RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 37 - Testo della
Trasmissione di giovedì 6 febbraio 2003
IL PAPA E LA SANTA SEDE:
In
udienza dal Papa il presidente della Repubblica del Kazakhstan, Nazarbayev.
Solenne rito in
memoria del Beato Pio IX domani pomeriggio nella Basilica di San Lorenzo al
Verano.
OGGI IN PRIMO PIANO:
CHIESA E
SOCIETA’:
No ad un
conflitto in Iraq, dal Consiglio Mondiale delle Chiese.
Un milione e mezzo di
esiliati afghani torneranno in patria nel 2003.
Powell all’Onu: Saddam
viola le risoluzioni Onu e ha legami con Al Qaeda.
Terrorismo: nuovi
arresti in Gran Bretagna.
Costa d’Avorio: il
presidente Gbagbo in Ghana per discutere della crisi del proprio Paese.
Le Farc fanno saltare
in aria il principale oleodotto della Colombia.
6 febbraio 2003
UN SEGNO CHE LO SPIRITO DI DIO GUIDA LA
CHIESA VERSO LA PIENA UNITA’:
COSI’
IL PAPA HA ACCOLTO LA DELEGAZIONE DEL SANTO SINODO
DELLA
CHIESA ORTODOSSA SERBA, IN VISITA IN VATICANO.
APPELLO
DEL METROPOLITA AMFILOHIJE: UNA NUOVA GUERRA
CONTRO L’IRAQ SAREBBE UNA NUOVA VERGOGNA PER
L’UMANITA’
E’ con
“profonda gioia” che il Papa ha accolto questa mattina i membri della Delegazione
del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Serba. Sin dalle prime battute ha
evidenziato il “grande significato” di questa visita a Roma e dell’odierno
incontro che - ha sottolineato - “si realizza all’inizio del terzo millennio”.
Un avvenimento - ha detto - che “colma di speranza tutti noi”, “un segno che lo
Spirito di Dio guida la Chiesa verso il ristabilimento della piena unità”. Il
metropolita ortodosso Amfilohije, nell’indirizzo di saluto al Papa ha lanciato
un appello ai potenti: “una nuova guerra contro l’Iraq sarebbe una nuova
vergogna per l’umanità”. Il servizio è di Carla Cotignoli:
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Il Papa
non ha ignorato “le indicibili sofferenze” delle popolazioni dei Balcani”, provocate
dai conflitti che hanno contrassegnato gli anni ’90: “Purtroppo - ha detto -
non sono mancate ingiustizie e i loro autori non hanno esitato a ricorrere alla
strumentalizzazione dei sentimenti e dei valori religiosi e patriottici per ferire
più in profondità il loro prossimo”.
E qui
il Santo Padre ha richiamato il ruolo svolto dalle Chiese in quegli anni
difficili: “Non sono venute meno - ha ricordato - al compito di richiamare
tutte le parti in causa alla pace, al ristabilimento della giustizia e al
rispetto dei diritti di ciascuna persona, prescindendo dalla sua appartenenza
etnica o credenza religiosa”. “La Santa Sede - ha aggiunto - senza
fraintendimenti e con imparzialità ha spesso levato la sua voce, ed io
personalmente non ho mancato di farlo prima e durante le azioni che hanno in
particolare colpito la popolazione del vostro Paese nel 1999”. Qui il
riferimento è ai bombardamenti della Nato.
Un
recente passato questo che - ha riconosciuto il Papa - “ha lasciato non poca
confusione nei giudizi e tanta sofferenza in chi ha subito lutti e ha dovuto
abbandonare tutto ciò che possedeva”. Di qui il nuovo compito affidato alle
Chiese:
“Esse
debbono alleviare le comuni sofferenze, curare le ferite e promuovere quella
purificazione delle memorie, da cui sgorgherà un sincero perdono e una fraterna
collaborazione”.
E non
poche - ha rilevato con soddisfazione - sono le iniziative già intraprese in
tal senso. Il Papa ha poi affrontato la questione dell’identità cristiana
dell’Europa, che “talora sembra essere messa in discussione” nell’attua-le
processo di trasformazione del continente. Un’identità ha detto - “plasmata
nelle sue radici dalle due tradizioni occidentale ed orientale”. E qui il Papa
ha dato ampio riconoscimento all’apporto della Chiesa ortodossa:
“La
vostra Chiesa nel corso dei secoli, anche tra non piccole avversità, si è impegnata
per la diffusione del Vangelo nel popolo Serbo, contribuendo in tal modo alla
promozione dell’identità cristiana dell’Europa”.
Giovanni
Paolo II ha sottolineato la
perseveranza e fedeltà alla tradizione apostolica e “la forte impronta
culturale” impressa nella società serba. “Un’eredità - ha aggiunto - che non
appartiene soltanto a voi. Di essa sono fieri anche tutti gli altri cristiani”.
L’auspicio è che “l’Europa trovi i mezzi appropriati per preservarla ovunque
essa è fiorita e cresce”.
E qui
le parole del Papa si sono trasformate in preghiera per implorare la forza di
continuare a percorrere il cammino di fraternità intrapreso “con fiducia,
pazienza e coraggio”. Come aveva già fatto in apertura del discorso, ha
invitato la delegazione a trasmettere i suoi cordiali e fraterni saluti al
Patriarca Pavle e a tutta la loro Chiesa.
I
saluti di Sua Santità il Patriarca della Chiesa ortodossa serba e di tutto il
Santo Sinodo erano stati portati al Papa dal capo-delegazione, il Metropolita
del Montenegro Amfilohije, nell’indirizzo rivolto al Santo Padre. Anche il
Metropolita aveva espresso l’urgenza
“di un dialogo sincero e senza fraintendimenti, nell’umiltà e fede nella
provvidenza divina”. “Abbiamo bisogno - aveva detto - di uno scambio delle
esperienze per poter affrontare i problemi di oggi”. Ha poi lanciato un appello
per la pace in Iraq. “La nostra Chiesa e il nostro popolo che è stato
sottoposto a 7 guerre solo nel XX secolo e che ancora soffre portando le ferite
profonde, soprattutto nel Kosovo”:
“Invoca
insieme con Vostra santità i potenti della terra, specialmente gli Stati Uniti
e Alleati di non entrare nella nuova guerra, questa volta, contro l’Iraq.
Questa nuova guerra sarebbe una nuova sconfitta per tutti, una nuova vergogna
per l’umanità intera e non soltanto una umiliazione e distruzione del popolo
onesto iracheno”.
Nel
corso dei secoli, a causa dell’invasione dei musulmani turchi, più volte il
patriarcato ortodosso è stato soppresso. Questa Chiesa annovera 9 milioni di
fedeli. Conta 32 diocesi di cui 4 in Nordamerica, 2 nell’Europa occidentale e 2
in Australia e Nuova Zelanda. 4 sono i seminari e una facoltà teologica per la
formazione del clero.
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IN UDIENZA DA GIOVANNI
PAOLO II
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CENTRO ASIATICA DEL KAZAKHSTAN
- Servizio di Roberta Gisotti -
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Per la quarta volta a colloquio con il Papa, Nursultan
Nazarbayev, presidente del Kazakhstan, è tornato stamane in Vaticano
accompagnato dalla moglie e dal seguito, a due anni dalla visita che Giovanni
Paolo II ha compiuto nell’immensa Repubblica ex sovietica, nel cuore dell’Asia,
in un momento tanto delicato per gli equilibri di pace nel mondo, era il settembre
del 2001, poco dopo gli attentati alle Torri gemelle di New York. Grande nove
volte l’Italia, più esteso dell’Unione Europea, il Kazakhstan è popolato da
appena 15 milioni di abitanti, terra cerniera fra due Continenti, ponte fra
culture eurasiatiche, circa cento le etnie sparse sul territorio, per quasi
metà kazaki, ma anche uzbeki, tatari e numerosi russi, ucraini, tedeschi, polacchi.
Dopo il lungo inverno del comunismo ateo il Kazakhstan conta oggi circa 8
milioni di musulmani sunniti, vi sono poi
6 milioni di ortodossi, ed una piccola minoranza di 300 mila cattolici.
Non pochi i problemi in una realtà così composita: negli ultimi 10 anni, conquistata
la libertà di movimento, c’è stata una forte emigrazione delle popolazioni
ebree e di origine europea e si è consolidata pure la presenza kazaka nei
livelli di potere più alti, mentre specie nel sud si sono accesi focolai del
fondamentalismo islamico.
Nazione ricchissima di risorse naturali, anzitutto il
petrolio, di cui esistono grandi giacimenti vicino al Mar Caspio, il Kazakhstan
è ancora oggi uno Stato poverissimo nella lista dei cosiddetti Paesi del terzo
mondo.
E proprio al presidente Nazarbayev la storia ha assegnato
il difficile e delicato compito di traghettare il Kazakhstan nel terzo
millennio. Personalità di spicco già all’epoca sovietica, vicino a Gorbaciov,
Nazarbayev - eletto due volte capo di Stato dopo l’indipendenza proclamata nel
‘91 - ha saputo accompagnare le riforme
democratiche del suo Paese, oggi membro delle Nazioni Unite, ed impegnato a
conquistare un ruolo positivo nel consesso internazionale. Proprio ieri il
presidente Nazarbayev ricevuto dalle autorità italiane, ha vantato lo
smantellamento dell’imponente arsenale atomico ereditato dall’Unione Sovietica
- oltre 1100 missili balistici - sotto la supervisione dell’Onu. Nazarbayev ha
offerto anche la disponibilità del suo governo per una eventuale mediazione
sulla crisi irachena, osservando che il
Kazakhstan ha “annullato più armi nucleari di quante ne potrebbe avere
l’Iraq”.
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Nel
corso della mattinata, Il Papa ha ricevuto in udienza il cardinale Crescenzio
Sepe, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
Sempre questa mattina, il Santo Padre ha ricevuto due
presuli della Conferenza episcopale del Brasile, in visita “ad Limina”.
PUBBLICATO IL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
PER LA
QUARESIMA: UN FORTE INVITO AI CREDENTI
AD
APRIRSI ALLA MISERICORDIA E ALL’AMORE VERSO IL PROSSIMO
DOPO AVER OPERATO LA CONVERSIONE PERSONALE
-
Servizio di Giovanni Peduto -
Il Messaggio del Papa è stato presentato stamani, nella
Sala Stampa della Santa Sede, dall’arcivescovo Paul Josef Cordes in qualità di
presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, assieme al segretario del
dicastero, mons. Karel Kasteel, e a don Oreste Benzi, fondatore
dell’Associazione “Papa Giovanni XXIII”.
Il tema è una citazione dagli Atti degli Apostoli, una
frase di Gesù Cristo, che non si trova nei Vangeli e che ci è stata trasmessa
dall’apostolo Paolo: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Sappiamo tutti
che la Quaresima è il tempo della preparazione al Triduo Pasquale e noi la
pratichiamo tramite il digiuno e le opere di misericordia, l’aiuto per i
poveri, che ci sono sempre vicini, qui a Roma e in altre città, ma sono anche
lontani. E noi dobbiamo anche preoccuparci dei poveri lontani per aiutarli, per
portar loro un messaggio di consolazione concreta. Il Papa insiste su questo
aiuto concreto. E questo aiuto concreto è una lotta contro il nostro proprio
egoismo. L’aiuto non deve essere solo una teoria, ma dobbiamo praticarlo. Per
questo, ogni aiuto, ogni digiuno, ogni opera di misericordia ha la sua
dimensione materiale. Ascoltiamo l’arcivescovo Cordes.
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Esiste una frase che fa ridere, ma è molto vera: il
portafoglio è la parte più sensibile del corpo. Ci fa male dare dei soldi. E
per questo è importante esercitare la carità verso i poveri. San Paolo scrive a
Timoteo una frase molto profonda: “L’attaccamento al denaro è la radice di
tutti i mali. Per il loro sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e
si sono da se stessi tormentati con molti dolori”. Una frase che, veramente, va
riflettuta. D’altra parte non dobbiamo farci ingannare dal materialismo
praticato dalla nostra società, con il limitarci solamente a fare collette, e
versare contributi in denaro.
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Il Papa ci apre infatti ad una dimensione più profonda e
cita Sant’Agostino: “Solamente Dio, il Sommo Bene, è in grado di vincere le
miserie del mondo. La misericordia e l’amore verso il prossimo devono pertanto
sgorgare da un rapporto vivo con Dio”. Il Papa con Sant’Agostino mette al
centro del nostro pensiero Dio, il Sommo Bene. Ci chiama, dunque, alla
conversione. Dobbiamo metterci nella luce di Cristo, confrontarci con Cristo
che ha sofferto per i nostri peccati …
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Ciò vuol dire prepararci alla Confessione, ricevere il
sacramento della Confessione. Questa è una vera preparazione per la Pasqua, che
non è solo qualcosa di esteriore. Non dobbiamo solo dare qualcosa, ma noi
stessi. Scrive il filosofo Hegel una frase molto importante: “La vera essenza
dell’amore consiste nell’abbandonare la coscienza di sé, dimenticare se stessi
in un altro sé. E tuttavia possedere se stessi proprio nel trascurarsi e nel
dimenticarsi”. Fin qui Hegel. Penso che se seguiamo queste idee del Santo Padre
sperimenteremo veramente che vi è più gioia nel dare che nel ricevere.
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Giovanni Paolo II è il primo a dare esempio concreto e
fattivo di carità verso i poveri tramite il Pontificio Consiglio Cor Unum da
lei presieduto, eccellenza. Vogliamo illustrare ai nostri ascoltatori come ciò
avviene?
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Sì, sono stato in gennaio, nel mese scorso, in Vietnam,
per esempio. Ho visitato varie comunità religiose e diverse parrocchie. Mi
potevo muovere liberamente. Abbiamo portato un po’ di soldi e di aiuto a questo
popolo così sofferente a causa della dittatura, a causa della mancanza di
libertà. Ma assieme al denaro che si poteva inviare tramite assegni, abbiamo
portato soprattutto la sensibilità e la compassione del Santo Padre. Per noi è
molto importante che la miseria venga alleviata non solo con la dimensione materiale,
ma si superi la miseria grazie alla sensibilità personale, grazie a dei
contatti. Così la mancanza di libertà può essere sofferta, ma anche superata
grazie a questo sentimento della Chiesa universale, questa realtà che dà aiuto
e dà forza.
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Da dove provengono i fondi di Cor Unum, con i quali il
Papa aiuta persone e popolazioni bisognose?
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Vengono dai benefattori. Molti vengono dalla Conferenza
episcopale italiana, dalla Cei, ma anche da tante persone singole e dalle
Congregazioni religiose. Io volentieri colgo questa occasione per dire che noi
viviamo della generosità degli altri.
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Ed ora qualche cifra indicativa circa gli aiuti devoluti
da Cor Unum nel corso di un anno, per esempio nel 2002?
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Io direi intorno ai 7-8 milioni di dollari, vuol dire 7-8
milioni di euro all’anno. Noi abbiamo sempre come scopo quello di dare un segno
della compassione, dell’aiuto del Papa.
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Nel corso della conferenza stampa, grande emozione ha
suscitato la testimonianza di don Oreste Benzi, che ha parlato delle sue case
di accoglienza delle prostitute, dei drogati e di tutti gli abbandonati nella
strada. Ed ecco ora un’antologia delle principali affermazioni che egli ha
fatto e che hanno suscitato commosso entusiasmo tra i giornalisti: “Se un
bambino rimane senza famiglia, gli devo dare la risposta di cui lui ha bisogno,
gli devo dare cioè una famiglia. Se un anziano rimane solo, devo metterlo nelle
condizioni in cui egli possa continuare a svolgere la sua missione, anche se
malato gravissimo: non posso difendermi da lui emarginandolo; devo farlo vivere
in una famiglia. In una parola, ai poveri, agli ultimi devo dare la risposta di
cui essi hanno bisogno e non la risposta che fa comodo all’establishment
di quelli che stanno bene. E’ necessario rimuovere le cause che creano
l’ingiustizia e l’emarginazione: non si possono solo assistere le vittime,
bisogna impedire di farle. La carità non può coprire i problemi ma li deve
risolvere. Non ci si può limitare a versare lacrime sugli affamati: è necessario
smascherare chi affama. Ancora: con il gemellaggio tra Nazioni fortemente
sviluppate e quelle che non lo sono, si può rimuovere l’ingiustizia
distributiva tra i popoli. Nella condivisione scompaiono i delitti eretti a
sistema e si crea così la civiltà dell’amore”.
DAL PAPA IN UDIENZA, IL
PROSSIMO 14 FEBBRAIO,
IL
VICEPREMIER IRACHENO, TAREK AZIZ
- A
cura di Alessandro De Carolis -
Sarà una data importante, nel quadro dell’attuale crisi
tra Stati Uniti e Iraq, quella del 14 febbraio. Giovanni Paolo II riceverà in
Vaticano il vicepremier dell’Iraq, Tarek Aziz, che ha esplicitamente
sollecitato tale udienza.L’annuncio ufficiale è stato dato ieri pomeriggioIdal
direttore della Sala stampa della Santa Sede, Joaquin Navarro Valls. “Il vice
primo ministro del governo dell’Iraq signor Tarek Aziz – è detto testualmente –
ha chiesto di essere ricevuto dal Papa. Il Santo Padre riceverà in udienza in
vaticano il signor Tarek Aziz il giorno 14 di febbraio”. Ma già ieri lo stesso
Aziz, in un’intervista rilasciata a Baghdad agli inviati di due quotidiani francesi,
aveva dichiarato di aver domandato di persona udienza al Papa e di aver
ottenuto “immediatamente una risposta positiva”.
La visita del vicepremier iracheno in Vaticano non è
inedita. E lunga è anche la storia dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e
l’Iraq. Era il 10 ottobre 1966 - durante il pontificato di Paolo VI e sotto la
presidenza irachena del generale Abdul Rahman Arif - quando tra le due Parti
vennero stabilite formali relazioni a livello di ambasciate, con il pro nunzio
apostolico in Iraq, mons. Maurice Perrin. Il Paese del Golfo Persico diveniva
così il quarto Stato arabo ad avviare un dialogo con la Santa Sede. Ma la
figura di delegato apostolico nel Paese mediorientale esisteva già dal 1855:
faceva parte della più ampia delegazione apostolica cosiddetta della “Grande
Armenia e Mesopotamia”.
SOLENNE RITO IN MEMORIA DEL BEATO PIO IX DOMANI POMERIGGIO,
NELLA
BASILICA DI SAN LORENZO AL VERANO
In
occasione della memoria liturgica del Beato Pio IX, una solenne celebrazione
avrà luogo domani pomeriggio, alle ore 16.30, nella cripta della Basilica
romana di San Lorenzo al Verano. E’ lì infatti che è sepolto il grande
Pontefice di Senigallia, Giovanni Maria Mastai Ferretti, che governò la Chiesa
per 32 anni, dal 1846 al 1878, e che è stato beatificato da Giovanni Paolo II
insieme a Giovanni XXIII durante il Grande Giubileo, il 3 settembre 2000.
Come riferisce in un comunicato il postulatore della causa
di canonizzazione, mons. Brunero Gherardini, la solenne Liturgia sarà
presieduta dall’arcivescovo Francesco Marchisano, vicario generale del Papa per
la Città del Vaticano. La Cappella “Giulia” della Patriarcale Basilica Vaticana
eseguirà i canti liturgici, sotto la direzione del maestro mons. Pablo Colino.
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C'è più gioia nel dare che nel
ricevere (At 20,35)" è il titolo che apre la prima pagina, in
riferimento al Messaggio di Giovanni Paolo II per la Quaresima.
"Tra le mani ruvide e
callose la corona del Rosario" è il titolo del pensiero di Marco Tonacini
Tami dedicato all'Anno del Rosario.
Sempre in prima, riguardo
all'Iraq, si rileva che la relazione del Segretario di Stato Usa non convince i
membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.
Una notizia sull'Uganda, dal
titolo "450.000 bambini sono stati rapiti dai ribelli dell'Lra nel
2002".
Nelle pagine vaticane, nel
discorso alla Delegazione del Santo Sinodo del Patriarcato Ortodosso di Serbia,
il Papa ha invitato a ricercare e a promuovere ogni forma di collaborazione,
che permetta agli ortodossi ed ai cattolici di dare insieme una vivida e
convincente testimonianza della loro comune tradizione.
Nel cammino della Chiesa in
Italia, articoli sulle attività ed iniziative pastorali realizzate nelle
Diocesi.
Nelle pagine estere, Medio Oriente:
otto palestinesi e due israeliani uccisi in diversi episodi di violenza.
Corea del Nord: il regime di
Pyongyang riattiva gli impianti nucleari.
Nella pagina culturale, un
contributo di Paolo Miccoli dal titolo "Rosario Assunto e le estetiche del
'900": un convegno a Roma in ricordo del filosofo.
Nelle pagine italiane, in primo
piano i temi del lavoro e della giustizia.
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LE “PROVE” DEL “PERICOLO” IRACHENO
PRESENTATE
IERI DA COLIN POWELL AL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL’ONU
-
Intervista con Alberto Negri -
Se l’agenda internazionale che sta scandendo i tempi dei
difficili rapporti tra l’Onu, l’Iraq e gli Stati Uniti guarda al prossimo 14
febbraio - giorno, come ricordato, dell’udienza di Tarek Aziz dal Papa ma anche
giorno della presentazione, alle Nazioni Unite, del secondo rapporto degli
ispettori incaricati di verificare il disarmo iracheno - il Palazzo di Vetro
riecheggia ancora delle accuse rivolte ieri a Saddam Hussein dal segretario di
Stato americano, Colin Powell, davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Secondo l’amministrazione statunitense, le autorità di Baghdad non avrebbero
mai smesso di nascondere armi, di ingannare gli ispettori internazionali, di
proteggere i terroristi. Un intervento, quello di Powell, da ritenere una sorta
di dichiarazione di guerra anticipata? Giada Aquilino ha rivolto la domanda
all’inviato speciale in Iraq del Sole 24 ore, Alberto Negri, raggiunto
telefonicamente nella capitale irachena:
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R. - Ho l’impressione che si sia trattato di un grande
show, anche “mediatico”, nel senso che gli americani hanno dato una
dimostrazione molto dettagliata delle loro capacità di intelligence,
cercando di dimostrare che l’Iraq è un Paese da considerare bersaglio di un
conflitto. Ma credo che la reazione generale, soprattutto di una parte della
comunità internazionale, sia stata questa: da una parte, chi era già convinto
della colpevolezza irachena è rimasto convinto; dall’altra, chi non lo era non
è stato ancora convinto ad aprire la strada ad un conflitto armato. Forse,
semplicemente perché la parte mancante nel discorso di Powell è stata quella di
dimostrare se l’Iraq sia davvero un Paese ancora pericoloso.
D. - Powell ha mostrato foto, intercettazioni, una
provetta. Quanto valgono queste prove?
R. - Valgono nella misura in cui agli ispettori sia data
la possibilità di recarsi nei luoghi da sottoporre a controllo e di capire
effettivamente se tali prove riguardino attività passate del governo di Baghdad
o se costituiscano invece la continuazione di programmi rivolti al futuro.
Ricordiamoci che l’Iraq ha già avuto per anni le ispezioni dell’Onu: ispezioni
che in qualche modo avevano contribuito a distruggere una gran parte degli
armamenti del Paese. D’altra parte, gli ispettori, per quello che hanno
prodotto sinora le verifiche, non si può dire abbiano trovato un arsenale
davvero pericoloso. Soprattutto, bisogna capirne l’entità, perché un missile o
una testata non possono rappresentare certamente un pericolo di fronte a quelli
che sono invece gli arsenali di tutti gli altri Paesi del Medio Oriente.
D. - Quanto potrebbero essere veri i legami attuali tra Al
Qaeda e l’Iraq?
R. - Ieri, mentre Powell stava parlando, mi trovavo di
fianco all’ufficio di Tarek Aziz, il quale poi è uscito e ha detto:
“Respingiamo qualunque legame con Al Qaeda, perché non solo sono contrari alla
nostra politica e alla nostra ideologia, ma anche a tutte le nostre idee di una
società”. Ed ha aggiunto anche che l’Iraq non aveva mai riconosciuto il regime
dei talebani. Dall’esterno, poi, abbiamo avuto dei riscontri piuttosto
contraddittori, perché gli stessi servizi segreti britannici hanno detto che
questi legami non esistono. Inoltre, vanno ricordate le dichiarazioni che fece
Blair all’indomani degli attentati negli Usa: “In questa storia dell’11
settembre, Saddam Hussein non c’entra nulla”.
D. - Da quello che hai potuto vedere in questi giorni, lì
a Baghdad, la popolazione si aspetta una guerra?
R. - Io direi di sì. La gente di Baghdad sta preparandosi
in qualche modo e ci sono i segnali: scavano pozzi nei cortili delle case per
procurarsi l’acqua, che poi diventerà sicuramente il bene più prezioso in caso
di un attacco che distrugga le infrastrutture delle città. E poi, soprattutto,
c’è una gran fila all’ufficio passaporti di gente che cerca di andarsene. Si
conserva la speranza di poter evitare la guerra, ma credo che gli iracheni
abbiano la sensazione di essere di fronte ad una resa dei conti finale.
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6 febbraio 2003
RIFIUTARE LA GUERRA COME MEZZO DI
RISOLUZIONE DELLE CRISI INTERNAZIONALI:
E’ IL RICHIAMO DEL CONSIGLIO MONDIALE DELLE
CHIESE CHE, IN UNA DICHIARAZIONE DIFFUSA IERI A BERLINO,
HA
RIBADITO CON FORZA IL NO DELLE CHIESE CRISTIANE AD UN CONFLITTO IN IRAQ
BERLINO. = Una via pacifica per risolvere la crisi
irachena: a chiederlo con forza alla comunità internazionale sono i membri del
Consiglio Mondiale delle Chiese, riunito ieri a Berlino. In una dichiarazione
diffusa al termine dell’incontro, i capi delle Chiese cristiane, protestanti e
ortodosse, ribadiscono la propria preoccupazione per le minacce di guerra che
aleggiano sul Golfo Persico. Il Consiglio “deplora il fatto che le più potenti
nazioni del mondo considerino nuovamente accettabile il ricorso alla forza
quale mezzo di politica estera”, giacché determina una “cultura internazionale
di paura e insicurezza”. Rifiutando l’ipotesi di una guerra preventiva, i
membri dell’organismo ecumenico esortano il Consiglio di sicurezza dell’Onu a
“preservare i principi della Carta delle Nazioni Unite che limitano fortemente
l’uso della forza”. D’altro canto, viene definita “immorale” una guerra volta a
“cambiare il governo di uno Stato sovrano”. Secondo i capi delle Chiese
cristiane, l’uso della forza è un “mezzo inappropriato per raggiungere il
disarmo dell’Iraq”. Le ispezioni, prosegue, “devono avere il tempo necessario
per completare il proprio lavoro”. Nella dichiarazione, tuttavia, non si
tralascia di ribadire che ogni Stato membro delle Nazioni Unite deve
rispettarne le risoluzioni. “L’ Iraq - affermano - non può essere
un’eccezione”. In tale contesto, si esorta il governo iracheno a distruggere
ogni arma di distruzione di massa. L’Iraq, affermano ancora, deve cooperare pienamente
con gli ispettori dell’Onu, “garantendo il pieno rispetto dei diritti umani dei
suoi cittadini”, sotto il profilo civile, politico, economico, sociale e
culturale. “Il popolo dell’Iraq - dichiarano - deve avere la speranza di poter
avere alternative alla dittatura e alla guerra”. Una guerra, avvertono, che
“avrebbe delle conseguenze umanitarie insostenibili”, non esclusa “una guerra
civile”. I membri del Consiglio esprimono quindi solidarietà al popolo
iracheno, afflitto da un embargo lungo ormai 12 anni. Nella dichiarazione viene,
infine, messo l’accento sulle conseguenze nefaste che il conflitto potrebbe
innescare nel Medio Oriente. L’escalation di violenza, affermano, potrà solo
“esacerbare l’odio, rafforzando le ideologie estremiste e generando ulteriore
instabilità e insicurezza a livello globale”. Di qui, il richiamo
dell’organismo ecumenico ai membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu,
affinché utilizzino ogni mezzo diplomatico per risolvere pacificamente la
crisi. (A.G.)
I TEMI DELLA COLLEGIALITA’ E DELLA
SINODALITA’ IN PRIMO PIANO NELL’ODIERNA GIORNATA DI LAVORI ALLA XV ASSEMBLEA
PLENARIA
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DELL’AFRICA
DELL’OVEST, IN CORSO A BAMAKO NEL MALI
- A
cura di padre Joseph Ballong -
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BAMAKO. = Proseguendo i lavori della XV Assemblea plenaria
a Bamako, i membri della Conferenza episcopale regionale dell’Africa dell’Ovest
francofona hanno trattato giovedì i temi della collegialità e sinodalità, con
una relazione del segretario generale padre Barthelemy Adoukonou, il quale ha
tentato una rilettura africana del Motu proprio apostolus suos,
pubblicato nel 1998 da Giovanni Paolo II, sulla natura teologica e giuridica
delle Conferenze episcopali. I vescovi hanno ugualmente discusso della riforma
degli statuti della loro Conferenza e della sua unione con la Conferenza
sorella anglofona. Mercoledì pomeriggio, dopo aver parlato dell’estensione
dell’Università cattolica in vari Paesi dell’Africa dell’Ovest, i vescovi hanno
ascoltato un messaggio dell’Unione dei religiosi, religiose e persone
consacrate dell’Africa dell’Ovest (Urcao). Infatti i superiori e le superiore
maggiori di questa Associazione hanno avuto dal 2 al 5 febbraio scorso, qui a
Bamako, l’Assemblea generale, che è stata preceduta da un Forum sulla vita
consacrata, soprattutto sulla spiritualità della Comunione, con più di 250
partecipanti. Nel loro messaggio, il Forum e l’Assemblea generale dei superiori
e delle superiore maggiori, ribadiscono la loro volontà di manifestare in seno
alle Chiese particolari l’amore di Dio e operare alla crescita di una
Chiesa-famiglia, che manifesti sempre di più il dono della comunione tra tutti
i membri. I religiosi, religiose e persone consacrate dichiarano anche la loro
volontà di contribuire all’emergenza di una nuova società fondata sui valori
evangelici e, in particolare, sulla carità. Esprimono la loro particolare
simpatia ai pastori della Costa d’Avorio, duramente provata da una situazione
di crisi molto preoccupante. I religiosi hanno ugualmente mandato un messaggio
di solidarietà e di sostegno alle persone consacrate dello stesso Paese.
Giustamente la preoccupante situazione della Costa d’Avorio, i frequenti
episodi di violenza in Nigeria, e il conflitto nella Repubblica democratica del
Congo, sono stati mercoledì sera oggetto di un lungo dibattito e di scambi di
informazione. La cinquantina di vescovi che partecipano a queste assisi hanno
deciso un certo numero di iniziative per contribuire ad una soluzione della
crisi in Costa d’Avorio. Queste iniziative saranno precisate prima della chiusura
dell’Assemblea domenica prossima.
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DOSSIER DELLA RIVISTA “POPOLI” SULLA CHIESA
CATTOLICA IN GIAPPONE
IN
OCCASIONE DELL’ANNIVERSARIO DEL MARTIRIO DI SAN PAOLO MIKI:
500
MILA I FEDELI, CHE COMPONGONO UNA COMUNITA’ VISIBILE E RISPETTATA
MILANO.
= I cattolici in Giappone sono 500 mila su 126 milioni di abitanti: una
"esigua minoranza", ma "molto visibile e molto rispettata",
e soprattutto "profondamente radicata nella fede cattolica e nella cultura
giapponese". E’ il ritratto dei cattolici in Giappone tracciato da
"Popoli", il mensile internazionale della Compagnia di Gesù, che in
occasione dell’anniversario dei martiri giapponesi (il 6 febbraio 1597 venivano
martirizzati a Nagasaki Paolo Miki e gli altri suoi 25 compagni) dedica un
"dossier" al Paese che è stato teatro di una "persecuzione feroce"
di cui sono state vittime, oltre ai martiri di Nagasaki, altri 700 martiri
riconosciuti ufficialmente, per non citare le migliaia di "cattolici senza
nome". "Cos’è rimasto oggi - si legge nel dossier - del loro esempio
e di una Chiesa nata con una spinta formidabile, vissuta per oltre due secoli
nella paura e nel nascondimento", e dove il cristianesimo è stato messo al
bando fino al 1954? "La rappresentatività e l’influenza della Chiesa
cattolica - sottolinea la rivista - va oltre i propri numeri. Le celebrazioni
del matrimonio, come quelle dei funerali, hanno in Giappone un’ampia
popolarità. In questo Paese, dove soltanto lo 0,3 per cento della popolazione è
ufficialmente cattolica e un altro 0,5 per cento appartiene a varie
denominazioni cristiane, la maggior parte dei partecipanti a matrimoni o
funerali cristiani sono non battezzati". Sono soprattutto le scuole cattoliche,
fa notare "Popoli", che fanno della Chiesa cattolica "una realtà
molto visibile e molto rispettata": il 90 per cento degli adulti che
ricevono il battesimo hanno avuto il primo contatto con Cristo e la sua Chiesa
attraverso la scuola, molto presente anche nel settore sociale. In Giappone,
informano infatti i gesuiti, i cattolici gestiscono 234 nidi d’infanzia, 192
case per anziani, 90 centri sociali per i senzatetto o per altri servizi,
soprattutto nelle zone più abbandonate nelle periferie delle grandi metropoli.
(M.A)
NEL 2003, UN MILIONE E MEZZO DI AFGHANI IN ESILIO
TORNERA’
NEL PROPRIO PAESE:
E’
QUANTO ANNUNCIATO DALL’ALTO COMMISSARIATO DELLE NAZIONI UNITE
PER I
RIFUGIATI
GINEVRA.
= L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) stima che un
milione e mezzo di afghani attualmente in esilio rientrerà entro il 2003 nelle loro
case. Lo ha detto Filippo Grandi, capo missione per l'Afghanistan dell'organismo
dell’Onu “Siamo partiti - spiega Grandi - con un numero enorme di afgani in
esilio all'estero o sfollati all'interno del Paese, 5-6 milioni di persone nel
2001”. Più di 2 milioni di queste sono
rientrate alla fine del 2002. L’Onu, ha proseguito “prevediamo, ma sono solo
previsioni, che nel corso del 2003, quando comincerà la stagione del rimpatrio,
in primavera, 1 milione e mezzo di afgani rientreranno nelle proprie case”. I
profughi si trovano soprattutto in due Paesi: il Pakistan (1 milione e 800 mila
circa) e l'Iran (2 milioni); a questi devono aggiungersi circa mezzo milione di
sfollati all'interno dell'Afghanistan. Per quanto riguarda la sicurezza dei
convogli umanitari - un problema sempre attuale, dopo alcuni recenti agguati e
la minaccia di attentati con mine sistemate sotto i veicoli - Grandi sottolinea
che la vigilanza e' sempre massima e che, comunque, ''nella grande maggioranza
del Paese non c’è questa emergenza”. A questo riguardo, con particolare
riferimento al ruolo che potrebbero esercitare i militari italiani presto in
azione nella zona calda di Khost, il capo missione dell'Acnur ha detto di “sperare vivamente” che contribuiscano a
portare la pace. “Siamo molto contenti - ha proseguito - che il Governo
italiano abbia acconsentito di inviare questo contingente”. (A.G.)
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6 febbraio 2003
- A cura di Giada Aquilino-
Il regime di Saddam Hussein viola le risoluzioni dell'Onu,
in particolare la 1441, ed è in possesso di armi di distruzioni di massa.
Questo in sintesi il senso dell’intervento del segretario di Stato americano, Powell, ieri al
Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma di fronte alla forti accuse di
Washington all’Iraq, al momento i Paesi-chiave della crisi
rimangono sulle rispettive posizioni: Francia, Russia e Cina
- membri permanenti del Consiglio, con diritto di veto - chiedono che il lavoro
degli ispettori delle Nazioni Unite prosegua e venga rafforzato. La Germania è
spaccata: il governo invoca più tempo per le verifiche, mentre l'opposizione si
dice soddisfatta del discorso di Powell sulla minaccia irachena. Ma esaminiamo
i passaggi dell’intervento di Powell, col servizio da New York:
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L’ex
generale ha parlato per circa un’ora e mezza, usando foto satellitari,
telefonate registrate e rivelazioni di informatori della Cia. Le foto
mostravano presunti depositi di armi chimiche attivi, bulldozer che spianavano
il terreno per occultare le prove, camion che trasportavano via materiali
vietati e banchi di prova per missili a lunga gittata, proibiti dalle risoluzioni
Onu. Powell ha denunciato anche la presenza di laboratori mobili per sfuggire
ai controlli degli ispettori. Quindi, ha fatto sentire conversazioni tra
militari iracheni che discutevano su come nascondere documenti e materiali agli
inviati del Palazzo di Vetro.
Il
segretario di Stato ha detto che i cilindri di alluminio importati di recente
servono ad arricchire uranio per bombe atomiche. Quindi, ha ribadito che Saddam
protegge un gruppo terroristico vicino ad Al Qaeda, che ha un laboratorio per
armi chimiche nel nord del Paese. Baghdad ha definito il discorso uno show con
effetti speciali ma pieno di bugie e ha promesso di confutarlo con una lettera
del ministro degli Esteri iracheno all’Onu. Powell ha detto che le sue
informazioni dovrebbero convincere il Consiglio di sicurezza ad agire, ma
Mosca, Parigi, Pechino e Berlino continuano a frenare. E il segretario generale
dell’Onu Annan ha ribadito che il conflitto non è inevitabile, ma la chiave è
la collaborazione di Baghdad.
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''La Turchia non sta entrando in guerra''. Lo ha
dichiarato in una conferenza stampa il premier turco Abdullah Gul aggiungendo
che ''ci sono ancora possibilità'' per una soluzione pacifica della crisi
irachena. ''Quello che facciamo oggi è finalizzato a dare un'ultima possibilità
alla pace'', ha aggiunto il premier turco riferendosi alla scelta del governo
di Ankara di far discutere oggi in Parlamento il decreto per la modernizzazione
delle basi aeree e dei porti, ma di rinviare al 18 febbraio i decreti per
l'ammissione di soldati americani e quello per l'invio di truppe turche nel
nord dell’Iraq.
Oltre all’Iraq, c’è un altro fronte che preoccupa la
diplomazia statunitense: i difficili rapporti con la Corea del Nord. La crisi,
che dura ormai da quattro mesi, si è aggravata nelle ultime 48 ore, in seguito
ad un duro scambio di battute tra Washington e Pyongyang. Ce ne parla Maurizio
Pascucci:
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La Corea del Nord minaccia di non riconoscere più
l’autorità del Consiglio di sicurezza se il massimo organo delle Nazioni Unite
non si muoverà per sedare l’aggressività degli Stati Uniti. Questa è la
risposta di Pyongyang alle dichiarazioni del segretario alla Difesa americano,
Rumsfeld, secondo cui la macchina militare degli Stati Uniti sarebbe in grado
all’occorrenza di impegnarsi su due fronti, con riferimento all’Iraq e alla
Corea del Nord. A sua volta la minaccia americana è scattata in seguito ad un
comunicato ufficiale del ministero degli Esteri nordcoreano, in cui si annuncia
l’operatività a pieno regime della centrale nucleare di Yongbyon. Il documento
assicura che per il momento il sito, chiuso nel ’94, sarà impegnato al solo
scopo di produrre energia elettrica. Tuttavia gli esperti americani respingono
tale ipotesi, suggerendo che il reattore di Yongbyon è di dimensioni troppo
ridotte per generare una quantità di energia rilevante. Il timore è che il vero
fine di Pyongyang sia quello di riprendere la produzione di plutonio idoneo per
ordigni nucleari.
Maurizio Pascucci, per la Radio Vaticana.
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Nuova retata contro il
terrorismo a Londra, Manchester, Edimburgo e Glasgow: sette gli arresti. Si
tratta di sei uomini e di una donna, accusati di reati legati al terrorismo.
Dall'inizio di gennaio le autorità britanniche sono in stato di allerta, dopo
aver scoperto tracce di ricina in varie zone di Londra, tra cui la moschea di
Finsbury Park.
Dieci persone - otto palestinesi e due israeliani -
hanno perso la vita nel corso di scontri a fuoco avvenuti nelle ultime 24 ore
nei Territori. L'episodio più cruento è avvenuto la scorsa notte nel rione dei
Samaritani, a Nablus, dove due palestinesi tentavano di penetrare armati in un
avamposto militare. Sul piano politico, intanto, il presidente israeliano
Katzav ha invitato il leader laburista Mitzna ad entrare in un governo di unità
nazionale guidato dal leader del Likud, Ariel Sharon.
Torna la violenza in Colombia. Un commando delle Forze
Armate Rivoluzionarie ha fatto esplodere il principale oleodotto del Paese.
L’esplosione, avvenuta ad Arauquita, nella parte nord orientale della Colombia,
ha provocato la fuoriuscita di petrolio nelle acque di un torrente. Circa
settanta marines americani proprio in questi giorni stavano addestrando un
reparto dell'esercito colombiano per la difesa dell’oleodotto.
Riapertura del mercato dei
cambi con un bolivar svalutato e prezzi calmierati per i generi di prima
necessità. Con queste misure, in vigore dalla mezzanotte, il presidente del
Venezuela Hugo Chávez cerca di far fronte alla crisi economica che affligge il
Paese, nel tentativo di proteggerlo dalle speculazioni finanziarie. Il
pagamento del debito estero - ha detto il capo dello Stato - sarà la priorità
della politica economica.
Il
presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, tenta il tutto per tutto per
cercare di risolvere la crisi che attanaglia il Paese dal settembre scorso. Il
capo dello Stato è infatti volato ieri ad Accra: il collega ghanese Kufour è
alla guida della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale.
Sentiamo Giulio Albanese:
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Sul tavolo della discussione ci sono stati i contestati
accordi di Parigi, sui quali Gbagbo si ostina a mantenere il più assoluto
riserbo. A quasi due settimane dall’intesa da parte di tutti i protagonisti
dello scenario politico ivoriano, compresi i ribelli, i sostenitori di Gbagbo
non vogliono davvero saperne e rifiutano l’intesa, nonostante i ripetuti
appelli internazionali a tenere fede agli impegni presi. In attesa che sia lo
stesso capo di Stato ivoriano a sciogliere i dubbi, il Paese sembra andare
sempre più a rotoli. Con l’arrivo in Costa d’Avorio, annunciato ieri, di 450
nuovi soldati intanto si rafforza ulteriormente il contingente militare
francese. Il numero dei soldati coinvolti nell’operazione Unicorno in Costa
d’Avorio supera ormai le 3 mila unità.
Per la Radio Vaticana, Giulio Albanese.
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Violenti scontri interetnici sono avvenuti nei
giorni scorsi nell’est della Repubblica democratica del Congo, tra due tribù
divise da tempo: i Bembe del sud Kivu ed i Babuyu della zona di Maniema. I
primi avrebbero costretto i secondi ad abbandonare la loro regione, per trovare
rifugio più a sud: in possesso di mitragliatrici ed armi pesanti, avrebbero
ucciso un numero imprecisato di uomini, donne e bambini, incendiato campi,
edifici e capanne, distrutto tutti gli allevamenti. Le Nazioni Unite hanno annunciato
l’invio di una commissione d’inchiesta.
La
Nasa mette in dubbio l'ipotesi che a provocare la disintegrazione del Columbia,
sabato scorso al rientro nell'atmosfera, sia stato l'impatto di un blocco di
schiuma isolante, staccatosi dal serbatoio principale al momento del decollo e
andato poi ad urtare contro l'ala sinistra o il vano carrello della navetta.
Intanto vanno avanti le indagini sulle cause della tragedia, rese però
difficili dai tanti frammenti raccolti in Texas e in Louisiana e attribuiti
erroneamente allo Shuttle.
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