RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 321 - Testo della
Trasmissione di lunedì 17 novembre 2003
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI IN PRIMO PIANO:
Vicini
ai soldati morti a Nassiriya: le massime autorità italiane e migliaia di
persone sfilano al Vittoriano. La Camera Ardente aperta anche di notte. Domani
alle 11,30 nella basilica di San Paolo fuori le Mura i funerali celebrati dal
cardinale Ruini
Il
Medio Oriente ha bisogno di ponti non di muri: dopo le parole del Papa ieri
all’Angelus ai nostri microfoni il nunzio apostolico mons. Pietro Sambi, il
custode di Terra Santa padre Giovanni Battistelli e Adib Fateh Ali
I
presuli brasiliani lanciano un appello affinché le questioni economiche non
oscurino l’impegno per migliorare le condizioni di vita degli indios:
intervista con mons. Franco Masserdotti
Il
Vaticano, la stampa cattolica e le leggi razziali: un’inchiesta a 65 anni
dall’inizio delle persecuzioni degli ebrei italiani: con noi gli storici Pietro
Scoppola e Giovanni Sale.
CHIESA E SOCIETA’:
In
bilico il processo di pace in Burundi: le Forze nazionali di liberazione
rifiutano l’accordo firmato ieri da governo e ribelli
La Serbia ancora senza quorum: è il
terzo fallimento elettorale in meno di un anno. Ultranazionalismo in crescita
Tutto
da decidere il nuovo governo della Catalogna. Ma nazionalisti e socialisti non
possono fare a meno della sinistra.
17
novembre 2003
LA
TESTIMONIANZA DELLA VERITA’ DEL VANGELO E DELLA FRATERNITA’ CRISTIANA
PER
CONTRASTARE LA GRAVE DISCRIMINAZIONE SOCIALE CHE AFFLIGGE
L’INDIA.
QUESTO
L’INVITO PRINCIPALE DEL PAPA AL GRUPPO DI VESCOVI DEL PAESE ASIATICO,
RICEVUTI
QUESTA MATTINA IN VISITA AD LIMINA
-
Servizio di Alessandro De Carolis -
**********
Radicare nella gente lo spirito di fraternità del
cristianesimo, per “riformare” i costumi locali ancora basati sull’iniquità
della divisione sociale in caste. Per Giovanni Paolo II, è questo uno dei
principali doveri di testimonianza dei vescovi dell’India, del clero e di ogni
comunità di fedeli del grande subcontinente asiatico. Un dovere ribadito questa
mattina dal Papa nel discorso ai vescovi della provincia ecclesiastica indiana
del Tamil Nadu, ricevuti al termine della loro visita ad Limina.
In uno Stato, come il Tamil Nadu, tra i più
industrializzati dell’India, ma segnato da “numerosi problemi sociali” – tra
cui lo sfruttamento del lavoro minorile, donne e, in generale, di quella che è
l’etnia più consistente, i Dalits, detti anche i “fuori casta” – la dignità
umana e l’uguaglianza tra le persone, ha notato Giovanni Paolo II, sono messe
costantemente in pericolo. “L’ignoranza e il pregiudizio devono essere
rimpiazzati dalla tolleranza e dalla comprensione”, ha affermato il Papa. “Ogni
parvenza di pregiudizio, tra cristiani, fondato sulla divisione in caste” pregiudica
“l’autentica solidarietà umana, è una minaccia alla genuina spiritualità del
Vangelo ed è di ostacolo alla missione evangelizzatrice della Chiesa”.
“Per questo, i costumi che perpetuano o rafforzano la divisione
in caste dovrebbero essere sensibilmente riformati, cosicché possano divenire
espressione della solidarietà di tutta la comunità cristiana”.
Per raggiungere tale obiettivo, ha proseguito Giovanni
Paolo II, è importante che tutti gli sforzi siano dedicati alla “nuova
evangelizzazione”. Se larghe fasce della popolazione, che versano in condizioni
disperate, restano facilmente attratte dal “fervore di breve durata” e dalla
ricchezza promessi dalle sette fondamentaliste, l’“abilità” del cristiano, ha
detto il Papa, è quella di saper mostrare “l’infondatezza di quelle promesse”,
testimoniando al contempo che è Cristo l’unico a poter alleviare le sofferenze
di chi non ha più speranza. Del resto, ha riconosciuto il Pontefice, la Chiesa
cattolica in India “ha sempre promosso la dignità di ogni persona”, la
tolleranza, difeso il diritto alla libertà di credo. Ed ha concluso:
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COSTRUIRE INSIEME LA PACE:
IL MESSAGGIO DELL’ARCIVESCOVO FITZGERALD AI MUSULMANI
PER LA FINE DEL RAMADAN
Un appello a collaborare insieme per la pace è stato
lanciato oggi ai musulmani dall’arcivescovo Michael Fitzgerald, presidente del
Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. L’invito è contenuto nel
consueto messaggio che la Chiesa Cattolica prepara ogni anno per la fine del
Ramadan, il mese islamico del digiuno, che si celebrerà tra una settimana. Il servizio di Sergio Centofanti.
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“In questo tempo in cui vi sono tante inquietudini e
tensioni nel mondo” è importante - nota l’arcivescovo Fitzgerald - che ci siano
eloquenti segni di amicizia tra i seguaci delle diverse religioni. Uno di
questi è il fatto che si sta allargando la consuetudine di cristiani che
organizzano un pasto comune con i propri amici musulmani per
interrompere il digiuno del Ramadan.
Il presule nel salutare gli amici musulmani sottolinea la
necessità di costruire insieme la pace sui quattro pilastri della Verità,
della Giustizia, dell’ Amore e della
Libertà.
La verità implica
“la reciproca fiducia ed un dialogo fruttuoso che porti alla pace e,
conduce ognuno a riconoscere i propri diritti, ma anche i propri doveri verso
gli altri”.
La pace non può esistere senza la giustizia, ma “la giustizia, deve essere temperata dall’amore” che sa vedere negli altri dei
fratelli, “sa comprendere la debolezza, e rende capaci, così, di perdonare. Il
perdono è essenziale per ricostruire la pace dopo un conflitto”.
“Tutto questo presuppone la libertà, una caratteristica essenziale della persona”.
A questi quattro pilastri il mons. Fitzgerald ne ha
aggiunto un quinto: la preghiera, in
quanto la pace vera è dono di Dio ed è Lui a dare la forza di essere veri
costruttori di pace.
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ALTRE UDIENZE
Giovanni
Paolo II ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, un
gruppo di presuli del Belgio in visita ad Limina: il cardinale Godfried
Danneels, arcivescovo di Mechelen-Brussel, insieme ai suoi tre ausiliari, il
vescovo di Hasselt, Paul Schruers, insieme al suo coadiutore, il vescovo di
Antwerpen, Paul Van den Berghe, e il vescovo di Brugge, Roger Joseph
Vangheluwe.
PRESA
DI POSSESSO CARDINALIZIO
Il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Mân, arcivescovo
metropolita di Thành-Phô Hô Chí Minh, in Vietnam, prenderà possesso del titolo
della chiesa romana di San Giustino, domenica 23 novembre 2003, alle ore 18.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
“Ponti non muri” è il
titolo che apre la prima pagina in riferimento all’Angelus Domini nel quale il
Papa prega ed esprime la sua solidarietà per le vittime del terrorismo e richiama
alla ripresa del negoziato tra israeliani e palestinesi per la pace in Terra
Santa; “Il pregiudizio basato sulle caste ostacola l’evangelizzazione” è il
messaggio del Santo Padre a vescovi dell’India in occasione della loro “visita
ad Limina Apostolorum”.
Nelle
pagine vaticane, il cardinale Crescenzio Sepe prende possesso della diaconia
romana di “Dio Padre misericordioso” a
Tor Tre Teste e il messaggio per la fine del Ramadan del Pontificio Consiglio
per il Dialogo Interreligioso.
Nelle pagine estere, Medio Oriente: raid palestinese a
Rafah; Al Quaeda rivendica gli attentati alle sinagoghe di Istanbul e minaccia
il Giappone di non inviare soldati in Iraq; più di 17 soldati statunitensi
morti nella collisione di due elicotteri; in un messaggio audio Saddam torna a
minacciare di morte le forze della coalizione; Sharon, in visita in Italia,
ipotizza il riconoscimento dello Stato palestinese senza frontiere.
Nella pagina culturale, un
articolo di Armando Genovese sulle chiavi di lettura del “Cantico dei Cantici”.
Nelle pagine italiane, la cronaca
dell’omaggio al Vittoriano alle salme delle vittime di Nassiriya
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17 novembre 2003
L’ITALIA
COMMOSSA SI STRINGE AI SUOI EROI DI PACE:
DA STAMANI, IN MIGLIAIA AL VITTORIANO
PER RENDERE L’ULTIMO SALUTO ALLE 19 VITTIME
DELL’ATTENTATO DI NASSIRIYA. DOMANI, A SAN PAOLO FUORI LE MURA, I FUNERALI DI
STATO,
CELEBRATI
DAL CARDINALE CAMILLO RUINI
-
Servizio di Alessandro Gisotti -
L’Italia tributa l’ultimo saluto ai suoi eroi di
pace: da alcune ore, in migliaia si stanno recando all’Altare della Patria in
Roma, dove nella camera ardente, che rimarrà aperta tutta la notte, si trovano
i feretri delle 19 vittime dell’attentato di Nassiriya. Domani, alle 11, 30, i
funerali di Stato a San Paolo fuori le Mura, che saranno celebrati dal
cardinale Camillo Ruini. Stamani, dunque, l’omaggio ai caduti delle massime
autorità dello Stato, a partire dal presidente Ciampi. Al Vittoriano c’era per
noi, Alessandro Gisotti:
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L’Italia intera si stringe attorno ai suoi
compatrioti caduti per la pace in Iraq. Con dolore, commozione, ma anche con
sentimenti di orgoglio, migliaia di romani si stanno recando all’Altare della
Patria, fin dalla prima mattinata, per rendere l’ultimo commosso saluto alle 19
vittime del vile attentato a Nassiriya. Il presidente della Repubblica, Carlo
Azeglio Ciampi è giunto attorno alle 9,30, accompagnato dalla moglie Franca,
entrambi visibilmente provati. Dopo aver reso omaggio ai feretri, disposti nel
Sacrario delle Bandiere, il Capo dello Stato e il presidente del Consiglio,
Silvio Berlusconi, si sono intrattenuti con i famigliari delle vittime. Poi,
poco prima delle 11, accompagnata da un lungo applauso, è arrivata al
Vittoriano, avvolta nel tricolore, la bara con il corpo del caporale Pietro
Petrucci, ultima vittima della strage di mercoledì scorso a tornare in Patria.
Dunque, in migliaia, sono in fila alle due ali dell’Altare della Patria in un
abbraccio che non è soltanto ideale. Il tutto in un silenzio irreale per una
grande città come Roma. Si vedono volti, sinceramente segnati dalla tristezza
per questa tragedia, ma il dolore è composto. Come grande è la dignità dei
famigliari dei caduti. Sono accanto alle spoglie dei propri cari. Alcuni hanno
posto sulla bara una foto del proprio padre, figlio o marito. E la gente che
sfila nel sacrario rende omaggio a questi eroi, chi facendosi il segno della
croce, chi salutando militarmente. Fuori intanto, nell’attesa, si alternano
sentimenti ed emozioni:
R. – Sto qui perché
mi sento italiano, quindi per rendere onore a questi caduti che sono andati lì
per difendere la pace.
R. – Loro hanno
sacrificato la vita per noi e quindi è giusto che siamo qui. Erano nostri
compatrioti ...
R. – Sono stato a
Beirut nel 1983, nei Carabinieri, e quindi oggi sono venuto qui, a ricordarli.
R. – C’è molta
tristezza per queste povere vittime che sono cadute innocentemente per aiutare
gli altri; però, c’è anche un po’ di speranza nel senso che speriamo che queste
cose servano per far capire al mondo quanto la guerra sia orribile, brutta.
R. – Bè, questi
ragazzi avrebbero potuto essere miei figli, avrebbe potuto essere mio marito,
mio padre ... E quindi è un sentimento che viene da dentro, profondo, rispetto
al sacrificio di questi ragazzi.
Centinaia sono i mazzi di fiori
deposti sulle gradinate del Vittoriano. Molti accompagnati da messaggi di
affetto, da biglietti di solidarietà. Su uno di questi, che forse compendia il
sentire degli italiani in queste ore, c’è scritto: “Grazie martiri della pace,
orgoglio dell’Italia”.
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Sul terreno, intanto, in Iraq si intensifica l’offensiva
americana, alla ricerca dei leader della guerriglia. Colpi di mortaio si sono
succeduti nella notte a Tikrit, città natale di Saddam Hussein, mentre a Ramadi
è stato arrestato un capo dei Fedayn, responsabili di numerosi attacchi.
Stamattina è esplosa una bomba a Kirkuk, presso i locali del Movimento islamico
del Kurdistan: un attivista locale è rimasto gravemente ferito.
Gli
attentati e gli scontri che si susseguono tutti i giorni in Iraq stanno rendendo
urgente un cambio di strategia nella gestione del dopoguerra. Lo stesso
presidente degli Stati Uniti George Bush ha annunciato la decisione di
accelerare i tempi per il trasferimento dei poteri agli stessi iracheni.
Adriana Masotti ha sentito in proposito il parere di Adib Fateh Ali, di origine
curda, responsabile del coordinamento degli esuli iracheni in Italia.
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R. – Circa la necessità di
cambiare strategia, noi riteniamo che sia assolutamente necessario. Per prima
cosa bisognerebbe davvero far intervenire le Nazioni Unite, perché ci sia un
maggior coinvolgimento delle truppe europee che sanno meglio interagire, e
soprattutto bisognerebbe bloccare i confini dell’Iraq. Oggi i confini dell’Iraq
sono un colabrodo. Vi assicuro che c’è un esercito di kamikaze da tutto il
mondo che stanno entrando in Iraq: dallo Yemen, l’Arabia Saudita,
l’Afghanistan, il Pakistan. In Iraq oggi i vecchi militari nostalgici di Saddam
Hussein sono ben organizzati per questa guerriglia, solo che sono ben saldati
ai terroristi fanatici presenti in tutto il mondo. Ora si è creata un’alleanza
tra di loro. Dobbiamo assolutamente cambiare. Ci deve essere una presenza delle
nazioni che dia un programma ed un futuro alla popolazione irachena e gli
iracheni saranno i primi a quel punto ad espellere, a combattere terroristi e
nostalgici dell’ex regime totalitario iracheno.
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La comunità cristiana di Mosul, nell’Iraq settentrionale,
è sottoposta a gravi intimidazioni. Così padre Nizar Semaan, sacerdote siriaco
della località irachena. “La scorsa settimana - ha dichiarato il sacerdote ai
microfoni dell’agenzia Fides -una bomba è stata disinnescata di fronte alla
scuola cattolica di Mosul. Era un ordigno formato da una serie di bombe a mano
di bassa potenza, ma che poteva, comunque, uccidere e ferire i ragazzi”. Dietro
questi episodi di violenza, che la scorsa settimana hanno colpito anche
l’episcopato siro-antiocheno di Mosul, si nascondono, con ogni probabilità, gli
estremisti wahabiti. “Con questi atti di intimidazione contro la comunità
cristiana - ha proseguito padre Semaan - gli estremisti vogliono dimostrare la
loro forza e, fatto ancor più grave, bloccare il ritorno alla normalità della
società civile. A Mosul, infatti, stanno procedendo i lavori per rimettere in
sesto strade ed edifici pubblici, quali scuole ed ospedali”. “Chi ha in mano le
sorti dell’Iraq - ha concluso il sacerdote iracheno - deve cercare di impedire
la fine della tradizione di tolleranza e di pacifica convivenza tra le fedi.
Non vogliamo che l’Iraq sia un nuovo Libano”.
“IL MEDIO ORIENTE HA BISOGNO DI PONTI, NON DI
MURI”:
DOPO LE PAROLE DEL PAPA, IERI ALL’ANGELUS,
DA GERUSALEMME
LA RIFLESSIONE DEL NUNZIO
APOSTOLICO IN ISRAELE
E DEL
CUSTODE DI TERRA SANTA
- Il servizio di Fausta Speranza -
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Il Medio Oriente
ha bisogno di ponti, non di muri.
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Sono le parole pronunciate, ieri all’Angelus, da
Giovanni Paolo II. Per la prima volta ha parlato del muro che il governo
israeliano sta costruendo in Cisgiordania
spiegando di volersi difendere dal terrorismo. I media hanno dato ampio rilievo
alla riflessione del Papa giunta all’indomani degli attentati di Nassiriya e di
Istanbul. Questa mattina, l'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Javier
Solana, ha ribadito la ''preoccupazione di Bruxelles”, spiegando che “se continuerà
la costruzione del muro, sarà molto difficile costruire due Stati in pacifica
convivenza”.
Ma ci sono state reazioni in Israele alle parole
del Papa? Roberto Piermarini lo ha chiesto al nunzio apostolico a Gerusalemme,
mons. Pietro Sambi
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R. – No ci sono echi
di risonanze. Ma il Papa con una frase lapidaria ha descritto una situazione.
Questo muro separa le scuole dagli alunni, gli ammalati dai centri di cura, le
persone dal loro luogo di lavoro, le famiglie dai loro parenti. Il muro non è
mai un segno di pace, non lo è stato e non lo è. Il fatto che si chiede che il
muro non attraversi proprietà della Chiesa è in relazione all’art. 4 del Fondamental
Agreement, con cui Israele si impegna a rispettare le proprietà delle
istituzioni cattoliche, come monasteri,
conventi, chiese, cimiteri e così via,
ed è anche un segno che questo muro non è apprezzato.
D. – Mentre Giovanni
Paolo II all’Angelus invocava “ponti e non muri” per il Medio Oriente, secondo
indiscrezioni della stampa israeliana la Santa Sede avrebbe chiesto di
includere nella zona ebraica delimitata dalla barriera istituzioni e conventi.
Mons. Sambi, è vero?
R. – L’articolo del giornale
Mahariv, cui si fa riferimento, non è corretto. Non è stato mai chiesto che le
istituzioni cattoliche dalla parte di Betania fossero incluse in Israele. La
richiesta che io ho fatto è che fossero incluse in Gerusalemme. Qui si tratta
di Gerusalemme Est e cioè della parte araba di Gerusalemme. Non ha, quindi,
alcun fondamento la scelta di scrivere che io ho chiesto che le istituzioni
cattoliche in questione siano incluse in Israele; ho chiesto che siano incluse
in Gerusalemme e cioè nella parte Est di Gerusalemme.
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Il Papa
è tornato a condannare ''ogni azione terroristica'', esprimendo ancora la sua
solidarietà alle vittime degli attentati. Ha invitato i ''responsabili'' a riprendere il negoziato
per il Medio Oriente, senza abbandonarsi alla “tentazione dello scoramento o
della ritorsione”. Di che cosa, dunque,
ha bisogno la terra, teatro del sanguinoso conflitto mediorientale. Lo chiediamo a Padre Giovanni Battistelli, custode di Terra Santa.
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R. – Abbiamo bisogno
veramente di un amore che unisca, piuttosto che di mezzi che separano e non
fanno altro che aumentare il rancore, l’odio e – penso – anche l’ingiustizia.
D. – Il Premio Nobel
Elie Wiesel ha criticato in qualche modo il Papa: ha detto che è giusto che il
Papa condanni il terrorismo ma che non dovrebbe fare politica. Ma è possibile
parlare di pace senza fare politica?
R. – Penso
sinceramente che nella situazione nella quale ci troviamo in Terra Santa la
pace dipenda dalla politica. Se non intervengono fattori esterni rispetto al
contesto in cui noi viviamo, difficilmente troveremo una soluzione. Questo si
può avere soltanto attraverso un dialogo politico, che sia al di sopra delle
parti interessate – quindi palestinesi ed israeliani – che tra l’altro non
tengono assolutamente conto di quello che rappresentano anche la personalità e
l’esistenza dei cristiani in Terra Santa. Una presenza che rappresenta un po’
anche la fede cristiana di tutti coloro che sono sparsi nel mondo e credono in
Gesù.
D. – Padre
Battistelli, il ponte per stare in piedi ha bisogno di due pilastri di appoggio. Quali possono essere i punti di
riferimento del ponte ideale di cui parla il Papa?
R. – Un ponte per la
pace deve essere sorretto dalla libertà, dalla giustizia, dal perdono, dalla
riconciliazione. Credo che ci vorranno più colonne per poterlo sostenere.
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IN
BRASILE, LE QUESTIONI ECONOMICHE NON POSSONO OSCURARE
LA
LOTTA ALLA FAME, ALLA POVERTÀ E L’IMPEGNO PER
MIGLIORARE LE CONDIZIONI DI VITA DEGLI
INDIOS.
E’
QUESTO L’APPELLO LANCIATO DAI PRESULI BRASILIANI
-
Intervista con mons. Franco Masserdotti -
Il presidente brasiliano, Luiz
Inàcio Lula da Silva, sembra aver privilegiato, nei suoi primi dieci mesi di
governo, le principali questioni economiche rispetto alle grandi problematiche
sociali. E’ questa la preoccupazione, recentemente espressa in una nota dalla
Conferenza episcopale brasiliana, nella quale i presuli del Paese sudamericano
hanno soprattutto sottolineato la necessità di affrontare, al più presto, le
gravi emergenze legate alla fame e alla povertà. In questo scenario così
complesso, una delle situazioni più difficili è quella delle popolazioni indigene
che continuano ad essere relegate ai margini della vita economica del Brasile.
Proprio sulle problematiche degli oltre 700 mila indios che vivono nello Stato
dell’America Latina, il vescovo di Balsas, mons. Franco Masserdotti, ha presentato
un documento dal titolo: “Governo Lula. La morte minaccia i popoli indigeni”.
Sul significato di questo documento ascoltiamo mons. Masserdotti, al microfono
di Cristiane Murray.
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R. – Noi abbiamo voluto esprimere
un grido di allarme e di preoccupazione. Tutto quello che avevamo sperato, e
che le promesse del nuovo governo ci avevano aiutato ad alimentare, non sta
avvenendo. Assistiamo, infatti, ad una politica di continuità con i governi
anteriori e non c’è una sufficiente sveltezza nel risolvere i problemi delle
terre. Di fronte a questo quadro noi abbiamo voluto dire che vorremmo vedere
alcuni segni di buona volontà e ripensare la politica del governo in rapporto
agli indios, con una forte rappresentanza delle stesse popolazioni indigene.
D. – Che rapporti ci
sono tra gli indios e la Chiesa cattolica?
R. – Nelle diverse
diocesi, dove c’è una maggiore concentrazione di indios, c’è una Pastorale
indigenista organizzata e chi maggiormente lavora in questo settore è un
organismo legato alla Conferenza dei vescovi, chiamato Cimi, Consiglio
indigenista missionario, che io presiedo in questo momento. Il lavoro che la
Chiesa cattolica, attraverso il Cimi, sta portando avanti con le popolazioni
indigene, è un lavoro innanzitutto di dialogo sui valori culturali, sui valori
religiosi. C’è una preoccupazione a difendere gli indios nei diritti essenziali
della vita: il problema dell’educazione differenziata, inculturata, il problema
della salute, ma soprattutto il problema della terra. La terra per gli indios è
la mamma che alimenta, è la mamma che non può essere comprata, venduta e
sfruttata. La terra è lo spazio culturale dove gli indios possono sviluppare la
loro vita e le stesse tradizioni religiose. Per cui noi sentiamo come nostro
dovere difendere la terra, come forma primordiale di difesa della vita degli
indios. Noi non rinunciamo evidentemente all’annuncio del Vangelo, della
persona di Gesù, ma dentro questo contesto di dialogo e di solidarietà.
R. – Mons.
Masserdotti lei crede in un’integrazione totale possibile, senza che ci siano
delle contaminazioni troppo negative per l’una o per l’altra cultura?
D. - Io credo che i contatti tra le culture
siano inevitabili in un mondo globaliz-zato, nel cosiddetto “villaggio globale”.
Questi contatti sono un po’ asimmetrici, nel senso che c’è sempre un gruppo che
impone maggiormente la propria forza economica, militare, culturale o politica.
Allo stesso tempo, però, il nostro impegno è quello di far in modo che questi
contatti avvengano in un clima di uguaglianza e di dialogo affinché ogni popolo
possa vedere rispettati i propri diritti senza perdere la sua identità.
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17 novembre 2003
LA
CHIESA ORTODOSSA DEVE RICERCARE CONCRETAMENTE
LA
PIENA UNITA’ DEI CRISTIANI:
CON
QUESTE PAROLE OGGI IL PATRIARCA DI MOSCA E DI TUTTE LE RUSSIE, ALESSIO II,
HA
APERTO UNA CONFERENZA INTERNAZIONALE DELLE CHIESE LOCALI.
FERMA
CONDANNA PER IL MANCATO RIFERIMENTO ALLE RADICI CRISTIANE
NELLA
COSTITUZIONE DELL’UNIONE EUROPEA
MOSCA. = “Malgrado la complessità del problema noi
cristiani ortodossi non dobbiamo allentare gli sforzi per ripristinare l’unità
di tutti i cristiani in un’unica comune Chiesa apostolica. Questo è il nostro
dovere perché l’unità è ciò che ci chiede il Signore”. Questo l’invito espresso
stamani dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II. Aprendo una
conferenza internazionale delle chiese locali, il primate ha ribadito, ancora
una volta, il proprio disappunto per l’eliminazione di qualsiasi riferimento
alle radici cristiane d’Europa nella Costituzione europea e si è opposto a
qualsiasi tentativo di secolarizzare la società moderna. “Non possiamo essere
d’accordo - ha concluso il patriarca - con la tesi che il mondo è entrato
nell’era post cristiana”. (B.C.)
STATO
DI ALLERTA NELL’ISOLA DI SULAWESI, IN INDONESIA,
PER UN
POSSIBILE INASPRIRSI DEI RAPPORTI TRA MUSULMANI E CRISTIANI.
MOBILITATI
OLTRE 2 MILA POLIZIOTTI
JAKARTA.
= Lo spettro di una possibile ripresa dei conflitti interreligiosi tra musulmani
e cristiani si allunga sull’isola di Sulawesi, in Indonesia. Un rappresentante
della comunità cristiana, di cui non sono state ancora divulgate le generalità,
e il suo autista, infatti, sono stati ritrovati morti nei pressi di un fiume
nell’area di Pesisir, nel distretto di Poso. Entrambe le vittime presentavano
ferite da arma da fuoco. Sabato trecento musulmani hanno circondato una
stazione di polizia protestando duramente per i recenti raid delle forze
dell’ordine contro cittadini di religione islamica, alcuni dei quali uccisi
dagli agenti, nell’ambito delle indagini sulle aggressioni di un mese fa contro
villaggi cristiani. Durante i disordini sembra sia rimasto ucciso un giovane di
religione cristiana, linciato dalla folla. Per prevenire altre violenze, oggi 2
mila poliziotti sono stati dispiegati nei distretti di Poso e Morowati. Il
timore è che forze non ancora identificate - il gruppo terroristico Jemaah
Islamiah, secondo la polizia, ‘uomini forti’ nell’esercito indonesiano, secondo
altri - stiano nuovamente sobillando le comunità musulmana e cristiana l’una
contro l’altra. Nel 2000 il distretto di Poso è stato teatro di sanguinosi
scontri interreligiosi con almeno 2 mila vittime. (B.C.)
OCCORRE
DARE VOCE E DIGNITA’ AI MIGLIAIA DI HAITIANI
CHE
NELLE PROSSIME SETTIMANE SI RIVERSERANNO NELLA REPUBBLICA DOMINICANA
PER LA
RACCOLTA DELLA CANNA DA ZUCCHERO:
E’ LA
DENUNCIA DI UN PARROCO DEL PAESE CENTROAMERICANO
SANTO
DOMINGO. = Nelle prossime settimane migliaia di haitiani varcheranno la frontiera
della Repubblica Dominicana per lavorare alla raccolta della canna da zucchero,
costretti a vivere in condizioni inumane, in capanne disseminate in una
piantagione senza luce né acqua potabile, completamente isolati. Questa, in sintesi,
la denuncia di padre Christopher Hartley Sartorius, parroco di San José de los
Llanos, una località situata 65 chilometri a est di Santo Domingo. “Saranno
almeno 25 mila, con i loro machete - ha dichiarato il religioso all’agenzia
Adital - li trasportano in camion militari durante la notte, in modo che non si
sappia dove vanno: nessuno sa neanche della loro esistenza, non sono registrati
da nessuna parte”. Vengono con la promessa di un buon salario, ha aggiunto il
parroco, ma poi guadagnano appena un buono di 50 pesos (pari a 1,3 dollari) per
ogni tonnellata di canna raccolta. Uno stipendio che consente appena di
comprare un po’ di riso e un po’ d’olio. (B.C.)
DOPO
IL SUCCESSO OTTENUTO IN MOZAMBICO,
IL
PROGETTO SOCIO-SANITARIO ‘DREAM’, DELLA COMUNITA’ DI SANT’EGIDIO,
TENDE
LE PROPRIE BRACCIA ANCHE VERSO
IL
MALAWI, L’ANGOLA, LA TANZANIA E LA GUINEA BISSAU
ROMA. = ‘Dream’ (Drug Resource Enhancement
against Aids and Malnutrition - Aumento delle risorse di medicinali contro
l’Aids e la malnutrizione), ovvero l’Africa può ancora sognare. A un anno e
mezzo dalla sua attivazione, il progetto socio-sanitario ideato e realizzato dalla
Comunità di Sant’Egidio per il Mozambico, sta espandendosi in altri quattro
Paesi africani: Malawi, Angola, Tanzania e Guinea Bissau. Il programma, che
offre gratuitamente servizi come la diagnostica, il supporto nutrizionale,
l’educazione sanitaria alla terapia convenzionale di infezioni opportunistiche
e di infezioni a trasmissione sessuale è “una scommessa concreta, testata sul
campo, per curare l’Aids in Africa e garantire il diritto alle medicine e alle
cure mediche di ogni essere umano, tenendo conto di tutte le debolezze del
sistema sanitario e infrastrutturale del continente”. ‘Dream’ ha dichiarato il
portavoce della Comunità di Sant’Egidio, Mario Marazziti, all’agenzia Misna è
“uno strumento eccezionale per la sopravvivenza di un intero continente, in
grado di salvare 30 milioni di persone, tra le quali bambini, donne, giovani,
maestri, infermieri, personale specializzato, la cui sopravvivenza può evitare
all’Africa di sprofondare nel baratro”. Grazie al progetto ‘Dream’, che
attualmente permette all’organizzazione non governativa con base a Roma, in
Italia, di assistere in Mozambico 7 mila persone, ha aggiunto Marazziti, “si
potrà dimostrare che non è impossibile curare l’Aids”. (B.C.)
INAUGURATA
IN GUINEA BISSAU LA PRIMA UNIVERSITA’ PUBBLICA,
DOPO
QUASI TRENT’ANNI DALL’INDIPENDENZA DAL PORTOGALLO.
L’UNIVERSITA
OFFRIRA’ CORSI DI LAUREA IN LEGGE, MEDICINA, VETERINARIA,
INGEGNERIA,
SOCIOLOGIA, LINGUE MODERNE E GIORNALISMO
BISSAU.
= E’ stata inaugurata di recente da Henrique Rosa, Presidente della Repubblica
della Guinea Bissau, la prima Università pubblica del Paese, dopo quasi
trent’anni dall’indipendenza dal Portogallo. Il piccolo arcipelago africano in
questi anni ha garantito la formazione dei propri giovani attraverso borse di
studio per frequentare università in Portogallo, Cuba e Europa Orientale. Tale
politica, tuttavia, ha portato un rientro minimo dei laureati in Guinea Bissau,
ostacolando così il progresso del Paese africano, che rimane uno dei Paesi più
poveri dell’Africa. L’Università pubblica, intitolata ad Amilcar Cabral,
fondatore del partito africano per l’indipendenza della Guinea e Capo Verde,
offrirà diversi corsi di laurea, tra cui legge, medicina, veterinaria,
ingegneria e sociologia. Agli studenti verrà richiesta una retta di circa 26
dollari al mese, l’equivalente del salario minimo nel Paese. (M.A.)
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17 novembre 2003
- A cura di Andrea Sarubbi -
Le preoccupazioni
del Papa per la situazione mediorientale trovano conferma nelle notizie
provenienti dal terreno: anche la giornata di oggi, infatti, ha fatto
registrare una vittima della violenza. Si tratta di un palestinese di 22 anni
ucciso a Tulkarem dai militari israeliani, mentre lanciava pietre contro di
loro. Sul piano diplomatico, la notizia più rilevante è l’incontro di
stamattina a Ramallah tra Arafat ed il generale egiziano Omar Suleiman, latore
di una proposta di pace da parte di Mubarak. Il premier israeliano Sharon è
invece a Roma, per una serie di colloqui con le autorità italiane.
Non si fermano i bombardamenti
americani nell’Afghanistan orientale, già teatro di numerosi attacchi da parte
della guerriglia filotalebana. Il governatore della provincia di Paktika ha
denunciato stamani l’uccisione di almeno 6 civili in un raid avvenuto sabato
nel distretto di Barmal. Nessuna conferma, per ora, da parte statunitense.
Si complica il cammino di pace in Burundi, nonostante l’accordo
firmato ieri tra il governo e le Forze di difesa della democrazia. Questa mattina,
infatti, l’intesa è stata respinta dall’altro gruppo di ribelli, le Forze
nazionali di liberazione, a cui erano stati dati tre mesi di tempo per avviare
negoziati con l’esecutivo. Le Fnl non riconoscono come interlocutore il presidente,
Ndayizeye, e pretendono di trattare con i vertici delle Forze armate. Sui
motivi di questo rifiuto del piano di pace, Roberto Piermarini ha intervistato
un missionario italiano a Bujumbura, che intende mantenere l’anonimato per
motivi di sicurezza:
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R. – Penso che le
Fnl siano già da troppo tempo fuori del Burundi – almeno a livello di
leadership – e quindi capiscono poco della situazione del Burundi. La
situazione del Paese è molto mutata ed è in mano a dei politici che spesso,
invece di pensare alla propria gente, pensano al proprio potere e a come riuscire
a guadagnare un po’ in questa situazione. Penso, quindi, che le Fnl dovrebbero
riuscire a mettersi a discutere con il governo, perché è lui il responsabile
del Paese. Loro sono ancora convinti, e può darsi che sia vero, che chi comanda
nel Paese sia l’esercito. Ma ora che l’esercito è messo insieme a l’Fdd, cosa
riuscirà a dire ancora?
D. – Chi c’è dietro
alle Fnl?
R. – Ci sono dei
vecchi guerriglieri: gente partita dal Burundi dal ’72, che ne ha viste di
tutti colori e che purtroppo si fa estremista per una interpretazione errata
della religione. Sono in gran parte degli avventisti, che si ritengono inviati
da Dio. Noi sappiamo bene che, quando in una guerra si mischiano motivazioni
religiose, diventa molto più difficile dialogare, parlare, discutere e mettersi
in pace.
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“Una tragedia politica”, l’inizio
di “una fase drammatica”. È grande la preoccupazione delle istituzioni serbe,
dopo il fallimento delle elezioni politiche di ieri: è infatti la terza volta,
in poco meno di un anno, che il voto viene invalidato per mancato
raggiungimento del quorum. Unici a gioire, gli ultranazionalisti, che si sono
congratulati “con tutti i serbi detenuti nelle carceri del Tribunale penale
internazionale”. Il servizio di Emiliano Bos:
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“Un Paese sotto
shock”, ha commentato stamani, nelle prime edizioni del radiogiornale, la storica
emittente B-92 di Belgrado. Secondo dati non ancora ufficiali, ma ormai
consolidati, soltanto 38 elettori su 100 sono andati ieri alle urne. Quello che
più preoccupa i serbi, al di là del flop elettorale, è l’inaspettata
avanzata dei radicali di Vojislav Seselj, il leader ultranazionalista in
carcere all’Aja per presunti crimini di guerra. Il suo candidato, Tomislav
Nikolic, avrebbe ottenuto oltre il 45 per cento dei consensi, sbaragliando
l’avversario della coalizione democratica: il grande favorito della vigilia,
Dragoljub Micunovic, non sarebbe andato oltre il 35 per cento delle preferenze.
Sul fallimento di questo voto ha pesato anche l’invito al boicottaggio dei due
partiti democratici di opposizione, tra cui quello dell’ex presidente
jugoslavo, Kostunica. I pochi che si sono recati ai seggi hanno scelto i
nazionalisti conservatori un tempo alleati di Slobodan Milosevic. In Kosovo, dove
ieri è stato ucciso un serbo di 18 anni da alcuni sconosciuti, l’80 per cento
dei voti della minoranza serba è andato ai radicali. A questo punto, Belgrado
si trova formalmente senza capo di Stato né Parlamento, sciolto in anticipo
quattro giorni fa e per il cui rinnovo gli elettori saranno chiamati a votare
il prossimo 28 dicembre.
Per Radio Vaticana,
Emiliano Bos.
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All’insegna dell’incertezza anche l’esito dell’appuntamento
elettorale di ieri in Catalogna, regione spagnola governata da oltre vent’anni
dai nazionalisti. Il loro partito, Convergència i Unió, non è infatti in
grado di governare da solo, potendo contare solo su 46 dei 135 seggi del Parlamento
locale. Meglio di loro, in termini di preferenze ricevute, hanno fatto i
socialisti di Maragall, che però non sono andati oltre i 42 seggi. Abbiamo
chiesto di analizzare il voto di ieri a Javier Fernández Bonelli,
corrispondente dell’agenzia Ansa a Madrid:
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R. – I nazionalisti di Convergència
i Unió continuano a perdere voti ogni volta di più, nelle ultime tre
legislature. Dall’altra parte, esiste il problema della crisi del socialismo
spagnolo, di cui il socialismo catalano è solamente uno degli aspetti. I due
partiti hanno perso una decina di seggi ognuno nell’assemblea di Barcellona,
mentre tutte le altre forze politiche - tanto di destra, come di sinistra -
hanno guadagnato consensi. Questo è stato ovviamente interpretato da Carod
Rovira, leader di Esquerra Republicana, come “la fine del bipolarismo”,
la fine di un duello politico catalano limitato solamente a socialisti e
nazionalisti.
D. – Proprio i
seggi di Esquerra Republicana, che si sono raddoppiati, saranno indispensabili
per formare il nuovo governo. Finiranno con i nazionalisti o con i socialisti?
R. – Con una grande abilità, Carod
Rovira è riuscito a mantenere fino al termine della campagna elettorale la
perfetta equidistanza. Un suo celebre slogan - “Sono più di sinistra dei
socialisti e più catalano dei nazionalisti” - ha voluto significare che il suo
partito non ha, in realtà, nessun problema né a governare con gli uni, né a
governare con gli altri: tutti i giochi sono assolutamente aperti. Carod Rovira
dovrà ora fissare un prezzo, e sicuramente non sarà basso.
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Ha riaperto dopo una settimana l’ambasciata degli Stati Uniti a
Khartoum, in Sudan. Era stata chiusa lunedì scorso, in seguito a minacce di
nuovi attacchi terroristici dopo quello di Riad.
Nuovi fermi, in Turchia, dopo gli attentati di sabato alle due
sinagoghe di Istanbul. Sventato un attacco contro una stazione di polizia, ad
opera del Partito separatista curdo.
Giro di vite in Pakistan contro tre organizzazioni islamiche sospettate
di terrorismo: 25 sedi chiuse, in carcere almeno 16 militanti.
La crisi nucleare nordcoreana al centro di due colloqui: a Mosca
tra i ministri degli Esteri russo e sudcoreano, a Tokio tra l’americano Kelly e
le autorità giapponesi. A Pechino, dal 17 dicembre, il secondo round di
negoziati.
La Russia al fianco dell’Iran: le sanzioni per il nucleare
sarebbero oggi “inammissibili”, ha detto il Cremlino. Per i servizi segreti israeliani,
invece, Teheran rappresenta “una minaccia per l’umanità”.
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