2017-08-27 13:10:00

Myanmar: migliaia i Rohingya in fuga verso il Bangladesh


di Marina Tomarro

Ancora molto grave la situazione in Myanmar. Anche  Papa Francesco ha voluto esprimere all'Angelus di questa mattina la sua preoccupazione per le terribili violenze che si stanno verificando in queste ore nei confronti dell’etnia dei Rohingya.

Infatti nel Paese, in particolare nello stato di Rakhine, sono circa 92 i morti causati dalle violenze che sono divampate venerdì scorso e che hanno avuto come vittime soprattutto civili. In queste ultime ore, migliaia di civili  della minoranza musulmana dei Rohingya si sono ammassati alla frontiera con il Bangladesh, in fuga dalle violenze dell'esercito. Secondo un giornalista dell’agenzia France Presse che si trovava sul posto, l'esercito avrebbe  fatto fuoco su di loro. "Hanno sparato su donne e bambini che avevano trovato riparo dietro le colline vicino alla linea di confine - hanno raccontato poi le guardie di frontiera del Bangladesh - e lo hanno fatto improvvisamente con mortai e mitragliatrici senza avvisare nemmeno noi".

I civili in fuga sono arrivati fino al fiume Naf, che separa il Bangladesh dal Myanmar, con la speranza di passare a nuoto il confine. Il tenente colonnello Khan ha riferito che 76 Rohingya sono già stati respinti. Chi è riuscito ad arrivare in Bangladesh ha raccontato scene di violenza terribile, con i soldati birmani che hanno dato fuoco alle case spingendo i civili verso la frontiera.

L'esercito ha attaccato diversi villaggi nell'ambito di un'offensiva contro insorti Rohingya, nella quale sono morti 12 soldati e 77 esponenti di questa minoranza. Secondo Abdur Rahim, un rifugiato Rohingya che vive in un campo profughi improvvisato a Kutupalong, nel Bangladesh meridionale, almeno 7mila persone hanno lasciato le loro case per accamparsi sulle rive del fiume Naf. Più di un milione di Rohingya vivono nello Stato settentrionale birmano di Rakhine. Sono decenni che questa minoranza etnica musulmana viene perseguitata e discriminata, con restrizioni nella libertà di movimento.

Nel Paese la situazione rimane gravissima, e nemmeno la fine della dittatura militare, dopo 49 anni, con l'insediamento nel marzo 2016 di un governo guidato dalla premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, sia pure con la supervisione dei generali in alcuni settori, ha portato a un allentamento della repressione nei confronti dei Rohingya.

Questo popolo (un milione sui 54 milioni di abitanti del Myanmar, per il 90 per cento buddisti) è pesantemente discriminato: una legge del 1982 lo priva infatti della cittadinanza e di altri diritti fondamentali. Non sono considerati appartenenti a nessuno dei 35 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti e perciò non hanno nemmeno la possibilità di votare.

Apolidi, anche se alcuni vivono in Myanmar da generazioni, formano una “casta” invisibile di profughi interni, che non ha accesso al mondo del lavoro e solo un accesso parziale all’assistenza sanitaria. Inoltre anche la loro pratica religiosa è sotto stretta sorveglianza. Nell’ultimo anno almeno 72.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh ma nessuno vuole accogliere queste imbarcazioni piene di disperati e si parla anche di un’isola dove confinarli.

Da un report pubblicato di recente dall’ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite circa 220 testimoni hanno raccontato di “uccisioni di bambini, donne e anziani, stupri e violenze sessuali sistematiche e su larga scala, distruzione intenzionale di cibo e fonti di sostentamento”, tanto da far temere una sorta di pulizia etnica. Gli abusi nei confronti dei Rohingya hanno origine da 50 anni di dura dittatura militare (l’esercito controlla ancora il 25% del parlamento, i tre ministeri della Difesa, Interni, Affari di Confine e il Consiglio per la Difesa e la Sicurezza nazionale) che ha sempre represso le minoranze etniche buddiste e musulmane per raggiungere i suoi scopi, tra cui lo sfruttamento delle ricchezze naturali.








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