2016-11-05 17:48:00

Pozzallo: giornalisti in dialogo su migrazioni e accoglienza


Quinta tappa, in questi giorni, a Pozzallo, in provincia di Ragusa, del progetto “Giornalismo e Migrazioni” promosso da NetOne, la rete internazionale di professionisti della comunicazione che opera per il dialogo e la pace tra i popoli su ispirazione del carisma dell’unità di Chiara Lubich. Dopo Budapest, Atene, Man in Costa d’Avorio, e Varsavia, in Sicilia si è discusso dell’immigrazione proveniente in particolare dall’Africa e del modello italiano di accoglienza e integrazione. Obiettivo del progetto, che vedrà altri due appuntamenti, a Beirut e a Bruxelles, è l’apertura di una via originale di interpretazione e di narrazione del fenomeno che favorisca nei suoi confronti risposte sociali e politiche condivise. Al microfono di Adriana Masotti, il giornalista ungherese Pal Toth, responsabile internazionale di NetOne:

R. – Qui a Pozzallo abbiamo una tappa di una serie di appuntamenti di NetOne. Abbiamo avvertito, prima di tutto nell’Est europeo, che c’è un certo disagio nel comprendersi tra Est e Ovest, tra giornalisti, anche tra soggetti civili e politici soprattutto, sulla questione migratoria. Abbiamo visto che noi, che tendiamo a costruire rapporti, a favorire il dialogo per costruire processi integrativi nella società, dobbiamo fare qualcosa. Abbiamo fatto un primo incontro a Budapest per affrontare questa differenza di vedute e io credo che questo sia molto importante, perché non è di poco conto come i giornali raccontano la migrazione. E’ un fatto noto, che l’Ungheria e i Paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad, abbiano assunto una posizione particolare: si sono chiusi, l’Ungheria ha innalzato anche una siepe per proteggersi dall’ondata migratoria che è arrivata l’anno scorso. Questo fatto viene interpretato in Occidente come un’ostilità verso l’accoglienza, e così via. Ora dobbiamo capirci meglio anche per poter mediare, per poter trovare soluzioni comuni a livello europeo, che mancano, diciamo la verità. Dopo l’incontro di Budapest siamo andati in Grecia, che anche è un punto molto caldo, per intavolare un dialogo tra giornalisti europei – tedeschi, italiani, ungheresi, sloveni e così via …

D. – Per un giornalista che si impegna, che crede in un mondo dove la famiglia umana è unita, come è possibile raccontare, capire certe chiusure, certi muri che si alzano nei confronti di chi arriva da fuori?

R. – Per noi, un primo passo importante è stato capire bene la motivazione di questa chiusura: in Ungheria, dopo anche la Polonia, vogliono adesso trovare soluzioni comuni e proporle all’Europa. In questi Paesi la formazione dell’identità nazionale non è ancora conclusa, per il fatto che durante il comunismo non era stato possibile parlare di queste cose. Tanti ungheresi vivono fuori dall’Ungheria. Ora, in tutta quest’ansia di creare l’unità della Patria, del popolo ungherese, il fenomeno migratorio viene visto come una minaccia. Dobbiamo dire anche che il popolo ungherese ha fatto un’esperienza molto particolare, per quanto riguarda la migrazione: un’ondata di persone che l’anno scorso hanno attraversato il Paese senza controllo e questo ha creato tanta paura perché si è creata l’impressione che questo fosse il disordine incarnato. Io vedo che qui adesso conosciamo fino in fondo l’esperienza italiana, dove c’è tutta un’infrastruttura di accoglienza, persone altamente qualificate e preparate all’accoglienza. In Ungheria non abbiamo tutta questa infrastruttura. Poi c’è, secondo me, anche un’esagerata paura dell’islam e della forza destabilizzante dell’islam per questa società, quella ungherese, che vuole riconoscersi di nuovo come cristiana. Ci sono tutte queste paure … Io credo che questo sia ora un processo di crescita e credo che l’Ungheria si aprirà anche gradualmente all’accoglienza. Ci vorrebbe però una maggiore unità tra gli Stati europei: noi vogliamo lavorare proprio in funzione della diffusione di una visione dell’accoglienza dei veri richiedenti  asilo, perseguitati dalla guerra, dalla fame e così via … C’è tanto da fare e noi ci troviamo in mezzo a questo processo con una missione che abbiamo ricevuto da Chiara Lubich, quella di costruire ovunque la fraternità, con i nostri mezzi.








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