2017-07-17 15:15:00

Giustizia penale internazionale: rilanciare la Corte dell'Aja


Si celebra oggi la Giornata mondiale della Giustizia Penale Internazionale nella data che segna l’adozione, il 17 luglio del 1998, dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale, con sede all’Aja, nei Paesi Bassi, operativa da 15 anni, in difesa dei popoli dai crimini di guerra e genocidio e contro l’umanità e la prevenzione di crimini contro la pace e la sicurezza. Roberta Gisotti ha intervistato il prof. Paolo De Stefani, del Centro per i diritti umani dell’Università di Padova:

D. – Quale bilancio di questa istituzione, possiamo dire ‘rivoluzionaria’, quando fu concepita? La Corte ha potuto operare così come era previsto sulla carta?

R. – E’ un bilancio con luci e ombre. La luce è costituita dal fatto che la Corte c’è e sta esaminando ora circa 24 casi e ce ne sono molti altri in cui sono state lanciate le indagini. Le ombre sono legate al fatto che, nonostante una partenza entusiasmante – la Corte ha incominciato subito a operare sui casi che all’epoca erano tra i più importanti da investigare – poi ha intrapreso una curva negativa, in cui è calata l’attenzione da parte degli Stati, che si sono resi conto delle potenziali difficoltà in cui l’operatività di una Corte del genere li avrebbe messi e c’è stata una specie di boicottaggio da parte di alcuni Paesi.

D. – Sappiamo che ad oggi sono 122 gli Stati che hanno ratificato lo Statuto della Corte. Gli Stati Uniti, però, non lo hanno mai fatto e circa un anno fa, oltre ad alcuni Paesi africani – Sudafrica, Burundi e Gambia – anche la Russia hanno minacciato di uscire dalla Corte. Quali motivazioni hanno addotto e come è andata a finire?

R. – Gli Stati Uniti e le grandi potenze come anche la Russia, come lei diceva, la Cina, l’India e altri Paesi, quelli del Medio Oriente, sono fin dall’inizio fuori da questo circolo virtuoso, per ragioni che hanno a che fare con una visione molto ristretta della sovranità statale: non accettano che ci sia un’istituzione internazionale – questo è tradizionale per gli Stati Uniti, per esempio – che possa scavalcare le loro Corti interne e il loro sistema nazionale. Per i Paesi africani il problema è diverso: loro lamentano una sorta di attenzione a senso unico che la Corte ha prestato ai conflitti, alle guerre e ai crimini connessi in ambito africano. In effetti, gran parte dei casi di cui la Corte discute adesso hanno come scenario Paesi africani.

D. – Ma queste critiche in qualche modo, se avessero fondamento, possono servire a rilanciare il ruolo della Corte anche verso altre aree del mondo? Sappiamo che ce ne sono tante dove non si rispettano i diritti umani …

R. – Certo: ci sono vincoli di tipo tecnico, nel senso che la Corte ha una giurisdizione non universale, o meglio: ce l’avrebbe universale se la sua azione fosse attivata dal Consiglio di Sicurezza. Il Consiglio di Sicurezza però è bloccato da una serie di veti interni e quindi non riesce ad attivare la giurisdizione della Corte nei confronti di situazioni che interessano Paesi controversi, Paesi che godono della protezione delle superpotenze, di cui dicevamo prima, e che si mantengono al di fuori del gruppo degli Stati-parte.

D. – Lei ritiene però che sia importante che questa Corte sussista?

R. – La Corte deve superare questo momento di impasse e deve mantenere non solo la sua presenza, ma rafforzarla. In questo momento la Corte sta macinando ricerca, sta macinando indagini e questo è un elemento che per ora può dare un po’ di speranza.

D. – Lei ha detto che all’inizio la Corte ha potuto godere di un sostegno anche mediatico di attenzione: forse anche questo potrebbe servire, che si riaccendesse informazione sul lavoro della Corte?

R. – Direi di sì. Dovremmo pretendere un po’ di più da questa Corte e fare un po’ più di informazione su quello che sta facendo e sulle potenzialità che questa Corte ha. Paradossalmente, nei primi anni la Corte era molto popolare perché veniva osteggiata apertamente dagli Stati Uniti. Adesso continua a essere osteggiata da molte grandi potenze, però non c’è più quella spinta della società civile che aveva fatto sì che conoscenza e speranze si accendessero su questa istituzione. Dovremmo riprendere in mano questa occasione, e la Giornata di oggi potrebbe servire: anche per far capire e far sentire a chi opera all’interno di questo meccanismo che la comunità internazionale non è rassegnata all’impunità e alla tolleranza nei confronti di queste atrocità che si commettono.








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