RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 156 - Testo della
Trasmissione di giovedì 5 giugno 2003
IL PAPA E LA SANTA SEDE:
Nominato dal Santo Padre il nuovo nunzio apostolico a
Malta.
OGGI IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
Lo spagnolo
frà José Rodriguez Carballo eletto nuovo ministro generale dell’Ordine dei
Frati Minori.
Niente
armi di distruzione di massa ai terroristi, perché il regime iracheno è stato
rovesciato: lo ha detto Bush in Qatar, alla fine della sua missione in Medio
Oriente.
Il
palestinese Arafat scettico sulle promesse dell’israeliano Sharon, ieri ad
Aqaba.
Violenza
nel Caucaso: un attentato suicida in Ossezia e un sequestro di 4 persone in
Abkhazia.
5 giugno 2003
GIOVANNI PAOLO II
PARTIRA’ NEL POMERIGGIO PER IL SUO 100.MO
VIAGGIO APOSTOLICO, DIRETTO IN CROAZIA. LA VISITA
DURERA’ 5 GIORNI
E VEDRA’, TRA L’ALTRO, LA BEATIFICAZIONE DELLA PRIMA
DONNA CROATA,
SUOR MARIJA PETKOVIČ
- A cura di Alessandro De Carolis -
Ventinove volte il giro del
mondo. O, se si vuole, tre volte la distanza tra la terra e la luna. Due esempi
di forte impatto, ma che esprimono con efficacia lo straordinario traguardo che
oggi pomeriggio, a partire dalle 15.30, raggiungerà Giovanni Paolo II, nel suo
venticinquennale ministero di pastore universale e di pellegrino di pace. A
quell’ora, il Papa decollerà alla volta della Croazia, per quello che gli
annali del pontificato ricorderanno come il suo 100.mo viaggio apostolico.
Cinque giorni, cinque città diverse - per oltre 2 mila chilometri di
spostamenti previsti - attraverso un Paese impegnato nella delicata transizione
verso il traguardo dell’Unione Europea, che potrebbe raggiungere entro la prima
decade del Duemila.
Dopo le visite del ’94 e del
’98, il Papa torna in Croazia con il desiderio di dare spazio e testimonianza
alla famiglia e al suo ruolo in una società, come quella contemporanea, dove i
cristiani sono chiamati a dare testimonianza di comunione di fronte ai numerosi
conflitti che la lacerano. Ma torna per consegnare alla devozione dei croati un
altro modello di fedeltà evangelica, con la beatificazione di suor Marija di
Gesù Crocifisso Petkovič, fondatrice della Congregazione francescana delle
Figlie della Misericordia.
L’arrivo di Giovanni Paolo II
all’aeroporto di Rijeka, situato nell’Isola di Krk, è previsto per le 16.45. Ad
accogliere il Pontefice vi saranno le massime autorità civili e religiose del
Paese, a partire dal presidente della Repubblica, Stiepan Mesić. Con un
insolito spostamento, a bordo di un catamarano, il Papa raggiungerà la
terraferma alla volta del Seminario arcidiocesano di Rijeka dove, verso le
19.30, accoglierà in privato il capo dello Stato croato e la sua famiglia. Ma
sulle tappe e i significati di questo storico 100.mo viaggio internazionale,
cediamo la parola al nostro inviato in Croazia, Luca Collodi:
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Il presidente della Conferenza episcopale croata,
mons. Josip Bozanic, partecipando ieri alla festa patronale di Sisak, a sud-est
di Zagabria, ha detto che il viaggio del Papa è da interpretare come il suo
desiderio di rafforzare l’identità cattolica croata, segnata nei secoli dal
sangue di molti martiri della fede, e di esortare il Paese a proseguire lungo
il cammino di sviluppo politico ed economico intrapreso.
Domani, a Dubrovnik, ci sarà la beatificazione della
Serva di Dio suor Marija Petkovič, prima donna della Chiesa croata
innalzata all’onore degli altari. Una celebrazione che richiama il ruolo della
donna nella odierna società croata. Importante la tappa di sabato 7 giugno a
Osijek, città della diocesi di Djakovo-Sirmio, in Slavonia, la più colpita
dalla guerra che dal 1991 oppose serbi e croati. Il messaggio di Giovanni Paolo
II sarà dedicato alla riconciliazione degli animi ancora feriti dalla guerra.
1800 persone in tutto il Paese risultano ancora disperse. Molte fosse comuni
non sono state trovate. Nella Slavonia, i campi minati sono intatti. Si calcola
che in Croazia siano ancora attive un milione di mine antiuomo con grave danno
per l’economia agricola. Un segnale di ripresa arriva invece dai risultati
ottenuti l’anno scorso dalle aziende pubbliche, colonne portanti per l’economia
nazionale.
Il 100.mo viaggio internazionale del Papa arriva
alla vigilia della presentazione della bozza conclusiva della nuova
Costituzione europea. Si attende un nuovo intervento di Giovanni Paolo II
sull’importanza delle radici cristiane dell’Europa, da un Paese come la
Croazia, con una popolazione per l’87 per cento cattolica, ma che rischia di
restare ai margini dell’Unione. Pesa la richiesta del Tribunale Penale Internazionale
di estradare alcuni generali croati, ritenuti dall’Aja criminali di guerra, ma
per Zagabria eroi nazionali che hanno difeso il loro Paese dall’aggressore
serbo.
La visita del Papa in Croazia sarà significativa
anche sotto il profilo ecumenico, per il dialogo con ortodossi e protestanti ed
islamici. E non mancano gesti concreti di speranza. Dal 10 giugno, i cittadini
della Serbia e del Montenegro non avranno più bisogno di permessi speciali per
entrare e soggiornare in Croazia. Lo ha deciso proprio ieri il governo croato.
I confini resteranno aperti verso la Serbia fino al 31 dicembre. Il futuro di
questa decisione sarà subordinato alla soluzione delle questioni post-belliche
ancora aperte tra i due Paesi.
I principali giornali croati hanno dedicato grande
spazio all’arrivo del Papa. Un quotidiano di Zagabria allega al giornale come
gadget in edicola una medaglia benedetta da Giovanni Paolo II. Vjesnik
(Il Messaggero di Zagabria) pone l’accento sul carattere diplomatico e politico
della visita del Papa in vista dell’ingresso del Paese in Europa e parla delle
difficoltà nei rapporti ecumenici con il mondo ortodosso serbo. Il quotidiano
di Zadar, Zadarskilist (il Foglio di Zara) parla di un “evento
millenario” per la Chiesa locale. E il senso di attesa per l’imminente arrivo
del Pontefice è testimoniato anche dalla presenza in Croazia di oltre 2 mila i
giornalisti accreditati. Severo appare il servizio d’ordine, in particolare
nella diocesi di Djakovo-Sirmio, ai confini orientali con la Serbia e la
Bosnia-Erzegovina, con l’impiego di uomini e mezzi dell’esercito croato.
Da Rijeka-Fiume, Croazia, Luca
Collodi, Radio Vaticana.
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Come ascoltato, sono innumerevoli
i motivi di interesse, non solo religioso, che fanno da cornice al prossimo
soggiorno di Giovanni Paolo II nel Paese balcanico. Ma quale volto mostra oggi
la Croazia all’illustre ospite che torna a visitarla per la terza volta? Luca
Collodi lo ha domandato a Predrag Matvejević, italo-croato, docente di
islamistica all’Università “La Sapienza” di Roma:
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R. - Dal ’98, cioè dall’ultimo viaggio del Papa in Croazia, il nostro
Paese sta economicamente meglio. Ci sono ancora le ferite della guerra, ci sono
ancora molti poveri che la Croazia non riesce ad aiutare, ci sono alcuni
problemi con l’Ucraina da dove non sono tornati tutti gli esiliati … A onor del
vero, si stanno compiendo sforzi grandissimi nel Paese - nonostante un’economia
ancora debole - per costruire case ed accogliere coloro che lo avevano lasciato
a causa del conflitto armato. E questo è un punto sul quale non tutti i croati
sono d’accordo: alcuni vorrebbero il ritorno degli esiliati, altri sono più
determinati in senso opposto. Comunque, la situazione croata mi sembra molto
migliorata. Credo che il paese sia ormai un candidato molto serio all’ingresso
nell’Europa unita con il secondo gruppo di Stati, nel 2007.
D. – Funziona, in Croazia, la
coabitazione, la tolleranza tra cattolici croati e serbi ortodossi, oggi, a
distanza di tanti anni dall’appello che il Papa lanciò in questo senso nel ’98?
R. – A questo fine, sicuramente il viaggio del Papa sarà importante,
perché Giovanni Paolo II è molto stimato in Croazia. E poi, vi sarà una nuova
beatificazione, quella della beata Marija Petkovič: si tratterà di un
grande evento seguito da tantissimi croati. Ogni parola del Papa sarà molto
sentita e potrà entrare in profondità nella coscienza dei croati.
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Il Papa ha accolto la rinuncia presentata, per
raggiunti limiti di età dall’arcivescovo Luigi Conti, dall’incarico di nunzio
apostolico in Malta e in Libia.
Il Santo Padre ha quindi
nominato nunzio apostolico in Malta l’arcivescovo spagnolo Félix del Blanco
Prieto, finora nunzio apostolico in Camerun e in Guinea Equatoriale.
Negli Stati Uniti d’America, il
Pontefice ha accettato la rinuncia all’ufficio di ausiliare della diocesi di
Joliet in Illinois, presentata dal vescovo mons. James Edward Fitzgerald, in
conformità alla norma canonica relativa ad “infermità o altra grave causa”.
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"Giovanni
Paolo II pellegrino in Croazia" è il titolo che apre la prima
pagina: a Rijeka il primo, caloroso abbraccio con una antica ed eroica
comunità ecclesiale fiera di accogliere sulla propria terra il Successore di
Pietro nel suo centesimo viaggio apostolico.
Nelle vaticane, l'introduzione
del cardinale Giacomo Biffi al volume di Massimo Camisasca intitolato
"Comunione e Liberazione. La ripresa (1969-1976)".
Una pagina dedicata al cammino
della Chiesa in Italia.
Nelle pagine estere, Medio
Oriente: israeliani e palestinesi s'impegnano al rispetto del piano di pace.
Dichiarazione di Pier Ferdinando
Casini, presidente della Camera dei Deputati italiana: "Da Santiago di
Compostela un richiamo alle radici cristiane dell'Europa".
Usa: approvata alla Camera la
legge che vieta l'"aborto a nascita parziale".
Nella pagina culturale,
"Temi fondamentali della canonistica" è il titolo dell'articolo
riguardo al recente volume di O. Fumagalli Carulli.
Nelle pagine italiane, in primo
piano il tema dell'immunità parlamentare.
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5 giugno 2003
“ACQUA:
DUE MILIARDI DI PERSONE L’ASPETTANO!”:
È
L’APPELLO DELLA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE, CHE SI CELEBRA OGGI
-
Servizio di Roberta Gisotti -
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Quello
che occorre è un “modo nuovo di pensare”, scrive il segretario generale dell’Onu,
Kofi Annan, in un messaggio per la Giornata, perché dobbiamo imparare a dare
all’acqua tutta l’importanza che ha, e non lasciare che a pagare il prezzo più
alto per averla siano i più poveri - come al solito - perché ci sono delle
soluzioni per migliorare la distribuzione delle risorse idriche nel mondo.
Ma
intanto per 1 persona su 6 l’acqua da bere non è un gesto scontato quotidiano,
mentre quasi 2 miliardi e mezzo di cittadini vivono in zone senza fogne: il risultato
è che ogni 8 secondi un bambino muore per cause legate alla mancanza di questo
bene primario. Le malattie connesse all’acqua sono infatti responsabili dell’80
per cento di tutte le patologie e dei decessi nei Paesi in via di sviluppo.
Ma che
fine ha fatto il Piano lanciato nel Vertice Onu del Millennio, per dimezzare -
si era detto - il numero degli abitanti del Pianeta ‘assetati’ - possiamo dire
- di acqua potabile? Ne parliamo con
Reto Florìn, responsabile dell’Ufficio Risorse idriche della Fao, Agenzia
dell’Onu in prima fila su questo fronte.
R. – A
che punto stiamo? Tutte queste macchine internazionali sono sicuramente lente;
al momento si sta alla pianificazione, alla riconferma delle promesse fatte.
Vorrei dire che abbiamo due settori ben distinti su cui lavorare: uno sono i centri
urbani, le città perché più o meno la metà dei poveri rimane là e là, in un
certo senso, è più facile lavorare e migliorare la qualità dell’acqua e fare le
fogne e via dicendo, perché è tutto concentrato. L’altro settore sono le zone
rurali dove quasi la metà delle persone ha necessità, perchè sono povere e lì
il nostro approccio, le nostre azioni saranno diverse. Perché nelle zone rurali
è difficile fare la differenza tra acqua usata in agricoltura e acqua per uso
domestico: là dobbiamo intanto provvedere a far sì che l’acqua arrivi e poi,
con l’educazione delle persone e anche con investimenti adeguati, arrivare a
migliorare la qualità dell’acqua. Il 2015 non è molto lontano; abbiamo iniziato
ma ora ci vogliono non solo scommesse ma anche azioni concrete, e tante.
D. –
Spesso si dice: ‘I piani ci sono, le promesse pure ma poi quello che manca è la
volontà politica degli Stati’. Lei, signor Florìn, si scontra con questa
realtà?
R. –
Questa è una realtà che abbiamo visto anche noi nel nostro settore riguardo
alle promesse che sono state fatte per l’approvvigionamento alimentare delle
persone; vediamo che adesso si parla dell’acqua in tutti i Fori internazionali;
abbiamo visto che ancora due-tre giorni fa ne hanno parlato al G8, quindi speriamo
che per questa volta sia molto di più che solo promesse.
D. – Il
problema dell’acqua è legato anche al problema della pace … Sappiamo bene che
l’acqua è da sempre motivo di aspri conflitti tra Paesi confinanti. In questo
settore, cosa fa la comunità internazionale - anche la Fao - per favorire e
anche potenziare lo sfruttamento di tali risorse perché, magari anche potenziate,
siano condivise equamente?
R. – Ci
sono due azioni principali da compiere. Una è di portare questi Paesi ad un dialogo
per poter dopo discutere e decidere chi riceve quanta acqua, e l’altro è di facilitare
dopo questo dialogo con una pianificazione integrata, il che vuol dire che non
accadrà più – come nel passato – che gli agronomi che pianificano l’acqua agricola
non discutano più della pianificazione dell’acqua potabile o ad uso
industriale, ma che la pianificazione, appunto, sia fatta in comune, tenendo in
considerazione le esigenze di tutti i settori, anche quello dell’ambiente.
Anche l’ambiente richiede infatti un minimo d’acqua necessario, che deve
rimanere nei fiumi, deve arrivare al mare, deve restare nelle zone umide, per
garantirci un ambiente sano.
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RINASCONO AD AQABA LE SPERANZE DI PACE IN MEDIO
ORIENTE:
OSTACOLI
E OPPORTUNITA’ SUL PERCORSO TRACCIATO DALLA “ROAD MAP”
- Con
noi, padre Justo Lacunza -
Sarà un
lungo e non facile tragitto, ma il vertice di ieri ad Aqaba può davvero
rappresentare l’inizio del cammino verso la pace in Medio Oriente. I tre protagonisti
del summit, l’israeliano Sharon, il palestinese Abu Mazen e lo statunitense
Bush hanno mostrato cautela nelle loro dichiarazioni. Memori del fatto che, già
troppe volte, la pace in Terra Santa è sfuggita di mano, quando sembrava ormai
ad un passo dall’essere raggiunta. La “road map”, il piano di pace, è dunque in
questo momento soprattutto sinonimo di speranza per i popoli di Israele e
Palestina. Uno strumento utile a riattivare il dialogo tra due parti per troppo
tempo sorde l’una alle ragioni dell’altra. Ne è convinto, padre Justo Lacunza
Balda, preside del Pontificio istituto di Studi Arabi e di Islamistica,
intervistato da Alessandro Gisotti:
**********
R. - La “mappa per la pace” dà inizio ad una ripresa dei
contatti, una ripresa del processo di pace, una ripresa per avere delle
soluzioni reali, realistiche nel quadro dello scenario del Medio Oriente,
soprattutto la nascita di uno Stato palestinese che sia democratico ed in pace
con Israele. Dunque, apre un nuovo orizzonte ed una finestra sullo scenario
politico internazionale, ed ovviamente questo fa bene alla salute politica,
religiosa e culturale, non soltanto del Medio Oriente, ma anche di tutte le
Nazioni e della comunità internazionale.
D. – Ci sono comunque delle reazioni anche negative in
alcune parti della società, tanto israeliana che palestinese. Che peso possono
avere questi elementi di dissenso nei confronti del processo di pace?
R. – Direi che trovo normale queste reazioni, perché
questi due popoli si sono affrontati a morte e questo ha portato ad una ferita
profonda nel solco storico, politico e anche religioso e culturale di questi
due popoli. Dunque, questa ferita va gestita, va guarita e ci vuole il tempo,
ci vuole anche l’ascolto di moltissime voci, non soltanto la voce di quelli che
hanno una voce pacifica, ma anche sapere e ascoltare le altre voci che sono
dissonanti. Ovviamente, questo è un problema molto serio, che tocca soprattutto
il mondo arabo-islamico. Non ci sono processi di pace ideali, ma ci sono
processi di pace che cercano le strade delle istituzioni, delle società, di
uomini e donne che compongono ogni popolo ed ogni Nazione.
D. – I leader degli Stati arabi si sono impegnati a
favorire il processo di pace promosso dal quartetto, ma qual è il sentimento
che prevale nei popoli di questi Paesi?
R. – Penso che il grande sentimento della popolazione
arabo-islamica e anche arabo-cristiana è che finalmente si arrivi ad iniziare
un nuovo percorso in queste trattative di pace, perché la guerra e la violenza,
i morti, l’odio, hanno fatto male non soltanto agli israeliani e ai palestinesi,
ma anche al mondo arabo, al mondo islamico, hanno fatto male ai cristiani,
ebrei e musulmani.
D. – La Road Map segna il ritorno in prima persona
del governo americano negli sforzi per la soluzione del conflitto
israelo-palestinese, come viene percepito questo impegno nel mondo islamico?
Un’indebita ingerenza o un atto di buona volontà?
R. – Non direi che si tratta di ingerenza. Non bisogna
dimenticare che sono stati lo stesso primo ministro Netanyahu, nel giugno del
1995 e dopo 24 ore Yasser Arafat a indicare gli Stati Uniti come i soli
portavoce e gestori del processo di pace. Bisogna ricordare la storia. Dunque,
non è un’ingerenza degli Stati Uniti. Le proposte, i desideri profondi di
palestinesi ed israeliani hanno voluto che gli Stati Uniti fossero i
protagonisti in questa gestione del processo di pace. Dopo, evidentemente,
viene il ruolo dell’Europa, della Russia, delle Nazioni Unite. Penso
innanzitutto che si debba parlare di un grande coraggio che ci vuole perché
palestinesi ed israeliani hanno manifestato in diverse occasioni, in questi due
ultimi anni, la necessità di avere qualcuno che venga da fuori per aiutarli a
percorrere quel processo di pace. Aiutarli, non prendere le redini del processo
di pace, perché i veri attori sono gli israeliani e i palestinesi.
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LE
PROTESTE ANTIGOVERNATIVE RISCHIANO DI DEGENERARE IN GUERRA CIVILE
- Intervista con Massimo Alberizzi
-
Situazione
preoccupante nello Zimbabwe, dove di giorno in giorno monta la protesta contro
il governo del presidente Mugabe, accusato di aver trascinato, nel giro di
pochi anni, una florida economia in una crisi gravissima. Ieri decine di nuovi
arresti, oltre a quello del leader dell’opposizione Tsvangirai che nei giorni
scorsi è stato processato. Forte il rischio che la situazione degeneri in una
pericolosa guerra civile. Giancarlo La Vella ne ha parlato con l’esperto di
Africa, Massimo Alberizzi, del Corriere della Sera:
*********
R. – In questo momento l’opposizione non ha armi, ma, se
dovesse arrivare ad acquisirle per difendersi dalle violenze della polizia,
allora, a questo punto, potrebbe farle arrivare direttamente dai Paesi vicini -
che sono dei veri e propri arsenali - e quindi il tutto potrebbe effettivamente
degenerare in una guerra civile. Questo è quello che temono gli osservatori,
anche se il confinante Sudafrica non vuole assolutamente la guerra in un Paese
vicino. Di fatto lo Zimbabwe è già un Paese fortemente instabile in questo
momento e Pretoria, che lo vorrebbe più tranquillo, non può permettersi un
conflitto civile nello Zimbabwe, dove all’occorrenza potrebbe anche inviare sue
truppe.
D. – Praticamente, che cosa rimprovera l’opposizione al
presidente Mugabwe?
R. – Una crisi economica di proporzioni inaudite.
Recentemente Mugabwe ha fatto delle scelte per la riforma agraria, che, in
linea di principio, potevano anche funzionare in qualche modo. Ha tolto la
terra ai grandi proprietari bianchi e, invece di ridistribuirla ai contadini,
l’ha data ad amici, parenti che non conoscevano nulla di agricoltura, né di
allevamento. Il risultato è stato che i grandi e abbondanti raccolti, che hanno
caratterizzato l’economia dello Zimbabwe fino agli anni scorsi, non ci sono
più. Oggi non c’è più niente. La gente muore di fame. In questo momento 8
milioni di persone hanno bisogno di aiuti alimentari. La gente non ha soldi,
non ha cibo, non ha lavoro, non ha speranze. Ha perso tutto e non ha più niente
da perdere. Quindi la situazione può diventare grave anche per questo. Per
questo stanno scendendo in piazza a protestare, perché ormai non hanno più
alcuna speranza che il governo possa cambiare le cose. Solo se se ne andasse
Mugabwe, le cose potrebbero cambiare e migliorare in Zimbabwe.
D. – Quindi alla luce di quanto sta avvenendo, la riforma
agraria che tolse le terre ai proprietari bianchi è stata una scelta forzata di
Mugabwe per risolvere una situazione economica già difficile all’epoca?
R. – Sì, ma devo dire che, se ritorniamo al 1997, prima
dell’ingresso delle truppe dello Zimbabwe nel Congo, la situazione economica
era ottima. Lo Zimbabwe esportava tabacco ed era il terzo produttore al mondo
di tabacco e quindi rimpinguava le casse con valuta estera pesante. Esportava
mais, esportava grano. Assieme al Sudafrica, era il Paese più avanzato di tutta
l’Africa. Ancora oggi le strutture esistono: i telefoni funzionano, la rete
stradale è sviluppatissima e persino i treni marciano bene. Poi nel 1998
Mugabwe è intervenuto con le truppe in Congo, ha dato potere ai suoi generali,
i quali hanno ammassato ricchezze rilevanti, sottraendole ai congolesi, attraverso
le concessioni minerarie date loro dal governo del presidente dell’ex Zaire,
Kabila, appunto in cambio dell’aiuto militare. Quindi queste risorse non sono
finite allo Zimbabwe, ma nelle mani di pochi. La corruzione è diventata
dilagante. L’inflazione è galoppante. Da qualche tempo è cominciata a crollare
l’economia, sprofondando ogni giorno sempre di più. Nel 2000 la sciagurata
riforma contrabbandata come panacea per i mali del Paese, che ridistribuiva le
terre in modo surrettizio, terre che sono andate tutte in malora. Ora siamo
vicini alla catastrofe. Lo Zimbabwe è un Paese che sta galoppando verso il
baratro.
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5 giugno 2003
I FRATI MINORI, RIUNITI AD ASSISI DALLO
SCORSO 25 MAGGIO PER IL 185° CAPITOLO GENERALE DELL’ORDINE,
HANNO ELETTO
IL NUOVO MINISTRO GENERALE: E’ LO SPAGNOLO JOSÈ RODRIGUEZ CARBALLO
ASSISI.
= Lo spagnolo padre Josè Rodriguez Carballo è il nuovo ministro generale
dell’Ordine dei Frati Minori. Lo hanno eletto i 142 rappresentanti dei Frati
Minori che, a partire dallo scorso 25 maggio, stanno celebrando ad Assisi,
nella basilica di Santa Maria degli Angeli, il loro 185° Capitolo generale
convocato sul tema “Fraternità in missione”. L’elezione di fra Josè, che
compirà 50 anni nel prossimo mese di agosto, è avvenuta alla presenza del
delegato pontificio, il cardinale Jorge Arturo Medina Estèvez. Attualmente fra
José ricopriva l'incarico di definitore generale e di segretario generale per
la formazione e gli studi. In precedenza aveva svolto il suo servizio di ministro
della Provincia francescana di Santiago di Compostela, di presidente dell'Unione
dei Frati minori d'Europa e di maestro dei giovani religiosi in formazione.
Significativo anche il suo curriculum accademico: dopo aver ottenuto la Licenza
in Teologia Biblica a Gerusalemme e la Licenza in Sacra Scrittura a Roma, ha
insegnato queste discipline nel Seminario maggiore nella città spagnola di Vigo
e nella Facoltà Teologica di Santiago de Compostela. A fra José viene oggi
affidato il compito di orientare e custodire la vita degli oltre 16.000 Frati
Minori che operano in 110 nazioni dei 5 continenti. L'Ordine conserva uno stile
missionario, improntato a povertà e vita fraterna, animato da spirito di
contemplazione e dalla sincera ricerca della giustizia, della pace e del
rispetto del creato, nello stile evangelico di Francesco d'Assisi. Frà José
Rodriguez Carballo è, in ordine storico, il 119° successore di san Francesco.
Succede a fra Giacomo Bini, che ha guidato l'Ordine dei Frati Minori negli
ultimi sei anni. (A.L.)
“IL VERTICE DI AQABA, IN GIORDANIA,
RAPPRESENTA UN CONCRETO SEGNO
DI
SPERANZA PER I LUOGHI SANTI”. COSÌ IL CUSTODE DI TERRA SANTA,
PADRE
GIOVANNI BATTISTELLI, HA COMMENTATO LO STORICO INCONTRO DI IERI
TRA IL
PREMIER ISRAELIANO, SHARON, E QUELLO PALESTINESE, ABU MAZEN
GERUSALEMME. = "I passi avanti compiuti ieri ad
Aqaba, in Giordania, dal premier israeliano Sharon e da quello palestinese, Abu
Mazen, insieme al presidente americano Bush rappresentano un segno di speranza
concreta per tutta la Terra Santa". Ad affermarlo è il custode di Terra
Santa, padre Giovanni Battistelli, per il quale, tuttavia, le
"aperture" registrate nel Vertice a tre sono solo "un primo
passo verso la lunga strada della pace". Commentando all’Agenzia Sir le
prime notizie provenienti da Aqaba, il religioso si è detto
"soddisfatto" dell’impegno assunto da Abu Mazen di
"smilitarizzare l’Intifada" e da Sharon di "ripristinare la vita
normale dei palestinesi migliorando le loro condizioni umanitarie".
"Decisioni queste – ha aggiunto il custode – che non potranno che allentare
la tensione tra le popolazioni ed aiutare le comunità cristiane, formate in
gran parte da palestinesi, a tornare ad una vita più tranquilla”. Padre
Battistelli ha poi sottolineato l’importanza delle dichiarazioni del premier
Sharon volte a dare "una continuità territoriale in Cisgiordania
necessaria per uno Stato palestinese vitale". "Si tratta – ha aggiunto
– di un’apertura mirata in qualche modo a stabilire dei confini certi tra due
Stati impegnati a coesistere insieme". Nei Luoghi Santi si respira in questi
giorni un’aria diversa, più tranquilla ma non bisogna trascurare prudenza e
preghiera. “Affidiamo, dunque, alle nostre preghiere – ha concluso padre Battistelli
- tutti coloro che in queste ore si stanno impegnando in questo difficile
compito". (A.L.)
DOPO IL CASO DI UNA STUDENTESSA ANCHE
UN’ALTRA GIOVANE IN INDIA
HA
RINUNCIATO AL MATRIMONIO PER RIBELLARSI ALLA DIFFUSA PRATICA DELLA DOTE,
UNA
USANZA CHE, NEL PAESE ASIATICO, COSTITUISCE
UN
GRANDE PESO PER LE FAMIGLIE
MADRAS. = Prosegue
inarrestabile la ribellione delle giovani indiane contro la ‘schiavitù della
dote’. A seguire l’esempio di Nisha Sharma, la studentessa ventunenne di New
Delhi che il mese scorso ha fatto arrestare il promesso sposo poco prima della
cerimonia nuziale, è un’altra indiana che vive a Madras e si chiama Vidya
Balasubramaniam. Anche lei ha rinunciato al matrimonio, denunciando il futuro
marito e la sua famiglia perché pretendevano la dote, fenomeno che la legge
indiana considera reato nonostante sia ampiamente diffuso e di fatto da molti
tollerato o subito. L’usanza di chiedere alla famiglia della sposa una dote, in
denaro o in altri beni, quali animali, mobilio ed elettrodomestici è un’antica
pratica nata nelle caste più elevate, soprattutto per contribuire alle spese di
fastosi matrimoni. Direttamente connesso a questa diffusa usanza è il dramma
dell’infanticidio. Il costume di dover dare una dote diventa, infatti, un
grande peso per le famiglie che, spesso purtroppo, ricorrono all’aborto del
feto femminile. In base al codice penale indiano e al ‘Dowry Protection Act’,
dal 1961 "dare, ricevere e chiedere la dote" è divenuto reato.
Tuttavia quasi tutti i matrimoni indiani, che nella stragrande maggioranza sono
combinati, comportano la richiesta e l’accettazione della dote. Se denaro e
regali forniti dalla famiglia della donna al momento delle nozze non sono
considerati sufficienti, durante la vita matrimoniale la moglie può diventare
vittima di recriminazioni, maltrattamenti e abusi. In alcuni casi si giunge
addirittura al tentato uxoricidio. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel
1998 e 1999, si sono registrate in tutta l’India 12.612 "morti per
dote", soprattutto negli Stati dell’Uttar Pradesh e del Bihar. (A.L.)
“MOLTO RESTA ANCORA DA FARE PER UNA PIENA
VALORIZZAZIONE DEI MEDIA
NELLA
VITA DELLA CHIESA”. E’ QUESTO L’INVITO LANCIATO OGGI DAL SEGRETARIO
GENERALE
DELLA CEI, MONS. GIUSEPPE BETORI, INTERVENUTO
ALL’ASSEMBLEA DELL’ASSOCIAZIONE CORALLO,
ORGANIZZAZIONE
CHE RAPPRESENTA 269 EMITTENTI
ROMA. =
“Anche se in questi anni è certamente cresciuta la consapevolezza circa il
ruolo delle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa italiana, nella comunità
ecclesiale sono ancora ben radicati resistenze e pregiudizi e molto resta
ancora da fare per una piena valorizzazione dei media nella vita della
Chiesa". E’ l’analisi del rapporto tra Chiesa e media, fatta dal
segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Betori, intervenuto oggi
all’Assemblea dell’Associazione Corallo, che rappresenta 269 emittenti radio
televisive locali. Una visione puramente strumentale dei media, la separazione
rispetto alla pastorale ordinaria, la delega ad alcuni ‘appassionati’, la paura
di avventurarsi su un terreno che richiede anche investimenti e spirito
d'impresa: questi alcuni "difetti" elencati da mons. Betori a
proposito dell’atteggiamento dei credenti di fronte ai mezzi di comunicazione.
Segnali confortanti vengono, invece, dalla "diffusa assunzione delle
prospettive del progetto culturale della Chiesa italiana", la cui
"sfida principale", secondo il segretario generale della Cei,
"consiste nel saper coniugare le ragioni della fede, sempre più
approfondite e assimilate, con i linguaggi odierni". "Non dobbiamo
farci illusioni - ha ammonito Betori – perché la Chiesa è una piccola realtà
dal punto di vista delle sue risorse medianiche, ma la forza del messaggio che
annuncia rende queste realtà straordinariamente preziose ed efficaci per la
’Comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia’". "E’ nell’alveo
dell’impegno missionario della Chiesa italiana – ha concluso il segretario
generale della Cei – che deve essere colto il ruolo dei media”. Ad essi è
affidato, in larga misura, il dialogo con il mondo e la possibilità di
raggiungere anche chi non è pienamente inserito nella comunità ecclesiale o è
in ricerca. (A.L.)
RAGGIUNTO IN CROAZIA UN ACCORDO PER
LIMITARE IL LAVORO DOMENICALE
NEI CENTRI
COMMERCIALI E PICCOLI NEGOZI. UN DISEGNO DI LEGGE AL RIGUARDO CONCORDATO IERI
DAI
RAPPRESENTANTI DELLA CHIESA E DELLA SOCIETA’,
SINDACATI,
DATORI DI LAVORO E ARTIGIANI
ZAGABRIA.
= Un disegno di legge che vieta il lavoro di domenica ai centri commerciali e
ai piccoli negozi è stato concordato ieri in Croazia dai rappresentanti della
Chiesa, dei sindacati, dei datori di lavoro e degli artigiani. Lo riferisce
l’agenzia di stampa locale Hina, ricordando che lo scorso aprile la Caritas
croata aveva lanciato una campagna in favore dell’astensione dal lavoro
domenicale. La proposta, appoggiata dalla Chiesa e da una parte dell’opinione
pubblica, ha invece suscitato dissensi tra i due maggiori partiti della
coalizione di governo, mentre il Partito dei contadini – riferiscono sempre le
fonti – l’ha appoggiata richiamandosi anche ai valori cristiani. Il disegno di
legge prevede che la domenica potranno essere aperti soltanto i negozi nelle
località turistiche, quelli che si trovano in punti molto importanti, mentre ad
alcuni verrà rilasciata una licenza calcolata sul principio di un supermercato
su 10 mila abitanti. In ogni caso, nessun dipendente potrà lavorare più di 12
domeniche all’anno. (P.Sv.)
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5 giugno 2003
- A cura di Giada Aquilino -
I terroristi non potranno più ricevere armi di
distruzioni di massa dall'Iraq, perché il regime di Baghdad è stato rovesciato.
Questo in sintesi il senso del discorso del presidente statunitense George
Bush, oggi al quartier generale americano in Qatar, comando della campagna
'Libertà per l'Iraq'. Il capo della Casa Bianca è già ripartito per Washington,
ma sul tappeto in Medio Oriente rimangono le promesse di pace per la regione scaturite ieri dal
vertice di Aqaba, in Giordania, dove Bush ha incontrato i premier israeliano
Sharon e palestinese Abbas. Quest’ultimo ha dichiarato che è il momento di
rinunciare alla rivolta armata, mentre Sharon ha detto sì ad uno Stato
palestinese accanto ad uno Stato ebraico. Oggi il leader palestinese Arafat
invece si è detto scettico sulle promesse fatte da Sharon. Bush - che ha
parlato di progressi, ma non di successo del vertice - ha avvertito che la
Terra Santa va divisa fra i due Stati. Il servizio di Graziano Motta:
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Bush si è felicitato degli impegni presi dai primi ministri
Sharon e Abu Mazen. Il primo ha ribadito l’impegno ad evacuare immediatamente
dei punti di espansione degli insediamenti di coloni in Cisgiordania, di migliorare
le condizioni di vita delle popolazioni palestinesi, di assicurare la
continuità territoriale del futuro Stato di Palestina e soprattutto di lottare
contro il terrorismo, sino - ha detto - alla sua disfatta. Abu Mazen ha assicurato
l’impegno a mettere fine all’Intifada armata e ad ogni forma di violenza e di
incitazione all’odio. “Spero - ha detto Bush - che le due parti rispetteranno
le loro promesse. Gli Stati Uniti assicureranno un meccanismo di controllo che
stabilirà chi le avrà violate”.
Ma le prime reazioni immediate di sdegno e di rabbia
offuscano queste attese e minacciano tempi duri. Sono quelle dei movimenti
della rivolta armata palestinese, in particolare di Hamas. “Non deporremo le
armi sino a quando non avremo liberato l’ultimo centimetro della terra di
Palestina”, ha detto il suo portavoce. D’altra parte, il Consiglio dei coloni
ebrei di Giudea e Samaria definisce “umiliante” il vertice di Aqaba, perché
premia il terrorismo arabo.
Per Radio Vaticana, Graziano Motta.
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Intanto sul terreno, a
Tulkarem, in Cisgiordania, un adolescente palestinese è morto oggi, dopo che
era rimasto ferito dieci giorni fa in scontri con i soldati israeliani.
Anche dall’Iraq giunge notizia
di un soldato statunitense ucciso e 5 altri rimasti feriti in un attacco a
Falloujah, 50 km a ovest di Baghdad. Sull’Iraq rimane poi aperta la polemica
sul mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa, col Parlamento
britannico e il Senato americano alle prese con inchieste per verificare l’esattezza
delle notizie che ufficialmente sono state il motivo della guerra contro Saddam
Hussein. Ma c’è chi avanza l’ipotesi di manipolazione, un’eventualità a cui
sono chiamati a rispondere sia il presidente americano Bush, sia il premier
britannico Blair. Ce ne parla Paolo Mastrolilli:
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Ieri il premier Tony Blair ha parlato alla Camera dei
Comuni, ribadendo che le armi c’erano e verranno trovate e difendendo
l’intervento militare. Quindi, un suo ministro ha accusato elementi deviati dei
servizi segreti di voler rovesciare l’esecutivo, passando notizie false ai
media. Nello stesso tempo però Blair ha rivelato che la Commissione
Intelligence e Sicurezza del Parlamento ha contattato il governo per aprire
un’inchiesta e lui ha promesso di collaborare.
La tensione sta salendo anche negli Stati Uniti, dove ieri
il ministero della Difesa e il dipartimento di Stato hanno smentito che un
gruppo di funzionari del Pentagono fosse stato incaricato di rivedere le
informazioni disponibili della Cia per cercare quelle utili a giustificare
l’attacco. Ma due Commissioni del Senato, quella specializzata
nell’Intelligence e quella che segue le forze armate, stanno valutando
l’apertura di audizioni pubbliche per fare chiarezza sulla questione. La stessa
Cia ha avviato un’indagine interna. Il Pentagono sta mandando in Iraq una nuova
squadra di circa 1400 specialisti per continuare la ricerca delle armi, mentre
gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica sono tornati
nel Paese per controllare i materiali radioattivi saccheggiati in alcune
centrali dopo la guerra.
Da New York, per la Radio Vaticana, Paolo Mastrolilli.
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Almeno 40 talebani e sei
soldati afgani sono rimasti uccisi vicino la città di Spin Boldak,
nell'Afghanistan meridionale, nel più grave scontro a fuoco da un anno a questa
parte. Le violenze sono avvenute mentre il presidente afghano Hamid Karzai sta
preparando l'incontro con il premier britannico Tony Blair, con il quale oggi
discuterà a Londra i diversi problemi della ricostruzione del Paese.
Non c’è tregua per il Caucaso,
dove oggi un attentato suicida ha provocato almeno 13 morti nell'Ossezia del nord.
Ma tensione si registra pure nella regione separatista dell’Abkhazia, in
Georgia. Sentiamo Roberto Piermarini:
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La violenza è tornata
stamattina a sconvolgere il Caucaso. Una donna-kamikaze si è fatta esplodere
contro un autobus nelle vicinanze di Mozdok, nella Repubblica autonoma russa
dell'Ossezia del nord, confinante con la
Cecenia, culla da anni di una sanguinosa lotta separatista. Tra le
vittime, alcuni ufficiali e delle donne che lavoravano come civili alla base
militare russa della città. L’attentato giunge dopo che, a maggio, in Cecenia
due attacchi suicidi erano stati rivendicati dalla guerriglia indipendentista
guidata da Shamil Basayev. Dal referendum del 23
marzo scorso, organizzato da Mosca per affermare l'appartenenza della Cecenia
alla Russia, c'è infatti stata una recrudescenza di attentati che hanno colpito
militari, politici e amministratori filo russi.
Nelle gole di Kodor, invece, in
una zona smilitarizzata tra l’autoproclamata Repubblica autonoma di Abkhazia e
la Georgia, sono stati sequestrati 3 osservatori della missione Onu in Georgia
(Monug) e il loro interprete. La missione delle Nazioni Unite è incaricata di
sorvegliare il cessate il fuoco tra Tbilisi e la regione separatista a
maggioranza musulmana, che dal ’92 rivendica la propria indipendenza. Ad
operare il sequestro sarebbe stato un gruppo locale dell’Abkhazia.
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La Russia consegnerà il proprio
combustibile nucleare all’Iran, anche se Teheran rifiuterà di firmare il
protocollo addizionale al Trattato di non proliferazione, che consentirebbe
ispezioni a sorpresa alle installazioni nucleari iraniane. Lo ha comunicato il
ministero degli Esteri russo, dopo che ieri Mosca aveva invitato le autorità
iraniane a siglare il documento.
I ministri europei dell’Interno, riuniti oggi a
Lussemburgo, hanno approvato l'inserimento del partito basco Batasuna nella
lista delle organizzazioni considerate come terroriste dall’Unione Europea. La
richiesta di inserire Batasuna nell'elenco è stata inoltrata dalla Spagna:
Madrid considera infatti questo partito come un'organizzazione politica
affiliata ai separatisti armati dell’Eta. Lo scorso 7 maggio, anche gli Stati
Uniti avevano inserito Batasuna nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Dalla settimana prossima a Pechino riapriranno
gradualmente cinema, teatri e altri locali pubblici, chiusi nei mesi scorsi per
l’epidemia di Sars. Secondo la stampa cinese, i locali che sono stati chiusi
per precauzione nella capitale sono circa 1.800. A Pechino dalla settimana
scorsa si è registrato un netto calo dei nuovi casi di infezione. A Hong Kong, invece, nelle ultime
24 ore una persona è morta per la polmonite atipica.
Anche l’Onu vuole vedere chiaro sulla vicenda della leader
dell’opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, arrestata la scorsa settimana
dall’esercito governativo. L’emissario delle Nazioni Unite, Razali Ismai, in
visita domani a Rangoon, chiederà di incontrare il Premio Nobel per la pace.
Italia. Il disegno di legge sull'immunità è passato al
Senato con 152 sì e 107 no. Ora il provvedimento torna all'esame di
Montecitorio: la Camera dovrà esaminare la novità introdotta dall'aula sulla
sospensione dei processi per le 5 alte cariche dello Stato, cioè il presidente della Repubblica, quelli del Senato e della
Camera, il presidente del Consiglio, il presidente
della Corte Costituzionale.
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