RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno XLVII n. 237 - Testo della
Trasmissione di lunedì 25 agosto 2003
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI
IN PRIMO PIANO:
CHIESA
E SOCIETA’:
Tragedia
in India: l’esplosione di due bombe ha causato, questa mattina, la morte di
almeno 41 persone
Uccisi
dai soldati israeliani, nella Striscia di Gaza, due esponenti di primo piano di
Hamas
In un attentato perpetrato ieri a Najaf, in
Iraq, sono state uccise tre persone ed è rimasto ferito il capo del Supremo consiglio
per la rivoluzione islamica in Iraq.
25
agosto 2003
RICEVUTI
DAL PAPA A CASTEL GANDOLFO ALCUNI VESCOVI D’EGITTO,
IN
VISITA “AD LIMINA”
Il Papa ha ricevuto questa mattina nella residenza
pontificia di Castel Gandolfo cinque vescovi di rito copto della Conferenza
episcopale d’Egitto, in visita “ad Limina”.
Gli stessi presuli, stamani, hanno celebrato la Santa
Messa in Vaticano, sulla tomba di San Pietro. Ha presieduto la celebrazione Sua
Beatitudine Stephanos II Ghattas,
Patriarca di Alessandria dei Copti.
IL TERZO VIAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II IN
SLOVACCHIA, IN SETTEMBRE:
VISITA
AD UNA CHIESA APERTA, DOPO L’ISOLAMENTO COMUNISTA
-
Intervista con mons. Piero Marini -
Una Chiesa che guarda all’Europa dopo la tragedia della
persecuzione sovietica. Una Chiesa che parla di perdono e di riconciliazione
con il passato, attraverso la storia e l’eroismo di due suoi martiri presto
beatificati. E’ questa la realtà della Slovacchia, a 20 giorni dalla terza
visita di Giovanni Paolo II nel Paese europeo. Alessandro De Carolis ha chiesto
al vescovo Piero Marini, maestro delle cerimonie pontificie, quale sia il
significato spirituale della prossima visita apostolica:
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R. – Mi pare che questa occasione del viaggio in Slovacchia voglia essere
un gesto di significativa riconoscenza ed attenzione da parte del Papa nei
confronti di un popolo che ha molto sofferto. E la sofferenza patita sotto il
regime comunista e totalitario è anche espressa dalla beatificazione di questi
due figli della Chiesa slovacca, il vescovo Basile-Hopko e suor Zdenka
Schelingová, i quali hanno testimoniato attraverso il carcere la loro fede.
D. – Cosa insegna, secondo lei, il loro martirio ad
una nazione che ora guarda all’Europa unita?
R. – In questo momento, lei mi
fa ricordare quelle parole che diceva suor Zdenka durante la sua vita e nel
momento della morte: ‘Il perdono è la cosa più grande della vita”. Questo per me è il
messaggio che lasciano entrambi alla loro nazione e che lasciano a tutto il
mondo, se si vuole progredire verso un futuro di pace. Se guardiamo la realtà
di questi giorni nel mondo, ci convinciamo sempre di più che se non c’è il
perdono non si riesce a guardare con speranza verso il futuro.
D. – Che Chiesa trova oggi il Papa
in Slovacchia?
R. – In Slovacchia, trova una
Chiesa “aperta” nel senso che la Chiesa slovacca è sempre stata una Chiesa
isolata durante il periodo del regime totalitario. Quando c’è stata la caduta
del muro, ha potuto riannodare i suoi contatti con le altre Chiese vicine, con
l’Europa, e quindi è una Chiesa rimasta con una sua identità. Nonostante tutte
le persecuzioni, la Chiesa della Slovacchia, che guarda verso l’Europa, è una
comunità alla ricerca dei valori cristiani che per tanti anni sono stati un po’
soffocati. E mi pare che tale apertura sia il simbolo, oggi, della situazione
in Slovacchia. Inoltre, è una Chiesa che è rimasta molto legata, nelle sue
devozioni, alla Madonna. Lì ci sono tanti santuari: anche durante la visita del
Papa, si celebrerà la Messa del Santissimo nome di Maria. E’ evidente che questa devozione mariana sia stata il punto
di riferimento, durante gli anni della persecuzione. Va anche detto che la
Slovacchia è una nazione che durante tutti questi anni ha sempre mostrato un grande amore per il Papa. Questi sono i
punti che emergono nella spiritualità di questa Nazione e che la rendono molto
unita a noi nella fede e che la proiettano anche nel futuro dell’Europa con
queste due prospettive.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
“Riconoscere esplicitamente nel
Trattato le radici cristiane dell’Europa, principale garanzia di futuro” è il
titolo che apre la Prima Pagina in riferimento all’Angelus di domenica nel
quale Giovanni Paolo II ha rivolto il suo pensiero all’attuale proces-so di
integrazione europea e, in particolare, al ruolo determinante delle sue
istituzioni. A seguire, Repubblica Democratica del Congo: sacerdote ucciso dai
miliziani di etnia Lendu nella provincia dell’Ituri. India: è di 41 morti e 120
feriti il bilancio provvisorio di un attentato a Bombay.
Nelle pagine vaticane, una
pagina dedicata all’omelia di mons. Angelo Scola, patriarca di Venezia per il 25.mo dell’elezione di Papa Giovanni
Paolo I e l’omelia di mons. Giuseppe Verucchi, arcivescovo di Ravenna per
l’80.mo anniversario dell’uccisione di don Minzoni. Una pagina dedicata al
Meeting di Rimini.
Nelle pagine estere, Medio Oriente: quattro morti ad Gaza
per attacco di elicotteri israeliani mirato contro i miliziani di Hamas; l’Ap
cerca una nuova tregua e fa appello al Quartetto. Liberia: ripresi gli attacchi
dei ribelli del Lurd nella città nororientale di Bahn: il governo denuncia
centinaia di vittime. Rwanda: al voto per le prime elezioni presidenziali dopo
il genocidio del 1994. Iraq: l’Onu studia la trasformazione della coalizione in
“guppo unilaterale” a propria guida; la Croce Rossa riduce le attività e il
personale; gli Usa sono contrari alla risoluzione proposta dal Messico sulla
tutela personale dell’Onu: fragile calma a Kirkuk dopo i violenti scontri; una
bomba provoca vittime nella moschea di Najaf: ancora morti tra i soldati
americani; De Mello, vittima dell’attentato alla sede delle Nazioni Unite a
Baghdad, sarà sepolto nel sacrario dell’Onu nel cimitero di Ginevra. Russia:
decine di morti in combattimenti in Cecenia. Tre morti per l’esplosione di tre
bombe a a Krasnodar, nella Russia meridionale. Colombia: sanguinoso attentato a
Puerto Rico attribuito dal governo alle Farc che chiedono un incontro con il
segretario dell’Onu.
Nella pagina culturale, un articolo sulla mostra di
Paul Signac a Martigny e un ricordo di Carlo Laurenzi scritto da Manlio
Cancogno.
Nelle pagine italiane, continuano
nel Milanese le ricerche dell’assassino che venerdì ha ucciso quattro persone
tra cui una bimba di due anni. A seguire i temi dell’economia, del rischio
blackout e del maltempo
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25
agosto 2003
UN
SEGNO DI PACE DALLA BOSNIA ERZEGOVINA: IL PONTE DI MOSTAR
UNISCE
DI NUOVO LE POPOLAZIONI SULLE DUE SPONDE DEL FIUME NERETVA
- Intervista con Maria Rita Saulle
e don Ante Komadina -
Simbolo
di convivenza tra i popoli, ferito dalla guerra fratricida in Bosnia ed
Erzegovina, il ponte di Mostar torna ora ad unire le due sponde sul fiume
Neretva. La distruzione del capolavoro architettonico del XVI secolo - l’8
novembre del 1993 - era drammaticamente assurta a simbolo della violenza del
conflitto nei Balcani. Venerdì scorso, la ricostruzione dello “Stari Most” - il
ponte vecchio voluto da Solimano il Magnifico - che dà anche il nome alla città
di Mostar, è entrata nella sua fase finale con la posa della pietra di volta.
Un momento di portata storica, salutato festosamente da centinaia di cittadini.
Evento, che riporta in primo piano l’attenzione sulla regione balcanica. Ecco
al microfono di Alessandro Gisotti una riflessione della prof.ssa Maria Rita
Saulle, docente di Diritto internazionale all’Università La Sapienza di Roma:
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R. –
Ritengo che questo evento sia molto importante, anche perché proprio dal punto
di vista simbolico e storico le popolazioni avevano indicato, al termine della
guerra nel 1995, l’abbattimento di questo ponte come una delle catastrofi della
guerra.
D. – Secondo lei, i popoli che vivono in questo territorio
stanno camminando in modo convinto sulla strada della pacificazione e della
ricostruzione di un tessuto sociale lacerato dalla guerra?
R. – Un elemento è che ormai, grazie alla globalizzazione,
non c’è più un popolo che possa dirsi separato dagli altri. Dall’altra parte
c’è anche la volontà da parte della Bosnia Erzegovina di entrare a far parte
dell’Unione Europea. Queste aperture fanno ben sperare in senso positivo. Non
si può però immaginare che tutto avvenga così come può accadere con un
interruttore. Perché il cambiamento sia democratico e di coesistenza si
presuppone il passaggio, il trascorrere del tempo, che faccia dimenticare e anche
rivedere sotto una luce diversa e critica di ciò che è accaduto a causa della
guerra. Tutto va favorito lentamente e progressivamente.
D. – Nella vicina Serbia il premier Zivcokic ha ordinato
nei giorni scorsi l’innalzamento dei livelli di sicurezza, dopo una serie di attacchi
contro le forze serbe da parte di miliziani albanesi nel sud del Paese. Quale
segnale possiamo trarre da queste tensioni?
R. – Il segnale è che bisogna lavorare nel senso della
pace, ma soprattutto sulle differenza etniche e religiose. Quindi, bisognerebbe
lavorare in un duplice senso: sul piano culturale, per abbattere le frontiere
mentali dovute ad una differenza sia etnica, che religiosa. Ma serve anche una
attenta e rigida attenzione sul piano della sicurezza.
D. – La comunità internazionale impegnata prima sul
quadrante afgano, ora sullo scenario iracheno, è ancora sufficientemente attiva
nel processo di stabilizzazione dei Balcani?
R. – Non credo che la comunità internazionale sia molto
attiva sul piano dei Balcani, o meglio, più che la comunità internazionale
l’opinione pubblica mondiale. Certo, la Bosnia è molto più tranquilla del
1995-96, però ci vuole tempo per creare una situazione che sia completamente
diversa da quella precedente. La Bosnia ha soprattutto bisogno di uno sviluppo
economico che sicuramente può essere un presupposto per una pacificazione
integrale tra etnie. Non bisogna pensare che la Bosnia non sia stata da taluni
archiviata, purtroppo è stata archiviata.
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Lo sviluppo sociale ed economico della regione è dunque un
fattore chiave per le speranze di stabilizzazione della Bosnia. A Mostar, a
sostegno delle fasce più deboli, si distingue per impegno la Caritas diocesana.
Attraverso numerosi progetti in favore degli anziani, dei poveri, dei bambini e
delle vittime della violenza in famiglia, l’organismo caritativo rappresenta un
modello per il dialogo tra persone di diverse fedi ed etnie. Ce lo conferma da
Mostar, don Ante Komadina, direttore della Caritas diocesana locale, ancora al
microfono di Alessandro Gisotti:
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R. –
Per noi, per la Caritas di Mostar, è importante che si guardi al bisogno
dell’uomo. Non guardiamo se si tratta di un cattolico, di un ortodosso, di un
musulmano, noi cerchiamo di aiutare tutti coloro che hanno bisogno di aiuto.
Certo, il lavoro della Caritas è molto importante per la nostra società e
riguardo alla democrazia. La nostra Caritas ha vissuto clandestinamente 10
anni. Adesso abbiamo sviluppato le nostre attività, vogliamo presentarci alla
società e vogliamo che integrarci nella società.
D. – La ricostruzione del ponte di Mostar è un importante
segno di riunificazione e di voglia di pace. C’è la possibilità reale di un
dialogo dopo gli anni drammatici, bui, della guerra, in una zona come Mostar?
R. – Sì, senz’altro. I ponti sono stati sempre monumenti
che collegano le persone. E la chance per un dialogo esiste. Sono veramente
dell’opinione che abbiamo già raggiunto dei successi. Abbiamo già vissuto dei
secoli insieme e così sarà il nostro futuro: vivere insieme ciascuno con la
propria identità, ma con la comprensione per l’altro. Per chi pensa in un altro
modo, crede in altro modo o che vive in un altro modo.
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DIO… NEL GREMBO DELLE
NOSTRE PAURE?
L’INTERROGATIVO AL CENTRO DEL CORSO INTERNAZIONALE
DI STUDI CRISTIANI CONCLUSO IERI ALLA CITTADELLA
DI ASSISI
CON NOI IL PRIORE DI BOSE ENZO BIANCHI E DON TONIO
DELL’OLIO
- A cura di Carla Cotignoli e Antonella Palermo -
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Viviamo in un tempo minacciato
da molte paure che hanno il nome di integralismo religioso, terrorismo,
globalizzazione. Ma proprio nel grembo inquietante e misterioso delle nostre
paure si può cogliere la presenza di Dio? E’ l’interrogativo che si è posto il
corso internazionale di studi cristiani indetto, come ogni anno dalla
Cittadella di Assisi, quest’anno in collaborazione con la Comunità ecumenica di
Bose, l’Editrice Queriniana e Pax Christi. Un dibattito, quello concluso ieri,
a cui hanno dato il contributo non solo gli apporti della teologia e
spiritualità, ma anche dell’islam e ancora della filosofia, psichiatria,
giornalismo, biologia.
Alle minacce di una
globalizzazione condizionata dai poteri forti della politica e dell’economia, è
stata prospettata la globalizzazione dei diritti e della solidarietà. Si è
parlato anche di Europa. Quale alternativa alla minaccia di scontro di civiltà?
Uno solo: il dialogo. Lo hanno affermato l’islamista Fouad Allam e il coordinatore
nazionale di Pax Christi, don Tonio dell’Olio. Anzi. L’Europa può essere “un
laboratorio” politico, religioso e culturale essendo una realtà in costruzione
che attende l’apporto di tutti.
Ma dov’è la chiave di volta che
libera da ogni paura? Quel grembo fecondo di Dio… ha risposto Enzo Bianchi,
priore della Comunità ecumenica di Bose. Ma lasciamo a lui la parola, al
microfono di Antonella Palermo:
R. – Noi abbiamo un grembo che è pieno di paure, dalla
paura della morte alla stessa paura di Dio, purtroppo, a causa del nostro
peccato. Ecco, Dio sta invece davanti a noi con un grembo di misericordia. Non
dimentichiamo mai che proprio quando gli ebrei hanno cercato di dare un nome a
questo sentimento materno di Dio nei confronti dell’uomo, un sentimento che è
anche perdono dei peccati, che è anche tenerezza, hanno dato il nome proprio di
‘misericordia’, il nome di ‘grembo’, il nome di ‘viscere di Dio’.
D. – Perché più sembra che l’uomo si adoperi per costruire
le proprie sicurezze, più avanza dentro di sé l’incertezza e il timore,
talvolta anche di se stessi, come lei diceva?
R. – Perché l’uomo continua a non vivere nella logica
della comunione con Dio. Quindi
contraddicendo quello che è il piano creazionale, il piano della salvezza di
Dio, finisce poi per avere paura delle cose che lui stesso produce, delle sue
azioni. Davanti all’uomo sta sempre quella via che Dio ha dato: la via del
bene, della beatitudine, della vita da una parte; del peccato, del male, della
morte dall’altra. Sta all’uomo scegliere.
D. – C’è stata nella sua vita una grande paura che è
riuscito a vincere, magari con la preghiera e l’affidamento totale al Signore,
o che forse è rimasto ancora tra le pieghe del suo cuore?
R. – Credo di sì. Credo – anzi – che forse l’esperienza
più dura che ho fatto nella mia vita, ad un certo punto, è stata l’esperienza
della paura. Ma mi ha soprattutto confortato un pensiero: quello di poter
cantare la misericordia di Dio anche all’inferno, come diceva Silvano
Dell’Atos. E questo, devo dire, mi ha fatto vincere ogni paura e mi ha rimesso
nella fiducia totale di Dio.
D. – A Don Tonio Dell’Olio, un’ultima domanda: si può
dunque sintetizzare che la paura equivale al vuoto e la serenità alla pienezza
di vita e alla possibilità di dare un senso a questa nostra esistenza?
R. – Per noi credenti, ha un nome ed un volto e si chiama
‘Dio’, si chiama ‘Padre’, si chiama ‘Gesù Cristo’. “Padre mio, mi abbandono a
te”, a me sembra davvero la sconfitta di ogni paura. E soprattutto l’immagine
di un Dio – il Dio dei cristiani – ha comunicato, che non è il Dio potente,
onnipotente, ma il Dio debole. Il fatto storico di un Dio, che muore sulla croce,
fa di questa debolezza, che è totalmente umana, la sua forza che diventa anche
la nostra forza per vincere le paure.
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IL
RWANDA AL VOTO, NOVE ANNI DOPO IL GENOCIDIO.
UN
PASSO VERSO LA DEMOCRAZIA, CHE PERÒ RESTA LONTANA
-
Intervista con Raffaello Zordan -
Sono iniziate nella calma le
operazioni di voto in Rwanda, dove 3 milioni e 900 mila elettori sono chiamati
oggi alle urne, per la prima volta dopo il genocidio del ’94. Ma è una calma
solo apparente, perché nelle ultime ore si sono verificati numerosi atti di
intimidazione nei confronti degli avversari di Paul Kagame, capo di Stato
uscente. Il servizio di Andrea Sarubbi:
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Chiamare pressioni quelle in
atto su Faustin Twagiramungu, ex primo ministro del Paese rientrato a giugno da
8 anni di esilio a Bruxelles, è un impossibile eufemismo. Perché il principale
sfidante di Kagame si è visto arrestare e torturare, nel giro delle ultime ore,
un numero imprecisato di familiari. Ha ricevuto minacce dal Rwanda e
dall’estero – hanno rivelato fonti locali – ed è stato costretto a candidarsi
come indipendente perché il suo partito, il Movimento repubblicano democratico,
è stato sciolto e dichiarato fuorilegge.
L’accusa è quella di
sovversione, ma le organizzazioni umanitarie non hanno dubbi: la polizia
avrebbe agito su ordine del governo, alla ricerca di una riconferma da ottenere
con ogni mezzo. Non è un caso che, proprio nell’imminenza del voto, un’altra
rivale si sia messa da parte: Alivera Mukabaramba, del Partito per il progresso
e la concordia, si è ritirata a sorpresa dalla corsa alla presidenza ed ha
invitato i suoi elettori a votare per Kagame.
A chi cercava un significato
politico in queste presidenziali, dunque, resta solo delusione. Agli altri
restano le curiosità: le lunghe file di elettori ai seggi, le schede con le
foto dei candidati per aiutare i numerosi analfabeti. Resta, soprattutto, il
rammarico per un Paese che, a nove anni dal terribile massacro, non riesce
ancora a sperimentare la democrazia. Ed il cammino è piuttosto lungo, come
conferma Raffaello Zordan, della rivista missionaria Nigrizia:
R. – Chi ha seguito le vicende rwandesi in questi anni non
può certo dire che ci sia stato un approccio ad una transizione democratica
effettiva. In Rwanda comanda il presidente, e con lui i suoi uomini e
l’esercito che c’è attorno. Occorre, comunque, ragionare in positivo: dare un
minimo di credito anche ad un appuntamento elettorale come questo e cercare di
trovarvi del buono dentro.
D. – Che cosa manca al Rwanda per diventare un Paese
democratico?
R. – Manca, innanzitutto, la possibilità di una effettiva
riconciliazione tra le due etnie:
quella minoritaria, tutsi, e quella maggioritaria, hutu. Non
credo che Kagame sia la persona in grado di fare un’operazione di questo
genere. Fino a qualche mese fa, rilasciava dichiarazioni piuttosto bellicose,
in cui diceva che i tutsi rischiano un secondo genocidio: in questa
maniera ha giustificato il suo intervento di aggressione in Congo. La
situazione, quindi, è obiettivamente complicata.
D. – Nessuno crede veramente che l’ex-premier Twagiramungu, di etnia hutu, possa
impensierire Kagame. Forse in Rwanda mancano le alternative?
R. – Se ci fosse un effettivo gioco democratico,
probabilmente queste alternative potrebbero anche saltar fuori. Lo stesso
Twagiramungu – che era in esilio fino a ieri, e che ha organizzato la sua
campagna elettorale da Bruxelles – potrebbe potenzialmente rappresentare
un’alternativa. Potrebbe essere capace di creare effettivamente una coesione
nazionale e di tenere insieme i pezzi del popolo rwandese.
D. – Abbiamo ribadito che si tratta del primo appuntamento
elettorale dopo il genocidio del’94. Si può parlare di riconciliazione?
R. – Un pezzettino di strada, in questo senso, è stato
fatto con l’istituzione dei tribunali popolari gacaca, che già da un
anno o due stanno cercando di trovare una via d’uscita dal genocidio. Una via
d’uscita che non è solo, naturalmente, giudiziaria, ma che si propone come un
momento di riconciliazione, sulla scia di quello che è successo in Sudafrica
con la Commissione di verità e riconciliazione.
D. – A livello internazionale, quali sono gli interessi
che ruotano attorno al Rwanda?
R. – A partire dall’inizio degli anni ’90 si è assistito,
nell’area dei Grandi Laghi - e nel Rwanda, in particolare – ad un progressivo
smantellamento della presenza francese. Si è giocata – e non si è ancora
conclusa – una partita di influenza tra Francia e Stati Uniti. L’Africa ha un
altro valore dopo l’11 settembre, perché a Washington interessa avere alleati
nel Continente, in funzione anti-terrorismo.
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25
agosto 2003
- A cura di Ignazio
Ingrao -
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ASSISI. = Con uno
sguardo rivolto alla conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio, in
programma in settembre a Cancun, in Messico, si chiude oggi ad Assisi l’annuale
settimana teologica promossa dal Movimento ecclesiale di impegno culturale
(Meic), dedicata alla “libertà del cristiano nell’età della globalizzazione”.
Qual è la responsabilità del cristiano nel villaggio globale? Questo
l’interrogativo che è tornato ripetutamente nel corso dell’incontro. “La
globalizzazione non è un destino, è una sfida”, ha sottolineato Giuseppe
Lorizio, teologo della Pontificia Università Lateranense. Perciò siamo chiamati
ad orientare questo cambiamento alla luce dei valori cristiani. A tale riguardo
un ruolo centrale va riservato alla dimensione educativa, ha suggerito Luigi
Alici, ordinario di Filosofia all’Università di Macerata. E’ urgente, secondo
Alici, “riannodare il filo spezzato tra le generazioni” per alimentare una
cultura comune su cui costruire il futuro di un’umanità autenticamente
solidale. “La vera libertà – ha spiegato il presidente del Meic, Renato
Balduzzi – non è libertà dai legami forti o, peggio, da legami di ogni genere,
bensì è la capacità di disegnarsi un proprio percorso di liberazione
rivitalizzando i legami familiari e di lavoro, le proprie radici religiose ed
etiche”. Il liberalismo contemporaneo di fronte a sfide come quella della
globalizzazione non significa libertà negativa, libertà dagli altri. Deve, al
contrario, diventare scelta positiva, affidata alla responsabilità individuale.
“L’industria culturale e l’industria della comunicazione pubblicitaria – ha
proseguito Balduzzi – vogliono legami deboli così da imporre più facilmente i
propri prodotti a livello planetario”. Per fronteggiare questo fenomeno, i
cristiani devono essere capaci di “mettere in rapporto libertà e ricerca della
verità per evitare di avvitarsi in false libertà che non sono altro che forme
mascherate di dipendenza culturale ed economica”.
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NUOVO GIUDIZIO NEGLI
STATI UNITI PER LA CATASTROFE AMBIENTALE CAUSATA
NEL 1989 DAL NAUFRAGIO DELLA PETROLIERA EXXON
VALDEZ, AL LARGO DELL'ALASKA. GIA’ CONDANNATA NEL ’94 A PAGARE 5 MILIARDI
DI DOLLARI, POI RIDOTTI NEL 2002 A 4, LA EXXONMOBIL ORA SPERA IN UNA
ULTERIORE RIDUZIONE
IRVING. = Vi sarà un nuovo giudizio per la
catastrofe ambientale causata nel 1989 dal naufragio della petroliera Exxon
Valdez al largo dell'Alaska. La Corte d'Appello federale, con sede a San
Francisco in California, ha infatti bloccato la sentenza di condanna inflitta
alla ExxonMobil nel dicembre scorso – dal giudice Holland, della Corte
distrettuale ad Anchorage in Alaska. Condanna che era stata quantificata in un
risarcimento da parte della compagnia petrolifera di 4 miliardi di dollari in
danni punitivi e interessi. Le 50 mila tonnellate di petrolio fuoruscite dalla Exxon
Valdez, incagliatasi su un fondale roccioso il 24 marzo 1989, causarono la
più estesa 'marea nera' nella storia degli Stati Uniti. Il greggio inquinò
oltre 1.600 km di costa, causò la morte di migliaia di mammiferi marini e uccelli,
e danni inestimabili alla fauna ittica. In precedenza nel 1994 ExxonMobil
era stata condannata a pagare 5 miliardi di dollari, ma nel novembre 2001 aveva
ottenuto, davanti alla Corte d'Appello di San Francisco, l'annullamento della
sentenza. Nel dicembre scorso, il giudice Holland aveva poi ridotto la somma di
un miliardo di dollari. (R.G.)
E' STATA SENZ’ALTRO UCCISA ZAHRA KAZEMI, LA
GIORNALISTA IRANIANA-CANADESE MORTA DOPO L’ARRESTO NEL GIUGNO SCORSO : LO HA
DICHIARATO PUBBLICAMENTE
IL
PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DIRITTI UMANI DEL PARLAMENTO IRANIANO
TEHERAN. = E’ morta per un colpo in testa infertole
volontariamente, Zahra Kazemi, la giornalista iraniana-canadese, deceduta dopo
essere stata arrestata lo scorso giugno. Lo ha dichiarato pubblicamente Hossein
Ansari Rad, presidente della
Commissione diritti umani del Parlamento iraniano. Finora la versione ufficiale
era stata che Kazemi fosse morta per un trauma alla testa, di cui non era nota
la causa. Secondo Ansari Rad, l'autopsia ha escluso che la giornalista possa
aver subito accidentalmente il colpo cadendo o sbattendo in altro modo la
testa. “Colui che l’ha colpita - ha affermato il presidente della Commissione
diritti umani - è un professionista, perché l’ha fatto cercando di non lasciare
alcun segno”. L’Agenzia iraniana dei lavoratori Ilna ha scritto che secondo
l'organizzazione “Avvocati senza frontiere”, Zahra Kazemi sarebbe stata anche
violentata da tre di coloro che la interrogavano, ed ha chiesto eventuali
conferme in proposito al presidente della Commissione parlamentare. “Non ho
alcuna informazione in proposito - ha risposto Ansari Rad, sempre citato
dall’Ilna - ma purtroppo in passato alcuni casi del genere sono stati
scoperti”. Dopo l’autopsia effettuata in Iran, Teheran ha rifiutato di
consegnare il corpo della giornalista al Canada, dove viveva. Ieri la Magistratura
ha annunciato l’imminente pubblicazione dei risultati dell’inchiesta sulla
morte della giornalista. Alla fine di luglio l’ufficio del Procuratore aveva
annunciato l’arresto di cinque persone sospettate di essere coinvolte. Due di
esse sono state in seguito rilasciate. (R.G.)
GIUNTE STAMANE A GINEVRA, DOVE SARA’ SEPOLTO,
LE SPOGLIE DI SERGIO VIERA DE MELLO, RAPPRESENTANTE
ONU IN IRAQ,
UCCISO IL 19 AGOSTO A BAGHDAD, INSIEME AD ALTRE 22
PERSONE.
DOMANI MESSA DI SUFFRAGIO, A ROMA, NELLA CHIESA DI
SANTA AGNESE IN AGONE
GINEVRA/ROMA. = Le spoglie di Sergio Vieira de
Mello, il rappresentante dell’Onu in Iraq, morto il 19 agosto nell'attentato
contro il quartier generale delle Nazioni Unite a Baghdad, sono arrivate
stamane a Ginevra. De Mello, i cui funerali si sono svolti sabato a Rio de Janeiro,
nel natio Brasile, sarà infatti sepolto nel Pantheon delle Nazioni Unite, che
si trova nel cimitero 'des Roix' della città svizzera. E domani ad una settimana
dalla morte sarà celebrata anche a Roma per iniziativa dell'ambasciata brasiliana
in Italia una Messa alle ore nove nella chiesa di Santa Agnese in Agone, a
piazza Navona, accanto alla sede diplomatica del Paese latinoamericano. (R.G.)
INTERVENTO DEL CARDINALE PERUVIANO JUAN LUIS
CIPRIANI AL MEETING DI RIMINI, NELL’AMBITO DELLA MOSTRA DEDICATA AL SENOR DE
LOS MILAGROS,
IL SIGNORE DEI MIRACOLI,
RADICATA ESPRESSIONE DI
FEDE POPOLARE IN AMERICA LATINA
- A cura di Stefano
Andrini -
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RIMINI. = “Nel contesto della nuova evangelizzazione
è fondamentale la riscoperta dei valori più autentici della religiosità
popolare”. Lo ha affermato al Meeting di Rimini il cardinal Juan Luis Cipriani
Thorne, arcivescovo di Lima, partecipando ad un incontro dedicato al Señor
de los milagros, in margine ad una mostra che fa rivivere la devozione al
Signore dei miracoli, la massima espressione di fede popolare diffusa in
America Latina. A proposito della religiosità popolare, l’arcivescovo di Lima,
ha ricordato che si sta osservando una crescente rinascita: “anche il Meeting -
ha affermato - è una moderna espressione di religiosità popolare”. “Con il
Signore dei miracoli, 352 anni fa, è stato fatto a Lima un grande dono – ha affermato
l’arcivescovo – che oggi sta superando le frontiere del Paese”. “Anche in
Giappone – ha ricordato il cardinale – ho trovato gruppi di devoti”. “Perché
questo? - si è chiesto - perché il Cristo fa miracoli nel nostro
cuore, tra la nostra gente. Fa il miracolo della conversione. Ed è in questa prospettiva,
che ogni anno, almeno milioni di persone, di ogni condizione sociale, di ogni
età, vicini e lontani alla fede, si trovano di fronte al volto di Cristo”. “La
prima evangelizzazione in Perù – ha sottolineato – è stata fatta in modo
grandioso attorno alla Croce. Tracce di questa si trovano nelle case, in tutte
le case, anche le più sperdute, ove il Crocefisso è segno della presenza di
Cristo. Nel cammino del Meeting, attorno al desiderio di felicità, si segnalano
in particolare due mostre: la prima dedicata all’Apocalisse di San Giovanni, il
cui intento è quello di restituire all’ultimo libro della Bibbia il motivo per
cui è stato scritto, libro di speranza e della speranza; la seconda, alla
storia delle apparizioni mariane di Fatima. Nel pomeriggio di ieri, don Massimo
Camisasca ha presentato il secondo volume sulla storia di Comunione e
liberazione, cioè gli anni della ripresa dopo il ’68, “che ho scritto - ha detto
- per documentare come la paterna presenza di don Giussani ci abbia reso
consapevoli che è possibile costruire in ogni situazione della storia”.
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25
agosto 2003
- A cura di Amedeo Lomonaco -
Una grave tragedia ha colpito
l’India dove, questa
mattina, due bombe sono esplose a Bombay, capitale economica del Paese causando
la morte di almeno 41 persone ed il ferimento di altre 125. Secondo le prime
ricostruzioni, si tratterebbe di attentati legati a dissidi interreligiosi tra
indù e musulmani. I particolari nel servizio di Roberto Piermarini:
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Una delle esplosioni è avvenuta
presso il tempio hindu di Mumba Devi, un’altra presso il monumento noto come
Gateway of India, Porta dell’India. Sul resto, le notizie non sono ancora
chiare, mentre si comincia a far luce sul movente degli attentati, che
sarebbero di matrice islamica. Pochi minuti prima delle bombe, infatti, l’alta
corte dell’Uttar Pradesh aveva riconosciuto la presenza di resti di un tempio
indù, risalente al decimo o all’undicesimo secolo, sul sito conteso di Ayodhya,
nel nord. Un luogo di culto reclamato anche dai musulmani, che nel 1500 vi
avevano costruito una moschea. Ma nel ’92, una folla di estremisti indù l’aveva
distrutta. L’avvocato che rappresenta i musulmani accusa la commissione di
archeologi inviata dal governo: il loro rapporto, diffuso questa mattina dai
giudici dell’Uttar Pradesh, sarebbe stato condizionato da pressioni del partito
Hindu Bharatiya Janata, oggi al governo. Si attende, dunque, un ricorso, ma si
teme soprattutto una nuova ondata di violenze interreligiose. Come quelle che
undici anni fa, per lo stesso motivo, avevano già causato 2 mila morti.
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Prosegue l’interminabile spirale
di odio in Medio Oriente, dove due esponenti di primo piano di Hamas sono stati
uccisi, la scorsa notte, dai soldati israeliani nella Striscia di Gaza. Si
tratta del responsabile del coordinamento delle attività dell’organizzazione
estremista tra Gaza e la Cisgiordania, Ahmed Shatiwi, e del presidente dell’Associazione
studentesca dell’Università islamica di Gaza, Wahid Alhumas. Nel raid
perpetrato ieri sera sono rimasti uccisi anche due membri della guardia
presidenziale di Arafat. Sulle reazioni palestinesi a questo grave episodio di
violenza ci riferisce Graziano Motta:
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Immediata la reazione dello
sceicco Yassin, leader di Hamas “Israele pagherà un caro prezzo per questi
massacri” e lo stato di allerta ‘attentati’ è nuovamente montato nel territorio
dello Stato ebraico, che ieri aveva respinto la proposta di una nuova tregua
che coinvolgesse le organizzazioni terroristiche. Il ministro della difesa ed
il capo dello Stato maggiore affermano che l’esercito non allenterà la caccia
ai capi e agli esponenti delle organizzazioni terroristiche che continuano a
colpire a colpi di mortaio le fattorie agricole della Striscia di Gaza e con
missili il territorio israeliano vicino. Uno di questi è caduto. Ieri, sulla
spiaggia della città di Askalon. Sul piano politico, contrasti all’interno
della direzione palestinese sulla decisione di Arafat di nominare come ministro
degli interni un suo uomo di fiducia, Nasser Yussuf, per esautorare Mohammed Dahlan, ministro della sicurezza del governo di Abu Mazen, e il
premier è tornato a minacciare le dimissioni.
Per Radio Vaticana, Graziano Motta.
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Un’ulteriore
conferma della difficile posizione del primo ministro palestinese, Abu Mazen,
che continua a respingere la nomina del generale Nasser Yousuf come ministro
degli Interni, arriva dalla decisione del presidente, Yasser Arafat, di
nominare l’ex capo della sicurezza preventiva, Jibril Rajoub, alla testa della
forza di sicurezza nazionale. Rajoub fu destituito un anno fa da Arafat, ma
recentemente i due esponenti palestinesi si sono riavvicinati in seguito alla
comune opposizione ad Abu Mazen e a Mohammed Dahlan.
Nell’Iraq
non ancora pacificato affiorano nuove tensioni. Mentre il Nord del Paese è
stato segnato, negli ultimi giorni, da violenti scontri etnici, nel Sud gli
attacchi non hanno risparmiato la leadership religiosa degli sciiti. Il
segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha intanto riconosciuto, oggi, che è
allo studio la trasformazione della coalizione in “un gruppo unilaterale
guidato dalle Nazioni Unite”. Un ruolo
di maggiore responsabilità delle Nazioni Unite nell'Iraq del dopo-Saddam
Hussein si prospetta come uno dei principali contraccolpi del tragico attentato
di martedì scorso alla sede Onu di Baghdad. Sulla complessa situazione del
Paese arabo, ci riferisce Paolo Mastrolilli:
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Una bomba è scoppiata ieri a
Najaf, nell’ufficio dell’ayatollah al-Hakim, uccidendo 3 guardie del corpo e
ferendo il religioso. Al-Hakim è legato allo Sciri, il Consiglio supremo per la
rivoluzione islamica in Iraq, che finora ha collaborato con le forze di occupazione
americane. Questo, secondo alcuni membri del gruppo, è il motivo dell’attacco
contro l’ayatollah. Gli sciiti sono la maggioranza etnica del Paese e abitano
soprattutto al Sud. La loro posizione, rispetto alla presenza delle truppe di
Washington, è considerata determinante per la stabilità. L’amministratore
americano Paul Bremer ha detto che molti terroristi stranieri stanno varcando i
confini proprio per alimentare le violenze. La situazione è tesa anche a
Kirkouk, nel Nord del Paese, dopo gli scontri etnici degli ultimi due giorni
tra la minoranza curda e quella turcomanna che hanno fatto almeno 12 vittime.
La Croce Rossa nel frattempo ha deciso di ridurre il suo personale a Baghdad
per precauzione, dopo l’attacco della settimana scorsa contro la sede delle
Nazioni Unite. La popolarità del presidente Bush è scesa al 44 per cento
proprio per l’Iraq.
Da New York ,per la Radio
Vaticana, Paolo Mastrolilli.
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L’Ayatollah iraniano, Ali Khamenei, ha intanto
condannato, oggi, l’attacco perpetrato a Najaf, in Iraq, ed ha anche espresso
la speranza che il popolo iracheno possa innalzare, al più presto, la bandiera
dell’islam, dell’indipendenza e della libertà.
Per la
prima volta dal genocidio del 1994, il Rwanda è atteso oggi alle urne. Si vota
per l’elezione del nuovo presidente ed un secondo mandato del capo di Stato
uscente, Paul Kagame, appare scontato.
Nonostante
la firma degli accordi tra governo e ribelli, la Liberia è ancora in balia
della guerra civile: centinaia di civili sono stati massacrati e numerosi
villaggi sono stati dati alle fiamme nella regione di Bahn, nella contea di
Nimba, a nordest di Monrovia. Ce ne parla Giulio Albanese:
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Testimoni oculari avrebbero
riferito dell’uccisione indiscriminata di circa un migliaio di civili. Numerose
località del Paese sono ancora in preda a feroci bande armate che saccheggiano
le abitazioni perpetrando indicibili vessazioni contro la stremata popolazione.
Cruenti combattimenti vengono segnalati nella città settentrionale di Ganta,
circa 200 chilometri a Nord della capitale ed anche in altri villaggi
limitrofi, dove l’insicurezza regna sovrana. Mentre migliaia di persone sono
fuggite da Buchanan, la seconda città portuale della Liberia, a causa di nuovi
combattimenti anche nei pressi di Harbel, una cinquantina di chilometri da
Monrovia, sono avvenute sparatorie, uccisioni e ruberie. Nella stessa capitale
le notti sono scandite da raid compiuti da giovani armati, che sotto l’effetto
di sostanze stupefacenti compiono ogni forma di sopruso contro i civili,
soprattutto nei confronti delle donne.
Per la Radio Vaticana, Giulio
Albanese.
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Nella Repubblica Democratica del Congo miliziani
dell’etnia Lendu hanno ucciso Justin Mandro Kpanga, 30 anni, il vice parroco di Fataki, cittadina
del Nord Ituri, scomparso dagli inizi di agosto insieme con altri civili,
catturati dalle milizie di etnia Lendu. Lo ha rivelato l’Agenzia missionaria
Misna.
Spostiamoci in Russia, dove questa mattina sono state
registrate tre diverse esplosioni nella zona di Krasnodar, nel Sud del Paese,
non lontana dalla Cecenia. Secondo un primo bilancio, sarebbero tre le vittime
segnalate e una decina i feriti. Non si conoscono ancora i dettagli in merito
all’origine delle deflagrazioni, verificatesi vicino a due bar ed alla fermata
di un tram.
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