2016-07-31 07:28:00

Burundi: Onu approva invio 228 soldati per fermare le violenze


Il consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato a favore di una risoluzione per riportare la pace in Burundi, dove è in atto uno scontro tra il governo di Pierre Nkurunziza, al suo terzo mandato, e le opposizioni. Le associazioni umanitarie hanno registrato nell’ultimo anno casi di esecuzioni e detenzioni arbitrarie, anche di bambini, torture, sparizioni, crimini sessuali contro le donne. Il documento delle Nazioni Unite prevede l’invio di 228 poliziotti, chiede il rafforzamento del dialogo interno e un intervento efficace dell’Unione Africana. Tuttavia la risoluzione non è stata approvata all'unanimità: Cina, Angola, Egitto e Venezuela si sono astenuti. L’impegno dell’Onu porterà a risultati effettivi? Eugenio Murrali lo ha domandato all’africanista Massimo Alberizzi:

R.- Il governo finora non ha dato il suo assenso. Ha detto che permetterà solamente l’ingresso di 50 poliziotti disarmati. Questo significa che saranno solamente dei testimoni, se vogliamo, di quello che potrebbe accadere per le strade di Bujumbura. Non credo che vengano dispiegati fuori dalla capitale. C’è di buono che finalmente il Consiglio di Sicurezza ha capito che bisogna fare qualcosa per questo Paese martoriato. Tra le altre cose – attenzione – non dobbiamo confondere quello che sta succedendo in Burundi con la guerra etnica. No. Direi che più che altro si tratta di una guerra di potere ed economica. Teniamo presente che nel Paese ci sono due etnie prevalenti: gli Hutu e i Tutsi. Nkurunziza fa parte dell’etnia degli Hutu, però ha contro di sé anche parte della sua comunità tribale, perché è un po’ anche un signore fuori dal comune, fuori dalla norma: ritiene di essere stato investito da Dio a guidare il Paese, quindi cerca anche una legittimazione esoterica.

D. - L’Unione Africana avrebbe dovuto inviare cento osservatori e cento esperti militari, però, per ora, siamo soltanto a 32 osservatori e 15 esperti . Un impegno inefficace?

R. - È inefficace perché l’Unione Africana è composta soprattutto da dittatori che temono il giorno dopo di essere anche loro inquisiti in qualche modo. Hanno paura che nel loro Paese qualcuno dica: “Mandiamo anche qui le truppe o la polizia o gli osservatori”.

D. – Il rappresentante dell’Egitto ha spiegato l’astensione dicendo che la risoluzione, così formulata, fa perdere alla comunità internazionale la possibilità di cooperare con il Burundi, perché di fondo può essere rigettata. Il Venezuela parla addirittura di un precedente negativo in questa risoluzione. È così?

R. - Finalmente qualcosa si muove. Certamente non è una delle risoluzioni migliori: anche se il governo del Burundi dovesse approvare l’invio di 228 poliziotti non è che si risolva molto. Rimarranno solamente come testimoni e assisteranno a violenze. Tra l’altro le missioni di pace che hanno avuto successo sono pochissime. Il problema è sempre politico e economico, in questi casi. E allora servono soluzioni economiche, ma non ai danni della popolazione. Per esempio, bisogna impedire che escano materie prime dal Burundi, fare sì che materie importanti –  diamanti, metalli preziosi, che sono in realtà congolesi –  non siano censiti come burundesi e non vengano poi esportati. Questo è il problema vero. Nessuno vuole mai mettere le mani su questioni economiche. Il Papa lo ha detto riguardo all’Is: “Questa non è una guerra di religione”, giustamente, è una guerra di soldi. Tutte le guerre sono di soldi. Pierre Nkurunziza è lì, non perché vuole difendere la sua popolazione o il benessere del Burundi: vuole difendere i suoi interessi personali – come tutti i dittatori africani –  della sua famiglia, se vogliamo, del suo gruppo di potere. Questo è il senso. Questo è quello che alla fine succede poi con l’Is. L’Is ha il controllo di alcuni pozzi petroliferi, per esempio in Libia. A chi pagano le royalties le compagnie petrolifere se non ai militanti islamici? Questo in piccolo succede anche in Burundi, perché il problema è sempre economico.

D. - Human Rights Watch, ma anche la rappresentante degli Stati Uniti, Samantha Power –  che tra l’altro ha detto che gli Stati Uniti hanno accettato questa soluzione minima rispetto a quelle che erano le loro attese –  ha sottolineato le gravi violenze contro le donne e nella risoluzione stessa si legge di 348 esecuzioni extragiudiziarie, 651 casi di tortura, 270mila richiedenti asilo nei Paesi limitrofi. La situazione a livello sociale è allarmante?

R. - Sì, questi sono dati minimi. Io francamente credo che i numeri siano molto, molto, molto più alti. Gli Imbonerakure, l’ala giovanile del partito al potere, mi ricordano molto gli Interamue ruandesi, che ammazzavano extragiudizialmente tutti quelli che gli erano “antipatici”. Quindi il problema è anche questo: se si trasforma questa guerra economica in una guerra etnica si rischia il genocidio. Ed è molto facile aizzare gli antagonismi etnici in Africa.

D. - Quindi lo spettro del Ruanda è davvero presente, come ha sottolineato il rappresentante francese François Delattre?

R. - Ha perfettamente ragione, anche se qualche colpa la hanno anche i francesi in Ruanda. La comunità internazionale, Bill Clinton chiesero scusa al Ruanda per non essere intervenuti. Gli interventi poi sono sempre calibrati rispetto alla politica internazionale. Adesso, l’Egitto dice che non è sufficiente, il Venezuela che è un primo passo pericoloso. Certo non auspico una polizia internazionale che faccia il bello e il cattivo tempo, anche perché c’è il rischio che alcune volte venga utilizzata non per difendere la popolazione, ma per difendere i regimi a seconda che questi ultimi siano accondiscendenti, ad esempio, a concedere concessioni petrolifere alle grandi multinazionali o no. Quindi non auguro questo, ma devo dire che in certi casi, come questo del Burundi, un corpo di polizia o forse addirittura un corpo militare sarebbe auspicabile, prima che si arrivi al genocidio ruandese, quando poi i corpi di polizia non sono arrivati. È bellissimo il libro del generale canadese Roméo Dallaire, che spiega bene come vedeva ammazzare la gente per strada e lui, uomo dell’Onu, uomo di pace, non è riuscito a fare niente perché la politica glielo impediva.








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