2017-05-01 10:00:00

Belletti: per ripartire l'Italia deve investire sulla famiglia


La mancanza di lavoro in un Paese è anche mancanza di investimenti, non solo sulle cose ma sulle persone. E l'Italia è un Paese che continua a non investire sulla famiglia, quindi sulle nuove generazioni, quindi sul suo sviluppo e sul suo futuro. E' il quadro che emerge dal recente rapporto Istat sul calo demografico: fra 50 anni l'Italia conterà sette milioni di residenti in meno. Tra le ragioni di questi dati, le difficoltà delle giovani coppie di mettere su famiglia. Il servizio di Michele Raviart:

Entro il 2065 la vita media in Italia passerà da 80 a 86 anni per gli uomini e da 84 a 90 anni per le donne, con un numero di ultranovantenni che saliranno da 700 mila a un milione e mezzo. Le conseguenze di questo invecchiamento della popolazione sarà un saldo negativo tra decessi e nascite di 450 mila unità, con due morti ogni nuovo nato. Il risultato, sebbene l’indice di fertilità passerà da 1,34 figli per donna a 1,59 è che gli abitanti dell'Italia scenderanno dagli attuali 60 a 53 milioni. Non solo: aumenteranno i residenti del centro-nord e diminuiranno gli abitanti del sud. Stabile sarà l’apporto dei migranti, che ogni anno saranno tra i 270 mila e i 300 mila, mentre saranno tra i 6 e i 7 milioni gli italiani che emigreranno all’estero. Tutti dati che nel loro complesso disegnano uno scenario da “blocco demografico”, come spiega il prof. Francesco Belletti, direttore Centro internazionali di studi sulla famiglia:

R. – Abbiamo il  grande problema del blocco demografico, stanno arrivando alla condizione di età anziana le generazioni del boom demografico e questo è uno scenario che ci segnerà per molto tempo. La questione grave è che non c’è nessuna attenzione, nessun segnale di ripresa per quanto riguarda le nuove nascite. Non sono preoccupatissimo che ci sia qualche centinaia di migliaia di persone in meno nel prossimo futuro nel nostro Paese; quello che mi preoccupa è che gli anziani passeranno dal 22-23 al 30-35 percento e che i giovani e i bambini passeranno a percentuali minime. È questo che descrive una popolazione in regresso e che non ha progetto, che non ha futuro; un Paese che non riesce ad aiutare le persone ad avere figli, è un Paese che rinuncia a costruire il proprio futuro.

D. - Che politiche si possono implementare per cambiare questo trend?

R. - C’è bisogno di una doppia azione: una di tipo culturale ed una di tipo politico che sarebbe più semplice, basterebbe volerlo. Dal punto di vista culturale oggi è presente una forte tentazione nel dire: “Un figlio in più è un danno alla comunità” e non si riesce a far passare nei media, nella comunicazione, nel sentire comune della gente, che chi mette al mondo un figlio sta investendo sul proprio futuro e sul futuro di un intero popolo. Quando vedi una famiglia con tre o quattro figli, questa si sente dire: “Ma siete degli irresponsabili che li avete messi al mondo!”. Questo deve cambiare; è complicato, è un compito di comunicazione, di testimonianza che richiede tempi lunghi, ma non possiamo dimenticarcelo.

D. - E invece da un punto di vista strettamente politico, quali sono le misure da intraprendere?

R. - Dal punto di vista delle politiche è sorprendente che il nostro Paese sia stato paralizzato per tutti questi decenni. La Francia, la Svezia, la Germania, sono tutti Paesi che hanno in qualche modo messo mano a politiche attive per favorire la natalità. Da noi questo è un tabù. Le cose che facciamo in Italia sono una tantum, sono dei bonus, … Hanno tutte le parole delle precarietà. Invece ci sarebbe bisogno di politiche strutturali spostando le risorse economiche a sostegno delle giovani famiglie. Dovrebbe essere il primo passo della prossima legge di stabilità e della prossima legge finanziaria. Dobbiamo spostare soldi a sostegno di due giovani che decidono di mettere su casa, di mettere su famiglia e poi di aver un figlio. Se non facciamo questo, come altri Paesi hanno già fatto, resteremo condannati a questa marginalità dei giovani e delle famiglie con bambini piccoli.

D. - Dal rapporto emergono altri dati interessanti. Tra 50 anni la popolazione del Nord Italia aumenterà del cinque percento e scapito della popolazione del Sud, del Mezzogiorno. Sono così gravi gli squilibri socio-economici fra queste due parti dl Paese? 

R. - Non ci siamo neanche accorti che c’è stato un rovesciamento dei trend demografici: vent’anni fa le popolazioni del Sud erano più fertili, avevano più figli per famiglia, erano più giovani; oggi la popolazione del Sud è maggiormente in difficoltà. Quindi, è vero, questo è un trend segnalato dall’Istat per il prossimo futuro che dice che il Sud, oltre ad essere in difficoltà dal punto di vista dello sviluppo economico, della coesione sociale, è anche in difficoltà dal punto di vista della speranza. Noi siamo in una situazione in cui la fatica del sistema economico si scarica direttamente sull’impossibilità di pensare al futuro. Dovrebbe essere un allarme sociale che non ci fa dormire perché, di fatto, abbiamo - come dire - sterilizzato intere generazioni.








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