2016-06-12 12:23:00

Il lavoro minorile è ancora un'emergenza umanitaria


Lo sfruttamento minorile rappresenta ancora una grave emergenza umanitaria: a ricordarlo è l’Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite (Ilo) in occasione dell'odierna Giornata mondiale contro il lavoro minorile, a cui ha fatto riferimento anche il Papa all'Angelus. Il fenomeno riguarda sia i Paesi industrializzati sia quelli in via di sviluppo. L’Africa sub-sahariana continua ad essere la regione con la più alta incidenza di sfruttamento. Secondo le stime, sarebbero circa 22 mila i bambini uccisi sul posto di lavoro ogni anno, di età compresa tra i 5 e i 17 anni. Gioia Tagliente ha intervistato Raffaele Salinari, presidente di Terre des Hommes:

R. – La Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile ogni anno focalizza quale sia il problema. Secondo le stime, che sono sempre la punta di un iceberg, abbiamo più di 300 milioni di bambini nel mondo sottoposti alle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile. “Peggiori forme” vuol dire che sono a rischio di morire oppure di ricevere gravissime menomazioni, che porteranno per tutta la vita. Questa è la situazione sul piano globale. Dal punto di vista, invece, più specifico, Terre des Hommes ha voluto focalizzare quest’anno il suo rapporto su una situazione di cui si parla poco, che è quella dei bambini rifugiati: in Siria, in Giordania, in Libano, in Turchia, cioè in tutta l’area sostanzialmente che vede un afflusso di rifugiati massivo a causa degli avvenimenti bellici in corso. Abbiamo voluto fare un approfondimento particolare: abbiamo intervistato i bambini nei campi profughi e nei campi rifugiati in cui la nostra organizzazione lavora. Dalla Turchia alla Siria, alla Tunisia, al Libano, alla Giordania, lo sfruttamento del lavoro minorile, in quell’area geografica, è cresciuto esponenzialmente proprio a causa delle guerre e per il fatto che molte delle famiglie di questi bambini - avendo esaurito tutti i fondi nei passaggi e avendo dovuto pagare la criminalità organizzata, per il traffico degli esseri umani che conosciamo - oggi sono costrette a far lavorare i loro bambini per mantenersi. Questo è il motivo per cui abbiamo dedicato il nostro rapporto a questi bambini e lo abbiamo chiamato: “Io mi sacrifico per far vivere la mia famiglia”.

D. – Ci vorrebbe una maggiore cooperazione a livello delle politiche internazionali?

R. – Prima di tutto, bisogna sollevare il problema. Se il problema, infatti, non viene sollevato, tutti fanno finta di non sapere che esiste. Secondo, a livello europeo, prima di instaurare accordi con la Turchia, rispetto per esempio al rimpatrio o meno dei profughi, dei rifugiati, bisogna vedere quali sono le condizioni con cui la Turchia tratta queste persone, in particolare i bambini. C’è, quindi, una responsabilità importante delle istituzioni europee rispetto alle condizioni attraverso le quali vengono gestiti questi profughi. Terzo, ma non per ordine di importanza, le imprese multinazionali, spesso dell’abbigliamento, che si servono dello sfruttamento del lavoro minorile, evidentemente devono essere condannate, perché questa è una violazione palese dei diritti umani e dei diritti dei bambini in tutto il mondo.

D. – L’agricoltura è il settore con il maggior numero di bambini coinvolti. Occorrono più campagne di sensibilizzazione a livello locale?

R. – Sicuramente l’agricoltura è sempre una delle attività di sfruttamento. Sappiamo perfettamente che nel Sud Italia c’è il fenomeno del caporalato. Possiamo immaginarci cosa succeda. Ancora una volta, quindi, le organizzazioni internazionali, tipo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i sindacati internazionali, ma anche gli Stati e i governi che in ultima istanza hanno il dovere di vegliare su alcune norme basilari di rispetto dei diritti umani, di rispetto dei lavoratori, devono essere mobilitate. Ora, dato che l’Unione o gli Stati donatori come l’Italia, attraverso anche il Migration Compact, hanno la possibilità di influenzare gli Stati e i governi da cui vengono queste persone, è bene che si agisca anche in questo senso. Non che, quindi, i soldi vengano gestiti soltanto per “fissare” le persone dove sono, qualunque sia la loro situazione di origine, di provenienza, ma che lo sviluppo, la democrazia, i diritti umani, la partecipazione diventino realmente la cartina tornasole di come si investono questi soldi nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo.








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