2017-03-20 14:40:00

Vescovo di Locri: Chiesa non intimidita da minacce 'ndrangheta


La Chiesa di Locri-Gerace non si farà intimidire dalle minacce. La diocesi calabrese reagisce così alle scritte ingiuriose comparse oggi sui muri dell’episcopio anche contro don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, presente in Calabria per la celebrazione domani della 22.ma Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Ieri, sempre da Locri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva lanciato un duro monito dicendo che i mafiosi “non hanno onore”. Francesca Sabatinelli:

La Chiesa di Locri-Gerace seguirà senza indugi la strada indicata dal Vangelo, che non ammette violenza e prevaricazione, e ripete che chiunque aderisca ad associazioni criminali si pone fuori dalla comunità cristiana. Parole forti quelle che la diocesi calabrese ha affidato ad un comunicato nel quale si conferma la partecipazione domani alla Giornata della memoria. Una nota che segue la comparsa sui muri del vescovado e di altri luoghi di Locri di scritte contro don Luigi Ciotti e contro le forze dell’ordine. Mons. Francesco Oliva, vescovo di Locri-Gerace:

R. - Con don Luigi stiamo pertanto avanti una intesa meravigliosa che ci ha portato ad organizzare qui questa Giornata della memoria e dell’impegno. Credo che queste scritte giustifichino la bontà della scelta che abbiamo fatto. Era necessario che questa giornata portasse a richiamare l’attenzione ad un passato che ha insanguinato quest’area, un passato di morte, per cui fare memoria di questi eventi aiuta a capire che bisogna camminare su percorsi nuovi, anche attraverso un impegno maggiore a favore della legalità e della partecipazione civile. La prima cosa da dire è: solidarietà nei confronti di don Luigi. La seconda riguarda due problemi che qui assillano il nostro territorio. Il primo è quello dell’ordine pubblico. Le forze dell’ordine sono molto impegnate a tutti i livelli, un impegno che non può assolutamente venir meno perché questa è una zona ad alta densità mafiosa. Il secondo problema è un problema molto delicato, importante: è il problema del lavoro, del lavoro che non c’è. Non si può continuare a chiedere il lavoro a caporali di turno o al boss del luogo. Il lavoro è un diritto, non può qui essere un privilegio né si può aspettare il lavoro da parte di questi personaggi e poi vivere in uno stato di costante sudditanza psicologica. E’ necessario a questo punto che venga data attenzione a questo problema del lavoro e che abbia una risonanza un po’ più ampia. Le istituzioni non possono non prendere in considerazione il Sud in generale, quest’area in particolare dove non resta altra speranza se non quella di emigrare e trovare condizioni di vita migliori altrove.

D.  – Traspare che la Chiesa sta dando fastidio a questa criminalità…

R. – La Chiesa prende una posizione chiara di fronte al fenomeno ’ndranghetistico, capendo che blocca la crescita sociale e civile di quest’area . E’ necessario che la gente onesta venga più alla luce, che non rimangano fette di omertà  o di silenzi. Bisogna ribellarsi di fronte a certe situazioni che creano qui solamente morte.

D. – Lei ha denunciato: “La 'ndrangheta condiziona l’esercizio del ministero sacro, vuole far sentire il proprio potere in campo religioso”, la Chiesa deve difendersi da questo?

R. – Certo. La lotta della Chiesa nei confronti di questo fenomeno è una lotta che tocca l’evangelizzazione, il cuore dell’evangelizzazione. La Chiesa non può essere condizionata nell’annuncio di un Vangelo che forma le coscienze, aiuta le persone a rinnovarsi e incide anche nei rapporti sociali, nella vita di ogni giorno. Non vogliamo predicare un Vangelo anestetizzato, che non tocca le coscienze, che non porta rinnovamento. Per cui, un Vangelo che porta rinnovamento qui in questa zona è un Vangelo che dà fastidio.

D. – Mons. Pennisi di Monreale, con un decreto, ha detto no agli uomini di mafia come padrini di battesimi e cresime…

R. - Sì, è un problema che ritorna in questa zona. Ci siamo posti questo problema ed è sotto l’attenzione anche delle Chiese di Calabria. E’ un problema che tocca un po’ tutto il sud perché essere padrino dà una configurazione sociale e crea anche legami molte volte che vanno al di là del fatto religioso. Ecco il condizionamento, allora, del mafioso nella vita religiosa. La gente della Locride deve riscoprire il suo essere, la sua vera identità, le sue radici cristiane, non deve avere paura di essere coraggiosa, di essere se stessa, non deve lasciarsi intimidire da questi personaggi. Meglio essere poveri che arricchirsi in maniera illegale, illecita.

‘Più lavoro meno sbirri’ è una delle scritte comparse a Locri. Deborah Cartisano è referente nella  Locride dell’associazione Libera ed è rappresentante provinciale delle vittime di mafia:

R. – E’ ovvio che tutti vogliamo più lavoro per la Calabria, ma un lavoro vero, pulito e non certo quello che offrirebbero le organizzazioni mafiose, e su questo dobbiamo essere chiari. Il lavoro che si sta facendo in questi anni sta dando fastidio, è ovvio, e queste scritte ce lo confermano. Ma noi, invece, vogliamo pensare a tutti i giovani con cui abbiamo lavorato in questi anni e che abbiamo incontrato in questi mesi che hanno preceduto il 21 marzo: giovani, insegnanti, entusiasti di fare il lavoro sulla memoria per arrivare al 21 marzo ancor più consapevoli. E questi sono la maggior parte dei calabresi. Non sono quei pochi vili che hanno scritto quelle cose.

D. – Quei ‘pochi vili’, però, Deborah, condizionano tantissimo la società calabrese …

R. – Certo. Purtroppo, la ‘Ndrangheta ha condizionato la nostra terra, ha condizionato le scelte economiche, il nostro futuro perché se le persone devono andare via, i giovani, soprattutto, devono andare via per cercare lavoro non è certo colpa dei cittadini onesti. Il lavoro noi non ce l’abbiamo anche grazie alla ‘Ndrangheta. E poi vorrei dire che gli “sbirri” – lo voglio usare questo termine – sono poliziotti, forze dell’ordine che tutelano i cittadini e che sarebbero molti meno se non ci fosse la presenza della ‘ndrangheta.

D. – Lei ha sollevato ieri, parlando con il presidente Mattarella, a nome del Comitato, un aspetto molto drammatico e molto importante: la totale mancanza di luce sulle storie – sono le sue parole – che ancora chiedono verità e giustizia …

R. – C’è n’è bisogno assolutamente, perché la maggior parte delle nostre storie la stanno ancora aspettando, e sarebbe importantissimo per i familiari delle vittime poter almeno avere verità e giustizia. Perché loro (le cosche ndr), ormai, ce li hanno già tolti, ma noi vorremmo che almeno la loro memoria venisse portata avanti anche grazie alla giustizia. La società civile per tanti anni non ha proprio avuto contezza di quante sono le nostre vittime, di chi sono le nostre vittime.

D. – Deborah, lei chi ha perso?

R. – Io ho perso mio padre, è stato sequestrato nel ’93, anni prima si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato. E’ stato sequestrato nel ’93 e dopo dieci anni il suo carceriere, la persona che lo accudiva, ci ha inviato una lettera anonima con cui ci ha fatto ritrovare il suo corpo. Ci ha chiesto perdono, ci ha parlato della voglia di cambiare per i suoi figli, perché avrebbe voluto di nuovo poterli guardare in faccia con orgoglio. Quindi, la sua voglia di cambiamento ha dato a noi la possibilità di dare a mio padre una degna sepoltura. Per noi, domani, non è un giorno in cui ricordiamo i nostri morti, perché noi i nostri morti vogliamo ricordarli vivi, perché viva dev’essere la loro memoria, presente, condivisa e il più possibile viva, assieme a noi. Per questo abbiamo scelto il 21 marzo, primo giorno di primavera: perché di loro, dei nostri cari, vogliamo ricordare le loro vite, non soltanto le loro morti.








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