2016-08-04 13:49:00

Sud Sudan: continua emergenza umanitaria, 60 mila in fuga


Rimane alta la tensione in Sud Sudan, dove secondo le Nazioni Unite durante gli scontri del mese scorso a Juba le forze governative hanno ucciso e violentato dei civili. Il presidente Salva Kiir ha destituito cinque ministri vicini all’oppositore Riek Machar, mentre continua l’emergenza umanitaria. In 60 mila sono fuggiti dal Paese, per una guerra che rischia di accentuare la compente etinica. Per un punto sulla situazione Michele Raviart ha raggiunto a Juba padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei comboniani in Sud Sudan:

R. – Negli scontri che ci sono stati sicuramente un migliaio di persone sono morte, anche se il governo tende a parlare sempre di 300 morti. Dopo questo, logicamente con la fuga dell’opposizione e quindi di Riek Machar, c’è stato un cessate-il-fuoco, che ancora c’è a Juba. Però gli scontri continuano fuori da Juba, ad un centinaio di chilometri da qui… E’ difficile capire veramente fino in fondo quale sia la verità di questi due gruppi in questo momento.

D. – Per il Sud Sudan si chiede un impegno maggiore da parte della Comunità internazionale. Quali sono i rapporti con il governo?

R. – C’è una tensione del governo nei confronti della Comunità internazionale in genere, che sta cercando di dialogare con il governo e che cerca di riportare al tavolo delle trattative anche Riek Machar. Anche se il governo ha nominato un altro vice presidente, Taban Deng, dicendo che era temporaneo fino a quanto sarebbe tornato Riek Machar: invece il presidente ha annunciato che il nuovo vice presidente era Taban Deng. E questo ha complicato ancora di più la situazione, perché questo vuol dire che c’è una grande divisione anche nell’opposizione. E’ chiaro che si sta cercando di non accettare più quello che era l’accordo che era stato firmato da Riek Machar e Salva Kiir per il governo. Loro non hanno mai accettato fino in fondo questo accordo del 2015.

D. – A livello umanitario l’Onu ha lanciato vari allarmi in questi giorni: da un lato si parla di 5 milioni di persone che rischiano di morire, dall’altro di 11 mila persone che non riescono ad avere gli aiuti dell’Onu, perché non riescono a registrarsi ai campi. Qual è la situazione?

R. – Sono ormai due anni che siamo sempre in questa situazione di emergenza massima: tra i 3 e 5 milioni sono ancora oggi a rischio fame per la guerra, quella precedente e oggi ancora di più, perché le risorse diventano sempre di meno. Le Ong sono sparite quasi tutte da qui, sono rimaste pochissime. Poi c’è una situazione assurda dell’economia e delle finanze, che è saltata tutta: qui si cambia un dollaro a 60 pound e, se facciamo riferimento a 6-7 mesi fa, si cambiava un dollaro per 3. L’inflazione, in questo momento, è la più alta al mondo: più del 300 per cento di inflazione.

D. – Quali sono i rischi di escalation per questa guerra, in cui è componente anche una profonda divisione etnica?

R. – Se il Sud Sudan ritorna ad essere ancora una polveriera, come lo è già, ma diventa sempre più etnica e non soltanto fra due tribù ma anche con altre, è quasi genocidio, come è stato il Rwanda. Se in Rwanda c'erano due etnie e basta, qui ce ne sono 64 di etnie, ma le più importanti sono esattamente Nuer e Dinka, che sono grandi come numeri. E’ difficile il dialogo con questi leader, perché questi non sono leader politici, questi sono dei militari.

D. – Qual è il ruolo della Chiesa locale in Sud Sudan, che – ricordiamo – proprio in questi giorni ha fatto un appello a non dimenticare il Paese?

R. – La Chiesa sta cercando di dare soprattutto messaggi di speranza alla gente, ma cerca anche di dare protezione, perché in questo momento le uniche speranze per la gente sono rappresentante dalla chiese: la gente scappa nei cortili delle chiese e sono migliaia e migliaia… E questo vuol dire protezione, ma vuol dire anche assistenza, vuol dire anche cibo, cercando di aiutare al massimo che si può.








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