2016-07-23 12:46:00

Mali. Scontri a Kidal, 13 morti. Appello del governo ai tuareg


“Dare prova di moderazione”: questo l’invito del governo del Mali agli ex ribelli Tuareg dopo che nei giorni scorsi nel Paese è tornata a salire la tensione e si sono verificati scontri tra alcuni gruppi armati nel nord, a Kidal, che hanno causato almeno 13 morti. Le violenze rischiano di far saltare gli accordi di pace firmati nel giugno dello scorso anno? Roberta Barbi lo ha chiesto al prof. Luigi Serra, già titolare della cattedra di Lingua e letteratura berbera e preside della Facoltà di Studi arabo-islamici e del Mediterraneo presso l’Università Orientale di Napoli:

R. – Più che essere a rischio sono già in profonda lacerazione e crisi, nel senso che la componente Tuareg, quella dell’Azawad e l’altra che ormai intrattiene relazioni evidenti o poco palesi con le schegge di Boko Haram o di Acmi (al Qaeda nel Mali, ndr), di Abu Faraj al-Libi - non stiamo qui a elencare tutte le formazioni jihadiste - è più che operativa e incisiva al tempo stesso sotto il profilo della frantumazione di una speranzosa riunificazione del Paese attraverso la pacificazione Nord-Sud.

D. – I combattimenti a Kidal sarebbero stati scatenati da una disputa tra due gruppi per la gestione della città. Ma proprio questi due gruppi la settimana scorsa avevano firmato un accordo per una “gestione collegiale”…

R. – L’accordo era di facciata. Gli interessi erano più profondi dal punto di vista della gestione del territorio in senso di autonomia, tant’è che uno dei gruppi ha voluto immediatamente “smilitarizzare” il territorio dalla presenza dell’altro gruppo, cosa vicendevolmente praticata. Sono gli incarichi di prospettiva, i ruoli politici e quanto altro che – filtrati da Boko Haram da un lato e dalle altre componenti sia indigene sia allogene presenti nel Paese – hanno finito per frantumare l’intesa tra i due gruppi che, tra l’altro, appartengono alla stessa etnia, ipoteticamente interessati a un processo di pacificazione che fosse d’identificazione unitaria nel bene del Paese.

D. – I testimoni riferiscono di scontri di “rara violenza”. Vogliamo ricordare i termini del conflitto che affligge il Mali da almeno tre anni nonostante la presenza dell’Onu e l’intervento francese nel 2013?

R. – I termini degli scontri sono palesi dal punto di vista del loro realizzarsi ed esaurirsi sul terreno di lotta grazie alla facilità con la quale i media oggi informano l’opinione pubblica. Meno palese è la crudeltà di questi scontri perché, evidentemente, tracimano gli interessi di pacificazione sotto un profilo solo unicamente di socializzazione della pacificazione, quindi un profilo di avvicinamento civile, sociale, in prospettiva addirittura di eguaglianza economica tout court. Non sono più solo questi i motivi dello scontro e dell’allontanamento di una parte e dall’altra sotto la dimensione dell’incontro pacificatorio. Ci sono ormai gli interessi di alleanze con le realtà geopolitiche contigue. Dal Niger, al Mali, al Ciad, alla Nigeria oramai spirano gli stessi venti di divisione dettati da non si sa quali operatori occulti. Indubbiamente, gli interessi occidentali hanno il loro peso su cui l’Occidente e la stessa Onu né pare ne tenga un’attenta valutazione, un’osservazione seria e profonda, critica, analitica, né evidentemente le forze in campo analizzano dal punto di vista di modifica degli impegni sul terreno, tenendo in pratica tutto occulto nonostante la lucentezza degli avvenimenti, grazie soprattutto ai media e ai vettori di informazione che fotografano la situazione.

D. – Il susseguirsi di attacchi terroristici in Occidente dell’ultimo periodo può avere qualche influenza sulla situazione interna del Mali, Paese che in passato è stato teatro di attacchi di matrice jihadista?

R. – Penso proprio di sì. Il quesito grande e il dubbio che vengono alimentati da questo incrociarsi di atti terroristici in Occidente, in Africa e altrove, è la formula secondo la quale queste reciproche influenze prenderanno corpo e si realizzeranno. In Occidente si è modificato lo schema dell’attentato terroristico: non è più un gruppo che rivendica forse a monte prima dell’attentato la paternità, è il singolo che grida in un verso o nell’altro, ingigantendo la ristrettezza della tessitura delle maglie attraverso cui i servizi si trovano intrappolati. Certo questa complicanza delle espressioni sul terreno, delle nefandezze sia interne alle componenti locali, sia su suggerimento esterno, finirà per combaciare con quella che è la difficoltà a venirne a capo in Occidente.








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