2017-03-08 13:59:00

Giornata donna. Suor Farina: misoginia è negazione del Vangelo


Nella Giornata internazionale della donna, ci si chiede a che punto siamo nel cammino della storia per valorizzare quel ‘genio femminile’, messo in luce da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Mulieris dignitatem, a cui è dedicato il Convegno ospitato oggi pomeriggio dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium. Intanto nel mondo corre un vento di protesta delle donne, con scioperi, astensioni dal lavoro fuori e dentro casa, cortei, assemblee, che rendono questo 8 marzo poco celebrativo e festoso. Il servizio di Roberta Gisotti:

Donne stanche di essere maltrattate, una su tre è ancora vittima di violenze sessuali o di altro tipo nella mura domestiche, nel corso della propria vita, secondo stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità. E succede pure che nel 2017 il Bangladesh approvi una legge che regolamenta e favorisce i matrimoni precoci, oltre la metà delle spose non ha compiuto 18 anni e quasi il 20 per cento ha meno di 15 anni. Vane le proteste della Chiesa cattolica nel Paese asiatico. Non c’è da meravigliarsi se le donne indietreggiano nei loro diritti in gran parte del Pianeta, se solo il 22 per cento delle parlamentari nel mondo è donna. Dov’è dunque quel ‘genio femminile’ di cui parlava Papa Wojtyla, quasi 30 anni fa? Suor Marcella Farina, docente di teologia fondamentale, all’Auxilium:

R. – Il genio femminile c’è, nella storia, c’è stato e ci sarà. Solamente che va riconosciuto e valorizzato. La donna ha la missione storica, di essere la madre dei viventi, la madre della vita.

D. – Sono in molti, però, a rimproverare che ancora oggi la donna abbia un ruolo – come dire – defilato all’interno delle Istituzioni ecclesiali …

R. – Paradossalmente, l’antifemminismo – o questa mentalità misogina che inferiorizza le donne – emerge storicamente quasi a ondate: quando la donna prende più consapevolezza del suo esserci nella storia, con i suoi valori, con le sue domande, anche con le sue prospettive. Tanto c’è misoginia nella Chiesa quanta ce ne è nella cultura, dove queste personalità ecclesiastiche, che magari coltivano questi sentimenti, hanno perso la vigilanza evangelica: perché dove c’è la vigilanza evangelica, questo tipo di mentalità non può essere accolto. Tanti che Gesù è visto anche da donne non credenti come il grande liberatore delle donne: a partire dall’esperienza evangelica dove le donne vanno dietro a Gesù come gli uomini, senza nessuna inferiorizzazione. Anzi, dice il Vangelo di Luca che “le donne seguono Gesù e l’assistono con i loro beni”. Vuol dire che sono donne anche importanti, che hanno la possibilità di disporre di patrimoni, per poter assistere questi discepoli nei loro viaggi.

D. – Quasi sempre si affronta il tema dell’emancipazione femminile senza considerare l’emancipazione maschile che ne dovrebbe conseguire …

R. – Gli uomini devono fare un salto in avanti, nel loro percorso, cioè devono raggiungere noi donne nella consapevolezza del proprio essere uomini. Infatti, noi donne abbiamo tematizzato, certamente non una volta per sempre, perché è un processo continuo, quello di avere consapevolezza di cosa significhi essere donne ed esserci come donne nella società, nei luoghi delle professioni, nei luoghi della cultura e anche nelle religioni. Gli uomini devono prendere coscienza del fatto che essere uomo non è un termine generale che rappresenta l’umanità, ma essere uomo significa essere proprio il maschio nell’esperienza dell’immagine di Dio, perché Dio ha voluto maschio e femmina. E secondo me, questo è un compito che dovrebbero svolgere con più coraggio, perché nei secoli si parla di uomo come umanità e in qualche modo, nel generico, loro si ritrovano ma perdono molto delle loro risorse, che dovrebbero tematizzare e poi riesprimere in contesti culturali che sono molto diversi, anche solo rispetto a 30 anni fa.

D. – Invece, il procedere separatamente sul discorso dell’emancipazione, in realtà ha creato profonde ferite, lacerazioni e sofferenze all’uomo e alla donna

R. – Possiamo dire che abbiamo capito, nel percorso a partire dal ’68, e poi negli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, che la reciprocità è la via della costruzione umana. Non è tanto l’alternativa uomo-donna o la differenza esasperata dell’uomo e della donna, facendo due gruppi separati e magari anche rivali. E, anche nel campo teologico, fin dal 1984, quando abbiamo iniziato – come donne teologhe italiane – a ritrovarci anche in modo molto informale, per dire cosa significa fare teologia in quanto donne, abbiamo parlato della teologia al femminile e non tanto di teologia femminista, proprio perché volevamo sottolineare questo tratto di consapevolezza che dietro di noi, che avevamo avuto accesso alle Facoltà teologiche dopo il Concilio Vaticano II, c’erano anche gli uomini che ci hanno aperto le porte e ci hanno incoraggiato negli studi. Infatti, nelle Facoltà teologiche questa presenza femminile era vista come una presenza particolarmente significativa, perché li stimolava a riflettere, a interrogarsi anche su aspetti della vita che magari non avevano considerato, fino ad allora. Quindi possiamo dire che c’è una strada, questa della reciprocità e anche di puntare più sulle risorse e sui semi della storia che non, magari, sulle sconfitte, sulle discriminazioni perché in questo modo abbiamo speranza: vedere che cosa la storia ci sta offrendo e che dobbiamo valorizzare fino in fondo per potere fare un passo in avanti.








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