RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 205 - Testo della
Trasmissione di giovedì 24 luglio 2003
IL PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
In Liberia emergenza colera.
Decine di morti e centinaia di contagi nelle ultime settimane.
Allarme per il
disboscamento dell’Honduras. Appello di ambientalisti e Caritas Italia.
L’arcivescovo di
Canterbury in visita alle comunità anglicane dell’Africa occidentale.
Prosegue in Iraq la resistenza antiamericana: altri 3 soldati Usa uccisi dal fuoco nemico.
Cresce la tensione tra Iran e Canada, dopo la controversa vicenda della morte della giornalista Zahra Kazemi.
Ancora violenza in Medio Oriente, mentre il premier palestinese Mahmoud Abbas è giunto a Washington per colloqui con George Bush.
24 luglio 2003
PER LA SETTIMA VOLTA, GIOVANNI PAOLO II IN ABRUZZO: IL
PAPA
TRASCORRERA’
TUTTA LA GIORNATA SULLE MONTAGNE DEL GRAN SASSO
- A
cura di Alessandro Gisotti -
Prosegue il soggiorno estivo del Papa nella ridente città
laziale di Castel Gandolfo. Oggi, tuttavia, il Santo Padre trascorre tutta la
giornata, in Abruzzo, nella zona montuosa del Gran Sasso.
E’ la settima volta che il Pontefice si reca nella regione
abruzzese. La prima visita avvenne nel 1980 a L’Aquila e al cantiere del
Traforo autostradale del Gran Sasso, dove impartì una benedizione
all’importante opera in via d’ultimazione. Quindi, è tornato in Abruzzo nel
1983, due volte nel 1985 e, ancora, nel 1986. Infine, il 20 giugno del 1993, il
Papa ha visitato proprio l’area del Gran Sasso. Qui, nella suggestiva cornice
del monte più alto dell’Appennino centrale, il Papa recitò l’Angelus domenicale
e non mancò di esprimere parole emozionate per lo straordinario paesaggio. “Il
silenzio della montagna e il candore delle nevi – affermò in quell’occasione –
ci parlano di Dio e ci additano la via della contemplazione, non solo come
strada maestra per fare esperienza del Mistero, ma anche quale condizione per
umanizzare la nostra vita e i reciproci rapporti”.
UDIENZE E NOMINE
Il Papa ha nominato vescovo della diocesi brasiliana di
Pesqueira il reverendo Francesco Biasin, del clero di Padova, per molti anni
sacerdote fidei donum in Brasile.
Mons. Biasin è nato ad Arzercavalli, nella diocesi padovana, il 6 settembre
1943. Dopo aver compiuto gli studi nei seminari minore e maggiore della città
veneta, fu ordinato sacerdote il 20 aprile 1968 a Padova, dove è incardinato.
Nel 1972 ha frequentato un corso di spiritualità sacerdotale presso la scuola
sacerdotale dei Focolari, a Frascati. Nel 1980 è stato inviato in Brasile come
sacerdote fidei donum, per lavorare
nella diocesi di Petrópolis.
Dal 1981 al 1990, è stato parroco della Cattedrale e
vicario generale, nella diocesi di Duque de Caxias. E’ stato inoltre membro
della commissione regionale dei presbiteri del Regionale Leste 1 della Conferenza episcopale del Brasile (CNBB). Dal 1991 è
stato direttore spirituale del seminario maggiore di Nova Iguaçu a Itaguaí,
dove è stato anche vicario generale e amministratore diocesano. Da poco è
rientrato in Italia, dove da 4 mesi ricopre l’incarico di responsabile
dell’ufficio missionario diocesano della diocesi di Padova.
Il Pontefice ha accettato la rinuncia al governo pastorale
della diocesi tailandese di Ratchaburi, presentata dal vescovo John Bosco Manat
Chuabsamai, per sopraggiunti limiti d’età.
TREMILA VIETNAMITI DELLA DIASPORA SI RADUNANO IN
QUESTI GIORNI A ROMA
ALL’INSEGNA
DEL TEMA “UNITI PER VIVERE E PROCLAMARE IL VANGELO”.
CON
NOI IL REVERENDO GIUSEPPE DINH DUC DAO
-
Servizio di Giovanni Peduto -
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E’ un incontro di fede della comunità cattolica vietnamita
della diaspora, organizzato dall’Ufficio per il coordinamento della pastorale
dei vietnamiti nel mondo, presso la Pontificia Università Urbaniana. La
cerimonia inaugurale, questa sera alle 20.00, sarà presieduta dal prefetto
della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il cardinale Crescenzio
Sepe. Seguirà la Liturgia eucaristica celebrata da mons. Philip Edward Wilson,
arcivescovo di Adelaide, in Australia, sede di un’importante comunità
vietnamita. I partecipanti provengono da sedici Paesi in rappresentanza di due
milioni di vietnamiti della diaspora, il trenta per cento dei quali sono
cattolici. Per l’occasione è venuto a Roma anche il presidente della Conferenza
episcopale vietnamita, mons. Paulo Nguyen Van Hoa, vescovo di Nha Trang. Con
noi ora il reverendo Giuseppe Dinh Duc Dao, vice direttore del Centro
Internazionale di Animazione Missionaria, che ha organizzato il raduno...
D. - Qual è stata l’occasione
per una tale iniziativa?
R. – Lo scopo di questo raduno
è quello di rinnovare la vita di fede della comunità cattolica vietnamita della
diaspora e rinsaldare l’unità di tutti, per poter rispondere all’invito Duc
In Altum del Santo Padre per tutta la Chiesa in questo terzo millennio.
D. – Cosa rappresenta quindi
per voi questo incontro?
R. – E’ molto
importante per noi, perché è l’occasione per rinnovare la fede di tutti.
Abbiamo scelto questa data, perché così quest’anno possiamo commemorare 470
anni dell’evangelizzazione del Vietnam. Ricordiamo anche i 70 anni
dell’ordinazione episcopale del primo vescovo vietnamita e il 15.mo anniversario
della canonizzazione dei nostri antenati martiri per l’amore e la fede in
Cristo.
D. – Quali legami ci sono tra
i vietnamiti della diaspora e la madrepatria?
R. – I
vietnamiti vivono sotto l’autorità dei vescovi locali, ma come sentimento, come
identità culturale, come tradizione religiosa la comunità cattolica vietnamita
in diaspora sente un profondo e intimo legame con la Chiesa madre in Vietnam.
Infatti, dappertutto, dove sono andato a visitare le comunità, ho sempre trovato
un amore molto profondo verso il Vietnam. Quindi, si può dire che l’identità
della comunità cattolica vietnamita in diaspora oggi ha due dimensioni, citando
l’espressione del Santo Padre, “respira con due polmoni”: uno è vietnamita e
l’altro è locale. Un cattolico vietnamita in diaspora appartiene alla Chiesa
locale con tutti i diritti e i doveri e vuole essere un membro attivo in tutti
i sensi. Ma dall’altra parte ricorda anche la sua origine che continua a
correre nelle sue vene, come il sangue, ogni giorno.
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La prima pagina si apre con la situazione in Iraq,
sottolineando che si continua ogni giorno a morire: uccisi, nel Nord, altri tre
soldati Usa. Per Bush “l’ex regime è finito”.
Nelle vaticane, un pagina dal tema “Un anno dalla Giornata
Mondiale della Gioventù celebrata a Toronto dal 23 al 28 luglio 2002”.
Un articolo sul XXV anniversario di ministero presbiterale
di mons. Angelo Spinillo, vescovo di Teggiano-Policastro.
Nelle pagine estere. Liberia: centinaia di civili cercano
di fuggire da Monrovia devastata dai bombardamenti.
Medio Oriente: appello alla pacificazione lanciato da
Washington in vista delle missioni di Sharon e Abu Mazen alla Casa Bianca.
Nella pagina culturale, un contributo di Franco Lanza
sulla raccolta di racconti di Erri De Luca dal titolo “Il contrario di uno”.
Nelle pagine italiane, in rilievo il tema della giustizia
e l’emergenza-siccità.
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24 luglio 2003
RAGGIUNTO L’ACCORDO TRA GOLPISTI E GOVERNO A SÃO
TOMÉ E PRINCIPE
- Con
noi mons. Rodas de Sousa Ribas -
Si è concluso senza spargimento di sangue il tentato golpe
a São Tomé e
Principe, piccolo arcipelago nel golfo di Guinea. I militari avevano preso il
potere lo scorso 16 luglio, mentre il presidente ed il ministro degli Esteri
erano fuori dal Paese. Maggiori dettagli nel servizio di Giulio Albanese:
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Con un accordo negoziato da mediatori internazionali - in
primo piano Nigeria e Gabon – il capo dello Stato Fradique
de Menezes è
finalmente ritornato a casa. Il Parlamento ha votato all’unanimità un’amnistia
per i golpisti. Il prossimo passo è ora la creazione di un governo di unità
nazionale. De Menezes è
arrivato a São Tomé,
accompagnato dal presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, poche ore dopo
l’annuncio dell’accordo raggiunto tra le parti e firmato dal capo dei golpisti,
il maggiore Pereira. São Tomé e Principe sono due isole vulcaniche al largo dell’Africa
occidentale e si trovano a galleggiare come per incanto su ampi giacimenti di
petrolio ancora tutti da sfruttare, e non è escluso, dice qualcuno, che dietro
questa vicenda ci siano interessi davvero legati all’oro nero.
Per la Radio Vaticana, Giulio Albanese.
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Per un commento sugli accordi raggiunti, Jean-Charles
Putzolu ha intervistato il vescovo di São Tomé, mons. Rodas de Sousa Ribas .
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R. - I
negoziati fortunatamente sono giunti a buon fine. Ci aspettavamo che non
sarebbero durati troppo a lungo: sapevamo, infatti, che i militari fin
dall’inizio non desideravano rovesciare il governo con un colpo di Stato. Non
si è trattato di un attacco contro i membri del governo, ma contro la
situazione economica in cui l’isola versa. L’azione militare è stata pensata
con il fine di richiamare l’attenzione della comunità internazionale e lo scopo
è stato raggiunto. Ora la comunità internazionale è attenta alla realtà
dell’isola, si può procedere. La grande preoccupazione della Chiesa in questi
ultimi giorni era che venisse raggiunto un accordo tra golpisti e governo senza
violare la dignità di nessuno, nel rispetto di tutti. Per quanto riguarda la
situazione economica, il governo si è già adoperato, ma trattandosi di un
esecutivo giovane con un solo anno di vita alle spalle la strada da percorrere
per il progresso economico dell’isola è ancora lunga. Ogni sforzo e sacrificio
fatto dalla popolazione è finalizzato a raggiungere il traguardo fissato dalla
Banca Mondiale per la cancellazione del debito estero.
D. - Che
ruolo ha svolto la Chiesa in questa situazione?
R. -
Personalmente ho dialogato con i militari dopo il golpe, ho ascoltato le loro
richieste, le loro idee. Non conoscevo inizialmente quali fossero le loro
intenzioni, ma poi parlando con loro la situazione è divenuta man mano più chiara.
Mi sono quindi permesso di suggerire loro qualche idea, ma non in qualità di
rappresentante della Chiesa ma come un semplice cittadino di São
Tomé e Principe. Non
ho espresso giudizi morali, ho semplicemente dato qualche idea, che a giudicare
da come stanno evolvendosi le cose, i militari hanno preso in considerazione
per quanto riguarda le trattative con la Banca Mondiale. Posso dire che le mie
idee hanno influito sugli accordi.
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APPELLO DEL MONDO ACCADEMICO E DELLE ONG ITALIANE
PER IMPEDIRE
L’IMMINENTE
CHIUSURA DELL’UFFICIO DELLE NAZIONI UNITE DI ROMA
-
Servizio di Alessandro Gisotti -
Sorpresa e amarezza: questi i sentimenti che hanno
accompagnato nel mondo universitario e dell’associazionismo italiano la notizia
della chiusura del ufficio Onu di Roma, il prossimo 31 dicembre. La decisione
assunta, recentemente, dal segretario generale delle Nazioni Unite si inserisce
in una riforma organizzativa che prevede la chiusura di tutti i centri
d’informazione dell’Onu dei Paesi dell’Europa occidentale e la contestuale
apertura di un centro regionale a Bruxelles. Il servizio di Alessandro Gisotti:
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(musica)
Un punto di riferimento per la promozione dei diritti
umani attraverso la conoscenza dell’organizzazione che appartiene a tutti noi:
le Nazioni Unite. Dal 1956, il centro d’informazione dell’Onu di Roma promuove
campagne d’informazione sui temi fondamentali della pace, dello sviluppo e dei
diritti fondamentali. Ora, il centro di piazzetta San Marco, com’è usualmente
chiamato dai tanti - studenti, intellettuali, cittadini comuni – che lo
frequentano sta per chiudere i battenti, nell’ambito di una ristrutturazione
del Palazzo di Vetro. Numerosi docenti universitari e rappresentanti delle Ong
italiane hanno firmato una lettera aperta al ministro degli Esteri, Frattini,
affinché il governo intervenga nelle sedi opportune per scongiurare la chiusura
dell’ufficio Onu di Roma. Tra loro anche la prof.ssa Maria Rita
Saulle, docente di diritto internazionale all’ateneo romano “La Sapienza”, che
spiega il suo rapporto particolare con la sede italiana delle Nazioni Unite:
R. - Devo dire che la presenza di questo ufficio è stato
fondamentale per i miei libri e le mie ricerche, dovunque mi sia trovata in
qualunque parte del mondo. In più c’è l’utilità di avere dei funzionari con i
quali scambiare un’opinione sull’opportunità di valutare un documento. Ci sono,
poi, altri aspetti di questa presenza che sono, per esempio, il fatto di
sentire le Nazioni Unite vicine. Una presenza del’Onu diretta nei confronti
dell’Italia.
D. – Cosa perde l’Onu e cosa perde la società civile
italiana con la chiusura dell’ufficio di Roma?
R. – Io ho definito già quest’ufficio una specie di
ambasciata delle Nazioni Unite presso l’Italia. Quando l’ambasciata viene
chiusa, i rapporti diplomatici, per così dire, si interrompono. E’ un interesse
veramente sostanziale, proprio dal punto di vista dei contenuti, avere
permanentemente un rapporto diretto con le Nazioni Unite. Non parliamo poi
dell’università, del fatto che i giovani possano andare, non solo a reperire i
documenti, ma anche a formarsi ai principi della Carta delle Nazioni Unite
acquisendo i meccanismi, la conoscenza concreta sul campo.
D. – Quali azioni può intraprendere il governo italiano
per impedire la chiusura dell’ufficio dell’Onu di Roma?
R. – Spero che l’Italia continui ad essere uno degli
Stati, che maggiormente sovvenzionano gli enti internazionali. Nel momento in
cui l’Italia riuscisse ad attribuire a queste Organizzazioni internazionali gli
stessi, o maggiori contributi, rispetto al passato, potrebbe chiedere come
contropartita il mantenimento della sede delle Nazioni Unite a Roma.
E l’ufficio Onu di Roma è stato negli anni un valido sostegno alle
iniziative delle Ong, come sottolinea il presidente della Focsiv, Sergio Marelli:
R. - Sicuramente direi che per noi
il ruolo fondamentale dell’ufficio in Italia delle Nazioni Unite è quello di
avere un interlocutore a noi vicino che possa essere un orientamento, una
guida, un momento di confronto costante sulle varie politiche, anche sui vari
coinvolgimenti che le Nazioni Unite prevedono, in particolare, per il mondo non
governativo e per le Ong. Senz’altro, quest’ufficio si è sempre dimostrato
molto attento al sostegno di campagne, soprattutto quelle di informazione e di
educazione allo sviluppo, che le nostre Ong promuovono qui in Italia sulle
grandi questioni legate al problema dei rapporti nel Sud, della cooperazione
internazionale.
D. – Quale la perdita maggiore per
il mondo delle Organizzazioni non governative italiane, qual’ora venisse chiuso
l’ufficio delle Nazioni Unite di Roma?
R. – Fondamentalmente la perdita di poter avere
un’istituzione sopranazionale, spesso percepita come un po’ lontana dai
cittadini, ma che invece è fuori dalla porta di casa. La possibilità quindi di
avere una struttura delle Nazioni Unite che riavvicini in qualche modo i
cittadini a queste Organizzazioni che rischiano di essere, un po’, solo nel
Palazzo di Vetro di New York.
D. – Il segretariato generale
dell’Onu ha motivato la decisione con la necessità di risparmiare e
ridistribuire le risorse in favore dei Paesi in via di sviluppo. Come valuta
questa scelta del Palazzo di Vetro?
R. – Noi riteniamo che all’interno
di questa urgente e necessaria riforma delle Nazioni Unite, quella della
revisione dei costi di questa struttura, sia uno dei punti qualificanti.
Peccato però che ancora una volta si dimostra il fatto che quando bisogna
andare a ridurre un i costi e le spese,
si va ad intaccare proprio quei settori dove c’è una partecipazione o un rapporto
con la società civile e le Ong.
(musica)
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L’IRAQ ATTENDE TEMPI MATURI PER L’AUTOGOVERNO,
MA LA
FINE DEL REGIME NON È ANCORA DEMOCRAZIA
- Con
noi, mons. Isaac Jacques -
Il futuro del popolo iracheno preoccupa fortemente la
Chiesa locale. Lo ha ribadito ieri a Torino il segretario generale dei vescovi
caldei, mons. Isaac Jacques, in una conferenza presso l’Istituto missioni della
Consolata. Il presule – rettore dell’Università Pontificia Babel College di
Baghdad – sostiene che “l’uccisione di Uday e Qusay Hussein non cambia
assolutamente nulla nel panorama iracheno”. Ce ne spiega le ragioni, al
microfono di Andrea Sarubbi:
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R. - L’importante non sono le persone, ma il popolo. Le
persone vanno e vengono, ma i valori sono storici. Per esempio, ora in Iraq la
convivenza tra tutte le religioni presenti è veramente una realtà. E l’assenza
di un governo sta dimostrando che non ci sono guerre di religione tra sunniti e
sciiti, cristiani e musulmani… Anzi, si vede che il popolo ha nella sua vita e
nel suo sangue queste tendenze di convivenza.
D. – Bush ha detto “il regime di Saddam è finito e non
tornerà più”. Questo significa automaticamente democrazia per l’Iraq?
R. – Veramente, non so come rispondere. Le cose non sono
così chiare, non è nero o bianco… Non so come andranno le cose. Noi vescovi
iracheni ci incontriamo quasi ogni settimana per studiare gli sviluppi della
situazione e prendere posizione. Ma non è semplice rispondere alla sua domanda.
D. – Che cosa manca, allora, all’Iraq, per arrivare alla
democrazia?
R. – Che gli iracheni abbiano un proprio governo, quando
sarà il momento giusto per guidare se stessi. Questo manca, ma aspettiamo che
arrivi il momento opportuno.
D. – Ed il momento opportuno non è adesso?
R. – Senz’altro non è adesso.
D. – Mons. Jacques, si parla molto della resistenza
irachena ai soldati americani. Voi che siete in Iraq, come la vivete?
R. – Quando si sente che un soldato americano è stato
ucciso, forse c’è la tendenza a generalizzare, come se ci fosse una resistenza
dappertutto, contro gli americani. Ma questa mi sembra una esagerazione, perché
alcuni casi isolati non significano che si tratti di una rivolta generale. Ho
visto a Baghdad i soldati americani che giocavano con i bambini per le strade.
E poi, mi sembra siano tutti convinti che non è il momento che gli americani
lascino il Paese.
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24 luglio 2003
È SBARCATO OGGI SULLE ISOLE SALOMONE IL PRIMO
CONTINGENTE DI PACE GUIDATO DALL’AUSTRALIA.
NEL
PAESE, LACERATO DA CINQUE ANNI DI GUERRA CIVILE,
SONO
STATI INTANTO RILASCIATI TRE PASTORI ANGLICANI RAPITI DAI RIBELLI
- A
cura di Amedeo Lomonaco -
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HONIARA. = A Guadalcanal, la
maggiore delle isole Salomone, sono stati rilasciati, ieri, tre pastori
anglicani della ‘Confraternita della Melanesia’ rapiti sei settimane fa dai
ribelli guidati da Harold Keke. Lo riferisce la radio australiana, Abc,
precisando che i tre religiosi hanno raggiunto la capitale Honiara, teatro di
sanguinosi scontri tra milizie etniche, dopo otto ore di viaggio su una piccola
imbarcazione. La liberazione degli ostaggi arriva mentre sono giunti, ad
Honiara, i primi 800 uomini del contingente multinazionale guidato
dall’Australia. I soldati sono sbarcati sulla storica “Red beach”, la spiaggia
da dove, nel 1942, i marines statunitensi lanciarono l’offensiva contro
i giapponesi stanziati nell’isola di Guadalcanal. L’attuale dispiegamento di
forze sarà il più massiccio, nella regione, proprio dagli anni del secondo conflitto
mondiale. L’intervento, approvato dal parlamento delle isole Salomone, è
finalizzato ad aiutare le autorità locali a riprendere il controllo
dell’arcipelago lacerato da cinque anni di guerra civile. Il primo compito
della forza di pace sarà quello di ristabilire l’ordine nella capitale e di
disarmare le bande armate presenti nella città. Nel complesso scenario politico
del Paese non mancano, comunque, le iniziative spirituali. I padri salesiani
della diocesi di Honiara hanno promosso, dal 18 al 20 luglio scorso, un
seminario dal titolo “Il vero amore aspetta…”. L’incontro, svoltosi in
preparazione della Giornata mondiale della gioventù di Colonia nel 2005 e
conclusosi con una Santa Messa celebrata dall’arcivescovo di Honiara, mons.
Adrian Smith, è stato
organizzato con l’obiettivo di riscoprire valori centrali quali la castità e la
purezza.
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IN LIBERIA SCATTA L’ALLARME
COLERA. NEL PAESE GIÁ DURAMENTE PROVATO
DALLA GUERRA CIVILE, DIVERSE CENTINAIA DI PERSONE
SONO STATE CONTAGIATE.
SI CONTANO GIA’ I PRIMI MORTI A CAUSA DELLA
TERRIBILE EPIDEMIA
MONROVIA.
= La gravosa piaga del colera non cessa di minacciare diversi luoghi del mondo,
ma l’ultimo allarme è scattato proprio in Liberia, il Paese africano che in
questi giorni si trova nell’occhio del ciclone per la grave situazione bellica.
Secondo le cifre raccolte dai servizi sanitari operativi nella capitale, nel
solo mese di giugno sono stati riportati 1280 casi con 15 decessi. Nella prima
settimana di luglio, il totale dei casi registrati a Monrovia è di 1630 con 15
decessi, ma il bilancio potrebbe essere superiore, considerata l’impossibilità
di avere dati certi per le precarie condizioni di sicurezza che vigono nel
Paese. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si è impegnata a sostenere
il ministero della Salute con la distribuzione di medicinali, di forniture
mediche e cloro alle Ong, che operano a Monrovia. Insieme all’Unicef fornisce
alle comunità e alle strutture sanitarie materiale informativo sanitario sulla
prevenzione e il controllo del colera. Le epidemie sono particolarmente
facilitate dalla mancanza delle più correnti norme igieniche. L’insorgere della
malattia avviene dopo 2-3 giorni, presentando vomito e diarrea, che portano ad
una grave disidratazione, perdita di sostanze minerali e aumento dell’acidità
del sangue nei tessuti, con rischio di collasso cardiocircolatorio e morte. La
causa principale della diffusione del colera nei Paesi più poveri è
l’inquinamento dell’acqua, causato dalla precarietà del sistema fognario. Anche
il pesce, ingerito senza adeguata cottura, la verdura, la frutta e le bevande
prodotte con acqua inquinata facilitano il diffondersi della malattia. Ne sono
colpiti numerosi Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina. (M.D.)
ALLARME DELLA CARITAS ITALIANA CONTRO IL
DISBOSCAMENTO DELL’HONDURAS.
PER
DENUNCIARE QUESTA GRAVE PIAGA SOCIALE È GIUNTO IN ITALIA
IL
LEADER DEL MOVIMENTO AMBIENTALISTA DELLA REGIONE DI OLANCHO,
PADRE
ANDRÉS TAMAJO
TEGUCIGALPA.
= “In Honduras l’indiscriminato taglio dei boschi provoca effetti ambientali e
sociali devastanti quali l’inaridimento dei suoli, l’innalzamento delle
temperature, la dispersione delle falde acquifere, la perdita dei raccolti e
l’aumento della povertà”. E’ questo il grido di allarme lanciato dalla Caritas
italiana e ribadito dalla guida del movimento ambientalista della regione di
Olancho, il sacerdote salvadoregno, padre Andrés Tamayo, giunto oggi a Roma per
denunciare le gravi conseguenze dell’aggressione alle risorse forestali del
Paese centro-americano. Proprio la spinosa questione della distruzione dei
boschi è stata lo sfondo, purtroppo, della morte di un operatore della
pastorale sociale-Caritas di Juticalpa. Si tratta del dirigente del movimento
ambientalista di Olancho, Carlos Arturo Reyes Mendez, ucciso venerdì scorso nel
villaggio di El Rosario per essersi apertamente schierato contro le continue
operazioni di disboscamento. Ma le denunce ambientaliste, fortunatamente, non
si arrestano grazie all’opera di padre Tamajo che, il 27 giugno scorso, ha
dovuto lasciare l’Honduras al termine della “Marcha por la defensa de la
vida”. In quella occasione, circa 30 mila partecipanti hanno espresso le
loro proteste contro il taglio massiccio dei boschi del dipartimento di Olancho,
riserva “forestale” del Paese. (A.L.)
L’ARCIVESCOVO DI CANTERBURY, ROWAN WILLIAMS, SI
TROVA DA IERI IN VISITA NELL’AFRICA OCCIDENTALE.
NEL CORSO
DEL SUO VIAGGIO INCONTRERÁ LE COMUNITÁ ANGLICANE LOCALI,
GLI
ESPONENTI DELLE ALTRE CONFESSIONI RELIGIOSE E I RAPPRESENTANTI DELLE
ISTITUZIONI
ACCRA.
= L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha iniziato ieri un viaggio
pastorale nel continente africano, che lo porterà a visitare le comunità
anglicane presenti in Ghana, Sierra
Leone e Gambia. I tre Paesi che ospiteranno il primate d’Inghilterra sono parte
della provincia anglicana dell’Africa occidentale, presieduta dal reverendo
Robert Okine, latore dell’invito all’arcivescovo di origine gallese. Oggi ha
luogo l’incontro ufficiale con il presidente della Repubblica del Ghana, John
Agyekum Kufuor, al termine del quale l’arcivescovo officerà una liturgia.
Domenica, invece, il capo della Chiesa anglicana terrà un discorso durante una
manifestazione organizzata all’interno dello stadio nazionale di Freetown, in
Sierra Leone. Il primate anglosassone, nel corso della sua visita, ha anche in
agenda incontri con rappresentanti delle chiese cristiane, esponenti della
classe politica e delegati delle società tradizionali africane. Rowan Williams
siede sulla cattedra di Canterbury dal 27 febbraio 2002. Sposato con due figli,
dopo la laurea in teologia conseguita presso il Christ’s College di Cambridge e
il dottorato di ricerca a Oxford con una tesi sulla cristianità in Russia, ha
diviso la sua vita tra l’insegnamento (in Sudafrica e in India) e il ministero
parrocchiale. (M.D.)
SCUSE UFFICIALI AI VESCOVI DALL’EX PRESIDENTE DEL NICARAGUA,
DANIEL ORTEGA.
IL
GOVERNO SANDINISTA NEGLI ANNI OTTANTA AVEVA CONTRASTATO CON FORZA
LE
ATTIVITÁ DELLA CHIESA NEL PAESE CENTROAMERICANO
MANAGUA.
= Il segretario generale del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln)
ed ex presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, riferisce l’agenzia Aci
Prensa, ha rivolto pubblicamente le scuse alla Chiesa e ai vescovi del
Paese centroamericano per l’intransigenza del suo governo nei confronti dei
cattolici nei primi anni ottanta. Lo ha fatto in occasione del discorso
pronunciato lo scorso 19 luglio a Plaza de la Fe, in occasione del 24.mo
anniversario della rivoluzione sandinista. L’amministrazione Ortega fu particolarmente
dura con i vertici della Chiesa locale, dei quali cercava di diminuire
l’influenza e il prestigio. L’esecutivo espulse inoltre 18 preti, contestò pesantemente
i presuli e arrivò addirittura a censurare i documenti della Santa Sede, così
come gli atti della Conferenza episcopale nicaraguese. (M.D.)
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24 luglio 2003
- A cura di Barbara Castelli -
In primo piano l’Iraq. Ormai non ci sono più dubbi: sono
proprio Uday e Qusay Hussein le vittime del raid americano di mercoledì a
Mossul, nel nord dell’Iraq. Lo ha confermato Washington, senza però escludere
che uno dei due figli di Saddam si sia suicidato prima dell’irruzione
statunitense. La Casa Bianca ha ribadito la propria soddisfazione per l’obiettivo
raggiunto. Il servizio di Elena Molinari:
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“Il
regime di Saddam se ne è andato per sempre e non tornerà più. Il giorno dopo
l’uccisione di Uday e Qusay Hussein, George Bush incassa il credito del
successo e ne presenta il conto al resto del mondo. Per realizzare il nostro
progetto in Iraq - ha detto Bush - tutte le nazioni devono contribuire
militarmente e finanziariamente”. A suo dire la situazione in Iraq è
incoraggiante. “La strategia americana - ha detto - sta dando risultati, anche
se il clima è di guerra continua”. Negli Stati Uniti, intanto, c’è sollievo per
l’eliminazione dei due temibili fratelli, ma non abbastanza da mettere a tacere
le domande sulla legittimità della guerra. La Casa Bianca appare per la prima
volta in difficoltà. Dopo aver negato per settimane di essere al corrente che
il documento sul presunto acquisto iracheno di uranio in Africa era
inaffidabile, si è appreso, infatti, che l’amministrazione Bush era stata
avvertita dalla Cia ad ottobre. Ciononostante, un riferimento al documento
venne usato da Bush a gennaio per convincere gli americani della necessità
della guerra.
Da New York, Elena Molinari, per la Radio Vaticana.
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In Iraq, intanto, nonostante l’uccisione dei figli di
Saddam, la resistenza antiamericana non si placa. Tre soldati statunitensi sono
stati uccisi oggi in un attacco nel nord dell’Iraq; mentre un veicolo militare
statunitense è stato dato alle fiamme, nel centro di Baghdad, davanti alla
moschea di Al Gilani. Anche due iracheni oggi hanno perso la vita. Le truppe
americane hanno, infatti, aperto il fuoco contro un’auto che non si era fermata
a un check-point. L’auto si è incendiata e i suoi due occupanti sono morti.
Due giorni dopo il monito del presidente
statunitense Bush, l’Iran ha ammesso ieri, per la prima volta, che fra i
terroristi di al Qaeda detenuti nelle sue carceri vi sono esponenti di spicco
della rete di Osama bin Laden. Secondo fonti diplomatiche, tra i detenuti ci
sarebbero anche un figlio del principe del terrore, Said, il ‘numero due’
dell’organizzazione, l’egiziano Ayman al Zawahri, e il portavoce, il kuwaitiano
Suleiman Abu Ghaith. Scettica la reazione di Washington all’annuncio di
Teheran.
L’Iran ha accusato oggi la polizia canadese di aver ucciso
un iraniano a Vancouver e ha chiesto ad Ottawa di portare in tribunale i
responsabili di questo “crimine”. L’annuncio viene in un momento di tensione
tra Iran e Canada, in seguito alla morte della giornalista irano-canadese,
Zahra Kazemi. Il Canada ha, infatti, richiamato il proprio ambasciatore a
Teheran e ha annunciato che riesaminerà i rapporti con l'Iran.
Trasferiamoci in Medio Oriente dove, nonostante la tregua,
proseguono gli episodi di violenza. Ieri sera un israeliano è stato accoltellato
a Gerusalemme da un gruppo di adolescenti palestinesi; mentre stamani a
Ramallah un’unità speciale dell’esercito israeliano ha catturato un
palestinese, membro dei Tanzim, ricercato da Israele. Sul piano diplomatico,
intanto, il ministro degli Esteri israeliano Shalom è in visita alla Casa
Bianca. Giunto a Washington anche il primo ministro palestinese, Mahmoud Abbas.
Graziano Motta:
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In missione a Washington per preparare la visita della
settimana ventura di Sharon alla Casa Bianca, il ministro degli Esteri
israeliano ha visto criticare la cosiddetta barriera di sicurezza con i
Territori palestinesi. Il segretario di Stato, Powell, ha chiesto a Shalom che
la sua costruzione sia sospesa e, comunque, sia modificato il tracciato. Di
fatto, su questo punto Washington si è allineato sulla posizione del primo
ministro palestinese Abu Mazen, che oggi comincia la sua visita nella capitale
federale e domani sarà ricevuto da Bush. Shalom ha, tuttavia, notato che non è
questa una divergenza importante fra Israele e Stati Uniti. “Importante - ha
detto - è la nostra convergenza sul fatto essenziale che l’autorità palestinese
smantelli le infrastrutture terroristiche, sequestri le armi dei membri delle
organizzazioni della rivolta, ponga fine alle incitazioni all’odio e alla
violenza”. Sull’altro tema che Abu Mazen solleverà a Washington - la
scarcerazione dei prigionieri palestinesi - Shalom ha detto che questa ci sarà,
anche se non figura nella “Road map”, il piano di pace, e sarà uno degli
argomenti dell’incontro di Shalom con Bush.
Per Radio Vaticana, Graziano Motta.
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Si è
concluso in maniera pacifica il tentato colpo di Stato a Sao Tomé e Principe. I
militari, che avevano preso il potere lo scorso 16 luglio, hanno siglato ieri
un accordo “effettivo” per il ripristino dell’ordine costituzionale. Anche il
presidente, Fradique de Menezes, ha fatto rientro nel Paese.
Trasferiamoci nelle Filippine,
dove ieri 21 persone sono rimaste vittime del passaggio del tifone Imbudo.
Secondo quanto ha riferito la protezione civile, inoltre, il tifone, che
viaggia a circa 170 km orari, ha provocato più di 20 milioni di dollari di
danni alle proprietà agricole e alle attrezzature del Paese.
L’Ecowas
- la Comunità degli Stati dell’Africa occidentale - ha annunciato ieri l’invio
in Liberia di 1.300 soldati nigeriani. I tempi della missione, però, sono
ancora da stabilire, e nel frattempo la situazione peggiora: nelle ultime ore,
i ribelli hanno conquistato un ponte strategico, che controlla l’accesso a
Monrovia. Obiettivo dei guerriglieri è, a questo punto, sostituire il
presidente Taylor alla guida del Paese. Ce lo conferma Massimo Alberizzi,
esperto di questioni africane del Corriere della Sera, intervistato da Andrea
Sarubbi:
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R. -
Vogliono che Taylor capisca che è inutile che cerchi di rimanere agganciato al
potere, perché tanto non ce la fa neppure dal punto di vista militare.
Oltretutto, credono che Taylor stia cercando un qualche modo di riarmarsi e,
quindi, vogliono evitare che riesca farlo.
D. -
Quando c’era Bush in Africa, Taylor aveva dato la propria disponibilità a
dimettersi. Perché non lo fa adesso?
R. - Taylor non può andarsene, è ostaggio dei suoi. Se lui
se ne andasse immediatamente i suoi sarebbero massacrati.
D. - Anche i ribelli avevano la possibilità di far finire
questa guerra, bastava che accettassero il piano di pace dell’Ecowas. Lo hanno
respinto, dicendo: “Saremmo esclusi dal governo di transizione”…
R. - E’ sciocco lasciar fuori i ribelli. Potrà essere
forse eticamente sbagliato coinvolgerli, ma politicamente sono quelli che hanno
la partita in mano. Tutta la parte civile della Liberia, arrivando i ribelli e
instaurando un regime a modo loro, rischierebbe di essere emarginata. Quindi,
tutti i negoziati di pace fallirebbero immediatamente.
D. - Ieri sera l’Ecowas ha finalmente deciso l’invio di
1300 soldati nigeriani in Liberia, che cosa potrà cambiare adesso?
R. - Non credo molto ai contingenti di pace africani, se
non sono almeno guidati da una forza leader, che in questo caso dovrebbe essere
quella degli Stati Uniti. Ma mentre gli Stati Uniti sono pronti ad intervenire
in Iraq, dove hanno grandi interessi, qui avrebbero solamente un interesse di
tipo storico ed etico. Non mi pare che Bush sia sensibile a questi temi.
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In Turchia, ieri la Commissione parlamentare sulla
corruzione ha chiesto l’apertura di un’inchiesta parlamentare su 25 ex membri
del governo. Tra gli indagati figurano anche gli ex premier Bulent Ecevit e
Mesut Yilmaz e l’ex ministro dell’economia, Kemal Dervis. Lo ha riferito
l’agenzia di stampa Anadolu, specificando che questi ultimi sono sospettati di
corruzione ed abuso di potere.
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