RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 47 - Testo della
Trasmissione di domenica 16 febbraio
2003
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI
IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
Anche i vescovi del Cile schierati a favore
della pace in un documento della Conferenza episcopale
Elezioni presidenziali in Cipro, mezzo milione di cittadini alle
urne.
16
febbraio 2003
LA
FEDELTA’ ALLE RADICI CRISTIANE DEL PASSATO
ACCANTO
ALLA LAICITA’ DELLA NUOVA UNITA’ EUROPEA,
PER
CONSENTIRE AL CONTINENTE DI PROMUOVERE LA GIUSTIZIA E LA PACE MONDIALI
-
Servizio di Alessandro De Carolis -
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Il
cristianesimo è la cifra spirituale europea. Sul suo basamento poggiano le
fondamenta del Continente che, per poter essere promotore di giustizia e di
pace nel mondo, deve restare unito “sui valori del proprio passato”, a partire
dalla nuova Costituzione che sta prendendo forma. All’Angelus di oggi, in
Piazza San Pietro, davanti ad alcune migliaia di persone radunatesi sotto la
finestra del suo studio, Giovanni Paolo II è tornato su un tema recentemente
oggetto di ripetuti appelli e considerazioni.
Sono due le figure - di cristiani, di pastori, di uomini
di cultura - che racchiudono in sé e nella loro opera il nucleo dell’identità
dell’Europa: i suoi patroni, i Santi Cirillo e Metodio, festeggiati lo scorso
14 febbraio. “Caratteristica del loro apostolato - ha ricordato il Papa - fu di mantenersi sempre fedeli sia al Romano
Pontefice che al Patriarca di Costantinopoli, rispettando le tradizioni e la
lingua delle genti slave. Li animava un profondo senso della Chiesa una, santa,
cattolica ed apostolica, mentre l'invocazione di Gesù "ut unum sint" costituiva la loro
divisa missionaria”. Ma non solo:
“L'eredità dei santi Cirillo e
Metodio è preziosa anche sotto il profilo culturale. La loro opera contribuì,
infatti, al consolidarsi delle comuni radici cristiane dell'Europa, radici che
con la loro linfa hanno impregnato la storia e le istituzioni europee”.
Sul
loro esempio, dunque - ha ribadito ancora una volta il Pontefice – non solo i
cristiani di Oriente e di Occidente “possano ricostruire la piena unità tra
loro”, ma quell’accento religioso, antico quanto la storia del continente, sia
riflesso anche nelle carte che oggi stanno codificando i principi politici
dell’Unione:
“Proprio per questo è stato
chiesto che nel futuro Trattato costituzionale dell'Unione Europea non si manchi
di far spazio a questo patrimonio comune dell'Oriente e dell'Occidente. Un
simile riferimento non toglierà nulla alla giusta laicità delle strutture
politiche, ma, al contrario, aiuterà a preservare il Continente dal duplice
rischio del laicismo ideologico, da una parte, e dell'integralismo settario,
dall'altra”.
“Uniti sui valori e memori del proprio passato - ha
concluso Giovanni Paolo II - i popoli europei potranno svolgere appieno il loro
ruolo nella promozione della giustizia e della pace nel mondo intero”. Nei
saluti in quattro lingue, al termine della preghiera mariana, il Papa si è
rivolto ai pellegrini spagnoli, londinesi, sloveni e italiani, tra i quali i
soci veneti e friulani dell’Associazione Nazionale Granatieri di Sardegna.
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I
RISCHI DELLE REAZIONI DEL MONDO MUSULMANO
DI
FRONTE AD UN EVENTUALE CONFLITTO IN IRAQ E L’IMPEGNO DELLE RELIGIONI
PER LA
PACE: INTERVISTA CON MONS. MICHAEL FITZGERALD
-
Servizio di Carla Cotignoli -
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Da più
parti, in questo tempo di incertezza e paura per i venti di guerra in Iraq, c’è
chi è ritornato a parlare del rischio di uno scontro di civiltà tra Occidente e
Islam. Dopo la giornata interreligiosa per la pace di Assisi del 24 gennaio
2002, rappresentanti delle diverse religioni si sono incontrati recentemente in
Vaticano per approfondire quali siano le “risorse spirituali delle religioni
per la pace”. Sono state prese in esame le sacre scritture delle diverse
religioni, tra le quali cristianesimo, ebraismo, islam, buddismo, induismo, sikhismo.
Sono state studiate non solo le pagine che parlano di pace, ma anche quelle che
possono dare adito a interpretazioni di conflitto. E’ stata ribadita l’urgenza
del dialogo a tutti i livelli tra le comunità delle diverse religioni. C’è
stato un intenso scambio di testimonianze dell’impegno per la pace in atto in
molti punti caldi del mondo.
Sulle gravi ripercussioni nei
rapporti tra cristiani e musulmani, che potrebbero nascere da un eventuale
conflitto in Iraq, e sull’impegno per la pace delle religioni, si sofferma, al
microfono di Carla Cotignoli, l’arcivescovo Michael Fitzgerald, presidente del
Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso.
R. - Non è una guerra contro
l’islam, ma credo rischi di essere interpretata in questo senso dalle popolazioni
di diversi Paesi a maggioranza musulmana, specialmente nel Medio Oriente, ma
non solo. Inoltre, vi potrebbero essere rappresaglie contro i cristiani, che
sono considerati come gli alleati delle potenze occidentali.
D. - Mons. Fitzgerald, dal suo
osservatorio privilegiato, può dire che siano in atto iniziative di pace tra le
comunità delle diverse religioni nel mondo?
R. – Si. Ad esempio, nell’ultimo
giorno dell’incontro interreligioso in Vaticano, abbiamo avuto delle
testimonianze. Una persona della cattedrale anglicana di Coventry, in
Inghilterra, subito dopo la guerra, quando questa Cattedrale è stata
bombardata, ha cominciato un ministero di riconciliazione e questo ministero
non è soltanto tra cristiani, ma anche si estende, per esempio, nei Paesi
balcanici alle comunità musulmane. Abbiamo avuto anche un’altra testimonianza
di un buddista della None Peace Foundation, che dà premi per la pace non
soltanto a buddisti, ma anche a diversi organismi religiosi: siano essi
buddisti, indù, cristiani, musulmani, purché operino per la pace. E’ un
incoraggiamento perché essa venga costruita. Ci sono diverse iniziative e sono
stati creati diversi consigli interreligiosi in Sierra Leone, che hanno fatto
un buon lavoro per avvicinare le diverse comunità di questo Paese che è stato
in guerra. La stessa cosa avviene a Sarajevo, in Bosnia. So che i capi
musulmani, ebrei, ortodossi e cattolici si incontrano e vogliono partecipare e
condividere la loro intesa anche a livelli dei sacerdoti, degli himam, dei
rabbini nel paese. Si potrebbe anche parlare di altre iniziative nelle
Filippine, o nel Pakistan. Si tratta di iniziative che si sforzano di tenere
unite insieme le diverse comunità.
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16
febbraio 2003
“IN THE WORLD”, FILM SUL SOGNO OCCIDENTALE DI DUE
PROFUGHI ORIENTALI, VINCITORE DELL’ORSO D’ORO AL 53.MO FESTIVAL DI BERLINO
-
Servizio di Giovanni Maria Del Re -
L’odissea di due profughi afghani all’inseguimento del
loro sogno di libertà: la storia raccontata dal film “In this world”, opera del
regista inglese Michael Winterbottom, è risultata la più gradita alla giuria
del 53.mo Festival del cinema di Berlino, che ha premiato il film con l’Orso
d’Oro. Orso d’argento come migliore protagonista femminile è andato ex aequo
alle tre attrici Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore, per la loro
interpretazione in “The Hours”. Miglior attore Sam Rockwell.
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“In this world” è un film che, fin dall’inizio del
Festival, aveva destato molta impressione, candidandosi alla vittoria dell’Orso
d’Oro. In effetti, il film ha conquistato e commosso la platea, che aveva a
lungo applaudito dopo la prima proiezione per l’intensità di quella che,
oltretutto, è una storia vera. La storia racconta di due profughi afghani,
Jamal e Anayatollah, che cercano asilo in Gran Bretagna e affrontano un
lunghissimo viaggio. Il regista racconta, passo dopo passo, l’autentica odissea
che i due affrontano attraverso Iran, Turchia, Italia e Francia, e le mille peripezie
che spesso mettono a repentaglio la loro stessa vita.
Winterbottom non ha mai fatto mistero di aver girato
questo film, anche e soprattutto, per risollevare l’attenzione del pubblico su
questa tragedia afghana. Una tensione troppo presto sgonfiatasi, per
l’incalzare di altre grandi crisi. Il film è piaciuto soprattutto per la grande
capacità di documentare senza essere documentario, e dunque di raccontare una
storia vera con spazio anche ad elementi di finzione, che però consentono allo
spettatore di entrare nell’intimo di questi due sventurati profughi, di dare
uno sguardo dietro a quanto ci avevano raccontato i grandi titoli dei giornali.
Da Berlino, per la Radio Vaticana, Giovanni Maria Del Re.
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RESTITUIRE
ALLA VITA I FIGLI DELLA VIOLENZA:
L’ESPERIENZA
MEDICO-PSICOLOGICA DI UN CENTRO SPECIALIZZATO
NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
-
Intervista con Colette Kitoga -
Bambini vittime di traumi, come lo sterminio
violento della propria famiglia. Minorenni con un fucile tra le mani, ai quali
è stato ordinato di combattere una guerra di cui non sanno nulla. Oppure donne,
ma anche bambine, cadute nella barbarie dello stupro sistematico. Squarci di
drammi ai quali, dal 1999, tenta di rispondere e di portare aiuto il centro
Mater Misericordiae, che sorge a Bukavu, nella Repubblica democratica del
Congo, nel cuore della martoriata regione del Kivu. Il Centro è stato fondato
ed è diretto da Colette Kitoga, medico-chirurgo e psicoterapeuta, laureatasi in
Italia all’Università Cattolica di Roma. Colette, assieme ai suoi
collaboratori, lavora sulle vittime del conflitto che dal 1996 sta sconvolgendo
il Paese. Francesca Sabatinelli l’ha intervistata:
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R. - Le persone di cui ci occupiamo sono tutte
vittime della guerra. L’85 per cento è formato dai bambini: ad esempio, bambini
che hanno assistito all’uccisione dei genitori. Ci sono anche bambini che hanno
assistito alla sepoltura di persone vive, bambine che sono state stuprate in
tenera età... Si tratta quindi di minori segnati. Tra i nostri assistiti vi
sono dei bambini soldato, e ci occupiamo anche delle donne stuprate: sono
tantissime, perché lo stupro è utilizzato come arma di guerra. Nell’est del
Congo, si usano uomini sieropositivi o con Aids conclamato: è considerato in
realtà un’arma biologica ...
D. - Chi sono i responsabili di tutto questo?
R. - I soldati di Rcd, che sono rwandesi, ma anche
congolesi: i cosiddetti ‘ribelli’, ma noi non sappiamo bene chi sia ribelle...
D. - Cosa sta accadendo nel suo Paese?
R. - La guerra ha trasformato la mia società. Temo
che, se ci sarà la pace, vi saranno anche delle vendette. Ci sono persone che
girano indisturbate, avendo ucciso e continuando ad uccidere. Ci sono questi
dell’esercito tutsi - tutsi rwandesi - venuti in Congo. C’è poi l’esercito
degli hutu, sparso nelle campagne congolesi ad est. Vi sono i superstiti
dell’esercito di Mobutu, e poi ancora i congolesi che si sono ribellati
all’arrivo dei rwandesi e ai massacri da essi compiuti ed hanno detto basta. E
ancora, i giovani che si sono ritirati nella foresta ed hanno formato
l’esercito della resistenza partigiana. C’è un banditismo diffuso...
D. - E’ possibile pensare ad una guarigione,
soprattutto per quanto riguarda i bambini?
R. - Una guarigione completa, ahimé, non so se sia
possibile. Comunque, abbiamo la speranza che questi piccoli riusciranno almeno
a vivere una vita quasi normale, perché dopo tre anni e mezzo riesco a vedere
un miglioramento. Queste persone non ridevano: adesso cominciano a sorridere.
E’ già un buon segno...
D. - Come lavorate per recuperare queste persone?
R. -
Abbiamo due ambulatori: uno di medicina generale ed uno di psicoterapia.
Curiamo tutte le malattie normali che si trovano nella zona, ma poniamo un
accento maggiore sulla psicoterapia. Questi bambini guariranno un giorno? Non
si sa. La loro guarigione completa dipende dal ritorno dei loro genitori, ma
questo non è possibile: quindi una loro guarigione completa non credo possa
ritenersi facile o probabile. Credo, però, che si riuscirà comunque a dare loro
un’esistenza la più somigliante possibile ad una normale. La cosa che abbiamo
cercato di fare, fin dall’inizio, è stata di consegnarli a famiglie
affidatarie, in modo che questi bambini possano crescere in famiglie nelel
quali esista una figura paterna ed una figura materna. Cerchiamo soprattutto di
affidarli a famiglie che abbiano un qualche legame con la famiglia del bambino
stesso, e se non c’è un legame familiare, che almeno siano della stessa tribù,
in modo che il bambino non si senta perso, ma ritrovi sempre gli usi ed i
costumi della sua tribù.
D. - Quanto è stato difficile e quanto è difficile
riuscire ad avere la loro fiducia?
R. - E’ un’impresa davvero! E’ stato molto
difficile all’inizio. Parlavo loro e non mi guardavano mai. Sembrava che
parlassi al muro. Poi, un giorno ho sorpreso due bambini che parlavano tra di
loro. Non mi avevano vista, e dicevano: “Gli adulti sono cattivi, fanno la
guerra, uccidono. Poi, ci prendono in giro dicendoci che ci vogliono bene!”. Ho
riunito il gruppo dei bambini che erano al Centro quel giorno ed ho chiesto
perdono a nome di tutti gli adulti. E da quel giorno i bambini hanno cominciato
ad avere fiducia in me.
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A ROMA, MOSTRA FOTOGRAFICA
SULL’AFGHANISTAN E IL PAKISTAN
- Intervista con Francesco Fossa -
Trentasei
istantanee, di visi soprattutto, che raccontano la vita quotidiana in
Afghanistan e Pakistan durante la guerra, all’indomani dell’11 settembre,
quando i riflettori del pianeta scrutavano quella parte del mondo. Sono le
immagini della mostra fotografica del giornalista Francesco Fossa, intitolata
“Con la cenere negli occhi”, in corso fino al 20 febbraio nella Sala Giubileo
di Palazzo Valentini a Roma. “Sono fotografie nate dall’esigenza di immortalare
quei particolari che mi avevano colpito e che nemmeno l’operatore televisivo
più bravo era in grado di cogliere”, ha osservato l’autore, intervistato da
Dorotea Gambardella:
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(musica)
“Quando
Allah ebbe fatto il resto del mondo, vide che gli era rimasta una quantità di
materiale di scarto che non si adattava a nessun posto. Raccolse tutti questi
residui e li gettò sulla terra. E quello fu l’Afghanistan”. Recita così una
didascalia tratta dal libro “Talebani” di Ahmed Rashid e scelta da Francesco Fossa
per la sua mostra intitolata “Con la cenere negli occhi”. Per pochi Paesi al
mondo come per l’Afghanistan vale l’affermazione che è la geografia a
determinare la storia, la politica, la natura di un popolo. Il Paese orientale
è uno dei corridoi del mondo: crocevia di religioni, di civiltà, di imperi, di
razze, di arti. Una miniera di storia umana, sepolta nella terra di
Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat e Balkh. Da Alessandro il Macedone ai
mongoli, ai russi, agli inglesi nell’800, questa terra è sempre stata la posta
di un gran gioco. Basta guardare Kabul e ciò che ne è rimasto: la Fortezza è
una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il baazar
una distesa di tende e baracche. I mausolei, le cupole, i templi sono sventrati.
Il primo bombardamento nella storia dell’aviazione inglese, nel 1919, colpì
Kabul e sulla popolazione civile. Secoli, prima, gli afghani avevano conosciuto
una memorabile vendetta di Gengis Khan, quando i mongoli sgozzarono ogni essere
umano e sradicarono tutti gli alberi e le piante. Al loro posto per centinaia
d’anni, i grandi Buddha scolpiti nella roccia, ma già spogli dell’oro originale
che li ricopriva, hanno avuto la definitiva distruzione ad opera dei talebani:
una vendetta contro la “comunità internazionale” che si rifiutava di
riconoscerli come i legittimi governanti dell’Afghanistan. Oggi non vi è più
nulla, solo desolazione e polvere. La stessa che vela gli occhi dei volti
immortalati dagli scatti di Fossa.
R. - Si
tratta per lo più di persone ritratte nel loro vivere quotidiano, che spesso ti
guardano con occhi velati. Questo velo non è soltanto metaforico, è anche
reale. Chi è stato in Afghanistan, o nelle zone del nord del Pakistan, sa che
c’è sempre nell’aria questo pulviscolo, sottile come cipria, che ti disturba, è
sempre con te e filtra tutto. Probabilmente si sedimenta anche nell’anima di
queste persone, attraverso poi le esperienze tragiche che queste popolazioni
hanno vissuto nei secoli.
D. - La
didascalia di una foto recita che oggi 70 bambini su 100 in Afghanistan non si
fidano più degli adulti. Perché?
R. -
Non c’è bambino afghano che non abbia vissuto un lutto. Quindi, ci sono
famiglie che sono rette da mamme, oppure dove il capo famiglia è un mutilato di
guerra. I bambini giocano, ma sono anche costretti ad aiutare dove manca
l’uomo, il capo famiglia. Quindi, sono costretti ad inventarsi subito grandi,
in una realtà dove il quotidiano è una sopravvivenza. Immagino che in queste
condizioni si faccia fatica poi ad avere fiducia in chi invece dovrebbe
coccolarti o proteggerti.
D. - Tu
sei un giornalista televisivo: che cosa ti ha spinto a scattare queste foto?
R. - Ho
cominciato ad usare la macchina fotografica quando mi sono reso conto che anche
se lavoravo con il più sensibile, il più bravo degli operatori di ripresa,
spesso non riuscivo a cogliere quel dettaglio che mi aveva colpito. E quindi la
fotografia è stata un’esigenza, una spinta a voler cogliere per il mio archivio
intimo quelle situazioni che andavo a vivere.
(musica)
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IN UN
LIBRO, L’ESPERIENZA RELIGIOSA
E LA
CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO DI MARSHALL MCLUHAN,
L’INVENTORE
DEL “VILLAGGIO GLOBALE”
-
Intervista con il prof. Giampiero Gamaleri -
Escono in Italia le riflessioni sulla religione del
massmediologo canadese Marshall McLuhan, celebre in tutto il mondo per i suoi
studi sulla comunicazione e per aver formulato la teoria del “villaggio
globale”. Nel libro La luce e il mezzo, pubblicato da Armando Editore,
sono raccolte lettere personali e interviste che raccontano l’avventura della
sua conversione dal protestantesimo al cattolicesimo e, più in generale, il suo
approccio al cristianesimo. Ma qual è il cuore della riflessione di McLuhan
sulla religione? Debora Donnini lo ha chiesto a Giampiero Gamaleri, docente di
comunicazioni di massa, che ha curato la prefazione del libro.
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R. - Credo che i momenti sacramentali, che McLuhan non
menziona mai esplicitamente, siano quelli sui quali lui ha più appuntato la sua
attenzione: quelli nei quali la comunicazione con Dio, per esempio attraverso
l’Eucaristia, diventa poi comunicazione tra i fratelli. E questo senso della
comunicazione della Chiesa come esperienza vitale è quello che ha colpito
McLuhan e che ha segnato il suo passaggio. La sua conversione al cristianesimo
e al cattolicesimo passa attraverso una esperienza di comunità.
D. - Il celebre
motto di McLuhan “il mezzo è il messaggio” vuol dire che i mezzi di
comunicazione cambiano la società molto più del loro stesso contenuto. Questa
affermazione di McLuhan, prof. Gamaleri, come viene applicata al cristianesimo?
R. - Se il
cristianesimo è un’esperienza vitale, se il cristianesimo significa
praticamente una sequela a Cristo, come è stato per gli apostoli lasciar tutto
e andare con lui, ecco che il mezzo per gli apostoli era semplicemente
percorrere una strada con i sandali, nella sabbia, dietro di Lui. Il mezzo era
seguirlo dietro la barca quando andavano a pescare. Questo era il mezzo, ed era
il messaggio. Tanto è vero che gli apostoli il messaggio l’hanno capito molto
più tardi, dopo essere stati fedeli al mezzo per tanto tempo, che era
semplicemente convivere con Gesù. In questo senso credo che la Chiesa, anche
nel Concilio Vaticano II, di cui significativamente McLuhan è stato uno dei
consultori, abbia tracciato delle strade molto importanti per far capire come,
ad esempio, tutta l’esperienza liturgica parli di per sé. Che cosa significa?
Significa che il mezzo per arrivare all’esperienza religiosa passa attraverso
la gestualità, la vita, e questo diventa poi messaggio.
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16
febbraio 2003
CON
UNA RIUNIONE STRAORDINARIA DEL COMITATO MILITARE DELLA NATO
È
RIPRESA OGGI LA MARATONA NEGOZIALE AL QUARTIER GENERALE DI BRUXELLES
PER
SBLOCCARE LO STALLO SUGLI AIUTI MILITARI ALLA TURCHIA
BRUXELLES.
= Riunione domenicale per la Nato, oggi, al quartier generale di Bruxelles nel
tentativo di sbloccare lo stallo sugli aiuti militari alla Turchia. L’obiettivo
strategico dell’Alleanza è quello di trovare una formula di compromesso che
aggiri, con il consenso anche di Parigi e Berlino, il veto franco-tedesco sulle
difese da garantire alla Turchia in caso di guerra all’Iraq. All’incontro, non
partecipa la Francia, ma la novità è la proposta di compromesso avanzata dal
Belgio, che si è unito ai governi di Parigi e Berlino nel veto alla decisione
di avviare i piani militari per la difesa della Turchia. La proposta del
premier belga, Guy Verhofstadt, subordina la concessione di questi aiuti al
fatto che la Nato precisi che essi saranno unicamente di natura difensiva e che
non implicano una qualche partecipazione dell'Alleanza alla guerra contro
l'Iraq. La soluzione che sembra profilarsi è quella di pianificare l'invio in
Turchia di missili Patriot, aerei-radar Awacs e unità per la difesa chimica e
batteriologica sulla base di misure bilaterali. Allo studio, è un particolare meccanismo
decisionale che consenta, soprattutto a Parigi, di realizzare una sorta di
quadratura del cerchio: sbloccare la Nato senza controfirmare l'avvio di una
pianificazione militare in Turchia. (A.L.)
IN PIÙ DI 600 MANIFESTAZIONI PER LA PACE, I COLORI
DELL’ARCOBALENO
HANNO
AVVOLTO OLTRE 70 PAESI DEL MONDO
CONTRO
L’IPOTESI DI UNA GUERRA IN IRAQ
- A
cura di Amedeo Lomonaco -
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ROMA. =
In oltre 70 Paesi del mondo, ieri, milioni di persone hanno manifestato per le
strade contro un eventuale intervento militare in Iraq. Lo hanno fatto
scegliendo un’arma su tutte: i colori dell’arcobaleno. E’ stata la più grande
catena umana per la pace che si sia mai svolta, soprattutto in Europa. “La Cnn
ha detto che in tutto il mondo stanno manifestando per la pace 110 milioni di
persone: una cifra che neanche noi ci saremmo immaginati”. Con questo annuncio,
lo speaker di Piazza San Giovanni ha fatto esplodere ieri un lungo applauso tra
la folla presente a Roma per l’appuntamento pacifista. “No alla guerra senza se
senza ma. Fermiamo la guerra in Iraq”, recitava il grande striscione che ha
aperto il corteo promosso dal Forum sociale europeo, che ha dichiarato il 15
febbraio “Giornata europea contro la guerra”. Una sentita e fortemente
simbolica manifestazione per la pace si è svolta a New York, a poche centinaia
di metri dalla sede dell’Onu. A Baghdad, sono sfilati due cortei, per un totale
di un milione di partecipanti, secondo le fonti ufficiali. L'entità della
mobilitazione è stata confermata da immagini diffuse dalla televisione
irachena, che dalle prime ore del pomeriggio ha trasmesso le riprese dei cortei
in altre capitali. Circa un milione persone si è radunato ad Hide Park, a
Londra. A Parigi, i dimostranti si sono riuniti nella Piazza della Bastiglia,
dove il connubio delle parole pace e libertà ha accompagnato lo sventolio di
migliaia di bandiere. A Berlino, oltre 500 mila persone hanno formato due
cortei, partiti uno da est e l’altro da ovest, che si sono riuniti nel centro
della città. Si è trattato della più grande protesta, in Germania, dalla caduta
del Muro. Nei Territori palestinesi, centinaia di persone hanno marciato per le
strade di Ramallah, malgrado la pioggia battente ed il freddo. Manifestazioni
di protesta contro un’eventuale guerra in Iraq si sono svolte anche a Tel Aviv,
in Israele. Ed anche oggi più di 200 mila persone hanno manifestato a Sydney
dando inizio ad una seconda giornata di proteste. (A.L.)
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NEL
CLIMA DI CRISI LEGATO ALLE TENSIONI NEL GOLFO PERSICO,
SI È
SVOLTA IERI POMERIGGIO A GINEVRA LA CONFERENZA SULL’IRAQ.
LE
DELEGAZIONI DEI PAESI PARTECIPANTI HANNO DISCUSSO SULLA PREVENZIONE
DELLA
CATASTROFE UMANITARIA IN CASO DI CONFLITTO
GINEVRA. = Sull’onda della
crisi irachena si è riunita, ieri pomeriggio a Ginevra, la conferenza
umanitaria dedicata alla crisi del Golfo Persico. Diversi esponenti della
comunità internazionale si sono concentrati sulla prevenzione della catastrofe
umanitaria che il conflitto provocherebbe. Alla Conferenza, organizzata dalla
Svizzera, non hanno partecipato gli Usa ed intorno al tavolo di coordinamento
sono intervenuti anche i 21 rappresentanti delle organizzazioni internazionali
invitate. Anche l’Iraq non ha partecipato alla Conferenza perché, secondo i
promotori elvetici, avrebbe politicizzato l’avvenimento. La conferenza di
Ginevra ha anche cercato di definire le modalità di coordinamento e di
intervento della comunità internazionale sul piano umanitario. All’incontro
hanno partecipato i delegati dei quattro Paesi membri permanenti del Consiglio
di sicurezza dell’Onu, Francia, Cina e Russia e Gran Bretagna, gli Stati confinanti
con l’Iraq, Iran, Giordania, Kuwait, Siria, Arabia Saudita, Turchia e la
Grecia, che attualmente detiene la presidenza di turno dell’Unione Europea.
Presenti anche le principali organizzazioni internazionali, tra cui le agenzie
delle Nazioni Unite, la Federazione Internazionale della Croce Rossa e della
Mezzaluna Rossa. (A.L.)
I VESCOVI CILENI SCHIERATI A FAVORE DELLA PACE,
CONTRO
L’INSENSATEZZA DELLA GUERRA. LA CRISI IRACHENA AFFRONTATA IN UN DOCUMENTO DELLA
CONFERENZA EPISCOPALE LOCALE
SANTIAGO. = “Di fronte all’inquietante minaccia di una
guerra in Iraq, la Chiesa cilena è in piena sintonia con il Santo Padre e ne
condivide le iniziative volte alla difesa della pace”. Inizia così il documento
ufficiale della Conferenza episcopale cilena, intitolato Vogliamo un mondo di pace e pubblicato mercoledì scorso. “La Chiesa
è consapevole che un conflitto tra Stati Uniti ed Iraq minerebbe la stabilità a
livello mondiale, alimentando una spirale di violenza dalle conseguenze
imprevedibili”, spiegano i vescovi. “Urge pertanto annunciare il Vangelo della
pace ad una umanità fortemente tentata dall’odio e dalla violenza. Ciò vuol
dire non rassegnarsi ad una guerra inevitabile, anche perché il Papa insiste a
riconoscere nell’altro un fratello che va amato senza condizioni. Solo il
cammino del dialogo e della riconciliazione porta alla pace”. Per ottenere
questo risultato, sostengono i presuli cileni, “dobbiamo chiedere ai
rappresentanti del popolo di farsi interpreti della nostra volontà di fronte al
Consiglio delle Nazioni Unite. Al tempo stesso rivolgiamo un appello a tutti i
fedeli e alle persone di buona volontà: uniamoci in preghiera con il Santo
Rosario”. Il documento chiude con un invito: “Manifestiamo pubblicamente la
nostra adesione alla pace, attraverso le forme e le iniziative più varie,
frutto della fantasia di ciascuno”. (A.L. – D.D.)
QUASI MEZZO MILIONE DI CIPRIOTI OGGI ALLE URNE
PER
ELEGGERE IL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
NICOSIA.
= Quasi mezzo milione di ciprioti hanno cominciato ad affluire alle urne, questa
mattina, per eleggere il presidente della Repubblica: un nuovo capo di Stato che
avrà il cruciale incarico - prima dell'adesione di Cipro all'Unione Europea
prevista per l'anno prossimo - di negoziare una riunificazione dell'isola,
divisa dal 1974 in seguito ad un'invasione militare turca. Il voto dei 480 mila
aventi diritto potrà spaziare in una lista di dieci candidati. Tra i favoriti,
oltre al presidente uscente Glafcos Clerides, vi è Tassos Papadopoulos, leader
della coalizione di opposizione di centrosinistra. Se al primo turno nessuno
raggiungerà il 50 per cento dei voti più uno, andranno al ballottaggio - il prossimo
23 febbraio - i due candidati che avranno ottenuto più voti. Le urne chiudono
alle 21 di questa sera. Clerides, leader storico della destra cipriota, è
considerato tra i più quotati per portare a termine i colloqui con il leader
turco cipriota Rauf Denktash sulla riunificazione. Dopo l'invasione turca del
1974, l'isola di Cipro è divisa in due zone, con quella a nord sotto controllo
turco. (A.L.)
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