In un clima familiare si è svolta stamani alla sede della Segreteria per la Comunicazione, la cerimonia di congedo dell’arcivescovo Claudio Maria Celli, al termine del suo servizio in Vaticano, dopo 10 anni alla guida del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. All’evento hanno preso parte il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e il prefetto del dicastero per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò, oltre ai vertici dei media vaticani e della Sala Stampa e numerosi giornalisti. Il porporato ha sottolineato le qualità umane e spirituali di mons. Celli e il suo importante servizio nella diplomazia vaticana prima di essere chiamato nel 2007 ad occuparsi di comunicazione. Proprio su questo ruolo particolarmente significativo, ascoltiamo, l’intervento di mons. Dario Edoardo Viganò:
R. – Io ringrazio davvero di cuore don Claudio per avere seguito proprio dal giugno dello scorso anno la costituzione della Segreteria. L’ha seguita, anzitutto, con il patrimonio della sua conoscenza della Curia Romana e poi con il ricco percorso compiuto dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali che lui ha seguito con molta dedizione. Devo anche, onestamente, sottolineare che l’impegno di mons. Celli è stato anche quello di disporre, in un percorso preciso, l’esigenza della riforma dei media vaticani. Questo, perché lo dico? Perché fu proprio lui – erano i primi mesi in cui ero al Centro Televisivo Vaticano – a convocare dei tavoli di incontro e di collaborazione più strategica tra l’Osservatore Romano e il Centro Televisivo Vaticano e la Radio Vaticana. Quindi davvero lo ringrazio perché ha messo su un binario preciso il desiderio del Papa di un ripensamento del sistema comunicativo della Santa Sede: lo ringrazio di cuore perché la sua intelligenza, la sua capacità di disporre le cose con pazienza hanno permesso di muovere i primi passi della riforma.
A margine della cerimonia, Alessandro Gisotti ha chiesto a mons. Claudio Maria Celli, che ora potrà dedicarsi a tempo pieno ai suoi studenti di Villa Nazareth, un bilancio del suo servizio per la Santa Sede nel campo delle comunicazioni sociali:
R. – Vado via serenamente e contento di aver potuto servire la Chiesa e il Papa, così come nel 2007 mi chiese di fare Papa Benedetto. Un servizio nel Pontificio Consiglio delle Comunicazioni che è il primo Consiglio voluto dal Concilio Vaticano II. Credo che in questi anni – pur con i limiti e le difficoltà – abbiamo cercato di aiutare la Chiesa nelle sue diverse espressioni, a essere non solamente più comunicativa: il problema della comunicazione, oggi, è l’inter-comunicazione, l’interattività … E poi c’è tutta questa multimedialità e per di più la sfida del digitale. E la domanda era sempre questa, della sfida che si poneva alla Chiesa: come affrontare questo dialogo con il mondo di oggi, con l’uomo di oggi, che è abituato a una dimensione comunicativa diversa. C’è una cultura digitale. E in questo aspetto credo che la Santa Sede veramente abbia cercato di essere di servizio alle varie comunità ecclesiali locali, per affrontare questa sfida e dare delle risposte a questa sfida.
D. – Qual è, secondo lei, l’eredità più feconda che il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali lascia alla Segreteria per la Comunicazione – News.va, Pope App, @Pontifex … il Pontificio Consiglio è stato molto presente nella sfera del continente digitale...
R. – Direi che questo sia stato, dal punto di vista nostro, come Pontificio Consiglio, uno dei grossi contributi, e direi che su questo abbiamo marcato dei momenti positivi. Lei pensi al twitter, lei pensi a cosa era news.va, e così anche il Pope App. Poi, è innegabile che noi sentissimo profondamente anche il bisogno di una maggiore sinergia o di una unificazione maggiore tra le varie possibilità mediatiche della Santa Sede. Io ricordo certi colloqui avuti con i superiori della Santa Sede su queste tematiche. Oggi lascio, ma lascio per modo di dire: credo che il nostro servizio alla Santa Sede e alla Chiesa non termini mai. Come sono d’accordo con padre Lombardi che non si va mai in pensione. Anche perché, se tu sei innamorato di quella persona, non puoi non continuare a parlare di lui: ecco perché non si può andare in pensione, perché siamo sempre coinvolti in questo. Io, poi, ho la grande fortuna di potere continuare a stare a Roma e servire la Chiesa proprio tra i giovani universitari e tra coloro che dopo aver fatto un percorso universitario non sono più così giovani. Per me, Villa Nazareth – è dove il Papa è venuto recentemente a farci visita – è una parte fondamentale della mia vita.
D. – Papa Francesco ha posto, fin dall’inizio del suo Pontificato, il tema della “cultura dell’incontro”. La Chiesa, i comunicatori come possono raccogliere questa sfida, per esempio nel linguaggio?
R. – Io trovo che la parola “comunicare” non esprima tutto. Il Papa parla di una cultura del dialogo, di una cultura dell’incontro. Il Papa – se lei ricorda – nel suo primo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni, ha citato la parabola del Buon Samaritano, che significa “andare all’incontro di …”, ma non soltanto per comunicare, ma per farsi carico, responsabilmente, della realtà dell’altro. Molte volte, la parola “comunicazione” può indurci in errore. Il problema non è soltanto “comunicare”, ma di intessere un dialogo con l’altro, il che vuol dire che la parola “comunicazione” – e lei lo ricorda, quel messaggio del Papa sul silenzio, di Papa Benedetto – perché per ascoltare l’altro, io devo fare silenzio nel mio cuore, perché devo mettermi in sintonia con l’altro, devo dare all’altro la possibilità di esprimere se stesso. E allora, il mio problema non è solo “comunicare”, ma “dialogare” con l’altro, lasciarmi coinvolgere con l’altro. C’è un dialogo, ma poi c’è un farsi carico, un responsabilizzarsi dell’altro, e questo per me è molto importante ed è una sfida continua.
All the contents on this site are copyrighted ©. |