia di persone sfilano al Vittoriano. La Camera Ardente aperta anche di notte. Domani alle 11,30 nella basilica di San Paolo fuori le Mura i funerali celebrati dal cardinale Ruini

 

Il Medio Oriente ha bisogno di ponti non di muri: dopo le parole del Papa ieri all’Angelus ai nostri microfoni il nunzio apostolico mons. Pietro Sambi, il custode di Terra Santa padre Giovanni Battistelli e Adib Fateh Ali

 

I presuli brasiliani lanciano un appello affinché le questioni economiche non oscurino l’impegno per migliorare le condizioni di vita degli indios: intervista con mons. Franco Masserdotti

 

Il Vaticano, la stampa cattolica e le leggi razziali: un’inchiesta a 65 anni dall’inizio delle persecuzioni degli ebrei italiani: con noi gli storici Pietro Scoppola e Giovanni Sale.

 

CHIESA E SOCIETA’:

Alessio II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, ha esortato gli ortodossi a lavorare per l’unità dei cristiani

 

Stato di allerta nell’isola di Sulawesi, in Indonesia, per un possibile inasprirsi dei rapporti tra musulmani e cristiani

 

Nelle prossime settimane migliaia di haitiani varcheranno la frontiera della Repubblica Dominicana per lavorare alla raccolta della canna da zucchero

 

Dopo il successo ottenuto in Mozambico, il progetto socio-sanitario ‘Dream’, della comunità di Sant’Egidio, tende le proprie braccia anche verso il Malawi, l’Angola, la Tanzania e la Guinea Bissau

 

Inaugurata in Guinea Bissau la prima Università pubblica, dopo quasi trent’anni dall’indipendenza dal Portogallo

 

24 ORE NEL MONDO:

In bilico il processo di pace in Burundi: le Forze nazionali di liberazione rifiutano l’accordo firmato ieri da governo e ribelli

 

 La Serbia ancora senza quorum: è il terzo fallimento elettorale in meno di un anno. Ultranazionalismo in crescita

 

Tutto da decidere il nuovo governo della Catalogna. Ma nazionalisti e socialisti non possono fare a meno della sinistra.

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

17 novembre 2003

 

 

LA TESTIMONIANZA DELLA VERITA’ DEL VANGELO E DELLA FRATERNITA’ CRISTIANA

PER CONTRASTARE LA GRAVE DISCRIMINAZIONE SOCIALE CHE AFFLIGGE L’INDIA.

QUESTO L’INVITO PRINCIPALE DEL PAPA AL GRUPPO DI VESCOVI DEL PAESE ASIATICO,

RICEVUTI QUESTA MATTINA IN VISITA AD LIMINA

- Servizio di Alessandro De Carolis -

 

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Radicare nella gente lo spirito di fraternità del cristianesimo, per “riformare” i costumi locali ancora basati sull’iniquità della divisione sociale in caste. Per Giovanni Paolo II, è questo uno dei principali doveri di testimonianza dei vescovi dell’India, del clero e di ogni comunità di fedeli del grande subcontinente asiatico. Un dovere ribadito questa mattina dal Papa nel discorso ai vescovi della provincia ecclesiastica indiana del Tamil Nadu, ricevuti al termine della loro visita ad Limina.

 

In uno Stato, come il Tamil Nadu, tra i più industrializzati dell’India, ma segnato da “numerosi problemi sociali” – tra cui lo sfruttamento del lavoro minorile, donne e, in generale, di quella che è l’etnia più consistente, i Dalits, detti anche i “fuori casta” – la dignità umana e l’uguaglianza tra le persone, ha notato Giovanni Paolo II, sono messe costantemente in pericolo. “L’ignoranza e il pregiudizio devono essere rimpiazzati dalla tolleranza e dalla comprensione”, ha affermato il Papa. “Ogni parvenza di pregiudizio, tra cristiani, fondato sulla divisione in caste” pregiudica “l’autentica solidarietà umana, è una minaccia alla genuina spiritualità del Vangelo ed è di ostacolo alla missione evangelizzatrice della Chiesa”.

 

“Per questo, i costumi che perpetuano o rafforzano la divisione in caste dovrebbero essere sensibilmente riformati, cosicché possano divenire espressione della solidarietà di tutta la comunità cristiana”.

 

Per raggiungere tale obiettivo, ha proseguito Giovanni Paolo II, è importante che tutti gli sforzi siano dedicati alla “nuova evangelizzazione”. Se larghe fasce della popolazione, che versano in condizioni disperate, restano facilmente attratte dal “fervore di breve durata” e dalla ricchezza promessi dalle sette fondamentaliste, l’“abilità” del cristiano, ha detto il Papa, è quella di saper mostrare “l’infondatezza di quelle promesse”, testimoniando al contempo che è Cristo l’unico a poter alleviare le sofferenze di chi non ha più speranza. Del resto, ha riconosciuto il Pontefice, la Chiesa cattolica in India “ha sempre promosso la dignità di ogni persona”, la tolleranza, difeso il diritto alla libertà di credo. Ed ha concluso:

 

“Io vi incoraggio a continuare questo franco e utile confronto con i membri di altre religioni. Ogni discussione vi aiuterà a coltivare la mutua ricerca della verità, dell’armonia e della pace”.

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COSTRUIRE INSIEME LA PACE:

IL MESSAGGIO DELL’ARCIVESCOVO FITZGERALD AI MUSULMANI

PER LA FINE DEL RAMADAN

 

Un appello a collaborare insieme per la pace è stato lanciato oggi ai musulmani dall’arcivescovo Michael Fitzgerald, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. L’invito è contenuto nel consueto messaggio che la Chiesa Cattolica prepara ogni anno per la fine del Ramadan, il mese islamico del digiuno, che si celebrerà tra  una settimana. Il servizio di Sergio Centofanti.

 

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“In questo tempo in cui vi sono tante inquietudini e tensioni nel mondo” è importante - nota l’arcivescovo Fitzgerald - che ci siano eloquenti segni di amicizia tra i seguaci delle diverse religioni. Uno di questi è il fatto che si sta allargando la consuetudine di cristiani che organizzano un pasto comune con i propri amici musulmani per interrompere il digiuno del Ramadan.

 

Il presule nel salutare gli amici musulmani sottolinea la necessità di costruire insieme la pace sui quattro pilastri della Verità, della  Giustizia, dell’ Amore e della Libertà.

 

La verità implica  “la reciproca fiducia ed un dialogo fruttuoso che porti alla pace e, conduce ognuno a riconoscere i propri diritti, ma anche i propri doveri verso gli altri”.

 

La pace non può esistere senza la giustizia, ma “la giustizia, deve essere temperata dall’amore” che sa vedere negli altri dei fratelli, “sa comprendere la debolezza, e rende capaci, così, di perdonare. Il perdono è essenziale per ricostruire la pace dopo un conflitto”.

 

“Tutto questo presuppone la libertà, una caratteristica essenziale della persona”.

 

A questi quattro pilastri il mons. Fitzgerald ne ha aggiunto un quinto: la preghiera, in quanto la pace vera è dono di Dio ed è Lui a dare la forza di essere veri costruttori di pace.

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ALTRE UDIENZE

 

Giovanni Paolo II ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, un gruppo di presuli del Belgio in visita ad Limina: il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Mechelen-Brussel, insieme ai suoi tre ausiliari, il vescovo di Hasselt, Paul Schruers, insieme al suo coadiutore, il vescovo di Antwerpen, Paul Van den Berghe, e il vescovo di Brugge, Roger Joseph Vangheluwe.

 

 

PRESA DI POSSESSO CARDINALIZIO

 

Il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Mân, arcivescovo metropolita di Thành-Phô Hô Chí Minh, in Vietnam, prenderà possesso del titolo della chiesa romana di San Giustino, domenica 23 novembre 2003, alle ore 18.

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

“Ponti non muri” è il titolo che apre la prima pagina in riferimento all’Angelus Domini nel quale il Papa prega ed esprime la sua solidarietà per le vittime del terrorismo e richiama alla ripresa del negoziato tra israeliani e palestinesi per la pace in Terra Santa; “Il pregiudizio basato sulle caste ostacola l’evangelizzazione” è il messaggio del Santo Padre a vescovi dell’India in occasione della loro “visita ad Limina Apostolorum”.

 

Nelle pagine vaticane, il cardinale Crescenzio Sepe prende possesso della diaconia romana  di “Dio Padre misericordioso” a Tor Tre Teste e il messaggio per la fine del Ramadan del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.

 

Nelle pagine estere, Medio Oriente: raid palestinese a Rafah; Al Quaeda rivendica gli attentati alle sinagoghe di Istanbul e minaccia il Giappone di non inviare soldati in Iraq; più di 17 soldati statunitensi morti nella collisione di due elicotteri; in un messaggio audio Saddam torna a minacciare di morte le forze della coalizione; Sharon, in visita in Italia, ipotizza il riconoscimento dello Stato palestinese senza frontiere.

 

Nella pagina culturale, un articolo di Armando Genovese sulle chiavi di lettura del “Cantico dei Cantici”.

 

Nelle pagine italiane, la cronaca dell’omaggio al Vittoriano alle salme delle vittime di Nassiriya

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

17 novembre 2003

 

 

L’ITALIA COMMOSSA SI STRINGE AI SUOI EROI DI PACE:

 DA STAMANI, IN MIGLIAIA AL VITTORIANO

 PER RENDERE L’ULTIMO SALUTO ALLE 19 VITTIME DELL’ATTENTATO DI NASSIRIYA. DOMANI, A SAN PAOLO FUORI LE MURA, I FUNERALI DI STATO,

CELEBRATI DAL CARDINALE CAMILLO RUINI

- Servizio di Alessandro Gisotti -

 

L’Italia tributa l’ultimo saluto ai suoi eroi di pace: da alcune ore, in migliaia si stanno recando all’Altare della Patria in Roma, dove nella camera ardente, che rimarrà aperta tutta la notte, si trovano i feretri delle 19 vittime dell’attentato di Nassiriya. Domani, alle 11, 30, i funerali di Stato a San Paolo fuori le Mura, che saranno celebrati dal cardinale Camillo Ruini. Stamani, dunque, l’omaggio ai caduti delle massime autorità dello Stato, a partire dal presidente Ciampi. Al Vittoriano c’era per noi, Alessandro Gisotti:

 

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L’Italia intera si stringe attorno ai suoi compatrioti caduti per la pace in Iraq. Con dolore, commozione, ma anche con sentimenti di orgoglio, migliaia di romani si stanno recando all’Altare della Patria, fin dalla prima mattinata, per rendere l’ultimo commosso saluto alle 19 vittime del vile attentato a Nassiriya. Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi è giunto attorno alle 9,30, accompagnato dalla moglie Franca, entrambi visibilmente provati. Dopo aver reso omaggio ai feretri, disposti nel Sacrario delle Bandiere, il Capo dello Stato e il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si sono intrattenuti con i famigliari delle vittime. Poi, poco prima delle 11, accompagnata da un lungo applauso, è arrivata al Vittoriano, avvolta nel tricolore, la bara con il corpo del caporale Pietro Petrucci, ultima vittima della strage di mercoledì scorso a tornare in Patria. Dunque, in migliaia, sono in fila alle due ali dell’Altare della Patria in un abbraccio che non è soltanto ideale. Il tutto in un silenzio irreale per una grande città come Roma. Si vedono volti, sinceramente segnati dalla tristezza per questa tragedia, ma il dolore è composto. Come grande è la dignità dei famigliari dei caduti. Sono accanto alle spoglie dei propri cari. Alcuni hanno posto sulla bara una foto del proprio padre, figlio o marito. E la gente che sfila nel sacrario rende omaggio a questi eroi, chi facendosi il segno della croce, chi salutando militarmente. Fuori intanto, nell’attesa, si alternano sentimenti ed emozioni:

 

R. – Sto qui perché mi sento italiano, quindi per rendere onore a questi caduti che sono andati lì per difendere la pace.

 

R. – Loro hanno sacrificato la vita per noi e quindi è giusto che siamo qui. Erano nostri compatrioti ...

 

R. – Sono stato a Beirut nel 1983, nei Carabinieri, e quindi oggi sono venuto qui, a ricordarli.

 

R. – C’è molta tristezza per queste povere vittime che sono cadute innocentemente per aiutare gli altri; però, c’è anche un po’ di speranza nel senso che speriamo che queste cose servano per far capire al mondo quanto la guerra sia orribile, brutta.

 

R. – Bè, questi ragazzi avrebbero potuto essere miei figli, avrebbe potuto essere mio marito, mio padre ... E quindi è un sentimento che viene da dentro, profondo, rispetto al sacrificio di questi ragazzi.

 

Centinaia sono i mazzi di fiori deposti sulle gradinate del Vittoriano. Molti accompagnati da messaggi di affetto, da biglietti di solidarietà. Su uno di questi, che forse compendia il sentire degli italiani in queste ore, c’è scritto: “Grazie martiri della pace, orgoglio dell’Italia”.

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Sul terreno, intanto, in Iraq si intensifica l’offensiva americana, alla ricerca dei leader della guerriglia. Colpi di mortaio si sono succeduti nella notte a Tikrit, città natale di Saddam Hussein, mentre a Ramadi è stato arrestato un capo dei Fedayn, responsabili di numerosi attacchi. Stamattina è esplosa una bomba a Kirkuk, presso i locali del Movimento islamico del Kurdistan: un attivista locale è rimasto gravemente ferito.

 

Gli attentati e gli scontri che si susseguono tutti i giorni in Iraq stanno rendendo urgente un cambio di strategia nella gestione del dopoguerra. Lo stesso presidente degli Stati Uniti George Bush ha annunciato la decisione di accelerare i tempi per il trasferimento dei poteri agli stessi iracheni. Adriana Masotti ha sentito in proposito il parere di Adib Fateh Ali, di origine curda, responsabile del coordinamento degli esuli iracheni in Italia.

 

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R. – Circa la necessità di cambiare strategia, noi riteniamo che sia assolutamente necessario. Per prima cosa bisognerebbe davvero far intervenire le Nazioni Unite, perché ci sia un maggior coinvolgimento delle truppe europee che sanno meglio interagire, e soprattutto bisognerebbe bloccare i confini dell’Iraq. Oggi i confini dell’Iraq sono un colabrodo. Vi assicuro che c’è un esercito di kamikaze da tutto il mondo che stanno entrando in Iraq: dallo Yemen, l’Arabia Saudita, l’Afghanistan, il Pakistan. In Iraq oggi i vecchi militari nostalgici di Saddam Hussein sono ben organizzati per questa guerriglia, solo che sono ben saldati ai terroristi fanatici presenti in tutto il mondo. Ora si è creata un’alleanza tra di loro. Dobbiamo assolutamente cambiare. Ci deve essere una presenza delle nazioni che dia un programma ed un futuro alla popolazione irachena e gli iracheni saranno i primi a quel punto ad espellere, a combattere terroristi e nostalgici dell’ex regime totalitario iracheno.

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La comunità cristiana di Mosul, nell’Iraq settentrionale, è sottoposta a gravi intimidazioni. Così padre Nizar Semaan, sacerdote siriaco della località irachena. “La scorsa settimana - ha dichiarato il sacerdote ai microfoni dell’agenzia Fides -una bomba è stata disinnescata di fronte alla scuola cattolica di Mosul. Era un ordigno formato da una serie di bombe a mano di bassa potenza, ma che poteva, comunque, uccidere e ferire i ragazzi”. Dietro questi episodi di violenza, che la scorsa settimana hanno colpito anche l’episcopato siro-antiocheno di Mosul, si nascondono, con ogni probabilità, gli estremisti wahabiti. “Con questi atti di intimidazione contro la comunità cristiana - ha proseguito padre Semaan - gli estremisti vogliono dimostrare la loro forza e, fatto ancor più grave, bloccare il ritorno alla normalità della società civile. A Mosul, infatti, stanno procedendo i lavori per rimettere in sesto strade ed edifici pubblici, quali scuole ed ospedali”. “Chi ha in mano le sorti dell’Iraq - ha concluso il sacerdote iracheno - deve cercare di impedire la fine della tradizione di tolleranza e di pacifica convivenza tra le fedi. Non vogliamo che l’Iraq sia un nuovo Libano”.

 

 

“IL MEDIO ORIENTE HA BISOGNO DI PONTI, NON DI MURI”:

DOPO LE PAROLE DEL PAPA, IERI ALL’ANGELUS, 

DA GERUSALEMME  LA RIFLESSIONE DEL  NUNZIO APOSTOLICO IN ISRAELE 

 E DEL CUSTODE DI TERRA SANTA

- Il servizio di Fausta Speranza -

 

 

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Il Medio Oriente ha  bisogno di ponti, non di muri.

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Sono le parole pronunciate, ieri all’Angelus, da Giovanni Paolo II. Per la prima volta ha parlato del muro che il governo israeliano sta  costruendo in Cisgiordania spiegando di volersi difendere dal terrorismo. I media hanno dato ampio rilievo alla riflessione del Papa giunta all’indomani degli attentati di Nassiriya e di Istanbul. Questa mattina, l'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Javier Solana, ha ribadito la ''preoccupazione di Bruxelles”, spiegando che “se continuerà la costruzione del muro, sarà molto difficile costruire due Stati in pacifica convivenza”. 

 

Ma ci sono state reazioni in Israele alle parole del Papa? Roberto Piermarini lo ha chiesto al nunzio apostolico a Gerusalemme, mons. Pietro Sambi

 

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R. – No ci sono echi di risonanze. Ma il Papa con una frase lapidaria ha descritto una situazione. Questo muro separa le scuole dagli alunni, gli ammalati dai centri di cura, le persone dal loro luogo di lavoro, le famiglie dai loro parenti. Il muro non è mai un segno di pace, non lo è stato e non lo è. Il fatto che si chiede che il muro non attraversi proprietà della Chiesa è in relazione all’art. 4 del Fondamental Agreement, con cui Israele si impegna a rispettare le proprietà delle istituzioni cattoliche,  come monasteri, conventi, chiese, cimiteri e così via,  ed è anche un segno che questo muro non è apprezzato.

 

D. – Mentre Giovanni Paolo II all’Angelus invocava “ponti e non muri” per il Medio Oriente, secondo indiscrezioni della stampa israeliana la Santa Sede avrebbe chiesto di includere nella zona ebraica delimitata dalla barriera istituzioni e conventi. Mons. Sambi, è vero?

 

R. – L’articolo del giornale Mahariv, cui si fa riferimento, non è corretto. Non è stato mai chiesto che le istituzioni cattoliche dalla parte di Betania fossero incluse in Israele. La richiesta che io ho fatto è che fossero incluse in Gerusalemme. Qui si tratta di Gerusalemme Est e cioè della parte araba di Gerusalemme. Non ha, quindi, alcun fondamento la scelta di scrivere che io ho chiesto che le istituzioni cattoliche in questione siano incluse in Israele; ho chiesto che siano incluse in Gerusalemme e cioè nella parte Est di Gerusalemme.

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Il Papa è tornato a condannare ''ogni azione terroristica'', esprimendo ancora la sua solidarietà alle vittime degli attentati. Ha invitato i  ''responsabili'' a riprendere il negoziato per il Medio Oriente, senza abbandonarsi alla “tentazione dello scoramento o della ritorsione”.  Di che cosa, dunque, ha bisogno la terra, teatro del sanguinoso conflitto mediorientale.  Lo chiediamo a  Padre Giovanni Battistelli, custode di Terra Santa.

 

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R. – Abbiamo bisogno veramente di un amore che unisca, piuttosto che di mezzi che separano e non fanno altro che aumentare il rancore, l’odio e – penso – anche l’ingiustizia.

 

D. – Il Premio Nobel Elie Wiesel ha criticato in qualche modo il Papa: ha detto che è giusto che il Papa condanni il terrorismo ma che non dovrebbe fare politica. Ma è possibile parlare di pace senza fare politica?

 

R. – Penso sinceramente che nella situazione nella quale ci troviamo in Terra Santa la pace dipenda dalla politica. Se non intervengono fattori esterni rispetto al contesto in cui noi viviamo, difficilmente troveremo una soluzione. Questo si può avere soltanto attraverso un dialogo politico, che sia al di sopra delle parti interessate – quindi palestinesi ed israeliani – che tra l’altro non tengono assolutamente conto di quello che rappresentano anche la personalità e l’esistenza dei cristiani in Terra Santa. Una presenza che rappresenta un po’ anche la fede cristiana di tutti coloro che sono sparsi nel mondo e credono in Gesù.

 

D. – Padre Battistelli, il ponte per stare in piedi ha bisogno di due pilastri di  appoggio. Quali possono essere i punti di riferimento del ponte ideale di cui parla il Papa?

 

R. – Un ponte per la pace deve essere sorretto dalla libertà, dalla giustizia, dal perdono, dalla riconciliazione. Credo che ci vorranno più colonne per poterlo sostenere.

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IN BRASILE, LE QUESTIONI ECONOMICHE NON POSSONO OSCURARE

LA LOTTA ALLA FAME, ALLA POVERTÀ E L’IMPEGNO PER

 MIGLIORARE LE CONDIZIONI DI VITA DEGLI INDIOS.

E’ QUESTO L’APPELLO LANCIATO DAI PRESULI BRASILIANI

- Intervista con mons. Franco Masserdotti -

 

Il presidente brasiliano, Luiz Inàcio Lula da Silva, sembra aver privilegiato, nei suoi primi dieci mesi di governo, le principali questioni economiche rispetto alle grandi problematiche sociali. E’ questa la preoccupazione, recentemente espressa in una nota dalla Conferenza episcopale brasiliana, nella quale i presuli del Paese sudamericano hanno soprattutto sottolineato la necessità di affrontare, al più presto, le gravi emergenze legate alla fame e alla povertà. In questo scenario così complesso, una delle situazioni più difficili è quella delle popolazioni indigene che continuano ad essere relegate ai margini della vita economica del Brasile. Proprio sulle problematiche degli oltre 700 mila indios che vivono nello Stato dell’America Latina, il vescovo di Balsas, mons. Franco Masserdotti, ha presentato un documento dal titolo: “Governo Lula. La morte minaccia i popoli indigeni”. Sul significato di questo documento ascoltiamo mons. Masserdotti, al microfono di Cristiane Murray.

 

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R. – Noi abbiamo voluto esprimere un grido di allarme e di preoccupazione. Tutto quello che avevamo sperato, e che le promesse del nuovo governo ci avevano aiutato ad alimentare, non sta avvenendo. Assistiamo, infatti, ad una politica di continuità con i governi anteriori e non c’è una sufficiente sveltezza nel risolvere i problemi delle terre. Di fronte a questo quadro noi abbiamo voluto dire che vorremmo vedere alcuni segni di buona volontà e ripensare la politica del governo in rapporto agli indios, con una forte rappresentanza delle stesse popolazioni indigene.

 

D. – Che rapporti ci sono tra gli indios e la Chiesa cattolica?

 

R. – Nelle diverse diocesi, dove c’è una maggiore concentrazione di indios, c’è una Pastorale indigenista organizzata e chi maggiormente lavora in questo settore è un organismo legato alla Conferenza dei vescovi, chiamato Cimi, Consiglio indigenista missionario, che io presiedo in questo momento. Il lavoro che la Chiesa cattolica, attraverso il Cimi, sta portando avanti con le popolazioni indigene, è un lavoro innanzitutto di dialogo sui valori culturali, sui valori religiosi. C’è una preoccupazione a difendere gli indios nei diritti essenziali della vita: il problema dell’educazione differenziata, inculturata, il problema della salute, ma soprattutto il problema della terra. La terra per gli indios è la mamma che alimenta, è la mamma che non può essere comprata, venduta e sfruttata. La terra è lo spazio culturale dove gli indios possono sviluppare la loro vita e le stesse tradizioni religiose. Per cui noi sentiamo come nostro dovere difendere la terra, come forma primordiale di difesa della vita degli indios. Noi non rinunciamo evidentemente all’annuncio del Vangelo, della persona di Gesù, ma dentro questo contesto di dialogo e di solidarietà.

 

R. – Mons. Masserdotti lei crede in un’integrazione totale possibile, senza che ci siano delle contaminazioni troppo negative per l’una o per l’altra cultura?

 

D.  - Io credo che i contatti tra le culture siano inevitabili in un mondo globaliz-zato, nel cosiddetto “villaggio globale”. Questi contatti sono un po’ asimmetrici, nel senso che c’è sempre un gruppo che impone maggiormente la propria forza economica, militare, culturale o politica. Allo stesso tempo, però, il nostro impegno è quello di far in modo che questi contatti avvengano in un clima di uguaglianza e di dialogo affinché ogni popolo possa vedere rispettati i propri diritti senza perdere la sua identità. 

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CHIESA E SOCIETA’

17 novembre 2003

 

 

 

LA CHIESA ORTODOSSA DEVE RICERCARE CONCRETAMENTE

LA PIENA UNITA’ DEI CRISTIANI:

CON QUESTE PAROLE OGGI IL PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE, ALESSIO II,

HA APERTO UNA CONFERENZA INTERNAZIONALE DELLE CHIESE LOCALI.

FERMA CONDANNA PER IL MANCATO RIFERIMENTO ALLE RADICI CRISTIANE

NELLA COSTITUZIONE DELL’UNIONE EUROPEA

 

MOSCA. = “Malgrado la complessità del problema noi cristiani ortodossi non dobbiamo allentare gli sforzi per ripristinare l’unità di tutti i cristiani in un’unica comune Chiesa apostolica. Questo è il nostro dovere perché l’unità è ciò che ci chiede il Signore”. Questo l’invito espresso stamani dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II. Aprendo una conferenza internazionale delle chiese locali, il primate ha ribadito, ancora una volta, il proprio disappunto per l’eliminazione di qualsiasi riferimento alle radici cristiane d’Europa nella Costituzione europea e si è opposto a qualsiasi tentativo di secolarizzare la società moderna. “Non possiamo essere d’accordo - ha concluso il patriarca - con la tesi che il mondo è entrato nell’era post cristiana”. (B.C.)

 

 

STATO DI ALLERTA NELL’ISOLA DI SULAWESI, IN INDONESIA,

PER UN POSSIBILE INASPRIRSI DEI RAPPORTI TRA MUSULMANI E CRISTIANI.

MOBILITATI OLTRE 2 MILA POLIZIOTTI

 

JAKARTA. = Lo spettro di una possibile ripresa dei conflitti interreligiosi tra musulmani e cristiani si allunga sull’isola di Sulawesi, in Indonesia. Un rappresentante della comunità cristiana, di cui non sono state ancora divulgate le generalità, e il suo autista, infatti, sono stati ritrovati morti nei pressi di un fiume nell’area di Pesisir, nel distretto di Poso. Entrambe le vittime presentavano ferite da arma da fuoco. Sabato trecento musulmani hanno circondato una stazione di polizia protestando duramente per i recenti raid delle forze dell’ordine contro cittadini di religione islamica, alcuni dei quali uccisi dagli agenti, nell’ambito delle indagini sulle aggressioni di un mese fa contro villaggi cristiani. Durante i disordini sembra sia rimasto ucciso un giovane di religione cristiana, linciato dalla folla. Per prevenire altre violenze, oggi 2 mila poliziotti sono stati dispiegati nei distretti di Poso e Morowati. Il timore è che forze non ancora identificate - il gruppo terroristico Jemaah Islamiah, secondo la polizia, ‘uomini forti’ nell’esercito indonesiano, secondo altri - stiano nuovamente sobillando le comunità musulmana e cristiana l’una contro l’altra. Nel 2000 il distretto di Poso è stato teatro di sanguinosi scontri interreligiosi con almeno 2 mila vittime. (B.C.)

 

 

OCCORRE DARE VOCE E DIGNITA’ AI MIGLIAIA DI HAITIANI

CHE NELLE PROSSIME SETTIMANE SI RIVERSERANNO NELLA REPUBBLICA DOMINICANA

PER LA RACCOLTA DELLA CANNA DA ZUCCHERO:

E’ LA DENUNCIA DI UN PARROCO DEL PAESE CENTROAMERICANO

 

SANTO DOMINGO. = Nelle prossime settimane migliaia di haitiani varcheranno la frontiera della Repubblica Dominicana per lavorare alla raccolta della canna da zucchero, costretti a vivere in condizioni inumane, in capanne disseminate in una piantagione senza luce né acqua potabile, completamente isolati. Questa, in sintesi, la denuncia di padre Christopher Hartley Sartorius, parroco di San José de los Llanos, una località situata 65 chilometri a est di Santo Domingo. “Saranno almeno 25 mila, con i loro machete - ha dichiarato il religioso all’agenzia Adital - li trasportano in camion militari durante la notte, in modo che non si sappia dove vanno: nessuno sa neanche della loro esistenza, non sono registrati da nessuna parte”. Vengono con la promessa di un buon salario, ha aggiunto il parroco, ma poi guadagnano appena un buono di 50 pesos (pari a 1,3 dollari) per ogni tonnellata di canna raccolta. Uno stipendio che consente appena di comprare un po’ di riso e un po’ d’olio. (B.C.)

 

 

DOPO IL SUCCESSO OTTENUTO IN MOZAMBICO,

IL PROGETTO SOCIO-SANITARIO ‘DREAM’, DELLA COMUNITA’ DI SANT’EGIDIO,

TENDE LE PROPRIE BRACCIA ANCHE VERSO

IL MALAWI, L’ANGOLA, LA TANZANIA E LA GUINEA BISSAU

 

ROMA. = ‘Dream’ (Drug Resource Enhancement against Aids and Malnutrition - Aumento delle risorse di medicinali contro l’Aids e la malnutrizione), ovvero l’Africa può ancora sognare. A un anno e mezzo dalla sua attivazione, il progetto socio-sanitario ideato e realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio per il Mozambico, sta espandendosi in altri quattro Paesi africani: Malawi, Angola, Tanzania e Guinea Bissau. Il programma, che offre gratuitamente servizi come la diagnostica, il supporto nutrizionale, l’educazione sanitaria alla terapia convenzionale di infezioni opportunistiche e di infezioni a trasmissione sessuale è “una scommessa concreta, testata sul campo, per curare l’Aids in Africa e garantire il diritto alle medicine e alle cure mediche di ogni essere umano, tenendo conto di tutte le debolezze del sistema sanitario e infrastrutturale del continente”. ‘Dream’ ha dichiarato il portavoce della Comunità di Sant’Egidio, Mario Marazziti, all’agenzia Misna è “uno strumento eccezionale per la sopravvivenza di un intero continente, in grado di salvare 30 milioni di persone, tra le quali bambini, donne, giovani, maestri, infermieri, personale specializzato, la cui sopravvivenza può evitare all’Africa di sprofondare nel baratro”. Grazie al progetto ‘Dream’, che attualmente permette all’organizzazione non governativa con base a Roma, in Italia, di assistere in Mozambico 7 mila persone, ha aggiunto Marazziti, “si potrà dimostrare che non è impossibile curare l’Aids”. (B.C.)

 

 

 

 

INAUGURATA IN GUINEA BISSAU LA PRIMA UNIVERSITA’ PUBBLICA,

DOPO QUASI TRENT’ANNI DALL’INDIPENDENZA DAL PORTOGALLO.

L’UNIVERSITA OFFRIRA’ CORSI DI LAUREA IN LEGGE, MEDICINA, VETERINARIA,

INGEGNERIA, SOCIOLOGIA, LINGUE MODERNE E GIORNALISMO

 

BISSAU. = E’ stata inaugurata di recente da Henrique Rosa, Presidente della Repubblica della Guinea Bissau, la prima Università pubblica del Paese, dopo quasi trent’anni dall’indipendenza dal Portogallo. Il piccolo arcipelago africano in questi anni ha garantito la formazione dei propri giovani attraverso borse di studio per frequentare università in Portogallo, Cuba e Europa Orientale. Tale politica, tuttavia, ha portato un rientro minimo dei laureati in Guinea Bissau, ostacolando così il progresso del Paese africano, che rimane uno dei Paesi più poveri dell’Africa. L’Università pubblica, intitolata ad Amilcar Cabral, fondatore del partito africano per l’indipendenza della Guinea e Capo Verde, offrirà diversi corsi di laurea, tra cui legge, medicina, veterinaria, ingegneria e sociologia. Agli studenti verrà richiesta una retta di circa 26 dollari al mese, l’equivalente del salario minimo nel Paese. (M.A.)  

 

 

 

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24 ORE NEL MONDO

17 novembre 2003

 

 

- A cura di Andrea Sarubbi -

 

Le preoccupazioni del Papa per la situazione mediorientale trovano conferma nelle notizie provenienti dal terreno: anche la giornata di oggi, infatti, ha fatto registrare una vittima della violenza. Si tratta di un palestinese di 22 anni ucciso a Tulkarem dai militari israeliani, mentre lanciava pietre contro di loro. Sul piano diplomatico, la notizia più rilevante è l’incontro di stamattina a Ramallah tra Arafat ed il generale egiziano Omar Suleiman, latore di una proposta di pace da parte di Mubarak. Il premier israeliano Sharon è invece a Roma, per una serie di colloqui con le autorità italiane.

 

Non si fermano i bombardamenti americani nell’Afghanistan orientale, già teatro di numerosi attacchi da parte della guerriglia filotalebana. Il governatore della provincia di Paktika ha denunciato stamani l’uccisione di almeno 6 civili in un raid avvenuto sabato nel distretto di Barmal. Nessuna conferma, per ora, da parte statunitense.

 

 Si complica il cammino di pace in Burundi, nonostante l’accordo firmato ieri tra il governo e le Forze di difesa della democrazia. Questa mattina, infatti, l’intesa è stata respinta dall’altro gruppo di ribelli, le Forze nazionali di liberazione, a cui erano stati dati tre mesi di tempo per avviare negoziati con l’esecutivo. Le Fnl non riconoscono come interlocutore il presidente, Ndayizeye, e pretendono di trattare con i vertici delle Forze armate. Sui motivi di questo rifiuto del piano di pace, Roberto Piermarini ha intervistato un missionario italiano a Bujumbura, che intende mantenere l’anonimato per motivi di sicurezza:

 

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R. – Penso che le Fnl siano già da troppo tempo fuori del Burundi – almeno a livello di leadership – e quindi capiscono poco della situazione del Burundi. La situazione del Paese è molto mutata ed è in mano a dei politici che spesso, invece di pensare alla propria gente, pensano al proprio potere e a come riuscire a guadagnare un po’ in questa situazione. Penso, quindi, che le Fnl dovrebbero riuscire a mettersi a discutere con il governo, perché è lui il responsabile del Paese. Loro sono ancora convinti, e può darsi che sia vero, che chi comanda nel Paese sia l’esercito. Ma ora che l’esercito è messo insieme a l’Fdd, cosa riuscirà a dire ancora?

 

D. – Chi c’è dietro alle Fnl?

 

R. – Ci sono dei vecchi guerriglieri: gente partita dal Burundi dal ’72, che ne ha viste di tutti colori e che purtroppo si fa estremista per una interpretazione errata della religione. Sono in gran parte degli avventisti, che si ritengono inviati da Dio. Noi sappiamo bene che, quando in una guerra si mischiano motivazioni religiose, diventa molto più difficile dialogare, parlare, discutere e mettersi in pace.

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“Una tragedia politica”, l’inizio di “una fase drammatica”. È grande la preoccupazione delle istituzioni serbe, dopo il fallimento delle elezioni politiche di ieri: è infatti la terza volta, in poco meno di un anno, che il voto viene invalidato per mancato raggiungimento del quorum. Unici a gioire, gli ultranazionalisti, che si sono congratulati “con tutti i serbi detenuti nelle carceri del Tribunale penale internazionale”. Il servizio di Emiliano Bos:

 

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“Un Paese sotto shock”, ha commentato stamani, nelle prime edizioni del radiogiornale, la storica emittente B-92 di Belgrado. Secondo dati non ancora ufficiali, ma ormai consolidati, soltanto 38 elettori su 100 sono andati ieri alle urne. Quello che più preoccupa i serbi, al di là del flop elettorale, è l’inaspettata avanzata dei radicali di Vojislav Seselj, il leader ultranazionalista in carcere all’Aja per presunti crimini di guerra. Il suo candidato, Tomislav Nikolic, avrebbe ottenuto oltre il 45 per cento dei consensi, sbaragliando l’avversario della coalizione democratica: il grande favorito della vigilia, Dragoljub Micunovic, non sarebbe andato oltre il 35 per cento delle preferenze. Sul fallimento di questo voto ha pesato anche l’invito al boicottaggio dei due partiti democratici di opposizione, tra cui quello dell’ex presidente jugoslavo, Kostunica. I pochi che si sono recati ai seggi hanno scelto i nazionalisti conservatori un tempo alleati di Slobodan Milosevic. In Kosovo, dove ieri è stato ucciso un serbo di 18 anni da alcuni sconosciuti, l’80 per cento dei voti della minoranza serba è andato ai radicali. A questo punto, Belgrado si trova formalmente senza capo di Stato né Parlamento, sciolto in anticipo quattro giorni fa e per il cui rinnovo gli elettori saranno chiamati a votare il prossimo 28 dicembre.

 

Per Radio Vaticana, Emiliano Bos.

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 All’insegna dell’incertezza anche l’esito dell’appuntamento elettorale di ieri in Catalogna, regione spagnola governata da oltre vent’anni dai nazionalisti. Il loro partito, Convergència i Unió, non è infatti in grado di governare da solo, potendo contare solo su 46 dei 135 seggi del Parlamento locale. Meglio di loro, in termini di preferenze ricevute, hanno fatto i socialisti di Maragall, che però non sono andati oltre i 42 seggi. Abbiamo chiesto di analizzare il voto di ieri a Javier Fernández Bonelli, corrispondente dell’agenzia Ansa a Madrid:

 

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R. – I nazionalisti di Convergència i Unió continuano a perdere voti ogni volta di più, nelle ultime tre legislature. Dall’altra parte, esiste il problema della crisi del socialismo spagnolo, di cui il socialismo catalano è solamente uno degli aspetti. I due partiti hanno perso una decina di seggi ognuno nell’assemblea di Barcellona, mentre tutte le altre forze politiche - tanto di destra, come di sinistra - hanno guadagnato consensi. Questo è stato ovviamente interpretato da Carod Rovira, leader di Esquerra Republicana, come “la fine del bipolarismo”, la fine di un duello politico catalano limitato solamente a socialisti e nazionalisti.

 

D. – Proprio i seggi di Esquerra Republicana, che si sono raddoppiati, saranno indispensabili per formare il nuovo governo. Finiranno con i nazionalisti o con i socialisti?

 

R. – Con una grande abilità, Carod Rovira è riuscito a mantenere fino al termine della campagna elettorale la perfetta equidistanza. Un suo celebre slogan - “Sono più di sinistra dei socialisti e più catalano dei nazionalisti” - ha voluto significare che il suo partito non ha, in realtà, nessun problema né a governare con gli uni, né a governare con gli altri: tutti i giochi sono assolutamente aperti. Carod Rovira dovrà ora fissare un prezzo, e sicuramente non sarà basso.

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 Ha riaperto dopo una settimana l’ambasciata degli Stati Uniti a Khartoum, in Sudan. Era stata chiusa lunedì scorso, in seguito a minacce di nuovi attacchi terroristici dopo quello di Riad.

 

 Nuovi fermi, in Turchia, dopo gli attentati di sabato alle due sinagoghe di Istanbul. Sventato un attacco contro una stazione di polizia, ad opera del Partito separatista curdo.

 

 Giro di vite in Pakistan contro tre organizzazioni islamiche sospettate di terrorismo: 25 sedi chiuse, in carcere almeno 16 militanti.

 

 La crisi nucleare nordcoreana al centro di due colloqui: a Mosca tra i ministri degli Esteri russo e sudcoreano, a Tokio tra l’americano Kelly e le autorità giapponesi. A Pechino, dal 17 dicembre, il secondo round di negoziati.

 

 La Russia al fianco dell’Iran: le sanzioni per il nucleare sarebbero oggi “inammissibili”, ha detto il Cremlino. Per i servizi segreti israeliani, invece, Teheran rappresenta “una minaccia per l’umanità”.

 

 

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