2017-04-05 17:59:00

Bologna e Pavia: la cronaca fa riflettere sulle seconde generazioni


Frustata per i suoi vestiti e comportamenti troppo occidentali, rasata a zero per non aver voluto indossare il velo. Sono i due recenti casi di cronaca italiana che hanno visto protagoniste due quattordicenni: la prima, a Pavia, di origine marocchina; la seconda a Bologna di origine bengalese. In entrambi i casi, i Tribunali per minori le hanno tolte alle famiglie perché maltrattate. I due episodi, seppur isolati, ripropongono l’importante questione dei ragazzi di seconda generazione. Francesca Sabatinelli :

Conflitto generazionale, rifiuto di accettare da parte dei figli la volontà di accostarsi alla cultura di accoglienza respingendo quella di origine, motivi di carattere religioso. Possono essere svariate le motivazioni dietro a casi, anche meno estremi, come quelli proposti da questi giorni dalla cronaca. Sulla realtà di quanto accaduto prima a Bologna e poi a Pavia, indagheranno gli inquirenti, resta però il fatto che i giovani figli di stranieri, ma italiani a tutti gli effetti, per nascita, per cultura e per lingua, ancora oggi vivono tensioni e difficoltà. Mauro Valeri, sociologo, responsabile dell’osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio:

“C’è sicuramente un conflitto di tipo generazionale che capita anche nelle famiglie italiane. Poi c’è l’altra  variabile, quella più di carattere culturale che religiosa. Noi non stiamo proponendo – soprattutto ai figli dei migranti – un modello molto positivo, perché, come sappiamo tutti, l’Italia è un Paese che ancora mantiene una legge sulla cittadinanza molto rigida, per cui anche se in Italia nasce una persona da due genitori stranieri, viene trattata come straniera fino a 18 anni. Questo spinge molte volte le seconde generazioni a sentirsi fortemente italiane e ad aderire ad un modello culturale molto forte, quindi innestando uno scontro maggiore con le famiglie che a volte appunto, come in questi casi, sono rimaste più legate ad una cultura  di origine. Ma dobbiamo stare attenti, perché questo stesso meccanismo può portare a quello che i sociologi definiscono “identità di ritorno”, cioè nel momento in cui la ragazza o il ragazzo non si sentono accettati dall’Italia, non lo sono di fatto a norma di legge come cittadini pieni, rischiano di adottare forme invece altrettanto pericolose che sono quelle di un integralismo verso aspetti culturali, e in quel caso anche religiosi, che sono particolarmente preoccupanti soprattutto in questo caso”.

Mohamed Tailmoun, di origine libica, è mediatore culturale e membro della Rete G2 – seconde generazioni, associazione fondata nel 2005 da figli di immigrati e rifugiati nati o cresciuti in Italia:

“In Occidente c’è un ritorno all’islam anche da parte dei giovani, un ritorno all’utilizzo del velo che magari è sconosciuto anche ai propri genitori, un ritorno ad andare nei luoghi di culto che magari i propri genitori, i propri nonni, non frequentavano così spesso. Quindi, c’è una rislamizzazione e di conseguenza una cultura giovanile a carattere islamico che tenta di imporsi, che tenta di farsi strada. Quindi c’è un conflitto fra due orientamenti giovanili: chi porta il velo o altro, perché è un simbolo di apparenza che si ostenta e si porta con orgoglio, e chi lo rifiuta, non lo vuole mette perché lo si considera un’imbrigliatura, un mettersi addosso un simbolo che non si riesce a gestire, perché troppo ingombrante”.

La responsabilità, parere condiviso, è da attribuire al Paese Italia, che ancora oggi è immerso in uno sterile dibattito politico che non fa progredire, ma bensì arretrare, il processo di integrazione di un numero sempre più importante di giovani che, in quanto ‘ponte’ tra diverse culture, andrebbero considerati più una ricchezza che un peso da arginare. Ancora Valeri e Tailmoun:

“Una chiave di lettura più adeguata è questa: ma perché noi, insieme, non siamo riusciti a far sì che queste persone abbiano un atteggiamento meno di chiusura nei confronti della nostra cultura? Spesso sentiamo dire che in Italia vige il multiculturalismo, in realtà non è vero perché non siamo un Paese che riconosce così tanto le differenze culturali. Il problema a che noi dovremmo cercare di capire è quali sono i diritti fondamentali che vanno aldilà di qualsiasi distinzione culturale e religiosa, che vanno rispettati sempre e comunque, e quali sono invece gli aspetti che a seconda delle varie culture possiamo accettare. Però questo non deve essere fatto pensando a loro, dovrebbe essere fatto anche pensando a noi. Secondo me in parte, anche se non pacificherebbe del tutto le tensioni, in parte comunque le attenuerebbe, perché farebbe sentire tutti più italiani, darebbe molta più forza ai ragazzi e ai figli dei migranti il potersi sentire fin da subito italiani”.

“Sicuramente di fondo c’è una crisi del modello di inclusione delle società di cui stiamo parlando, in primis anche quella italiana se vogliamo. Nel caso dell’Italia è un modello ad esempio, “fai da te”, non è un modello pensato, ragionato, esplicitato. È un modello in cui chi riesce ad adattarsi si adatta, chi non riesce viene espulso”.

A preoccupare Tailmoun, oltre all’immobilismo del dibattito, anche la violenza che lo caratterizza ogni volta che in Italia si parla di immigrazione:

“Il Paese  si sta chiudendo molto in se stesso, non è molto disponibile e non offre le stesse possibilità che offriva alla mia generazione per poter crescere, vedere miglioramenti anche dal punto di vista dei diritti. La mia generazione pensava che la legge sulla cittadinanza sarebbe stata ottenuta dieci anni fa, ancora adesso raccontiamo alle seconde  e terze generazioni più giovani di noi che c’è una difficoltà ad ottenere la legge, che il dibattito si è bloccato se non addirittura regredito, si torna a discorsi xenofobi, apertamente razzisti, a battute che una volta non avremmo mai sentito sulla nostra cultura, sui nostri genitori o sul nostro diritto ad essere cittadini italiani come tutti gli altri”.

 








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