Oggi sarà staccata la spina al piccolo Charlie, il neonato di dieci mesi ricoverato in un ospedale di Londra per una rara malattia che secondo i medici è incurabile e lo fa soffrire. I suoi genitori hanno perso la battaglia legale partita nel Regno Unito e arrivata fino alla Corte europea dei diritti umani: volevano portare a proprie spese il bimbo negli Stati Uniti per sottoporlo a una cura sperimentale. La procedura prevede una sedazione profonda e il distacco del ventilatore che lo tiene in vita. L'effetto è quello di una morte per soffocamento, pur in un paziente sedato. Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, aveva lanciato un appello a rispettare la volontà dei genitori. Sulla vicenda - che sta suscitando un vasto dibattitto internazionale e iniziative di preghiera tra i credenti - ascoltiamo il prof. Francesco Belletti, presidente del Centro studi famiglia, al microfono di Fabio Colagrande:
R. – E’ terribile, perché noi accettiamo un intervento dello Stato sui bambini, sui figli dei genitori quando i genitori sono incompetenti, quando rifiutano la cura, quando maltrattano: allora tutti noi ci aspettiamo che lo Stato intervenga a favore del bambino. Ma quando il bambino è super-protetto dai genitori, quando i genitori fanno di tutto – avevano fatto una raccolta fondi, avevano recuperato i soldi anche per poter fare questo viaggio della speranza in America – lo Stato decide al posto dei genitori che la loro titolarità non c’è più. Questo è un dato devastante, che potrebbe essere applicato in qualunque circostanza, per esempio su scelte educative di qualunque genere … Quindi, è molto preoccupante questa invasività arrogante dello Stato al posto dei genitori. Ricordo che in tutte le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del fanciullo, i genitori hanno la piena e inviolabile titolarità alla responsabilità. Qui i genitori hanno fatto di tutto per il loro figlio e lo Stato propone loro una cultura della morte. Quindi, questo è assolutamente intollerabile.
D. – Lei ha detto tra l’altro che si tratta di un modo di concepire la legge che riduce una persona alla sua malattia …
R. – Certo: questo bambino sicuramente soffre, ma quante famiglie con malati terminali già oggi, in tutto il mondo, guardano un familiare che soffre! I primi che soffrono per il male del loro bambino sono stati i genitori di Charlie. Certamente anche a loro la sofferenza del bambino dava una ferita al cuore terribile; e però, contemporaneamente gli stavano vicino e lo vedevano come una persona piena, non lo riducevano al fatto di una malattia. Questa è l’altra cosa che antropologicamente è intollerabile. Pensiamo anche a tutti gli operatori della sanità, a quanta gente sta negli hospice, nelle strutture dove devono accompagnare alla morte gli anziani, le persone gravemente non autosufficienti … Dentro questa condizione, la persona è sempre più grande della malattia e la malattia non ha mai l’ultima parola. Hanno fatto vincere la malattia, i giudici hanno deciso che Charlie non era tanto una persona ma era caratterizzato solo dalla sua malattia. E’ veramente terribile. Mi rendo conto che sono parole dure, però bisogna che qualcuno alzi la voce davanti a queste cose perché poi l’orizzonte di una decisione di questo tipo è infinito: uno Stato che pretende di decidere la tua dignità e pone le soglie anche quando ci sono le condizioni per la cura più umana possibile. Purtroppo, c’è anche questa idea, probabilmente c’è anche un retro-pensiero: se abbiamo meno persone di cui dobbiamo farci carico per tanti anni, spenderemo meno come sistema sociale. E questo non possiamo tacerlo. Cioè, dietro a questa idea di evitare la sofferenza, oltre che motivi umanitari purtroppo potrebbero esserci motivi economici.
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