2016-07-05 08:14:00

Strage in Bangladesh: oggi il rientro delle vittime italiane


Con una solenne cerimonia di Stato si sono chiusi, ieri, in Bangladesh i due giorni di lutto proclamati dopo la strage di venerdì sera a Dacca. Al termine i feretri delle 20 vittime sono stati presi in consegna dalle rispettive nazioni di appartenenza: Italia, Giappone, India e Stati Uniti. Previsto in serata l’arrivo a Roma delle 9 vittime italiane. Per loro il nunzio apostolico e l’arcivescovo di Dacca hanno celebrato una messa. Il servizio di Adriana Masotti:

Sono rientrate a Tokyo nelle prime ore del mattino le salme dei sette cittadini giapponesi uccisi nell'attacco terroristico di Dacca. In mattinata l'esecutivo nipponico ha convocato una riunione ministeriale per discutere le questioni legate alla sicurezza, mentre ieri sera c’è stato un colloquio telefonico tra il ministro degli esteri Fumio Kishida,  e il collega italiano, Paolo Gentiloni: c'e' bisogno, hanno convenuto, di un impegno comune, a partire dalla condivisione di informazioni" di intelligence tra i paesi del G7 presieduto quest'anno dal Giappone e l'anno prossimo dall'Italia. Ed è previsto per questa sera il rientro dell’aereo con le salme italiane: lo ha annunciato lo stesso Gentiloni secondo cui "non c'è un terrorismo del Bangladesh contro gli italiani. C'è piuttosto un terrorismo islamico contro gli occidentali e in questo caso sono stati colpiti italiani e giapponesi".  Ad attendere i feretri a Ciampino ci sarà il presidente Mattarella.

Intanto sono tre i fermi effettuarti dalla polizia bengalese per la strage, tra loro un docente universitario. Due dei fermati sono in cattive condizioni di salute e saranno interrogati appena possibile. Nelle ore successive all'attentato, la premier bengalese, Sheikh Hasina, aveva reso noto che uno dei terroristi era stato catturato vivo proprio sul luogo dell'attentato. Ma l'identità della persona arrestata non è stata ancora rivelata. La polizia bengalese è convinta che i terroristi autori dell'attentato a Dacca abbiano ucciso gli ostaggi catturati nel locale nei primi 20 minuti dalla loro irruzione e c’è il sospetto che abbiano potuto contare su un basista interno al ristorante, un pizzaiolo.

Ieri in Bangladesh è stata una giornata di commemorazione e di preghiera per le vittime: una cerimonia di Stato si è tenuta nello stadio militare della capitale in cui la premier, vari ministri, diplomatici stranieri e molta gente comune si sono raccolti davanti ai feretri delle vittime compresi i due poliziotti rimasti uccisi. In serata una messa è stata concelebrata dal nunzio apostolico in Bangladesh, mons. George Kocherrym, dall'arcivescovo di Dacca, mons. Patrick D'Rozario, e da vari sacerdoti. Dolore e solidarietà sono stati espressi, infine, con una veglia a lume di candela convocata via Facebook in un luogo vicino al ristorante colpito dai terroristi.
 

Ma come vive la minoranza cristiana in Bangladesh la minaccia del fondamentalismo? Marco Guerra lo ha chiesto a padre Michele Branbilla, regionale del Pime raggiunto telefonicamente nella diocesi di Dinajpur, situata nel nord-ovest del Bangladesh:

R. – Tutta la comunità cristiana si è ritrovata a pregare. Ieri che era domenica, nel giorno del Signore, in tutte le Messe sono stati ricordate queste persone uccise da una mano nemica, terrorista. In particolare oggi verranno ricordati dal nunzio in Bangladesh, il quale presidierà una Messa nel pomeriggio alle 18:30 presso il Seminario internazionale di Banani a cui sono state invitate tutte le comunità cristiane e non, a ritrovarsi insieme per pregare per tutti.

D. – Si cerca di rispondere con l’unità anche con la comunità islamica, musulmana. Ma come vivono i cristiani questo grave attentato?

R. - Lo abbiamo preso con sgomento. Sappiamo che circa da un anno la situazione non è facile; le minoranze sono attaccate, anche voi conoscete benissimo i tanti omicidi che sono avvenuti, però una cosa così grande nessuno se l’aspettava. È avvenuta, bisogna lavorare anche con le forze dell’ordine che, devo dire, stanno facendo il loro dovere anche di protezione. Speriamo che questo governo lavori ancora più attivamente per debellare queste forme di fanatismo e fondamentalismo islamico.

D. -  Come è vissuta oggi la presenza missionaria in Bangladesh? La testimonianza di fede, le iniziative di carità …

R. - Si fa più attenzione alle cose che si fanno, ma non abbiamo diminuito il nostro lavoro specialmente nella zona a nord di Dacca; dopo l’attentato tutti gli stranieri, ma non solo escono scortati dalla polizia.  Non ci sono grandi comunità cristiane; c’è la presenza della polizia che tiene la situazione sotto controllo, che osserva se ci sono delle persone sospette. Il lavoro di evangelizzazione ma anche di promozione umana continua. Nessuno di noi si ferma e speriamo in un futuro migliore e di pace per questo Paese. Ne ha tanto bisogno.

D. - A cosa è dovuta questa escalation del radicalismo in Bangladesh? Abbiamo visto che gli attentatori erano figli di famiglie agiate …

R. - Sì, è vero. Questo ha sorpreso. Anche qui c’è molta informazione specialmente a Dacca, dove è come vivere in una città europea. La globalizzazione ha fatto sì che questo fanatismo entrasse tramite i media. D’altro canto anche qui vengono costruite ogni giorno nuove  madrasse, dove vengono formate persone che non percepiscono  il vero spirito del Corano ma prendono la parte peggiore. In queste madrasse vengono creati dei fondamentalisti.

D. - Tutta la popolazione deve rigettare questo fondamentalismo e trovare un’unità con le minoranze …

R. - Certamente. È una cosa molto importante, è un lavoro che si fa e comunque anche quelle piccole cose che vengono organizzare soprattutto a livello caritativo interconfessionali quindi con i musulmani, con i cristiani, con i buddisti a favore dei ragazzi handicappati, dei poveri continuano. Tutto questo è un segno della volontà di voler lavorare insieme per lo stesso popolo e nella pace e per la prosperità per questo Paese.

D. - I vescovi del Bangladesh hanno pubblicato oggi un messaggio di perdono e misericordia in cui si ribadisce un fermo “No” ad ogni violenza …

R. - Certo, forse perché qui la Chiesa è piccola ma unita. Mi trovo in Bangladesh da nove anni e posso dire che questa è una Chiesa che è aperta all’altro. Dunque c’è un’apertura, una voglia di dialogo per poter  vivere tutti insieme in questo Paese. La Chiesa anche se è una piccola comunità cerca sempre di lavorare insieme ad altre comunità come quella islamica e quella buddista. Come Chiesa non chiusi, siamo aperti e integrati; facciamo anche degli incontri di carattere religioso ed ecumenico e si cerca sempre di lavorare insieme per l’unità e per la pace di questo Paese.

D. - E questo lavoro continuerà nel futuro cercando anche di proteggere il proprio gregge…

R. - La speranza non viene mai a mancare sia da parte mia che delle altre persone: siamo qui uniti lavorando per il Signore che è padre di tutti. Quindi sono contento di questo documento dei vescovi che perdona ma allo stesso tempo richiama ai valori della giustizia e di fratellanza. Invito tutti coloro che non sono in Bangladesh ma che ci seguono anche da vicino con tanta stima e ammirazione a continuare a pregare per noi, per questo Paese perché pensiamo che attraverso la preghiera e attraverso le grazie che riceviamo dal Signore si potrà veramente costruire un Paese dove regnerà la pace e l’amore di Dio tra tutti.








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