2017-06-19 16:07:00

Papa a Barbiana. Parla Nevio Santini, allievo di Don Milani


Parla Nevio Santini, uno dei ragazzi di Barbiana, che ci racconta gli anni passati in quell’angolo di mondo, tra il ’61 e il ’66, anni difficili ma indimenticabili. “Io ho vissuto momenti anche molto critici in quell’epoca di isolamento a Barbiana, abbiamo visto in pericolo la vita di Don Milani quando si scrisse nel ’65 ‘L’obbedienza non è più una virtù’. Venivano lassù giornalisti, fascisti, arrivavano lettere minatorie. I nostri genitori passavano le notti là e poi la mattina andavano a lavorare, mesi molto tristi. Noi eravamo dei bambini ma lo abbiamo difeso in tutto e per tutto. Gli facevamo da cane da guardia. Sapevamo chi avevamo davanti, il priore, il maestro, il sacerdote, il nostro babbo. Ha fatto da babbo a tutti”.

Nevio racconta quelle giornate passate interamente alla scuola, a casa ci stavano soltanto la sera. “Un’esperienza abbastanza dura però si vedeva che giorno dopo giorno si imparava qualcosa di più. I genitori erano contenti. Là ti appassionava sempre qualcosa. Il bello era approfondire insieme i temi che venivano trattati e alzarsi dal tavolo dopo che tutti e trenta, trantacinque avevamo capito quello che lui ci aveva insegnato. Non c’era assolutamente un solo ragazzo che rimaneva indietro”.

Barbiana, una scuola di vita

“Lui ci capiva profondamente”, continua Nevio. "Non passava giorno che non avevamo avuto un colloquio con lui, il sabato c’era la confessione, un momento quello importante, in cui venivamo facilitati alla conoscenza del nostro interiore; lui voleva scalfire dentro per fare in modo che ci conoscessimo nel profondo dell’anima. Questo mi ha segnato per tutta la vita: non che fossimo venuti fuori da Barbiana con un marchio a fuoco, ma Barbiana è stata una scuola di vita, una vera democrazia. Per me Don Milani è un riflettore acceso notte e giorno. Io vedo tutt’ora questa luce davanti e cerco di seguirla. Molte volte, certo, mi rivolgo a lui per avere l’aiuto dicendo: ‘Priore, io non sono mica come te!’".

Litigavate? “Capitava. Eravamo ragazzi come tutti, ci arrampicavamo sugli alberi come scimmie, lui qualche volta ci rimproverava e ci dava qualche scalpellotto. Ma non si andava a dormire se non c’era un momento chiarificatore. Eravamo ragazzi comuni, era la scuola diversa, che ti avvinceva, capace di farci uomini liberi, che capiscono la realtà, che pensano, partecipi, che sanno scegliere. Noi ci attaccavamo a questo perché ci aiutava a vedere un domani migliore”.

Don Milani teneva moltissimo a che i suoi ragazzi facessero esperienza all’estero. “Dopo tre anni che ero là, son partito per la Francia da solo, per due mesi e mezzo. Poi in Inghilterra per dieci mesi. A raccontarlo oggi mi sembra una favola. Io, figlio unico, timido, pauroso, un povero montanaro che non parlava…partire in quel modo da solo, altro che miracoli! Ci aveva forgiato davvero come cittadini sovrani. Era talmente tanto contento! Molte volte, quando ci fissava il momento della telefonata dal posto pubblico, mia madre mi diceva: ‘Nevio, tu non puoi capire, non piangevo io quanto era commosso lui quando sentiva la vostra voce!’.

"‘Lettera a una professoressa’ è stata un’ultima prova di ragazzi che si sentivano aperti con il mondo. Lui era il regista. Lui ci dava i temi da trattare, poi noi buttavamo giù i contenuti. Poi piano piano il lavoro di dettaglio, di limatura, togliere quello che non serviva, fino alla semplificazione totale. Quando arrivammo alla stesura che ci sembrava buona lui disse: ‘Leggetela ai vostri genitori. Se non la capiscono, strappiamo tutto’. Pensa che umiltà, la sua… Il lavoro di un anno e mezzo che rischiava di andare in fumo”.

Don Milani ha fatto quello che ha fatto a Barbiana perché ha creduto fino in fondo nel Vangelo – conclude - altrimenti non si fa una cosa del genere. La domenica mattina ci spiegava il Vangelo, sempre con la cartina della Palestina davanti. Papa Francesco e Don Milani? Possono andare tranquillamente a braccetto. Sono uno la fotocopia dell’altro”. 








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